«Refusenik», obiettori in Israele
Ricercatore di fisica presso l’Università ebraica di Gerusalemme, 27 anni, Itai Ryb è un refusenik: militare che rifiuta di prestare servizio nei Territori occupati; per questo è finito più volte in prigione. Fa parte di Yesh G’vul (c’è un limite). Durante l’assedio alla basilica della Natività (2002), a Betlemme, era stato richiamato alle armi come riservista: il suo rifiuto gli è costato un mese di carcere.
Quanti refusenik ci sono attualmente in Israele?
Sono più di mille, tra soldati e ufficiali che rifiutano il servizio di leva e che hanno firmato la petizione che sta circolando via internet.
Come vi considerano i vostri connazionali?
Molti ci definiscono «traditori», antidemocratici. L’atmosfera generale è molto dura. Il sostegno ci arriva dagli accademici, alcuni intellettuali, persone di strada. Ma alcuni gruppi ortodossi sostengono che sia giusto uccidere i refusenik.
Ha ricevuto delle minacce?
Per lo più e-mail cattive. Durante le dimostrazioni capita che qualcuno venga picchiato o addirittura ucciso. Soprattutto fra coloro che svolgono attività di protezione dei contadini palestinesi durante la raccolta delle olive: vengono attaccati da coloni israeliani ultraortodossi.
Si considera un pacifista?
Nel movimento dei refusenik esistono tante tendenze. Non tutti sono pacifisti nel senso generale del termine. Spesso si tratta non tanto del rifiuto a servire nell’esercito, ma a far parte delle forze di occupazione nei territori arabi. È una forma di obiezione «selettiva». Personalmente mi considero un obiettore di coscienza alla politica di Sharon, basata su un progetto di «pulizia etnica» contro i palestinesi.
Qual è il ruolo dei refusenik e delle organizzazioni pacifiste israeliane nell’attuale scenario di conflitto?
Può essere cruciale la presa di coscienza di un numero sempre crescente di militari e riservisti: molti refusenik, infatti, arrivano dalle «prime linee», cioè da postazioni importantissime per l’esercito; l’acquisire consapevolezza del proprio ruolo e possibilità di opporsi al programma previsto da Sharon, potrà essere fondamentale per fermare l’escalation della guerra e dei massacri. Alla violenza e alle brutalità si può opporre un rifiuto. Da ambedue le parti. Ecco perché parte delle mie attività sociali e culturali sono destinate ai ragazzi palestinesi.
Quali sono i progetti in cui Yesh G’vul è impegnata?
Principalmente si tratta di azioni per «fermare la distruzione», come «protezione» o interposizione nei confronti dei palestinesi, ma anche attività di sensibilizzazione. Altri gruppi svolgono attività indirizzate alla «costruzione», come il sostegno ai soldati che si rifiutano di combattere, progetti educativi e culturali sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, azioni specificamente nonviolente, petizioni, raccolta fondi da consegnare alle famiglie dei refusenik (senza stipendio per tutto il tempo della prigionia), sostegno psicologico e legale.
A quale figura si ispira. Chi è il suo eroe?
Mordechai Vanunu, il tecnico israeliano rapito a Roma dal Mossad nel 1986, perché aveva denunciato la presenza di una base per la costruzione di armi nucleari nel deserto del Negev. Da 16 anni sta pagando con il carcere duro e l’isolamento quel suo atto di coraggio: aveva capito la responsabilità di ciò di cui era stato testimone e non si è mai tirato indietro.
Qual è la cosa più terribile per lei in Israele?
Che stia crescendo una generazione senza speranza e senza strumenti per un cambiamento costruttivo. I giovani pensano sia impossibile uscire dall’attuale situazione di guerra e di violenza. Per questo la soluzione deve giungere al più presto, altrimenti sarà impossibile modificare la loro mentalità.
E qual è la soluzione per lei?
Due stati dai confini labili, senza muri, dove palestinesi e israeliani possano spostarsi liberamente, vivere vicini, in pace e in amicizia.
(*) La seguente intervista è stata rilasciata nel 2003.
Angela Lano