La parabola del «figliol prodigo»

La salvezza diventa storia di ciascuno (1)

Un nostro lettore, il dott. Giorgio Lacquaniti di Frosinone, mi scrive ponendo alcune domande sulla parabola del «figliol prodigo» (Luca 15,11-32). All’età di 12 anni egli ha «incocciato» la parabola lucana e non se n’è più liberato; con essa continua a fare i conti anche oggi, sebbene siano trascorsi 65 anni.
Ecco le domande: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare nei sinottici (Mt e Mc) e in Giovanni? L’ha pronunciata veramente Cristo? Possibile che, oltre Luca, nessuno l’abbia raccolta? Si può dire che sia stata rivelata a Luca dal Maestro per “ispirazione dello Spirito Santo”?». Secondo il sig. Lacquaniti, se esistesse un “Premio Nobel del vangelo”, bisognerebbe darlo senza ombra di dubbio a questa parabola, perché essa «contempla l’unica soluzione apprezzabile e possibile tra il finito e l’infinito e l’unico rapporto autentico e possibile tra Dio (necessario) e la creatura (contingente)».
La rubrica «Così sta scritto» è nata per gettare qualche supplemento di comprensione sulla Parola di Dio per aiutare i lettori che non dispongono di strumenti adeguati ad assaporare i risultati della ricerca biblica. Essi hanno il diritto d’intervenire e suggerire gli argomenti che più possono interessare o che possono apparire più difficili (cf in MC 5, 2005, pp.16-17, l’intervento di una nostra lettrice sul Salmo 137/136). Ho pensato non di dare risposte in pillole al nostro amico Giorgio, ma di fare un discorso organico sull’intero capitolo 15 di Lc, dedicandovi diverse puntate, senza la pretesa di esaurirla. Il metodo che userò parte dal testo così come lo possediamo e avrà un andamento dal generale al particolare, dal grande al piccolo, per cui una visione completa si potrà avere solo alla fine.

Ricerca di un titolo: imbarazzo della scelta

L’espressione «figliol prodigo» è un titolo convenzionale che non appare nel testo. I codici antichi greci erano scritti a mano e con le parole tutte attaccate l’una all’altra senza spazi intermedi, senza titolo e senza divisioni in capitoli e versetti. Non esisteva la carta: papiri e pergamene erano un materiale da scrivere molto costoso.
La divisione in capitoli e versetti inizia con Johann Gänsfleisch detto Gutenberg (1390ca.-1468), quando il 23 febbraio 1455 pubblica la prima Bibbia stampata, detta a «42 linee». Per facilitare la consultazione del testo, egli divise il testo in capitoli (corrispondenti a una pagina di stampa) e versetti (corrispondenti più o meno a una frase compiuta): è la divisione mantenuta ancora oggi, sebbene non corrisponda alla struttura letteraria del testo secondo la modea scienza biblica.
Le edizioni successive per facilitare la lettura cominciarono a introdurre nel testo i titoli-spia alla luce dei contenuti che pertanto non fanno parte della «Parola di Dio» ispirata, ma sono solo aggiunte editoriali. Queste notizie storico-letterarie servono per spiegare la varietà dei titoli dati alla parabola di Lc 15,11-32. Ogni titolo non è «neutro», ma è una sintesi che esprime una valutazione e offre una prospettiva di lettura o di osservazione dell’intero racconto.
La parabola è tradizionalmente conosciuta come la parabola «del figliol prodigo»; la Bibbia della Cei (ed. 1997, ufficiale per la chiesa italiana) titola: «Parabola del padre misericordioso», mentre la Bibbia di Gerusalemme (ed. 1984) offre un titolo diverso: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il figlio prodigo», raggruppando in un solo titolo «tradizioni» interpretative diverse.
L’esegeta Roland Meynet nel suo Vangelo secondo Luca. Analisi retorica (Bologna 2003) parla di «Due figli smarriti». Al contrario lo statunitense Luke Timothy Johnson nel suo commento Il Vangelo di Luca titola «Parabola di cose perdute e ritrovate», preferendo una visione d’insieme dell’intero capitolo 15 di Luca. All’elenco possiamo aggiungere il nuovo titolo che anche il nostro lettore suggerisce: «Il figliolo imbelle e ribelle». Tutti questi titoli dicono la difficoltà di sintetizzare una parabola che sfugge a ogni sintesi e la ricchezza incontenibile di un testo che nessun titolo può esaurire: certe profondità abissali si possono solo sperimentare e contemplare, mai scalare e descrivere.

Il pittore esegeta

Nel 1669 Rembrandt dipingendo il suo famoso «Il figliol prodigo», oggi conservato al Museo Hermitage di San Pietroburgo in Russia, ha raffigurato in modo magistrale «l’anima recondita» del racconto. Si vede il padre di faccia nell’atto di chinarsi ad abbracciare il figlio minore in ginocchio davanti a lui, a capo scoperto e scalzo, ma con le scarpe rotte; le mani del padre sono sulle spalle del figlio: una mano è maschile (la sinistra) e l’altra femminile, sintesi magistrale e irripetibile dell’amore gratuito che accoglie il figlio perduto e ritrovato nell’unica forma possibile che è dato sperimentare sulla terra: l’incastro vitale di padre e di madre. Il figlio è l’amore di madre e di padre fuso e confuso prolungato nel tempo come corpo che vive.
In disparte, sulla destra, seduto dietro il padre, con il capo coperto di un nero berretto, il figlio maggiore osserva, apparentemente partecipe; ma nella mano destra tiene un pugnale, come se stesse studiando il momento opportuno per colpire. Fratelli coltelli, dice il proverbio. Solo il padre (e il maggiordomo) hanno un mantello rosso, mentre i due figli sono avvolti nel grigio della loro tragedia.
Rembrandt è un poeta e attraverso i colori e la disposizione delle figure fa «vedere» plasticamente l’abisso e il vertice della parabola lucana: il padre (con il maggiordomo) spicca nel colore rosso del suo mantello, simbolo del calore della «casa», mentre ambedue i figli sono avvolti nel grigio del loro egoismo ed esilio: uno che ritorna quasi morto e l’altro che nutre pensieri di morte pur stando «in casa».
Non sappiamo se Rembrandt conoscesse l’esegesi giudaica, ma è certo che in quella figura di padre, materno e paterno insieme, egli esprime ciò che la scienza della ghematria, cioè il valore numerico delle lettere alfabetiche, dice con il linguaggio dei numeri meglio di qualsiasi altra forma esplicativa. In ebraico, infatti padre si dice ’ab e ha il valore numerico di «2»; madre si dice ’em e ha il valore numerico di «41», mentre figlio si dice yelèd e ha il valore numerico di «43», cioè la somma di 2+41: il figlio è il risultato della sintesi di «padre+madre». Il figlio è la vita visibile del padre e della madre.

In principio fu la predicazione orale

La parabola del «figliol prodigo» si trova solo in Luca, non in Matteo e in Marco e nemmeno in Giovanni. In termini tecnici, con una parola greca, si dice che è un racconto hàpax, cioè una parabola detta «una sola volta».
Per rispondere alle domande del lettore, è necessario fare un po’ di storia sulla formazione dei vangeli, che non sono opere scritte a tavolino, come la biografia di un personaggio. I vangeli nascono come predicazione che si tramanda oralmente. Gli apostoli, dal giorno della pentecoste non si preoccupano di scrivere una «vita di Gesù», ma si buttano nelle piazze e sulle strade a «predicare» agli ebrei loro contemporanei che Gesù, l’uomo di Nazareth crocifisso, è il messia atteso, che Dio ha risuscitato dai morti.
Per farsi un’idea di questa predicazione basta leggere il capitolo 2 del libro degli Atti, che riporta il primo discorso missionario (tecnicamente si dice kèrigma, cioè annuncio) di Pietro il giorno di Pentecoste. I primi cristiani erano ebrei che frequentavano il tempio a Gerusalemme e la sinagoga nelle altre città e villaggi. Qui ascoltavano la Parola di Dio, cioè quello che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento.
Con la conversione di Paolo di Tarso (35/36 d.C.), inizia anche la predicazione alle persone di lingua greca residenti in Gerusalemme con cui inizia la missione verso i pagani o gentili (dal latino gentes che significa le genti/i popoli). I quali gentili non conoscono la tradizione religiosa ebraica, ma hanno una esperienza religiosa politeista e quindi non sanno nulla della storia degli ebrei: patriarchi, esodo, promessa, alleanza, messia. Si hanno così due kèrigma/annunci: uno rivolto agli ebrei, prevalentemente da Pietro, che parla di Cristo come messia d’Israele nel solco delle promesse dell’Antico Testamento, e l’altro rivolto ai pagani, prevalentemente da Paolo, che svela il piano di salvezza del Dio della creazione realizzato in Gesù Cristo, figlio di Dio e salvatore del mondo. Questi due annunci sono orali.

Le prime raccolte scritte

I primi scritti del NT sono le lettere che Paolo scrive alle comunità da lui fondate e dalle quali si trova lontano (anni 50-67 d.C.). Queste lettere passano di comunità in comunità e vengono lette durante le riunioni eucaristiche (cf 1Ts 5,27; Col 4,16).
Più ci si allontana dalla pasqua di Gesù e più la chiesa primitiva si allarga e si organizza. C’è bisogno di avere strumenti adeguati sia per integrare la liturgia leggendo «fatti e parole» di Gesù accanto all’AT, che ora viene letto e interpretato alla luce della sua morte e risurrezione. Accanto alle lettere paoline, nascono le prime raccolte scritte su ciò che Gesù ha detto e ha fatto.
Nascono così liste di miracoli, raccolte di parabole, insegnamenti di Gesù in diverse occasioni; coloro che avevano conosciuto Gesù fanno a gara a ricordare questa o quella parola o una frase o miracolo che Gesù ha fatto o detto nelle più diverse situazioni. È un cammino lento, che alimenta un materiale sempre più corposo, ma anche sempre più lontano dal suo contesto storico. Quello che Gesù ha detto o fatto non viene ricordato solo per conservae la memoria, ma principalmente per rispondere alle nuove problematiche e situazioni della vita: se i cristiani sono perseguitati, si do-mandano come Gesù si sarebbe comportato e quindi si va alla ricerca di parole e fatti che possono essere di aiuto in questa circostanza; di fronte agli ebrei che negano la messianicità di Gesù, si cercano quelle parole e fatti che invece l’appoggiano; davanti a una religione ufficiale troppo esteriore, si ricordano parole e fatti che esprimono una purificazione della religione e di Dio. Tutti questi scritti in origine sono autonomi e indipendenti gli uni dagli altri.

I primi tre vangeli prima dei sinottici

L’ipotesi più accreditata considera che la predicazione degli apostoli fu messa per iscritto dando vita a un probabile Vangelo dei dodici, forse scritto in ebraico o aramaico a Gerusalemme prima dell’anno 36, anno in cui gli ebrei di lingua greca, chiamati «ellenisti» nel NT, furono cacciati dalla città santa, spostandosi ad Antiochia in Siria, a nord della Palestina. Qui nasce e si sviluppa una fiorente comunità dove per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati «cristiani». Anche qui si sentì la necessità di avere «scritture» di Gesù sia per la liturgia che per la catechesi.
Si suppone che il Vangelo dei dodici sia stato tradotto in greco, ma aumentato di altro materiale che raccoglieva i gesti e insegnamenti di Gesù sull’universalità del suo messaggio rivolto non solo agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Si arriva così alla seconda tappa del vangelo scritto, cioè a quello che possiamo chiamare il Vangelo degli ellenisti.
Vi sono così due «scritture» contemporanee: una a Gerusalemme per i cristiani di origine ebraica (Vangelo dei dodici) e una ad Antiochia per i cristiani di origine greca (Vangelo degli ellenisti).
La chiesa intanto si espande in Grecia attraverso i viaggi apostolici di Paolo. Nelle comunità fondate da Paolo come Filippi, Efeso, Corinto, Tessalonica, avviene lo stesso fenomeno di Antiochia: il Vangelo dei dodici è utilizzato come fonte base, ma integrato da altre fonti vicine a Paolo, che sottolineano l’universalità della salvezza e il culto spirituale. Anche qui, forse a Efeso intorno agli anni 55/56, nasce un altro vangelo: il Vangelo di Paolo.

I vangeli sinottici dopo i primi tre vangeli
Intoo agli anni 30/40 a Cesarea sul Mediterraneo nasce una comunità particolare, formata da cristiani provenienti dal paganesimo (quindi dal mondo greco), ma sono al tempo stesso simpatizzanti del giudaismo, stanno a mezza strada: non sono del tutto greci come non sono del tutto giudei. Questo gruppo, forse presieduto dal diacono greco Filippo, che gli Atti chiamano spesso «evangelizzante» (cf At 8,12.35), genera un quarto vangelo, comunemente censito come Vangelo dei timorati di Dio, che raccoglie materiale sparso fuori di ogni contesto storico o narrativo.
Gli studiosi sono soliti chiamare questa ipotesi come «fonte Q» (prima lettera del termine tedesco quelle, pronuncia kèlle, che significa fonte). I vangeli sono, dunque, tutti scritti occasionali, nati ed elaborati per illuminare con l’insegnamento del Signore la vita vissuta e le nuove situazioni che le comunità cristiane delle origini incontravano.
Intoo all’anno 50 d.C., dunque, nelle comunità cristiane, sparse in Palestina, in Siria, in Grecia e in Anatolia (attuale Turchia) circolano almeno quattro vangeli (dei dodici, degli ellenisti, di Paolo e dei timorati di Dio) e liste autonome di «detti» del Signore (es.: parabole) e racconti di miracoli. È un immenso materiale sparso, ma ancora fluttuante. A questo punto avviene il passaggio determinante, che corrisponde alla «redazione finale», che la tradizione attribuisce agli evangelisti sinottici: Marco, Matteo e Luca. Essi non sono solo collettori di tradizioni che assemblano insieme materiale raccolto, ma al contrario, raccolgono il materiale esistente e lo dispongono secondo un piano personale che persegue un fine specifico. Essi sono autori a tutti gli effetti.

I vangeli definitivi
L’evangelista Marco che non è discepolo di Gesù, ma lo ha conosciuto, è l’inventore dello schema del vangelo come lo possediamo (si dice genere letterario del vangelo). Egli fonde il Vangelo degli ellenisti e quello di Paolo, rielaborandoli di sana pianta e facendone un nuovo vangelo come strumento di una catechesi catecumenale: un aiuto a chi non conosce nulla di Gesù e si accosta a lui per la prima volta.
Matteo scrive un vangelo per i catechisti/maestri, quindi per coloro che già seguono Gesù, provenienti dal mondo giudaico. Nella redazione del suo vangelo si basa su Marco, che integra con materiale della «fonte Q» e con altro materiale a lui proprio, che gli arriva da fonti sconosciute agli altri.
Anche Luca, come Marco, non è discepolo di Gesù e, a differenza di Marco, non l’ha nemmeno conosciuto. Per redigere il suo vangelo, da studioso fa ricerche appropriate. Partendo da Marco, dal materiale comune con Matteo e dalla «fonte Q», egli aggiunge fonti proprie che gli derivano dalle tradizioni tramandate nella famiglia/parentela di Gesù o da fonti a noi sconosciute. Al terzo vangelo, Lc fa seguire il libro degli Atti degli Apostoli, che potremmo chiamare il «Vangelo dello Spirito Santo e/o della chiesa», perché racconta lo sviluppo e il diffondersi della chiesa del primo secolo fino alla prigionia di Paolo a Roma (a. 67).
I vangeli di Marco, Matteo e Luca sono redatti tra gli anni 60 e 80 d.C. Qualche decennio più tardi Gv, un autore dell’ambiente dell’apostolo Giovanni, tenendo presente questi vangeli «sinottici» scrive il iv vangelo, detto il vangelo del presbitero o spirituale, perché accompagna alla contemplazione di Cristo nella sua «Gloria» di Figlio di Dio e di Lògos incarnato.
In conclusione, alla domanda da dove arriva la parabola del «figliol prodigo» a Luca, possiamo rispondere: poiché non si trova nel materiale comune, Lc non l’ha ricevuta dalla tradizione sinottica perché Mc e Mt la conoscerebbero. Lc con ogni probabilità la riceve da una fonte particolare (famiglia?) non conosciuta dagli altri e nemmeno da noi. D’altra parte nel prologo (1,1-5) egli ci dice che fece ricerche accurate e sicuramente è venuto a contatto con materiale che solo lui poté avere a disposizione.
Dal prossimo numero cominceremo a presentare la parabola e a commentarla.

Paolo Farinella
(continua-1)

Paolo Farinella

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