La pace … nel pallone
Una volta modello di sviluppo per i paesi africani, la Costa d’Avorio è ora divisa in due dalla guerra civile e la pace è ancora lontana. I missionari della Consolata, da 10 anni presenti nel paese, hanno tenuto la loro conferenza regionale, mettendo a punto nuove strategie per essere tra la gente seminatori di riconciliazione e di speranza.
Vi ha partecipato l’autore di questo articolo, consigliere generale dell’Istituto.
Sono a Sago, 29 gennaio 2006, data importante per i missionari della Consolata: è l’anniversario della fondazione del nostro Istituto. Per i missionari che lavorano in Costa d’Avorio è pure l’occasione per celebrare il decimo anniversario della loro presenza nel paese.
La sera del 23 gennaio del 1996, infatti, i primi tre missionari della Consolata arrivarono al Centro pastorale della diocesi di San Pedro. Questo nuovo impegno missionario, in obbedienza alle indicazioni del ix Capitolo generale, aveva lo scopo di portare «novità in quanto allo stile, ai metodi e alle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto».
Di fatto, subito dopo il loro arrivo, cominciarono a prendere contatto con la bidonville del Bardot, un agglomerato di capanne di legno con 50 mila abitanti, senza luce elettrica né acqua né altre strutture essenziali. Poi, per essere più vicini ai poveri, fu costruita una casa in legno, accanto a una cappella già esistente, e si trasferirono definitivamente nella bidonville. Al tempo stesso i missionari ebbero l’incarico temporaneo di costruire la nuova parrocchia della cattedrale.
Con l’arrivo di nuovi missionari, nel 1997 fu aperta la missione di Sago, campo di prima evangelizzazione a 120 km da San Pedro. Nel 2000 fu accettata la cura pastorale di Grand Béréby, una parrocchia già organizzata, con numerose comunità cristiane appena incipienti. Nel 2004, restituita la zona del Bardot alla parrocchia della cattedrale, fu aperta una nuova missione a Grand Zatry, a nord di Sago.
Su invito del nunzio apostolico e a richiesta del vescovo di Odienné, nel 2001 tre missionari si stabilirono a Dianra, nel nord del paese a maggioranza musulmana, con lo scopo di avviare anche un primo graduale incontro e dialogo con la consistente popolazione islamica. Nel 2002 altri due missionari hanno iniziato la missione di Marandala, a 80 km a est di Dianra.
È il 12 febbraio 2006. Siamo a Daloa, una cittadina situata a circa 350 km dalla capitale Abidjan. Da quanto si vede, doveva essere una bella città; ma ora si è lasciata andare a causa della guerra.
Siamo ospiti in un centro di accoglienza della Caritas, per celebrare la seconda conferenza regionale dei missionari della Consolata operanti nel paese. È un momento importante per sognare, organizzare, inventare, riflettere sulla missione in questo bel paese.
Siamo nel refettorio: alla televisione passano le immagini del ritorno trionfale in patria della squadra nazionale di calcio, arrivata seconda dietro all’Egitto al toeo africano della Can (Campionato d’Africa delle nazioni). Uno dei dirigenti commenta: «Celebriamo la nostra squadra, orgoglio nazionale e segno dell’unità del paese» (sic!). «Se bastasse una partita di calcio… per riconciliare un paese e portare la pace!» pensano i missionari.
Dal 2002 la Costa d’Avorio è divisa in due: il nord è controllato dalle forze dei ribelli; il sud dall’esercito governativo. Questa divisione pesa non solo sulla popolazione, ma anche sul nostro servizio missionario, dal momento che tre comunità sono nella regione meridionale, due nel nord del paese.
La fragile tregua permette viaggi e spostamenti tra le due zone, ma solo con mezzi pubblici o di fortuna, come i camion militari. Così ho potuto visitare anche le due missioni nel nord del paese.
Girando nelle varie zone ho potuto constatare il degrado causato dalla guerra e della situazione d’insicurezza. La strada, una volta asfaltata, è in un pietoso stato d’abbandono, si vedono delle case smantellate, il «solito» piccolo commercio delle mamme africane, forza dell’economia di sopravvivenza, che rimpiazza il grande commercio del caffè, cacao e cotone e altri prodotti che hanno creato la fortuna del paese.
Dappertutto blocchi militari, posti di controllo, ufficialmente posti per la sicurezza e salvaguardia dei cittadini, ma in realtà, segno dello sfruttamento, corruzione, disinteresse generale di un paese fino a pochi anni fa tra i più belli dell’Africa, ma ora dilaniato e distrutto, in mano a gerarchi che non si interessano del bene della gente.
Le comunità cristiane affidate ai missionari della Consolata sono tutte situate in zone periferiche e presentano ancora la sfida della prima evangelizzazione. Esse sono costituite in grande maggioranza da immigrati, originari del Burkina Faso, Ghana, Togo, venuti a cercare fortuna ai tempi d’oro della Costa d’Avorio e costretti a lavorare per il paese ospitante, ed ora divenuti capro espiatorio di tutti i mali e malessere del paese. Le ritorsioni arbitrarie, le costrizioni, i rubalizi contro di loro sono tristemente noti alla società avoriana.
In questa situazione è difficile evangelizzare, annunciare la buona novella, costruire comunità cristiane. Anche la chiesa ufficiale è divisa e non offre orientamenti per un cammino di riconciliazione nazionale e per una crescita nel rispetto dei diritti di tutti.
Non essendoci una lingua unica nazionale, oltre al francese, che non è capito né parlato da tutti, il lavoro resta ancora più difficile e frammentario. La situazione per il momento non presenta grandi possibilità di soluzione o di miglioramento, si parla di arrivare alle elezioni per il prossimo mese di ottobre, ma sembra che quasi nessuno ci creda veramente.
La pace è dunque solo una parentesi nella storia umana? La Costa d’Avorio come tutta l’Africa è destinata «eternamente» a soffrire? Dal 1960, anno simbolo dell’indipendenza di molte nazioni africane, questo continente ha conosciuto più di 200 colpi di stato, 101 capi di stato sono stati cacciati a forza. Dal 1970 ci sono stati più di 35 conflitti solo nell’Africa subsahariana, che hanno provocato circa 8 milioni di morti, come la prima guerra mondiale.
Toando alla Costa d’Avorio, bisogna dire pure che gli indici di fiducia commerciale sono scesi precipitosamente nella scala mondiale a causa di questa guerra. La guerra ha rovinato gli equilibri sociali e promosso modelli di milizia professionale al servizio dei signori della guerra, arruolando e coinvolgendo sempre più dei bambini, compromettendo così generazioni intere.
Ma cosa è capitato in Costa d’Avorio, una volta «modello» di sviluppo africano? Chi poteva immaginare che un paese che aveva organizzato così bene la propria indipendenza, che bussava alla porta dei paesi emergenti, che dimostrava molti segni di sviluppo nel campo economico, infrastrutture, rete stradale, elettrificazione delle campagne, tasso di scolarizzazione… potesse covare tanto odio tribale. Come è stato possibile che in un paese definito «la patria della pace», «tanto caro e vicino alla Francia», si sia scatenata tanta violenza xenofoba verso gli immigrati, di purificazione etnica tra il nord e sud dello stesso paese, fino a sfociare in autentiche scene di «caccia all’uomo bianco»?
All’origine di questi drammatici eventi ci sarebbero lo scontento di una parte delle forze armate nazionali e le ambizioni di rivalsa dei protagonisti del precedente tentativo di golpe, oggi esiliati. Inoltre lo scontento per la dominazione economica della Francia, a cui ora si aggiunge l’insofferenza della presenza dell’Onu, mediante l’operazione Monuci. E poi ci sono tutti quei fattori presenti nelle crisi degli altri paesi africani: interessi politici ed economici delle grandi potenze per le risorse del continente, che in generale si disinteressano delle sorti delle popolazioni. Nel nord del paese ci sono giacimenti di diamanti, la cui vendita serve a finanziare le Forces Nouvelles, il gruppo ribelle che controlla quella regione. Un gruppo di esperti Onu ha stimato che la produzione annuale in Costa d’Avorio è di circa 300 mila carati, con un giro di affari annuo di oltre 20 milioni di euro.
Durante la conferenza, la parola che ho sentito maggiormente risuonare sulla bocca dei 14 missionari è stata «la speranza», da dare e da ricevere.
Speranza trasmessa, restando accanto alla gente in tempo di guerra e di disordini, condividendo rischi e paure delle popolazioni. Come sono rimasti ai loro posti nel passato, i «nostri» missionari si sono impegnati a continuare nel futuro a visitare i villaggi a piedi e in bicicletta, nonostante l’insicurezza che regna ancora, soprattutto nel nord del paese.
Speranza ricevuta dalla forza della gente, che ha reagito e continua a reagire a situazioni tanto precarie, organizzandosi, lavorando, aprendo cammini nuovi. Speranza nella missione, per costruire sulle rovine lasciate dalla guerra e fare spuntare fiori di novità.
I vescovi della Costa d’Avorio, in un messaggio dal titolo emblematico: «Gesù Cristo è la nostra pace», invitano tutti a essere artefici della pace, mediante il perdono per le sofferenze vissute, le vessazioni subite e anche per le uccisioni che hanno colpito tante famiglie. Essi chiedono a tutti gli uomini di buona volontà di resistere a tutte le tentazioni etniche, regionaliste e nazionaliste. E concludo: «La forza dell’Africa non viene dall’unità dei suoi figli? È la vittoria di Cristo che supera tutti gli ostacoli e ci rende liberi per un amore senza frontiere».
Stefano Camerlengo