ISRAELE – Si guardano, ma non si parlano
Il blocco dei territori strangola l’economia palestinese.
Il 40% dei lavoratori ha perso l’impiego.
Intanto gli insediamenti ebraici nascono come funghi.
E sono i civili palestinesi a sentirsi prigionieri a casa loro.
Betlemme, città chiusa
«Le città sono isolate. Esistono stradine dove si riesce a passare, ma bisogna conoscerle» ci dice il direttore del Christian information center a Gerusalemme, parlando della Cisgiordania. Vogliamo andare a Betlemme, a pochi chilometri dalla città santa: è il primo centro sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Il minibus pubblico è guidato da un arabo israeliano e ha la targa gialla, le uniche ammesse in Israele. Sfreccia attraverso i quartieri modei della Gerusalemme nuova e, in 15 minuti, giunge sull’ampio corso che porta a Betlemme. Rallenta e si ferma: la gente scende diligentemente. Poi fa inversione e riparte verso il centro città.
Ad una cinquantina di metri, alcuni grossi blocchi di cemento in mezzo alla strada costringono i mezzi ad un’insolita gimcana. Ci sono pure modei autobus turistici, parcheggiati in fila.
Siamo giunti al check point israeliano (controllo) e a nessun veicolo è permesso di proseguire. Si continua a piedi. Un giovane militare in tenuta da combattimento, con il mitragliatore «m16» a tracolla, conversa con una ragazza: sembra rilassato. Intoo, alcuni gruppuscoli di stranieri: pochi pellegrini in visita ai luoghi santi. Passiamo senza essere controllati. Forse è vero che «ci si riconosce dalla faccia», come ci aveva detto qualcuno. Subito dopo il posto di controllo, troviamo altri taxi e bus. Hanno la targa verde, quella palestinese.
La seconda Intifada
Da quando è scoppiata la seconda Intifada, alla fine dello scorso settembre, Israele ha «chiuso» i Territori occupati (costituiti da Gaza e Cisgiordania): ha imposto sanzioni economiche e ridotto la circolazione di persone tra questi e il suo territorio nazionale.
Il 28 settembre Ariel Sharon (leader del partito di destra, Likud, e dal 6 febbraio primo ministro) si recò sulla «spianata delle moschee» a Gerusalemme, accompagnato da oltre mille militari, profanando così il terzo luogo santo dell’islam (dopo Mecca e Medina). Questo ha creato la reazione degli arabi musulmani di Israele e manifestazioni di solidarietà dei palestinesi (arabi dei territori occupati). Presto le manifestazioni sono degenerate e la reazione dell’Israel defence force (Idf, l’ultra moderno esercito israeliano) e della polizia ha lasciato sul terreno parecchi morti. A Nazaret, città della Galilea, in pochi giorni sono stati uccisi 13 arabo-israeliani.
Gli estremisti islamici dei gruppi di Hamas e Jihad islamica hanno ricominciato gli attentati suicidi in Israele, creando un clima di paura nelle grandi città, come Tel Aviv, inducendo il nuovo governo di destra a sigillare ancor più i Territori, dove i terroristi hanno le loro basi. Le città palestinesi, amministrate dall’Anp, sono state accerchiate dall’esercito israeliano, che controlla ancora l’88% della Cisgiordania e il 20% di Gaza. A metà marzo si contavano quasi 400 morti e 14 mila feriti tra i palestinesi e 65 ebrei israeliani tra le vittime.
L’incontro
A Betlemme c’è poca gente per le strade: soprattutto nei pressi della tomba di Rachele, luogo santo per gli ebrei, dove spesso ci sono scontri.
Clara e Nabil ci invitano a casa loro. Sono una coppia sulla sessantina, palestinesi, e appartengono alla minoranza cristiana (il 2% in Terra Santa), ma che a Betlemme è una presenza numerosa (arrivano al 15% nella confinante cittadina di Beit Jala). È una casa della media borghesia, curata da lei senza sfarzo, ma con buon gusto. Lui è commerciante di beni di consumo e, prima che incominciasse l’Intifada, gli affari andavano bene.
Oggi la crisi economica colpisce i Territori. I turisti sono quasi scomparsi e la strada è interrotta. «I nostri fornitori sono tutti a Gerusalemme – rileva Nabil – e ora, per far passare la merce, bisogna scaricare tutto dal lato israeliano del check point, per poi ricaricarla su un altro mezzo da questa parte».
L’economia dei Territori è dipendente da quella israeliana. L’Autonomia palestinese è composta da città-isole in Cisgiordania e da gran parte della striscia di Gaza: non solo non confinano tra loro (perché circondate da Israele o da zone sotto il suo controllo militare), ma non hanno alcuna frontiera con il mondo esterno; non controllano né aeroporti (quello di Gaza è tenuto dagli israeliani) né porti. «Con il blocco, le nostre esportazioni si sono ridotte del 60-70% e le importazioni rese più difficili» ci aveva spiegato un commerciante di Ramallah, il centro economico più importante della Cisgiordania.
Secondo fonti palestinesi, l’economia ha perso 1,3 miliardi di dollari nei primi cinque mesi di guerra. Da ottobre, inoltre, la disoccupazione attanaglia le famiglie palestinesi. Oltre il 40% dei lavoratori era pendolare in Israele, dove svolgeva attività in settori poco qualificati. Oggi le aziende israeliane importano operai da Romania e Filippine. «Li portano in aereo, danno loro una sistemazione presso i cantieri e un salario. Terminato il lavoro, li rispediscono a casa».
Clara prende la parola: «Oggi è molto difficile andare a Gerusalemme; per gli uomini sotto i 40 anni è impossibile». La figlia Nasrin lavora proprio nella città santa e ogni giorno deve trovare il modo per andarci e tornare. Clara e Nabil hanno anche tre figli maschi, tutti emigrati negli Stati Uniti. «Un medico e due ingegneri – dice la madre con fierezza, mostrando una vecchia foto in cui la famiglia era riunita –; qui non avrebbero una vita decente. Se non ci fosse la guerra toerebbero; però oggi non potrebbero neanche raggiungere la città vicina».
È quello che succede a molti giovani arabi (ma anche israeliani), soprattutto cristiani, i quali, vista la mancanza di prospettive, cercano di emigrare. Negli Stati Uniti e in Australia ci sono già città popolate da arabi della Terra Santa.
In Cisgiordania vivono anche tanti rifugiati del 1948, quando nacque lo stato israeliano. Clara è una di loro. Nell’aprile di quell’anno la sua famiglia fu cacciata dalla propria casa di Lod (Tel Aviv): «I soldati israeliani arrivarono e ci mandarono via dicendo che dovevano allontanarci per due settimane. In realtà non siamo mai potuti tornare. Camminammo tre giorni e tre notti senza mangiare, solo con i vestiti che indossavamo. Tutto era rimasto a Lod, documenti compresi. Arrivammo a Betlemme, dove ci siamo stabiliti».
È una storia simile a quella degli abitanti dei 531 villaggi arabi distrutti nella Palestina, nel 1948 protettorato britannico, nell’avanzata israeliana che causò quattro milioni di rifugiati. «Alcuni conservano ancora le chiavi di casa. È come dire che il ricordo non è morto».
I pellegrini non arrivano più
Betlemme è una cittadina di circa 35 mila abitanti ed è stata tirata a lucido per i pellegrinaggi dell’anno giubilare. Nel centro cittadino, rimodeato, le case sono costruite con blocchi di pietra color crema, di cui abbondano le cave nella zona. Anche gli scaloni e i passaggi pedonali sono lastricati con lo stesso materiale, che conferisce un alone di antico. Qua e là, sui muri, alcuni cartelli mostrano la bandiera dello stato che ha finanziato la ristrutturazione di un palazzo o di una via: Belgio, Italia, Germania, Giappone. Ma i turisti e pellegrini che percorrono via della Stella o via Vergine Maria oggi sono davvero pochi.
Arrivati in piazza della Mangiatornia, davanti alla chiesa della Natività, un cordiale poliziotto palestinese in divisa nera ci chiede la nazionalità, con qualche domanda sul check point, cercando di capire se abbiamo avuto problemi a passare. Annota tutto su un foglio.
La visione idilliaca del centro storico si infrange quando entriamo nella più importante via commerciale della città. Qui lo scheletro di un palazzo moderno, senza vetri, si staglia verso il cielo. «È stato bombardato – spiega chi ci accompagna – come anche il villaggio di Beit Jala, qui vicino, dove fino a due sere fa continuavano a piovere bombe». Ci ricordiamo delle parole di una suora, incontrata a Ramallah: «Sono palestinese e vivo a Beit Jala. La stanno distruggendo a cannonate. L’altra notte sono cadute 25 bombe. Un giovane è morto dilaniato: io non riuscivo a guardargli il volto».
Facciamo un giro. Attraversata la via in fondo a una discesa, passiamo da una parte all’altra della città senza accorgercene. Risaliamo una collina su cui è costruito un quartiere per giungere all’altro versante. «La gente che abitava su questo lato si è trasferita presso famiglie di parenti o amici in altri quartieri». Andiamo a vedere le case: alcune sono signorili di 2 o 3 piani; una ha un’intera parete distrutta dalle bombe e il tetto sfondato; un’altra mostra i muri di blocchi bianchi con enormi buchi ovali (causati dagli obici) e molti segni di mitragliate.
Di fronte, in cima ad un’altra collina, troneggia la nuova colonia israeliana di Ghilo e la sua postazione militare. Le case dei due agglomerati quasi si fronteggiano.
Insediamenti ebraici in Cisgiordania e Gaza: le colonie sono centri autosufficienti, collegati da autostrade riservate ai coloni e protette dai militari dell’Idf; sono state aperte per controllare i territori conquistati da Israele nel 1967, ma non ufficialmente annessi. Gli insediamenti vantano i servizi di un’alta qualità di vita, facilitazioni economiche per chi ci va a vivere e, grazie alla rete stradale, sono a mezz’ora di macchina dalle città israeliane della costa, quindi dagli uffici. Sono 200 mila i coloni israeliani in Cisgiordania, Gaza e Golan (Siria).
Le case sono bianche con tetti di tegole rosse, circondate da giardini. Ne vediamo alcune in costruzione molto vicino a Betlemme. In vetta alle colline (sempre in posizione dominante), assumono pure un effetto psicologico. Sono una presenza inquietante: ben visibili, ma inavvicinabili. Due mondi che si guardano in faccia, ma non si parlano.
Ci dicono che Beit Jala sia stata bombardata come rappresaglia, perché Ghilo è stata a sua volta colpita dal fuoco di musulmani infiltrati. Però la colonia, come spesso accade, è stata costruita su terra confiscata agli abitanti di Beit Jala.
Perché l’Intifada?
Sul perché della nuova Intifada ascoltiamo diverse analisi.
C’è chi sostiene che si tratta di una reazione alla provocazione di Sharon. Il leader della destra voleva prendere il posto di Barak (allora primo ministro laburista), che stava concedendo troppo ai palestinesi, e bloccare il processo di pace. In questo modo ci sarebbe riuscito… Altri dicono che l’Intifada era nell’aria. «I palestinesi erano già organizzati per reagire in quel modo».
Fonti israeliane imputano la questione alla fine strategia di Arafat, leader dell’Anp. La nuova guerra sarebbe una sua mossa per riacquistare la popolarità persa a causa del fallimento del vertice di Camp David (luglio 2000), ma anche del malgoverno dei suoi uomini.
La proposta di Camp David non era favorevole ai palestinesi. All’Anp veniva offerto il 50% della Cisgiordania suddiviso in zone separate; il 10% sarebbe rimasto agli israeliani, mentre il 40% non entrava nella discussione (restando all’Idf). L’ultima porzione (che comprende la valle del Giordano) permette di continuare l’accerchiamento delle «isole» palestinesi. Le colonie ebraiche non erano in discussione, come neppure la restituzione di Gerusalemme est.
L asciamo Betlemme a piedi lungo la strada principale. «È successo qualcosa alla tomba di Rachele» ci viene detto. Al check point i militari israeliani appaiono più nervosi. Dall’altra parte, le camionette della polizia seguono una manifestazione. I poliziotti in tenuta antisommossa tengono a bada una quarantina di pacifici manifestanti, che mostrano cartelli scritti in arabo, ebraico e inglese: «Rivogliamo i confini del 1967»; «No alla chiusura delle frontiere». Sembrano stranieri; hanno anche il cartellino con il nome che, di norma, portano i pellegrini. Una signora di mezza età dice di essere americana e di appartenere ad un’associazione di donne per la pace. Intanto un poliziotto filma i manifestanti.
Forse così gli efficienti servizi di sicurezza all’aeroporto potranno dimostrare che sono stati nei Territori occupati e perquisire minuziosamente i loro bagagli.
Marco Bello