Davanti alla morte
La vita che volge al termine (2): l’eutanasia
Nella nostra società il dolore e la morte sono «tabù»?
Quali sono i limiti all’autonomia dell’individuo? Esiste un’etica oggettiva?
Esiste un «diritto a morire»?
La medicina propone continuamente nuovi scenari, alcuni affascinanti, altri purtroppo inquietanti. La questione dell’eutanasia appartiene sicuramente a questi ultimi.
L’UOMO E LA MORTE
Una progressiva secolarizzazione del pensiero ha più che mai consolidato il principio di autonomia del singolo. In primis, in una società che non accetta un’etica oggettiva come riferimento e che rifiuta totalmente la spiritualità e la trascendenza, non è possibile vivere la morte e dare significato al dolore. Considerando l’uomo solo nella sua dimensione immanente, si ignora la morte, la si bandisce dalla coscienza e, quando appare all’orizzonte, carica inevitabilmente di sofferenza, la si vuole strumentalizzare al proprio volere.
Nella civiltà post-modea, in cui impera la «medicina dei desideri» che promette sicuro benessere fisico, psichico e sociale, vivo è ancora il «tabù» della morte con gli annessi e connessi; tutto ciò che crea dolore, deve essere nascosto e annullato.
Diverso invece è l’atteggiamento del credente, che vede nella morte non solo il limite e la finitudine dell’essere umano, ma anche il legame inscindibile con Dio dal quale dipende e, alla luce della Resurrezione, l’inizio della vita eterna. Atti, come l’eutanasia o il suicidio rivendicano l’assoluta autonomia dell’uomo sulla vita o sulla morte.
Alquanto complesso oggi si presenta l’esercizio della professione medica. Il progresso scientifico e tecnologico e il conseguente utilizzo di sofisticate apparecchiature con le quali si può tenere in vita un morente per tempi lunghissimi, ha rinnovato recentemente il dibattito sull’eutanasia e, ad esempio in Olanda e in Belgio, ne ha accompagnato la legalizzazione. Questa legge ha fatto seguito ad altri provvedimenti normativi degli anni ’90 adottati in Australia, in Danimarca, in Svizzera e in alcuni stati americani come l’Oregon, in coerente linea con una «cultura dell’etica del morire».
La normativa olandese («Legge sul controllo dell’interruzione della vita a richiesta e sull’aiuto al suicidio») nel quadro della cosiddetta eutanasia attiva, richiede soltanto per essere applicata il consenso libero e informato dell’individuo in grado di intendere e di volere.
È interessante notare come nei Paesi Bassi, ancora prima dell’approvazione della legge, secondo una tradizione radicata fin dagli anni ’70, il medico non veniva perseguito se procurava la morte di un soggetto affetto da un male incurabile che chiedeva esplicitamente di morire.
Il «kit eutanasico» in vendita per una manciata di euro nelle farmacie, dietro semplice prescrizione medica è l’aberrante punto di arrivo di una mentalità ben radicata nel relativismo etico e nel soggettivismo esasperato.
Si è passati dall’etica ippocratica, diretta ad alleviare le sofferenze a beneficio del paziente, all’etica individualistica dell’assoluta autonomia e libertà incondizionata. Un triste mutamento di rotta…
LA «DOLCE MORTE»
Al termine eutanasia sono stati attribuiti significati diversi nel tempo. Dal greco eutanasia (eu, bene, buono; thanatos, morte), nel secolo XVII assume in significato di morte dolce, lieve. Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626), infatti, afferma nel De dignitate et augmentis scientiarum che i medici «in conformità al loro dovere e al rispetto dell’umanità…, dovrebbero applicare la loro arte e il loro zelo a che i moribondi si congedino dalla vita in modo più semplice e più dolce». Egli intendeva quindi un aiuto a morire rivolto sia all’anima che al corpo.
In seguito, con l’applicazione delle teorie illuministiche, in cui l’individuo si ritiene autonomo e possiede libertà decisionale, si teorizza la «vita senza valore», che, unitamente al progresso delle scienze e delle tecniche, crea i presupposti alla definizione odiea di eutanasia.
Nell’accezione corrente si intende oggi per eutanasia «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore» (Iura et bona, II; Evangelium vitae, n.65); o, ancora «l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza o su sua richiesta» (Comitato nazionale di bioetica, CNB 1995).
IL DIBATTITO
Nel XX secolo, con l’evolversi della scienza verso forme di pratica sempre più caratterizzate dalla tecnica, con la medicalizzazione della vita e della morte, si è drammaticamente imposto come pressante il dibattito medico, etico e giuridico sull’eutanasia.
La carenza di regole giuridiche esaustive è legata alla difficoltà di ratificare delle norme che abbiano la capacità di mediare tra i valori morali, i criteri medici e l’esistenza umana nelle sue fasi terminali.
Vi sono interrogativi aperti, derivanti principalmente da nodi ancora da sciogliere di pertinenza medica, in particolare la difficoltà di determinare i limiti della rianimazione e del mantenimento in vita nei casi di coma profondo, di stato vegetativo persistente, di sindrome apallica.
Molte e variegate sono le questioni che ruotano intorno alla qualificazione etica dell’eutanasia e alla sua determinazione giuridica: depenalizzazione e legalizzazione.
Talvolta le parole mutano nel tempo il loro significato. Tale sorte è toccata anche alla definizione di eutanasia. Il termine si è arricchito via via di nuovi significati e nuove interpretazioni, non sempre univoche. Oggi si parla, ad esempio, di eutanasia quando ci troviamo di fronte ad un «suicidio volontario medicalmente assistito». Un suicidio è considerato «eutanasico», quando un individuo, in condizioni di gravissima malattia, con decorso invalidante, dolore incoercibile e prognosi nefasta, sceglie da sé i mezzi con cui togliersi la vita e procurarsi la morte. È un suicidio, ma medicalmente assistito in quanto interviene una seconda figura, quella del medico che consiglia e prescrive al paziente i farmaci con cui morire.
Per «eutanasia attiva», volontaria e medicalmente assistita si intende invece l’intervento diretto e consapevole del medico, che aiuta il paziente a morire, assecondando in tal modo una sua esplicita volontà. In questo caso si tratta di un atto con il quale una persona produce la morte di un’altra, incurabile, consapevole e decisa a non patire più altre sofferenze fisiche e psicologiche.
Di eutanasia si parla anche come atto omissivo («eutanasia passiva»): «quella in cui si lascia morire un malato sospendendogli intenzionalmente le cure ordinarie necessarie alla sopravvivenza». «Come azione o omissione che procura la morte o uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» (CNB 1995), l’atto eutanasico è strettamente connesso a un’azione estea, attiva o omissiva, da praticare a malati sofferenti e terminali.
Quindi, per eutanasia passiva, si intende la rinuncia ad ulteriori trattamenti terapeutici, graduati in ottemperanza al principio della proporzionalità.
In relazione all’atto eutanasico omissivo è ormai comune convinzione, in ordine di principio, sul piano etico-giuridico (in Italia, legge 8.2.2001, n.12) e su quello religioso, che la pratica medica usi opportunamente le sue risorse tecniche, con l’esclusione dell’accanimento terapeutico.
Inoltre si chiede l’uso di sussidi farmacologici per il trattamento del dolore (mezzi di cura ordinari e straordinari) con misura adeguata, senza intenzione di procurare la morte, ma nel rispetto della dignità del malato e della sua sofferenza.
A questo proposito anche la chiesa riconosce la liceità dell’uso dei farmaci antidolore (già Pio XII nel 1957 lo approvava), anche se dal loro uso ne «possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità» (Congregazione per la dottrina della fede, 1980).
Perseguendo questi intendimenti, sia come trattamento del dolore sia come etica per l’accompagnamento a una buona morte, può anche interpretarsi la politica per la diffusione degli Hospices, luoghi che «umanizzando» l’assistenza ai malati terminali, insieme al perfezionamento delle cure palliative, giovano a contrastare il desiderio di morte del malato.
LA DOTTRINA
La dottrina cattolica mantiene fede al principio fondamentale del carattere sacro e quindi inviolabile della vita umana, dal concepimento fino al suo termine naturale, come diritto della persona.
Contro l’eutanasia si avanza il principio della «sacralità della vita», a cui è connessa la concezione della vita come bene in sé. Si dichiara la non disponibilità da parte della persona per ragioni morali, religiose e sociali e si nega la possibilità di includere il «diritto di morire» all’interno del «diritto della vita», «germe di ogni ordinamento giuridico» (Jonas 1985; Fuari Luvarà, 1994). Per la chiesa cattolica «nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò un crimine di estrema gravità» (Cong. D. Fede, 1980: Russo, 2000).
Ribadendo che «la maggior parte degli uomini ritiene che la vita [ha] un carattere sacro e che nessuno ne [può] disporre a piacimento», la chiesa cattolica sottolinea che nella vita «i credenti vedono […] anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e far fruttificare».
In quest’ottica, è eticamente inaccettabile ogni forma di eutanasia sia attiva che passiva, sia volontaria che involontaria, sia e ancor più il suicidio medicalmente assistito.
Lecito, anche in una prospettiva teologico-divina della vita umana, è ritenuto l’uso di cure palliative opportunamente dosate in relazione allo stato di sofferenza del paziente, al grado di evoluzione della malattia. In terapia intensiva si è ricorsi alla definizione di «accanimento terapeutico» per delimitare la soglia che divide l’obbligo di curare dall’«irragionevole ostinazione» di trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita» (Codice italiano di deontologia medica, art.20).
La sospensione dell’accanimento terapeutico deve applicarsi tutte le volte che la terapia non giova ad alleviare il paziente, né consente di migliorae le condizioni.
Nell’Evangelium vitae Giovanni Paolo II afferma solennemente: «…in conformità con il magistero dei miei predecessori e in comunione con i vescovi della chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (n.65). Ed ancora insiste sull’importanza del dialogo con coloro che, pur non condividendo la stessa fede religiosa, credono nella vita umana come valore e diritto fondamentale della persona: «…dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi dell’elaborazione del pensiero, come dei diversi ambiti professionali e là dove si snoda quotidianamente l’esistenza di ciascuno», in quanto la dottrina della chiesa è fondata sulla legge naturale oltre che sulla parola di Dio scritta (n. 95).
Fondando un’etica medica su questi presupposti può nascere una nuova e feconda collaborazione, una nuova forma di alleanza terapeutica.
Il medico, come tutore della vita, è tenuto a opporsi a qualsiasi pressione morale da parte del paziente, dei familiari, oppure della società. Crollerebbe altrimenti la fiducia nel suo ethos professionale di sostenere l’infermo e lenie le sofferenze.
Il malato, da parte sua, deve avvertire la vicinanza fisica ed affettiva del suo ambiente, in particolare dei suoi familiari; l’esperienza dimostra che il desiderio esteato di porre termine alla vita, sovente è un grido di disperazione in seguito alla già avvenuta morte sociale. È opportuno quindi che vi sia intorno al malato una cooperazione sensibile ed attenta che gli garantisca un’assistenza integrale e una morte umanamente dignitosa.
Fermo restando che il nucleo della pastorale è il mistero pasquale di Cristo e che il suo scopo precipuo è la carità intesa come servizio responsabile verso l’altro, la difesa della dignità della vita umana passa attraverso la solidarietà nei confronti del malato da parte di operatori sanitari, volontari, sacerdoti, familiari, ciascuno secondo le sue competenze al fine di «farsi prossimo» (Lc 10,29-37), accompagnandolo umanamente e cristianamente alla conclusione della sua vita terrena.
Un malato che chiede di morire, chiede in realtà di non essere lasciato solo.
Enrico Larghero