«Vogliamo un’auto e una lavatrice»
L’aspirazione gigantista cinese è ben comprensibile viaggiando lungo la nuova rete autostradale che si sta sviluppando nel paese per migliaia di chilometri: una ragnatela di corsie, arditi viadotti, tangenziali che sembrano voler contenere ipertrofiche megalopoli che ingoiano progressivamente gli anelli d’asfalto appena inaugurati da funzionari di partito con l’elmetto in testa.
Una rete sovradimensionata che sta avvolgendo il paese ma che per il momento vede percorrerla, una volta usciti dalla città, rare automobili, di solito i grossi Suv dei nuovi ricchi che possono permettersi il sacro rito del casello autostradale.
Se oggi le autostrade sono praticamente deserte, fra pochi anni saranno percorse da milioni di automobilisti che, abbandonata la bicicletta, potranno dirsi anch’essi cittadini modei e sviluppati; il boom industriale strappa alla povertà (ma qui bisognerebbe capire cosa si intende con questo termine) milioni di cinesi ogni anno e al momento sono circa 100 milioni coloro che vivono con relativa agiatezza.
Percorrere la nuova autostrada che collega Shanghai con il suo aereoporto è un balzo nel futuro della Cina: quattro corsie che corrono in una giungla suburbana di zone industriali variamente colorate: capannoni gialli, azzurri, grigi (molti quelli delle aziende italiane) si susseguono come tanti mattoncini che compongono un’unica nebulosa urbana su cui incombe un cielo lattiginoso e plumbeo. Questo nastro d’asfalto è una soddisfazione: di giorno le auto riempiono le corsie quasi fossero il sangue delle vene di un organismo, un frenetico fluire di acciaio, gas di scarico, uomini e donne al volante di vecchie carcasse e nuove fuoriserie provenienti da paesi lontani. Ogni tanto, il fluire delle automobili è superato a sinistra dal nuovo treno a levitazione magnetica, una specie di missile simile ad una giostra, forse una dimostrazione di tecnologia per impressionare il turista, o meglio ancora il giornalista o l’uomo d’affari occidentale appena sbarcato nell’«impero di mezzo».
La Cina è tecnicamente pronta all’invasione delle automobili e in generale lo è per qualsiasi altro oggetto di consumo.
La restante parte del mondo lo è in egual misura? La restante parte del mondo è pronta ad accettare (facendo un rapporto all’occidentale tra popolazione e numero di prodotti) seicento milioni di nuove auto, quattrocento milioni di lavatrici, e altre decine di miliardi di pezzi tra computer, cellulari, televisori, condizionatori, lavatrici, nuove case…?
Il mondo è già in overdose di estealità negative legate all’industrializzazione di massa occidentale (vedi «Una sola madre terra», su Missioni Consolata), il premio Nobel James Lovelock, con molti altri scienziati, parla ormai apertamente di estinzione di massa dell’essere umano entro 100 anni a causa di un cocktail ben assortito di cambiamenti climatici, scarsità di risorse e relative guerre.
Un processo non futuribile ma reale, già chiaramente visibile al giorno d’oggi ed in fase avanzata, sostiene lo scienziato inglese ideatore della famosa teoria scientifico-economica che prende il nome di Ipotesi Gaia.
Nonostante questo, che il mondo sia o meno pronto al mortale abbraccio cinese all’american way of life non ha alcuna importanza. L’ingranaggio è partito e fermarlo non sarebbe né giusto né possibile.
«La lavatrice non è un diritto solo per gli occidentali!». Parole sacrosante avute in risposta ad una domanda provocatoria posta a qualche cinese con reazioni emotive che andavano dall’indignato, al furibondo, ovviamente.
Le grandi megalopoli cinesi sono mostri che viaggiano intorno ai venti milioni di abitanti, oltre questa soglia gli urbanisti sostengono che vi sia un collassamento generale delle fognature, dell’ordine pubblico e del trasporto.
In Cina ne esistono almeno quattro ed una di esse, Qongqing è giunta a quota 25 milioni. Girarle non è un’esperienza entusiasmante. La stessa Shanghai è un guazzabuglio di grattacieli, templi del commercio ricoperti di mattonelle bianche, raccordi autostradali su più livelli, un banale tentativo di scimiottare, Parigi, New York, Londra: affoga nell’inquinamento e nel caos. I vecchi quartieri coloniali vengono abbattuti per far posto a grattacieli che dopo dieci anni appaiono già vecchi. Il trionfo del kitch e del cattivo gusto, del grezzo gigantismo assurto a bellezza.
Il tempo della rivoluzione culturale della «banda dei quattro» sembra non essere finito.
Ogni anno 20 milioni di cinesi abbandonano le campagne e si inurbano alla ricerca di lavoro nei cantieri edili, o come camerieri, commessi, manovali nei mercati etc: sono questi uomini e queste donne che provengono dalle sperdute regioni della campagna a carburare la tumultuosa crecita del paese.
La pelle crepata dal sole nei campi, e i lineamenti tradiscono la loro provenienza dalle lontane province cinesi: Inner Mongolia, Sichuan, Tibet…
Sono carne da cannone nel grande balzo moderno cinese: loro non contano nulla nel conteggio del prodotto nazionale lordo, non rientrano in nessuna statistica tanto da non essere nemmeno un costo per le aziende quando si infortunano o muoiono. Chi protesta viene cacciato, tanto il serbatornio di fuggitivi dalle campagne verso la terra promessa vista nella televisione comune di qualche ristorantino sperduto è infinito.
Sono svariati milioni i cinesi utilizzati come schiavi per produrre la merce che poi il consumatore estero, di solito lamentoso «per la scarsa qualità», acquisterà a prezzi stracciati non solo nei nuovi templi pagani (i centri commerciali), ma anche nelle raffinate boutique dei centri storici a prezzi ben più elevati.
Qualche numero. Il 75% dei lavoratori cinesi migranti (milioni di persone, forse 20) non viene pagato, molti di loro come forma estrema di protesta si suicidano.
Ogni anno muoiono 6.000 minatori. Sono decine di migliaia i bambini che lavorano come schiavi nelle fabbriche.
I manifestanti sono spesso considerati rivoltosi che attentano all’ordine sociale del paese, una minaccia da stroncare con qualsiasi mezzo. Ma il vigoroso sviluppo economico non trova sostegno solo nello sfruttamento delle masse ma anche in selvaggio utilizzo dell’ambiente e delle risorse.
Il 90% dei fiumi cinesi è avvelenato, uguale situazione per il 70% delle acque sotterranee.
La Cina brucia un miliardo e settecento milioni di tonnellate di carbone ed è il quinto consumatore mondiale di petrolio (entro pochi anni diventerà il secondo). Sulla Cina grava una cappa di smog solforosa che copre praticamante tutto il paese e che trasportata dai venti arriva fino in Europa e negli Stati Uniti.
In un recente libro scritto dal ministro per l’economia Giulio Tremonti vi è un accorato appello a invertire questa situazione con mezzi drastici, fosse anche con un nuova politica protezionista.
Il ministro però non parte da una visione olistica, ma da un assunto economico nazionalista. In sintesi: il consumatore occidentale nel suo delirio onnivoro a basso prezzo made in China sta distruggendo l’economia europea perché fa sì che gli imprenditori esportino capitali e conoscenza tecnologica in Cina ed importino povertà.
La teoria deregolamentatrice degli anni Novanta che va sotto il nome di globalismo o globalizzazione, ha portato a questi risultati. Gli imprenditori occidentali hanno accolto felicemente questa deregolamentazione transnazionale massiccia, che ha fatto piazza pulita della figura del lavoratore con cui contrattare onerosi aumenti di salario, o peggio il miglioramento delle condizioni di lavoro, o peggio del peggio la diminuzione dell’orario a parità di paga.
Tutti retaggi di stampo comunista non assimilabili da un sistema economico moderno e competitivo, dicevano.
Finito in soffitta il lavoratore, in Europa è assurta la figura del consumatore, ovvero colui che spende il proprio denaro, sempre più spesso facendo ricorso ai debiti, per riempirsi la vita di cose di per sé inutili (come dice il famoso pubblicitario Frederic Beigebeder «chi è felice non consuma») ma che una potente campagna di marketing ci fa vedere come indispensabili.
Il consumo senza produzione è il meccanismo diabolico che sta tenendo in piedi le obese economie occidentali di servizio e finanziarie, totalmente drogate.
Un esempio: tutti i telefonini che avete in casa, il primo, il secondo, il terzo, le macchine fotografiche, i dvd, i televisori etc. etc. sono prodotti in Cina. Nessuno di quei pezzi di plastica e microchip è prodotto da italiani.
La parola magica per questo processo è stata competitività: ovvero il lavoratore dipendente italiano, francese, tedesco, … è entrato in diretta competizione con il cinese che vive nelle condizioni di cui sopra. Non così i proprietari dei mezzi di produzione che hanno invece approfittato delle occasioni date dalla libera circolazione dei capitali: il capitale trova sempre la migliore allocazione possibile, dopo tutto è il suo mestiere.
È evidente che solo il ricorso al debito può sostenere i consumi in questa situazione e infatti paesi come l’Italia navigano a vista in un mare di stagnazione economica.
Grande impulso a queste dinamiche economiche, viste come la panacea di ogni problema, è stato dato dai governi degli anni Novanta partendo dagli Usa (Clinton), passando dalla Francia (De Villepein), Italia (Prodi, D’Alema, Amato), Germania (Schroeder), Inghilterra (Blair)…
Tale politica ha trovato sponda negli imprenditori, giustamente ansiosi di aumentare il saggio di profitto ma soprattutto dai sindacati che da sempre lottano per difendere i lavoratori…
Al tempo, fine anni Novanta, andava di moda dire che «se il mare del capitale si fosse alzato, tutte le barche sarebbero cresciute».
Ma la storia talvolta compie capriole. Chi avrebbe mai pensato che un ministro iperliberista dell’economia come Giulio Tremonti definisse «deliranti» le politiche economiche di Wto, Fmi, World Bank, degli anni Novanta mentre il cosiddetto popolo noglobal si trovasse ad aver ottenuto inaspettatamente quello per cui protestavano a gran voce: la riduzione della povertà nei cosiddetti paesi i via di sviluppo.
Il mondo vive quindi un periodo caratterizzato da una potente «redistribuzione» della ricchezza. Gli italiani, i francesi, e gli altri stanno un pizzico meno bene, mentre sempre più asiatici smettono di coltivare riso e inurbandosi migliorano le loro condizioni di vita. Molti sono usati come schiavi, altri si emancipano: ubi major minor cessat nel 2006?
Il problema, che nessuno vuole guardare perché semplicemente non risolvibile, è che per sostenere il ritmo di crescita cinese siamo di fronte ad un vigoroso affondo contro l’ecosistema planetario, visto solo come capitale naturale con cui alimentare la crescita materiale.
La Cina urbana è un incubo che dovrebbe far tremare i polsi ai governi mondiali che invece se ne rallegrano. Lo stile di vita all’americana è un’ossessione che pervade ormai la vita di centinaia di milioni di cinesi che vivono per poter avere la stessa vita di uno statunitense o europeo.
È bene sottolineare che questo desiderio è sacrosanto, ma diventa un pericolo in funzione della finitezza delle risorse naturali (chi sostiene che il concetto di risorsa non esiste perché è l’ingegno umano a creare le risorse attraverso le tecnologie si scontra inesorabilmente con il primo e secondo principio della termodinamica che, ahinoi, lasciano poco spazio a bislacche fantasie di moti perpetui o energie infinite)
Quante foreste bisognerà abbattere, quanto pesce pescare, petrolio e carbone bruciare, etc per soddisfare un paese di 1,3 miliardi di persone che cresce al ritmo del 10% annuo?
E dato che l’economia è una coperta corta (se tiri da una parte si scopre l’altra) le potenze occidentali saranno veramente disposte a cedere le residue risorse strategiche ai cinesi vogliosi di vivere nel benessere materiale, lo stesso nel quale hanno sguazzato per sessant’ anni statunitensi, francesi, tedeschi, italiani etc?
Qualsiasi cosa accada esistono dei feedback negativi che investiranno il pianeta.
Eppure quello che è un vero disastro per tutti è vissuto come una conquista, come una possibilità di crescita. Un’illusione tipica delle società che collassano, le prove lasciate dagli abitanti dell’isola di Pasqua, dai Maya o dagli abitanti della Groenlandia ne sono un esempio.
La locomotiva Cina ci sta portando tutti su una montagna russa altissima e noi siamo o sull’apice o all’inizio della discesa. Auguri.
3a puntanta. Le precedenti puntate di questo reportage dalla nuova Cina sono state pubblicate a dicembre 2005 e gennaio 2006. Gli articoli sono reperibili su questo sito internet.
Giacomo Mucini