Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell’Etiopia, facendone l’unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopi hanno resistito a pressioni e persecuzioni estee ed intee, fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.
L’inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo iv, quando, come racconta lo scrittore Rufino di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione.
La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto. Ma ascoltiamo l’originale.
«Un certo Meropio di Tiro, filosofo, si recò in India per un viaggio d’istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle arti liberali. Sulla via del ritorno, la nave si fermò per foirsi di acqua sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente del luogo in lotta contro l’impero dei romani. Tutto l’equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che furono catturati e offerti in dono al re degli etiopi.
Impressionato dalla loro intelligenza, il re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua morte, il re liberò i due giovani. Ma la regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello stato.
Approfittando della sua elevata posizione, Frumenzio accolse i cristiani, ne facilitò la predicazione e concesse loro luoghi per pregare.
Giunto il principe alla maggiore età, i due fratelli presero congedo dalla corte: Edesio ritoò a Tiro, dove ricevette gli ordini sacri; Frumenzio si recò ad Alessandria a informare il patriarca Atanasio della diffusione del cristianesimo nel regno di Aksum, esortandolo a mandarvi un vescovo, che si prendesse cura di quelle prime comunità di fedeli. Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose a Frumenzio: “Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo spirito di Dio come è in te, e che possa attendere a tale compito?”. E lo consacrò vescovo, inviandolo ad Aksum».
IL COSTANTINO ETIOPICO
Dalla scaa narrazione di Rufino non è facile stabilire la datazione esatta dell’inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 228, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330.
Rufino riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di etiopi. A parte l’espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (Padre Pace), e con l’appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole». Essi sono l’alba e la luce della nuova Etiopia, l’Etiopia cristiana.
Questi eventi si realizzarono nell’epoca di Costantino il grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell’impero romano; il parallelo è d’obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell’imperatore romano.
FIGLIA DI ALESSANDRIA
Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d’Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.
Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofisita» e i cristiani d’Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell’Egitto e significa «egiziano».
I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.
All’inizio del v secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofisita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest’ultima vi sussisteva.
Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del concilio e si separarono da Roma.
È necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido di quello di Eutiche, che ha molti punti in comune con il duofisismo delle chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.
Nel v secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i «Nove Santi»; mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.
Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel v secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del vi secolo, è festeggiato come santo dalla chiesa cattolica il 27 ottobre.
Verso la fine del vi secolo Aksum entrò in declino e l’Etiopia fu ben presto accerchiata dall’espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.
DISPUTE TEOLOGICHE
L’arrivo dei missionari gesuiti in Etiopia, nei sec. xvi-xvii, portò alla conversione al cattolicesimo, seppur per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios. Ma il loro arrivo innescò anche nel clero etiopico dispute interminabili sull’unzione e sulla natura di Cristo, controversie che sfociarono talvolta in lotte feroci e sanguinose, con guerre, massacri e distruzione di interi monasteri.
Le discussioni dei religiosi etiopici con i gesuiti provocarono la nascita di due correnti teologiche: l’una sostenuta nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande ansa del Nilo Azzurro a sud del lago Tana; l’altra nel monastero di Debra Libanos, nello Scioa. La corrente dei goggiamesi si estese poi al Tigray e al monastero del Bizen, nell’estremo nord dell’Etiopia.
I goggiamesi sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito Santo, ma da se stesso, e che, nell’unione col Verbo, la sua natura umana era stata assorbita da quella divina. Era questa una posizione di rigido monofisismo di tipo eutichiano. Questa corrente prese il nome di carrà (coltello), ma fu chiamata anche qebàt (unzione) e hulèt liddèt (due nascite), perché riconosceva in Cristo la generazione eterna e la nascita dalla Vergine.
I debralibanesi, invece, sostenevano che Cristo era stato unto dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Questa dottrina implicitamente riconosce, nell’unzione, la natura umana di Cristo. Essa fu chiamata sost liddèt (tre nascite), perché opponeva ai goggiamesi anche una terza nascita mediante l’unzione.
Questa dottrina fu anche chiamata teuahdò, che significa «divenuto uno», perché sostiene che la natura umana e la natura divina si sono unite, con l’incarnazione, in una natura composita di umanità e divinità. Fu pure chiamata tseggà ligg, figlio di grazia, perché con l’unzione la natura umana di Cristo viene santificata dalla grazia dello Spirito Santo.
Nel corso della storia prevalse ora l’uno ora l’altro partito, con rivolte che furono sedate nel sangue. Sotto il regno di David iii, per esempio, nel primo quarto del xviii secolo, furono sterminati tutti i monaci di Debra Libanos. Con la salita al trono di Teodoro ii (1855) la teoria dei goggiamesi venne proclamata religione di stato, e fu riconfermata e imposta con la forza da Giovanni iv nel sinodo di Boru Mieda (1878).
Pochi anni dopo, l’ascesa al trono imperiale di Menelik segnò la fine delle contese religiose: Menelik fu molto tollerante e lasciò a ognuno libertà di scelta e la dottrina di Debra Libanos diventò la dottrina ufficiale della chiesa etiopica.
Oggi la chiesa etiopica, al pari delle altre chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della chiesa etiopica è «chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».
Inoltre, da poco più di mezzo secolo la chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte dall’imperatore, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico, nella persona dell’Abuna Basilios.
L’Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, che nel 1996 hanno nominato il proprio patriarca.
LITURGIA ETIOPICA
Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce e invasioni estee, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è «un’isola cristiana in un mare di pagani». Scrisse padre Giulio Barsotti nel 1939: «In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia… Dal secolo iv, in cui il vangelo penetrò nel regno di Aksum, fino a oggi, tutta la vita degli abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo».
La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debterà imitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel vi secolo, commuove i credenti.
Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana.
I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto, che solo gli amara riescono a decifrare.
Le messe iniziano alle 7 del mattino e durano 3 ore; i preti salgono tutti i giorni sulle vette dei colli dove sorgono le chiese e rientrano a casa dopo le 9 di sera. Tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, da malattie o dall’età, devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda, accompagnano i versi dei qeniè.
Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucaristia con la somministrazione del pane e del vino; i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del vangelo e dei Miracoli di Maria (vedi pag. 40).
I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta sanctorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa.
Il tabòt viene portato a una fonte nella celebrazione del Timchèt, la festa dell’epifania, il battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.
In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di fango decorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucaristia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adoata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibela e Gheralta.
Nelle chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli, i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica, sopravvissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca.
I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al xv secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo.
Alcune chiese storiche conservano stupendi affreschi murali, dipinti con colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.
NEL SEGNO DELLA CROCE
Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e fa il segno della croce; le donne si fermano a baciae la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.
Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di san Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come festa della croce, natale, epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli.
Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Tuttavia, sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è un crocifisso con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.
CLERO, DIGIUNO, MATRIMONIO
La chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, il sabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.
Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l’assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all’anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori.
Il digiuno consiste nell’astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l’astinenza da cai, grassi, uova, pesce e latticini.
Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l’amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall’arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue le regole monastiche.
Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.
I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l’ecceghiè, il capo dei monaci. •
Alberto Vascon