FRATELLO NELLE PICCOLE COSE
Una fredda domenica, di quel 18 dicembre. Ma il rigore dell’inverno coreano non aveva impedito a padre Joseph di calzare le scarpette e, approfittando dell’assenza di impegni parrocchiali, di prender parte alla «maratonina» di Seoul, una competizione organizzata per beneficienza. Trentun anni compiuti in maggio, fisico scattante ed asciutto, Joseph, da buon keniano, amava correre al punto che, in estate, si era iscritto al Seoul Synergy Running Club, un’associazione sportiva per patiti della corsa a piedi. Era un atleta ed era allenato.
Per questo motivo la telefonata che ne annunciava la morte (avvenuta sull’ambulanza che lo portava d’urgenza all’ospedale dopo che si era accasciato nel mezzo della gara) è suonata come assurda. Sgomento, incredulità, shock sono stati i sentimenti di tutti. Come poteva esser Joseph quell’atleta che si era accasciato al bordo della strada? Ci siamo precipitati all’ospedale di Sadang, ancora increduli, ma abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza. Era proprio lui, Joseph… e il dolore ha avuto la meglio sull’incredulità. Abbiamo pianto.
Il corpo di Joseph è stato trasportato il lunedì 19 dicembre all’ospedale della Sacra Famiglia di Bucheon, vicino a casa nostra. E nello stesso luogo è stata allestita la camera ardente.
Fin dalle prime ore del pomeriggio, incessante è stato l’afflusso di fedeli, di religiosi e religiose, di persone che avevano conosciuto Joseph. La classica cantilena ritmata delle preghiere per i defunti che si usano nella chiesa cattolica coreana ha fatto da sottofondo continuo per due giorni, fino alla messa di esequie. Tutta la nostra comunità era mobilitata, inclusi gli studenti e le signore del nostro «Gruppo Amici Imc», che sono state ancora una volta meravigliose nel loro impegno e nella loro vicinanza.
Intanto, le cose, per quanto riguardavano il funerale, si stavano complicando. Ci voleva un permesso da parte dell’Ambasciata del Kenya, che forse non sarebbe arrivato presto. Ci siamo visti costretti a fare la messa esequiale, il mercoledì 21 dicembre, sapendo già che avremmo dovuto poi riportare il corpo del nostro Joseph all’ospedale, in attesa della sepoltura.
Alle 10.00 del mattino, la chiesa parrocchiale di Yokkok-2-dong, (la parrocchia alla quale territorialmente apparteniamo) era piena colma di gente (400-500 persone), senza contare i celebranti, che erano una ventina. Abbiamo cercato conforto nella parola di Dio, che ci ha accompagnato attraverso i vari stadi dell’incredulità, del dolore e della rabbia per questa tragedia, fino a portarci alla certezza che niente puo’ mai separarci dall’amore di Dio mostratoci in Gesù.
Abbiamo letto la morte di Joseph come quella del chicco di grano che, caduto in terra, muore come condizione per portare molto frutto. Sì, Signore: la vita di Joseph era già donata alla missione, alla Corea, ai fratelli e sorelle di questo paese, e quindi la sua morte non fà altro che rendere quella donazione definitiva, e fonte di molto frutto.
I l permesso di sepoltura che attendevamo giungesse dall’Ambasciata del Kenya si faceva attendere ed è giunto solo il 4 gennaio. Due giorni dopo ha avuto luogo la messa di funerale, attesa da più di 250 persone e in cui il vescovo di Incheon, mons. Choi Kisan Bonifacio, ha ricordato ai presenti che anche Andrea Kim-Dae Gong, primo sacerdote e martire coreano era morto giovane, per non parlare dello stesso Gesù. Ha anche affermato che attraverso questa morte il Signore ci ammonisce, invitandoci tutti a tendere incessantemente alla santità.
Nel 2002, Joseph Otieno aveva raggiunto la Corea, sua prima destinazione missionaria, insieme ad altri due sacerdoti missionari africani. Dopo i primi anni della formazione e del noviziato, tutti vissuti in Kenya, aveva studiato teologia in Inghilterra, presso il Missionary Institute di Londra.
Chi ha avuto modo di incontrarlo in quegli anni lo ricorda come una persona semplice e umile ma, nello stesso tempo, molto affabile. Attento agli studi e alle sue responsabilità, che sempre assumeva in prospettiva al futuro missionario, Joseph non disdegnava momenti di sana vita sociale che gli permettevano di avvicinare la gente in modo più informale e spontaneo. Davanti a un bel boccale di Guinness, sovente condiviso con il parroco di Whetstone (la comunità dove per 4 anni ha prestato servizio pastorale), Joseph si relazionava con gioia con i giovani che incontrava.
In parrocchia, fino al momento della sua ordinazione diaconale, aveva contribuito non poco a ravvivare le celebrazioni, grazie alla sua abilità nel suonare le percussioni. I giovani gli volevano bene, proprio per quell’approccio semplice e immediato, che gli aveva conquistato la simpatia di tutti, anche all’università.
Joseph era generoso, e metteva sempre gli altri prima di sé. Era anche modesto nel suo stile di vita e rispettoso di tutti, sicuro delle sue idee, ma estremamente aperto a quelle degli altri. Una volta ordinato diacono, a lui e a altri tre compagni fu chiesto se volevano essere i primi missionari africani ad andare in Corea: era sicuramente una grande sfida. Joseph chiese un tempo per riflettere e per prendere una decisione. Era coraggioso e amava cimentarsi con l’avventura. Passato il periodo di riflessione, rispose di sì. Del resto, questa risposta era perfettamente in linea con lo stile della sua persona.
Era molto cosciente delle sue radici culturali, che venivano espresse in modo particolare nella danza e nella musica, come pure nella prontezza a partecipare ad ogni tipo di conferenza e riunione. Ma il suo mondo andava ben oltre, verso quegli spazi infiniti che solo la missione può aprire.
Q uattro vescovi erano intervenuti all’ordinazione di Joseph, il 14 ottobre 2001, a Nairobi (Kenya). Prendeva il via in quel momento il ministero che avrebbe caratterizzato la sua breve esperienza presbiterale, quello di «lavare i piedi agli altri». Sempre diceva che «il sacerdozio è per il servizio».
Questo, unito a una gentilezza del tutto speciale nelle sue relazioni con gli altri; gentilezza che non era debolezza, ma qualcosa di grande e vero, una tenerezza che toccava il cuore della gente in profondità.
Una volta giunto in missione, dopo essersi dedicato allo studio della difficile lingua coreana, Joseph era entrato a far parte della comunità di Kuryong, una baraccopoli nel cuore della capitale, manifestando da subito la decisione a vivere la sua vocazione missionaria tra i poveri.
Anche in questo contesto era emerso il suo cuore semplice e buono, che gli aveva permesso di adattarsi con piacere a fare i piccoli servizi che l’uso ancora limitato dell’idioma gli consentiva di prestare. Insegnava inglese a qualche ragazzotto della zona e aiutava le «nonne» del quartiere, rendendosi utile in qualche piccolo lavoretto.
A più di uno questa sua disponibilità era suonata come una pazzia. Ma come? Uno straniero, sacerdote per di più, adattarsi a incombenze come andare a fare la spesa al supermercato per qualche anziano che non avrebbe avuto la possibilità di muoversi! Quando uno dei parrocchiani espresse ad alta voce questo sentimento, la risposta di Joseph fu evangelicamente disarmante: «Siamo venuti qui per servire e aiutare nelle piccole cose che possiamo fare…».
T re giorni soltanto prima della sua prematura scomparsa, Joseph era stato chiamato ad aiutare in parrocchia nella celebrazione del sacramento della riconciliazione. Una signora si era recata da lui per la confessione ed era stata così toccata dal calore e dalla comprensione di quel sacerdote africano che, il giorno seguente, aveva lei stessa accompagnato due altre persone presso la casa dei missionari della Consolata, affinché potessero ricevere da Joseph la pace e la gioia del perdono.
La tristezza per la sua morte lascerà il segno per lungo tempo, questo è certo. Eppure è viva in noi la profonda sensazione che il Signore, con la sua grazia, ha preparato Joseph a incontrasi con lui. La semplicità della sua vita testimonia con i fatti questo suo essere pronto. Sentiamo con forza che la sua morte è un seme di vangelo, un esempio da ricordare e vivere.
Riposa nella pace del Signore, Joseph, e intercedi per noi dal cielo, affinché sappiamo portare avanti bene la missione alla quale anche tu avevi cominciato a partecipare con entusiasmo. Ricordati che stiamo aspettando i «frutti» che la tua morte non può non portare.
Non resta che esprimere «santo orgoglio» per come tutta la nostra comunità (inclusi gli studenti) ha reagito a questa improvvisa tragedia: con dignità, profonda partecipazione, unità e totale disponibilità da parte di tutti. E constatare ancora una volta come la gente ci voglia bene, e come tutti abbiano fatto davvero del loro meglio per aiutarci.
I missionari IMC in Corea