Col bastone a piedi scalzi
Gigantesca figura di uomo e missionario, ha sfidato il mito dell’impenetrabilità dell’Africa, avviando l’evangelizzazione delle regioni più intee e inaccessibili dell’Etiopia. I 35 anni della sua epica impresa, troncata bruscamente dall’esilio e dalla persecuzione delle comunità da lui formate, è stata continuata dai missionari della Consolata, che ancora oggi scoprono famiglie discendenti dall’attività dello Abuna Messias. Da una di esse proviene l’Abuna Brahane Jesus, attuale arcivescovo di Addis Abeba.
Un lembo di terra dell’astigiano, ai confini con la provincia di Torino, è diventato famoso in tutto il mondo per la straordinaria fioritura di santi che vi ebbero i natali nel giro di mezzo secolo. A Piovà d’Asti (oggi Piovà Massaia) nel 1809 nasceva Lorenzo Massaia, poi diventato fra’ Guglielmo da Piovà, infine conosciuto come Abuna Messias in Etiopia e cardinal Massaia in Europa.
A 7 km di distanza, a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) nascevano san Giuseppe Cafasso (1811), san Giovanni Bosco (1815), il beato Giuseppe Allamano (1851) e personalità eccellenti, come il card. Giovanni Battista Cagliero, mons. Giovanni Battista Bertagna, mons. Matteo Filippello, mons. Francesco Cagliero.
Trasferitisi dalla provincia alla capitale, Torino, si sono trovati uniti quasi fisicamente attorno a un altro lembo di terra, il santuario della Consolata. Uomini dall’orecchio sensibilissimo, essi si sono sentiti ripetere dalla Madre di Dio: «Fate quello che egli vi dirà». E si sono ritrovati catapultati nelle più svariate e complesse attività sociali in patria e in tutto il mondo.
L’amore per la Madonna Consolata ha unito due di essi, il Massaia e l’Allamano, in un profondo legame ideale e spirituale, tradotto nell’evangelizzazione dell’Etiopia.
PREPARAZIONE PER L’ETIOPIA
Ordinato sacerdote a Vercelli nell’anno1832, ultimata la sua formazione scolastica e religiosa nel convento di Moncalieri-Testona, fra’ Guglielmo da Piovà ricoprì per due anni (1834-1836) l’ufficio di cappellano dell’ospedale Mauriziano di Torino. Quindi, per 10 anni insegnò filosofia e teologia nel convento di Moncalieri e poi in quello del Monte dei Cappuccini (1836-1846).
Fu un periodo di profonde esperienze, che tornarono utili nella sua missione in Etiopia. Strinse amicizie con altri santi piemontesi e importanti personalità del tempo. Prima di tutto con Giuseppe Benedetto Cottolengo, di cui fu saltuariamente consigliere e confessore. Un’amicizia mai dimenticata; nelle sue memorie parlando di «certi tipi apostolici d’Europa», ricorda con ammirazione: «Il Cottolengo in Torino da me conosciuto».
La funzione di cappellano estivo di casa Savoia gli permise di conoscere la regina Maria Teresa, suo marito Carlo Alberto, i principi Vittorio Emanuele ii, futuro re d’Italia, e Ferdinando duca di Genova. Fu direttore spirituale di Silvio Pellico, reduce dallo Spilberg; segretario e bibliotecario della marchesa Giulia Colbert di Barolo. Nello stesso periodo incontrò Gaspare Boccardo, padre del beato Giovanni Maria e del canonico Luigi Boccardo.
Le conoscenze di medicina acquistate al Mauriziano gli permetteranno di preparare lui stesso il vaccino del vaiolo e di salvare molta gente. I contatti, poi, con la casa reale di Savoia risulteranno utili quando il re Menelik ii gli richiederà il servizio di segretario e intermediario con il re d’Italia.
Il 26 aprile 1846 Gregorio xvi istituì il Vicariato apostolico degli Oromo in Alta Etiopia, sancito con un breve del 4 maggio seguente; sei giorni dopo, con altri due brevi, affida il vicariato al Massaia, che, il 24 dello stesso mese, fu consacrato vescovo a Roma in San Carlo al Corso.
Lasciò l’Italia il 4 giugno 1846, intraprendendo un’avventura missionaria segnata da croci e sofferenze inaudite: 8 traversate del Mediterraneo, 12 del Mar Rosso, 4 pellegrinaggi in Terra Santa; 4 assalti all’impenetrabile fortezza abissina dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dal Sudan; 4 esili, altrettante prigionie e 18 rischi di morte costituirono il bilancio della sua leggendaria missione, che lo annovera fra i più grandi apostoli della chiesa.
Sbarcato a Massaua dopo quattro mesi di viaggio, il Massaia fu costretto a una sosta forzata nella prefettura dell’Abissinia, che comprendeva l’attuale Eritrea e il Nord Tigray. La strada verso l’interno era sbarrata dalle guerre tra il principe del Tigray, Ubié e il ras Aly, principe dell’Asmara. In una coice di fuoco e sangue, la notte del 7 gennaio 1849, a Massaua, il Massaia consacrò segretamente Giustino De Jacobis vescovo e vicario apostolico dell’Abissinia.
Poi fu incalzato dalla persecuzione del vescovo ortodosso Abuna Salama ii, che con sprezzo lo battezzò profeticamente «Abuna Messias». Con il pretesto che in Abissinia doveva esserci solo un vescovo cristiano, Salama scomunicò il Massaia e convinse Ubié a cacciarlo dall’Abissinia. Dopo lungo vagare per i litorali del Mar Rosso e del Golfo Arabico in cerca di un passaggio per entrare nella sua missione, il Massaia decise di affrontare di petto la situazione, presentandosi personalmente al principe Ubié. Lo racconta lui stesso in una lettera scritta da Gondar il 25 luglio 1849 e indirizzata a don Luigi Sturla, missionario apostolico a Aden.
TRAVESTITO DA MERCANTE
L’impresa poteva compromettere non solo la vita fisica del missionario, ma l’esistenza del vicariato dell’Abissinia. De Jacobis cercò di sconsigliarlo in tutti i modi, come racconta lo stesso Massaia: «Sono partito da Massaua alla volta di Gondar non senza forti ostacoli da parte di tutti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, presentandomi i pericoli della persecuzione non ancora finita. Monsignor De Jacobis credeva sicura la morte mia; e volendo far da profeta, disse che sarei andato al martirio».
Ma il Massaia aveva fatto i suoi calcoli: il «martirio», scriveva, è «cosa per altro impossibile, stante certe circostanze, ch’io solo coram Deo posso conoscere». Per evitare rischi alla missione di De Jacobis, prese tutte le precauzioni necessarie, partendo senza salutare nessuno e viaggiando sotto false spoglie. «Tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza».
Il rischio del viaggio era motivato dal fatto che il Massaia era stato esiliato da quei territori dal principe Ubié 18 mesi prima. D’altra parte sarebbe stato impossibile attraversare il suo territorio, che richiedeva 20 giorni di cammino, senza essere notato. Era indispensabile il suo permesso. Da qui la decisione di affrontare direttamente e di petto l’ostacolo. «Però io m’appigliai a un partito al tutto straordinario e fu presentarmi improvviso al re stesso in qualità di semplice viaggiatore e chiedergli la sua assistenza nel viaggio».
L’accoglienza fu fredda, come racconta il missionario: «Penetrai dunque in abito di meschino europeo, accompagnato dai miei servitori, nel territorio di Ubié; e vi fui accolto come usano colle persone ordinarie… Il cuore mi batteva più che mai, non per paura dei mali che potessi incontrare io, ma di tutti quelli che potevano cogliere alla nostra santa causa, di cui io era come in signum contradictionis».
Per avere un appuntamento con Ubié prese contatto con un suo parente. Fu sottoposto a mille domande; preso dallo scrupolo di non mentire, «cercai di tacere una parte del vero che più mi premeva». Per mettere «fine alla catena di tante interrogazioni molto pericolose per me» si appellò direttamente all’autorità superiore. «Se in me era qualche cosa di misterioso, l’avrei a voce o per iscritto svelato al solo Ubié».
Il travestimento da mercante si rivelò inefficace. Ma sapeva che Ubié non era contrario alla sua presenza e alla sua missione; ma a corte c’erano «molti nostri giurati nemici – continua nella sua lettera – Ubié disse all’uomo che più frequentavami e che gli aveva recata la mia ultima risposta: “Bada di non fiatare… Il meschino viaggiatore, che chiede udienza, è il celebre abuna Massaia, ch’io credeva già ritornato a Roma… Prima che vengano alla corte i grandi impiegati (era di mattino, poco dopo la levata del sole; ed io era giunto al campo la sera prima), corri a chiamarlo all’udienza”».
Il ritorno del messaggero, che non era riuscito a scoprire la vera identità del forestiero, lo rinfrancò alquanto, senza eliminare totalmente la tensione: «Dopo che ebbi preso da un servo il picciol regalo destinato al principe, c’incamminammo alla tenda reale; benché sapessi ogni cosa avere, per misericordia di Dio, cambiato aspetto, pure le mie gambe non volevano reggermi».
L’udienza fu cordiale e positiva. «Preso pertanto commiato, e tornato a casa, gli feci spiegare la mia assoluta volontà di partire; e dopo molte ambasciate, in una delle quali Ubié mi fece dire che aveva dato ordine per un’altra casa e un altro genere di trattamento per me, mi lasciò finalmente in libertà, pregandomi di compartire a lui e al suo regno la mia benedizione e assicurandomi che avrebbe prese tutte le precauzioni per fare sì che il mio viaggio fosse felice. Colla benedizione gli mandai i miei dovuti ringraziamenti».
«Mi fu data per scorta del viaggio una persona della casa di Ubié, a cui vennero fatte le più vive e gelose raccomandazioni e dati ordini più pressanti. L’amico volle accompagnarmi un’ora di strada; nel qual tempo mi disse molte cose intese da Ubié a riguardo mio e di monsignor De Jacobis, a cui portava un affezione incredibile».
In questa situazione difficile il Massaia annota: «Oh quanto differente dalla mia entrata nel campo del principe fu la uscita! Era il 20 giugno, giorno dedicato alla Vergine santissima della Consolata di Torino e giorno in cui ella volle porgermi l’ineffabile contentezza di fare il tanto sospirato viaggio alla mia missione e raggiungere i miei amati compagni».
La fede in Dio e la protezione della Vergine Consolata diedero al Massaia coraggio di sfidare l’impossibile. E conclude: «Ecco, caro amico, come terminò il mio esilio dall’Abissinia. Avrebbe durato ancora chi sa quanto, se non avessi preso ardimento di fare il passo, che feci oltre ogni previdenza. L’opera di Dio, eminentemente sublime, cammina per vie a prima vista impraticabili, ma piane, perché opera di Dio, il quale suole, nel tempo stesso, agir forte e disporre soavemente delle cose di quaggiù».
LA GRANDE EPOPEA
Dal Tigray passò nello Scioa, al di là del quale si estendeva il paese degli oromo. Ma un manipolo di sgherri lo catturò e, tra umiliazioni di ogni genere, lo portò davanti al ras Aly, che costrinse il missionario a recarsi in Francia per chiedere la protezione dei francesi per il suo regno contro la minaccia di aggressione da parte dell’Egitto.
Il 3 giugno 1850 il Massaia salpò da Aden per l’Europa. Compiuta la missione diplomatica, il 4 aprile dell’anno seguente era di nuovo in viaggio. Questa volta tentò di entrare nel suo vicariato risalendo il Nilo, in veste di mercante, bastone in mano, piedi scalzi e passaporto intestato a Giorgio Bartorelli.
Alla fine di avventure drammatiche e rocambolesche riuscì a guadare il Nilo azzurro e mettere piede nella terra degli oromo: era il 21 novembre del 1852, giorno della presentazione della Vergine Maria. Dimesse le vesti da mercante, indossò quella di monaco etiopico: finalmente tutti seppero che il dottor Bartorelli era l’Abuna Messias ricercato da 6 anni in tutta l’Etiopia.
Per 27 anni il Massaia lavorò indefessamente tra gli oromo (1852-63) e nello Scioa (1867-1879), salvo un breve periodo di esilio in Europa (1864-1866). Ad attività esclusivamente di avanguardia (formazione della gioventù e dei catechisti, costituzione del clero indigeno, compilazioni di catechismi in oromo e amarico), egli seppe unire iniziative altamente umanitarie, come: profilassi contro malattie endemiche, vaccinazioni contro il vaiolo, creazione della prima grammatica della lingua oromo, allora solo parlata, trascritta con caratteri latini, compilazione di manuali scolastici, creazione di centri assistenziali per le vittime di guerre e carestie, incremento e sviluppo dell’agricoltura, sostegno a varie spedizioni scientifiche; senza trascurare iniziative diplomatiche, tanto da essere nominato dal governo italiano «ministro plenipotenziario» nel trattato d’amicizia e commercio tra l’Italia e lo Scioa (1° marzo 1879).
Abuna Messias era diventato troppo famoso, tanto da scatenare l’invidia del clero copto, che forzarono l’imperatore Yohannes iv a esiliare definitivamente il missionario (3 ottobre 1879).
Tornato in Italia, con il suo inseparabile bastone, testimone delle sue epiche imprese, Leone xiii lo nominò cardinale (1884) e gli impose di scrivere le sue memorie. Fu la sua ultima fatica: morì il 6 agosto 1889, mentre stava completando I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia.
PASSAGGIO DEL TESTIMONE
Era ancora un ragazzo quando Giuseppe Allamano vide per la prima volta il Massaia, in visita all’Oratorio di don Bosco. Più tardi, quel vago ricordo si tradusse in ammirazione, diventata uno dei motivi che ispirarono l’Allamano a fondare i missionari della Consolata.
Nel dicembre 1887, a Roma, egli ebbe un lungo colloquio con il grande missionario. Quattro anni dopo in una lettera a Propaganda Fide, chiese per i suoi futuri missionari il territorio dell’Etiopia meridionale. Nei primi documenti il nome del Massaia non appare mai. Solo più tardi, a fondazione avvenuta, quando si tratta di stabilire i confini della costituenda Prefettura apostolica del Kaffa, da affidare ai missionari della Consolata, l’Allamano riafferma la volontà delle origini. «L’istituto della Consolata per le missioni estere – scrive in una lettera a Propaganda Fide nel 1912 – nell’intenzione del sottoscritto e dei più insigni benefattori, si propose, fin dal suo nascere, di ripigliare l’opera di evangelizzazione del compianto card. Massaia nel Kaffa, tra quelle stesse popolazioni oromo, ove fu più fruttuoso il suo mirabile apostolato».
Il sogno dell’Allamano, a causa degli intrighi politici di quella regione e inteazionali, cominciarono a realizzarsi solo nel 1916, quando padre Gaudenzio Barlassina, anche lui spacciandosi per mercante, riuscì a entrare in Etiopia.
Nel gennaio del 1919, a 40 anni dall’espulsione del Massaia, lo stesso Barlassina, in un viaggio nel territorio del Kaffa, ebbe la fortuna di incontrare presso Geren ultimo sacerdote indigeno ordinato dal Massaia, Abba Mattheos. «La sua abitazione era al centro di un gruppo di capanne abitate da famiglie cristiane – racconta padre Barlassina -. Aveva 87 anni. Da due anni, per la completa cecità non poteva celebrare la messa se non a pasqua, per comunicare i cristiani del suo villaggio… In due ore di conversazione con il vecchio sacerdote potei apprendere altre notizie sulla persecuzione mosse contro i sacerdoti e i fedeli dopo l’espulsione del Massaia, e sulla loro eroica resistenza: notizie che in seguito facilitarono la ricerca delle pecorelle abbandonate e disperse. Nel cuore della notte gli portai in segreto il viatico: fu l’ultima comunione del santo martire».
Per 24 anni i missionari della Consolata evangelizzarono la terra dissodata dal Massaia, fondando una quarantina di missioni, fino a quando, nel 1943, furono espulsi dall’Etiopia, occupata dagli inglesi.
ABUNA MESSIAS VIVE
I missionari della Consolata sono ritornati in Etiopia nel 1971. Anche se il territorio loro assegnato non è più quello in cui avevano continuato il lavoro del Massaia, il legame con il grande missionario è ancora forte. Nella missione di Minne e Waragu per esempio, dove ho lavorato fin dal 1985, ci sono varie famiglie discendenti dalle comunità formate dal Massaia.
Alcuni cristiani mi hanno raccontato le loro storie. «I nostri anziani – afferma Tadesse – raccontavano che i loro genitori erano originari di Ankober, una missione nello Scioa fondata da Abuna Messias. Ma quando questi fu espulso dall’imperatore Yohannes, il clero ortodosso cominciò a perseguitare i preti cattolici».
«Nella missione di Finfinni, dove poi Menelik fondò Addis Abeba – incalza Ghirma -, un prete rimase nascosto per qualche tempo, ma quando fu scoperto dovette fuggire. Lo stesso fecero altri preti. Fu allora che i nostri padri decisero di lasciare le loro proprietà e seguire i missionari. Alcuni raggiunsero Gibuti, altri si rifugiarono tra le montagne dell’Arsi. Le nostre famiglie seguirono padre Ambrosios e si stabilirono qui a Waragu».
Nelle loro memorie si intrecciano nomi di missioni distrutte e di luoghi di rifugio: Lume, Tedde Maryam, San Giorgio, Daka Bora, Lafto, Garafanissa, Alila… Grazie a tali racconti è stato possibile iniziare la ricerca dei cristiani rimasti per un secolo nelle «catacombe».
È il caso di Daka Bora, nella parrocchia di Modjo. Dopo attente ricerche si è riusciti a incontrare le poche famiglie cattoliche sopravvissute alla persecuzione e a localizzare il luogo dove sorgeva la missione di San Giorgio. L’arcivescovo di Addis Abeba, Abuna Brahane Jesus, si affrettò a comperare quel terreno e lo affidò ai missionari della Consolata, che hanno incominciato a costruirvi una piccola scuola e una cappella.
Lo stesso arcivescovo è la testimonianza più significativa che l’opera del Massaia è ancora viva: egli è originario di Lafto, discendente da una di quelle famiglie cristiane perseguitate nello Scioa e rifugiatesi a suo tempo nella regione di Waragu. •
Edoardo Rasera