10 ragioni per dire «Sì TAV» VS Il buon senso dice «No TAV»

DIECI RAGIONI PER DIRE SI’ TAV

Premetto che, se vorrete pubblicare quanto segue, vi chiedo di non mettere il mio indirizzo e-mail per evitare di ricevere messaggi «poco piacevoli».
Ho letto il servizio sui problemi della nuova linea ferroviaria in Valle di Susa nel numero della rivista di dicembre e mi permetto di inviarvi queste righe «controcorrente», in gran parte già pubblicate sul settimanale La Valsusa: nessuno ha trovato errori nei miei ragionamenti… Mi limito ad alcuni argomenti, lasciando volutamente da parte considerazioni a livello nazionale e internazionale. Sottolineo alcune affermazioni frequenti e faccio seguire le controdeduzioni.

1) La nuova linea servirebbe a spostare solo l’1% del traffico dalla strada alla rotaia.
Prevedere il futuro è sempre difficile; ma qui basta contare che attualmente sui treni dell’Afa viaggiano circa 50 camion al giorno e solo di alcuni tipi a sagoma piccola. Quindi già più di quanto è detto dalla previsione fasulla, ottima per impressionare, ma sbagliata. Se nessuno finora ha capito questo errore, come è possibile che vengano capite altre questioni molto più complesse?

2) Non c’è traffico passeggeri sufficiente.
Se i voli Torino-Parigi sono 5 al giorno e i Milano-Parigi almeno una dozzina, come la mettiamo? Proprio in questi giorni ho dovuto rinviare un appuntamento di lavoro in Francia, perché con una settimana di anticipo non ho trovato posto su 5 treni successivi. I trasporti aerei consumano molta più energia per passeggero di quelli ferroviari.

3) Lo studio Polinomia dimostra l’inutilità della linea.
Ma qualcuno l’ha letto fino in fondo? Ebbene, oltre a errori di tecnica ferroviaria, a pag. 165-167 c’è scritto che per potenziare la linea attuale, bisogna costruire un terzo se non un quarto binario in mezzo alla valle fino a Bussoleno! Questa parte dello studio, però, non si trova nella versione ridotta presente in molti siti internet.

4) Il tunnel sotto la Manica è un fallimento.
Qualcuno sa che dopo le opposizioni alla costruzione del tratto inglese della nuova linea, adesso la stanno completando fino a Londra? Hanno solo sprecato un bel po’ di anni e quindi di soldi.

5) Ci sono amianto e uranio.
A parte che basta la polvere delle pietre in genere, senza scomodare l’amianto, per fare danni e quindi per obbligare a usare gli opportuni accorgimenti, qualcuno calcola quanto gasolio viene bruciato dai camion attuali sull’autostrada con conseguente inquinamento? I consumi energetici con i Tir, a parità di peso trasportato, sul percorso Torino-Chambery, sono circa 4 volte quelli su treno, passando dal tunnel del Frejus, e più di 7 volte rispetto al nuovo tunnel da costruire. Lascio immaginare le proporzioni per i vari inquinamenti. E qualcuno pensa alla distruzione irreversibile del petrolio?
Ostacolare le trivellazioni ha una sola spiegazione razionale: si ha paura che venga dimostrato che non c’è nulla di pericoloso e quindi che l’ostilità è sbagliata, altrimenti si dovrebbe spingere per accelerarli.

6) Si può migliorare la linea attuale.
Certo che i treni possono arrivare al Frejus, ma con quali consumi energetici? Una linea che raggiunge la quota di 800m, anziché i quasi 1.300m del culmine nella galleria attuale, che riduce le pendenze massime a un terzo e la lunghezza Torino-Chambery da 200 km a meno di 170 km, permette risparmi energetici di più del 40%, che avrebbero effetti nei secoli futuri. Questo risparmio è paragonabile al consumo annuale di energia elettrica di 120 mila persone.

7) La montagna è radioattiva come Cheobil.
Non è corretto confrontare l’aria stagnante di un cunicolo dove si è accumulata da decenni, con l’aperta campagna attorno alla centrale ucraina. In quello scavo si rimarrebbe bloccati dai reumatismi ben prima di subire gli effetti di una qualche radioattività. Inoltre quando e come è stata fatta la taratura dello strumento?

8) La cifra necessaria è sproporzionata.
Lavori simili hanno dei vantaggi che durano per secoli: non si possono giustamente criticare i principi dell’economia attuale, che vuole dei benefici immediati, e poi usare gli stessi criteri quando può servire.

9) Per 15 anni ci saranno 500 camion al giorno in più.
A parte che si potrebbero usare sistemi quali funivie, che non aumenterebbero i motori diesel inquinanti in giro per le strade, questo aumento di camion produrrebbe un maggiore inquinamento pari solo a circa il 5% di quello già esistente, in quanto i percorsi sarebbero molto più limitati.

10) Il traffico sulla linea è diminuito.
È stato diminuito apposta per effettuare i lavori di ampliamento della «sagoma limite» nelle gallerie: per ciò la linea presenta lunghi tratti a binario unico e quindi non possono circolare tutti i convogli che viaggiavano prima!

Riassumendo, per chi non conosce la Valle di Susa, è come se fosse un villaggio attraversato da un canale di scarico che ammorba l’aria (principalmente l’autostrada con i gas di scarico dei camion ). Non volere la nuova linea è come opporsi ai lavori di copertura di questo canale e alla costruzione di un depuratore per non essere disturbati dai lavori che ovviamente creano temporaneamente dei disagi.
Se senza studiare a fondo il problema, si possono già riscontrare queste incongruenze, chissà cosa si potrebbe trovare approfondendo l’argomento. Su basi simili come si ha il coraggio di iniziare e portare avanti una protesta dalle conseguenze così gravi? Non mi stupisco che esistano idee simili, a scuola ne vedo anche di peggiori, ma che vengano usate come giustificazioni per creare la situazione attuale.

(lettera firmata)

IL BUON SENSO dice «NO Tav»

Sono un abbonato di M.C. e ricercatore del Centro nazionale delle ricerche (Cnr). Noto con piacere che avete di recente dedicato 2 articoli all’argomento Tav. In questi giorni, qui al Cnr di Bologna, ho avuto una discussione con un paio di colleghi. A uno di essi ho inviato il messaggio, che sottopongo alla vostra attenzione.
«Sarà per il fatto che sto attraversando una fase di rigetto per la politica (partitica), tuttavia provo immensa simpatia per i 10 mila montanari che non bevono la verità ufficiale e vanno a mani nude (gli agitatori vengono da altrove) a difendere le loro montagne, contro un’opera che nessuno ha mai voluto spiegare loro fino in fondo, dovendo probabilmente nascondere qualcosa. E veniamo al punto.
Non credo nello sviluppo infinito, per il semplice motivo che rispetto il 2° Principio della termodinamica, come ho scritto a più riprese nel mio libro (Energia oggi e domani, Bononia University Press, Bologna 2004, ndr). Personalmente credo sia inutile fare un treno che sfreccerà (fra 15 anni!) a 300 km/h, sotto un tunnel di 50 chilometri, trasportando non si sa quali merci.
Il futuro del manifatturiero italiano è a dir poco incerto: vai a fare un giro per le nostre zone industriali. La situazione si è deteriorata negli ultimi 2-3 anni: le fabbriche chiudono o delocalizzano. L’agricoltura è in ginocchio. Credo quindi sia del tutto legittimo domandarsi: quali merci trasporterà questa ferrovia, in un’Europa che fabbrica sempre meno beni materiali? Porsi delle domande è una delle attività più importanti per un ricercatore.
Le infrastrutture che fanno funzionare un paese sono quelle «normali», che migliorano la qualità della vita della maggioranza delle persone. L’Alta velocità la prenderò io, perché mi pagano per viaggiare. Non la prenderà la famigliola Fumagalli per andare in gita in Francia, perché costerebbe una fortuna.
Le «grandi opere» sono spesso un fiasco, hanno un grande valore simbolico, arricchiscono poche persone. Gli esempi non mancano, primo fra tutti quello del tunnel sotto la Manica, che ha mandato in rovina centinaia di investitori.
Se questi «corridoi Tav», che corrono dal Portogallo agli Urali (ma chi è quel pazzo che andrà da Lisbona a Kiev in treno?) li vuole l’Europa, per me non cambia nulla. Ha senso farli, se migliorano la rete dei trasporti e la qualità della vita dei cittadini europei. Se per fare una tratta di 400 km ci metto 25 anni, allora non la voglio anche se me lo dice Bruxelles.
La Tav ha senso nelle pianure germaniche e nella vuota e pianeggiante Francia. Nella montagnosa Italia è ridicola. Facciamo dei treni normali che viaggiano puntuali a 150 km/h. Basta e avanza. Io già non sono mai entusiasta di buttarmi sotto la galleria dell’Appennino o del Sempione a 130 km/h. Non so che sensazione proverò nel lanciarmi a 280 km/h tra Bologna e Firenze, in galleria al 70%. E ti assicuro che non sono per niente un fifone.
Però mi chiedo: il giorno che capita un incidente serio, che ne sarà di quest’opera? Andiamo in Svizzera e vediamo come diavolo fanno a far funzionare i treni normali, tra le montagne, da 100 anni. Capiremo perché i treni sono pieni e le autostrade molto meno trafficate che da noi. Quando attraverso la Svizzera in treno e vedo tutto questo mi dico sempre: ma allora si può fare!

Abbiamo la pancia piena e la casa calda: cerchiamo di migliorare la qualità della nostra vita e non la «quantità». Per andare da Milano a Lione ci metterò 45 minuti in meno, con la Tav. Ma cosa me ne faccio se: (a) milioni di persone usano tutti i giorni treni pendolari sporchi e in ritardo, arrivando sul posto di lavoro già mezzi incarogniti; (b) ho un servizio postale da terzo mondo; (c) un’organizzazione della città e un sistema di trasporti fatti apposta per prendere l’auto anche per andare in bagno? Dove hanno studiato gli architetti degli ultimi 50 anni?
Eppure nessuno promette di migliorare queste infrastrutture chiave. Del resto, quale campagna elettorale «di immagine» potrebbero costruirci sopra? Meglio promettere un mucchio di sciocchezze, anche perché gli italiani hanno la memoria corta e dopo 5 anni si ricordano il giusto.
Tu dicevi: fra 20 anni i treni dovranno andare a 300 km/h. Ma chi l’ha detto, dove sta scritto? Allora fra 40 anni dovranno andare a 500 km/h? Ma per andare dove? Ma chi lo dice che questo è un progresso? Perché non cominciamo a chiederci seriamente dove vogliamo arrivare e a che prezzo, non solo economico, con la nostra civiltà?

Non mi dilungo ulteriormente. Capisco le persone di 60-70 anni, che hanno vissuto l’epoca più straordinaria di cambiamenti mai vista nella storia e fanno fatica a capire che potremmo (dovremmo) fermarci a riflettere. Per chi oggi ha 20, 30 o 40 anni, però, la storia non potrà essere la stessa.
Non abbiamo l’insensata presunzione che la nostra attuale civiltà durerà per sempre. Rassegnamoci: terminerà come tutte le altre che l’hanno preceduta.
Facciamocene una ragione: così non si può andare avanti per sempre. Se ci pensiamo è a tutti gli effetti un’ovvietà: un’ovvietà dettata dalle leggi della fisica, della chimica, e anche dal normale buonsenso.
Un’economia stazionaria o in lenta decrescita sarà una liberazione e non una iattura. Capisco che non è molto «trendy» dire queste cose, ma lo faccio a viso aperto nelle conferenze e nei dibattiti pubblici. Ci credo profondamente, quindi continuerò a farlo. Sapendo di accendere discussioni al fulmicotone, come l’altra sera».

Nicola Armaroli, Minerbio (Bo)

Lettera firmata VS Nicola Armaroli




Bolivia. Evo, il presidente aymara

Su Evo Morales Ayma, il primo presidente realmente indio delle Americhe, pesano molte aspettative, in patria e all’estero. Dovrà affrontare temi spinosi come la gestione delle ingenti risorse di gas, la produzione di foglie di coca, la ricerca di uno sbocco al mare, i difficili rapporti con Washington. Con Evo Morales abbiamo parlato in un incontro avvenuto prima della sua netta vittoria alle elezioni del 18 dicembre 2005. Questo è il resoconto di quella conversazione.

La Paz. L’ufficio del Mas, all’interno del palazzo del Congresso, è pieno di manifesti popolari. Nessun mobile di pregio, nessun orpello, nessuna segretaria giovane ed attraente. Insomma, non ha nulla di un ufficio di rappresentanza. Santos Ramirez Valverde mi riceve per un’intervista su tematiche economiche. Al termine, quasi pro forma, domando se è possibile incontrare Evo Morales. «Non è a La Paz, ma domani dovrebbe esserci – mi risponde -. Vediamo se possiamo prendere un appuntamento». Fa una telefonata. «Allora, è per domani mattina, alle 8.30». Un colpo di fortuna, penso. Ma sarà vero?
Francisco Ibar Arocha, proprietario del Sagaaga, l’albergo dove alloggio, è un imprenditore e in quanto tale mi guarda con faccia interdetta quando gli dico che incontrerò Evo Morales. Poi però mi suggerisce una serie di domande… Il giorno seguente, di buon mattino, mi presento all’appuntamento nel palazzo del Congresso. E puntualmente mi fanno entrare nell’ufficio di Evo Morales. L’iconografia del personaggio è come uno si attende: volto indio, capelli nero corvino, vestiti popolari.

La Bolivia è un paese a netta maggioranza indigena. E lei non perde occasione per ricordare la sua appartenenza india…
«Perché non dovrei? Io sono di stirpe aymara. Sono nato nel 1959, a Orinoca, nel dipartimento di Oruro. Poi sono emigrato con la mia famiglia nella regione del Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio degli anni Ottanta sono entrato nel sindacato del Tropico, dove sono arrivato a coprire la carica di segretario generale.
Nel 1998 ho assunto la presidenza del Mas, il Movimiento al socialismo. Insomma, io provengo dalle lotte sociali e non ho una formazione accademica».

Il Mas è cresciuto come movimento di protesta dei produttori di foglie di coca. Non le pare un po’ limitato?
«Non è così. Il Mas è un partito politico che è nato e affonda le sue radici nei movimenti sociali.
Nel 1992, il movimento contadino, durante il suo congresso, decise di dotarsi di uno strumento politico per arrivare alla liberazione e alla sovranità delle popolazioni. Proprio in quell’anno cadevano i 500 anni dall’inizio della resistenza indigena e popolare. Il Mas era lo strumento giusto per passare dalla resistenza alla presa del potere, dalla protesta alla proposta.
Nel 2002 il Mas era la seconda forza politica del paese, oggi è diventata la prima. Assieme ai movimenti sociali e ai movimenti intellettuali, il Mas vuole essere uno strumento politico per cercare di cambiare il sistema economico e politico».

Il sistema è quello neoliberista. Qual è l’analisi del suo movimento?
«Abbiamo sperimentato il neoliberismo non soltanto all’interno della Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina. Da tempo siamo giunti alla conclusione che esso non soltanto non è la soluzione, ma anzi è la causa delle crisi economiche e dell’instabilità dei governi. L’Argentina era il paese simbolo di questo sistema economico e sappiamo tutti che fine ha fatto. Anche il Cile, altro paese additato a modello, oggi è attraversato da ondate di protesta».

La Bolivia è un paese con enormi ricchezze minerarie, di gas in particolare. Eppure, dopo Haiti, è il paese più povero dell’America Latina…
«Le risponderò con una frase che ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel: “Sulla nostra ricchezza ci siamo impoveriti”.
Il modello economico del sistema capitalista purtroppo è fondato innanzitutto sul saccheggio delle nostre ricchezze e delle nostre risorse ad opera delle transnazionali, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Pare assurdo, ma la stessa ricchezza ha generato la povertà».

Se questo è il problema principale, come pensate di risolverlo?
«Ponendo fine al saccheggio, attraverso il recupero della proprietà del suolo e del sottosuolo. Questa è la richiesta di tutti i movimenti sociali boliviani.
Ma lo sa che la Bolivia fu il primo paese latinoamericano a nazionalizzare? Oggi i benefici sono tutti per le imprese transnazionali e non per le popolazioni della Bolivia».

Dunque, è lo stato che deve gestire le risorse della Bolivia?
«Lo stato con la partecipazione del popolo».

Lei insiste molto sul saccheggio messo in atto dalle imprese transnazionali. Ma la Bolivia può fare a meno di esse?
«Certamente ci sarà la necessità di tecnologia, esperienza, macchinari e per questo avremo bisogno di collaborare con altri paesi. Ma il saccheggio delle risorse del popolo boliviano deve terminare! Un saccheggio, tra l’altro, legittimato dalla nostra legge di capitalizzazione».

Quella che in Bolivia si chiama «capitalizzazione» è una sorta di «privatizzazione»?
«Sì, la legge di capitalizzazione è un sinonimo di privatizzazione. Noi la contestiamo perché non ha favorito l’importazione di capitali ma l’esportazione, con la conseguenza (paradossale) che invece di capitalizzare il paese lo si è decapitalizzato. In questo modo invece di progredire si è prodotta ancora più povertà e disoccupazione. C’è anche una transnazionale del suo paese, la Telecom Italia, proprietaria di Entel. L’azienda italiana ha fatto milioni di dollari di profitti in questi ultimi anni».

Dalla guerra del Pacifico del 1879, la Bolivia è priva di un accesso al mare. È una questione rilevante per il paese?
«Certamente! La Bolivia è stata fondata con un accesso al mare. Il problema è strettamente connesso con la questione del gas. Infatti, il movimento indigeno ha preso posizione sul tema del gas e lo ha fatto in connessione con il problema dell’accesso al mare. Adesso che la questione non è più soltanto a livello nazionale ma è diventata internazionale, si è aperto uno spiraglio affinché la Bolivia torni ad avere un accesso al mare.
Vogliamo evitare di creare conflitti regionali, ma allo stesso tempo non vogliamo restare condizionati da una situazione che è stata creata da un conflitto e che resta tuttora pendente. Siamo contenti dell’interessamento della comunità internazionale perché questo è un problema multilaterale».

La sua opinione su Gonzalo Sánchez de Lozada detto Goni e su Carlos Mesa.
«Goni era un imprenditore neoliberista. Il popolo si è sollevato contro di lui, ma non è riuscito a finirla con il modello economico che egli rappresentava. Oltre a ciò è un fascista e un razzista. Adesso è scappato a Miami, sicuramente portando con sé molto denaro, frutto della corruzione e dei saccheggi. Nel caso di Mesa pensavo che almeno sarebbe stato un riformista neoliberale, ma invece ci siamo trovati con un continuismo d’impresa. Il presidente ha continuato a dialogare con le imprese transnazionali senza ascoltare i movimenti sociali. Quindi Mesa non ha capito il sentimento e le intenzioni del popolo boliviano, questa è la realtà».

Insomma, a suo parere, uno vale l’altro?
«Mesa parla meglio lo spagnolo di Goni, ma purtroppo suonano la stessa musica sulle tematiche politiche».

Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Sud America come il loro «cortile di casa». Come giudica quel paese o meglio la sua politica?
«Pensiamo a come gli Stati Uniti hanno disegnato l’intervento in Iraq: hanno detto che là c’era Saddam dotato di armi di distruzione di massa, che però non esistevano. In tal modo hanno giustificato un intervento militare per accaparrarsi delle risorse e in particolare gli idrocarburi per le loro imprese. La scusa di Washington per l’America Latina è il narcoterrorismo, ovvero una giustificazione politica per permettere alle transnazionali di quel paese di sfruttare le risorse. Insomma, in Iraq hanno usato un pretesto, in America Latina ne usano un altro.
Siamo in questa congiuntura politica: quando la democrazia non serve all’impero, si fanno colpi di stato. Basti pensare a questa cospirazione permanente contro il Venezuela. Per questo noi vogliamo aiutare e appoggiare concretamente il presidente Hugo Chávez e la democrazia in Venezuela, che fra l’altro ha appoggiato la nostra richiesta di avere un accesso al mare».
In Italia, i media, soprattutto quelli importanti, l’hanno descritta quasi esclusivamente come leader dei cocaleros. Può spiegare i termini della questione coca?
«Innanzitutto occorre dire che la foglia di coca, allo stato naturale, non fa nessun danno alla salute umana. Ci sono, ad esempio, molte imprese che fanno un uso industriale della foglia di coca per ottenere per esempio una specie di whisky o altri prodotti destinati al mercato europeo o degli Stati Uniti. Anche secondo gli studi dell’Oms, la foglia di coca allo stato naturale non è dannosa. Quindi, non possiamo dire che i produttori di foglie di coca siano narcotrafficanti, né che i consumatori di esse siano tossicodipendenti, anche se questa è la visione che hanno alcuni paesi.
In Chapare ci sono circa 60 mila famiglie che vivono della produzione di foglie di coca, un prodotto che finisce sul mercato interno, locale e nazionale».

D’accordo, ma Washington la accusa di essere un narcotrafficante…
Tanto che, nel 2002, l’ambasciatore Usa in Bolivia, Manuel Rocha, fece campagna elettorale contro di lei…
«Noi diciamo che si deve affrontare il problema del mercato illegale della foglia di coca per la produzione della cocaina. Noi non siamo difensori del narcotraffico. Anzi, il narcotraffico ci è stato imposto. I precursori, ovvero gli agenti chimici necessari per trasformare in droga le foglie di coca, provengono dagli Stati Uniti; senza dire che, per trattare chimicamente le foglie di coca, sono necessari investimenti di parecchi milioni di dollari; infine, c’è il segreto bancario che ostacola tutto. Insomma, c’è un narcotraffico in doppiopetto, che non viene mai messo in galera e coinvolti in questo business ci sono persino stati e governi. O ambasciate di paesi stranieri in Bolivia… Io dico che, purtroppo, la coca non è altro che un pretesto affinché gli Stati Uniti possano controllare meglio il nostro paese».

Lei ritiene che la lotta alle coltivazioni dei cocaleros sia una scusa dietro cui si celano altri obiettivi?
«Certamente questo è un modo per criminalizzarci. Guardiamo alla storia. I movimenti sociali degli anni ’50 e ’60 erano accusati di furto e di essere comunisti; negli anni ’80 e ’90 siamo stati accusati (io ero già sul campo) di essere narcotrafficanti; a partire dall’11 settembre del 2001, non ci hanno più accusato di essere narcotrafficanti, ma di essere terroristi. Tutto questo ovviamente serve per demonizzare ed isolare questo movimento. In sostanza, se tu sei antimperialista, ti accusano sistematicamente di essere comunista, terrorista, narcotrafficante.
Si pensi al Cile dove, nella zona di Temuco, la regione dei mapuches, vari dirigenti indigeni sono stati incarcerati. Erano alla guida di grandi proteste, legali dal punto di vista costituzionale. Per poterli fermare e chiudere in carcere, hanno dovuto dire che erano terroristi. Queste accuse vengono costruite per reprimere le lotte dei movimenti. Anche il Mas è spesso esposto al rischio di vedere i propri dirigenti oggetto di montature per fini politici.
Personalmente, sono oramai abituato a essere accusato di tutto. In passato, i servizi di intelligence degli Stati Uniti mi hanno accusato di essere vincolato con le Farc della Colombia, adesso dicono che sono alle dipendenze di Chávez».

Nonostante i problemi, lei è ottimista sulla possibilità di cambiare la Bolivia senza violenza, senza guerra civile, attraverso mediazioni pacifiche?
«Da quando abbiamo scelto di entrare nel processo elettorale, abbiamo innanzitutto deciso di cercare di ottenere modifiche profonde ma sempre attraverso strumenti pacifici. Non ci sono soltanto le questioni delle risorse del sottosuolo o delle foglie di coca, ci poniamo anche il problema di come incorporare in questa democrazia formale la democrazia delle comunità. Per esempio, in tema della giustizia attualmente si riconosce solo la giustizia politica e non si prende in considerazione la giustizia comunitaria. Ma ci sono molti altri temi: l’istruzione, le forze armate, che tipo di economia adottare. E ancora come fare una nuova assemblea costituente che permetta di ammodeare la Bolivia che, nelle linee generali, è stata definita all’atto della sua fondazione. Da quel momento però gli indigeni sono stati esclusi dal processo di formazione del paese. Eppure, secondo l’ultimo censimento del 2001, essi costituiscono il 62% della popolazione totale. Oramai non mancano più studenti o imprenditori di etnia quechua, aymara o guaranì, ma a volte, di fronte ai censimenti, le persone mentono sulla loro appartenenza etnica. Quindi, 62% è il valore ufficiale ma in realtà la percentuale di popolazione indigena è superiore.
Da questo momento dovremo procedere a un profondo rinnovamento della Bolivia e questa trasformazione dovrà essere democratica e pacifica».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




C’era una volta… il regno di SABA

Passato in pochi anni dal medioevo alla modeizzazione, grazie anche alla scoperta del petrolio, nello Yemen permangono gravi problemi di arretratezza sociale ed economica, che provocano ribellioni e insicurezza. Nonostante
i frequenti sequestri di stranieri, la sua storia millenaria e le stupefacenti architetture continuano ad attrarre masse di turisti. Solo l’isola di Socotra, meravigliosa oasi naturale, sembra, essere risparmiata, per ora, dal turismo selvaggio.

Quando lo visitai per la prima volta, 15 anni fa, lo Yemen era da poco uscito dal medioevo. Era emozionante scoprire l’incanto di antichi villaggi, dei mercati, di gente fieramente legata alle tradizioni.
Oggi, si atterra in un moderno aeroporto e si incontrano subito tecnici americani che lavorano per conto di multinazionali del petrolio; in un’ampia superstrada si attraversa la vera città di Sana’a, modea e piena di attività, mentre la parte storica della capitale sta diventando un museo, al pari di Venezia. Una specie di trincea permette alle auto di attraversare la città antica e raggiungere i vari quartieri, in gran parte restaurati.

Il nostro albergo è stato ricavato da una di quelle case torri, fatte di pietra ai piani bassi, con elaborati fregi in gesso e finestre a lunetta, con vetri colorati e alabastro. Il cortile dove si cena è in comunicazione con un vasto appezzamento di terreno, che ora appare trascurato. Al tempo della mia prima visita, ricordo gli orti ben coltivati e le pecore che la mattina uscivano dai piani bassi delle case del centro.
La sera salgo sulla terrazza per godere del tramonto e mi rendo conto dei cambiamenti avvenuti: molti edifici nuovi e tante paraboliche su terrazze e tetti. Nonostante tali mutamenti, la medina (così è chiamato il centro storico) appare intatta, il souk (mercato) è affollato di uomini col pugnale alla cintola e donne velate di nero. Un tempo le abitanti di Sana’a usavano mantelle colorate e un velo nero e rosso che copriva totalmente il viso.
È cambiato anche l’ antico villaggio di Bayt Bows, che risale al tempo della regina di Saba, almeno 3.000 a.C. Oggi vi resta solo una famiglia, anche se il governo ha fatto portare l’acqua e ha costruito una scuola, ai piedi della collina. Dall’alto dell’abitato si può constatare quanto la capitale si sia dilatata nelle periferie, tra cui spicca una grande moschea in costruzione, voluta e finanziata dai paesi del Golfo.
Nello Yemen non si può generalmente entrare nelle moschee. Ve ne sono di bellissime, antiche e ben armonizzate nei centri abitati o nelle campagne. Questo edificio, moderno e gigantesco, mi pare una pesante stonatura, in un paese che persino nelle periferie ha voluto mantenere lo stile della tradizione nelle forme delle finestre, nei serramenti e nel rivestimento in pietra delle pareti delle case.
NEL REGNO DI SABA
Due giorni di viaggio attraverso il deserto, con peottamento a Mareb, dove vi fioriva il mitico regno di Saba, e raggiungo il Wadi Hadramaut, la regione dove è stato trovato il petrolio ed è diventata teatro di rapimenti di stranieri.
Una comoda strada asfaltata, costruita proprio per lo sfruttamento petrolifero, consente ora di arrivare a Say’un in poche ore. Ne approfittiamo per un tratto, per poi inoltrarci nel mare di sabbia, scortati dalla guida beduina, e scoprire città carovaniere, dove gli archeologi hanno trovato antichi templi dedicati al culto del sole e della luna. La vista della città di Shibam, mi emoziona come la prima volta, per la bellezza del paesaggio e delle architetture di fango crudo.
Nell’aprile del ’94 mi trovavo a Sana’a quando scoppiò la breve guerra civile tra il nord e il sud, appena unificati. «Prendi l’aereo per Say’un – mi avevano detto gli amici yemeniti -, laggiù sarai tranquilla, la gente è pacifica e non ci sono problemi». Mi ero sistemata in un albergo ricavato da vecchi prefabbricati russi. Ero l’unica ospite, insieme a uno studioso di rettili tedesco. Tutte le sere spesse nubi si addensavano sul ciglione roccioso, per poi scaricarsi in una pioggia fitta, preziosa per le intense coltivazioni del Wadi, che consentono la vita di oltre 200 mila persone. La sera la passavo in compagnia delle famiglie dei custodi, eritrei cristiani, che mi offrivano la cerimonia del caffè.
Oggi scendo in uno degli alberghi appena costruiti e vi trovo uomini d’affari giordani, cinesi e coreani. Seyun ha strade ampie e asfaltate, scuole, campi sportivi e molte costruzioni nuove e belle, che non deturpano l’armonia del paesaggio.
La gente invece è ferma nel tempo, specialmente le donne, velate di nero, con i tipici altissimi cappelli di paglia. Gli uomini sono occupati in antichi mestieri, come la fabbricazione di mattoni di fango, lavorato con mani e piedi e seccati al sole, la produzione della calce, ricavata dalle rocce.
Nei precedenti viaggi non avevo mai visto mendicanti. L’obolo era obbligatorio per lebbrosi e handicappati, fermi sul ciglio della strada. Perché ora, nei mercati, incontro donne velate col bimbo in braccio che premono insistenti per l’elemosina? Forse si è rotta un’armonia sociale, che manteneva la dignità delle persone.
Il paese di Bin Laden
«Bin Laden saudi group» dice il cartello dell’impresa che sta terminando la strada che collega Wadi Doan alla costa dell’Oceano Indiano, attraverso aride e scoscese montagne. I Bin Laden sono una grande famiglia di imprenditori, le cui splendide case dipinte si possono ammirare percorrendo le valli scavate dal Wadi Doan e dai suoi numerosi affluenti.
Il fondo valle è una lunga oasi ricca di verde e punteggiata da villaggi dorati. «La gente qui è molto benestante» spiega Mahdi, la guida che ci ha accompagnato da Sana’a.
Mahdi parla perfettamente l’italiano, avendo studiato in Somalia presso le suore della Consolata. I genitori erano emigrati, come molti yemeniti, per migliorare la propria condizione. Da anni ormai sono stati costretti a ritornare in patria a causa delle guerre. Con quattro figlie e due ragazzi da mantenere agli studi, l’affitto di una modesta casa di periferia da pagare, per Mahdi è importante lavorare nel turismo, dove si guadagna bene, ma si è soggetti a brusche interruzioni, a causa dei ricorrenti sequestri. Gli italiani sono tra i più assidui visitatori del paese, insieme ai tedeschi francesi e spagnoli.
Anche in questa parte del paese molte cose sono cambiate, rispetto al passato: non ho più notato, specialmente in città, uomini che, nell’ora della preghiera, si fermano, si radunano, anche nei cantieri, per pregare. Mahdi e gli autisti fanno eccezione: per tutto il viaggio sostano in preghiera cinque volte al giorno.
SOCOTRA
Da Mukalla, antico porto sul Mare Arabico, raggiungiamo in aereo Socotra, isola situata non lontano dalla Somalia, rimasta isolata nei secoli e miracolosamente intatta nella sua biodiversità. Qui si trovano specie di animali e vegetali uniche al mondo; per questo è in corso un progetto di collaborazione tra il governo yemenita e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite per proteggere l’isola dall’aggressione di un turismo e sviluppo poco rispettoso.
Gli italiani sono i principali finanziatori di tale progetto e alcuni nostri connazionali stanno lavorando nel centro Saving Socotra, cornordinati da Ismael Mohammed. Algerino, sposato con una toscana di Castiglioncello, mi invita a fermarmi per collaborare con loro. Bisogna insegnare l’inglese (e magari anche l’italiano) ai giovani socotrini che si stanno formando come guide ecologiche per accompagnare i visitatori.
Fino a due anni fa non c’erano strade, ma piste durissime, percorribili con difficoltà. Ora si stanno costruendo le prime strade e i turisti cominciano ad arrivare, incuriositi dalla storia e dalla natura particolare di un luogo che ha conservato miracolosamente l’habitat primitivo.
Gli abitanti dell’isola si sono dati da sempre le regole per salvaguardare l’ambiente, dal quale dipende la loro sopravvivenza. Il consiglio degli anziani del villaggio decide se e quando si possono tagliare gli alberi, quando è possibile effettuare la pesca e dove devono gettare le reti. Le condizioni di vita degli abitanti sono molto povere, per cui accettano volentieri gli aiuti che tengano anche presente la salvaguardia dell’ambiente.
I rari villaggi hanno basse case di pietra col tetto piatto; alcuni hanno una scuola nuova, frequentata anche dalle bambine. I 60 mila abitanti sono per lo più dediti alla pastorizia e alla pesca, mentre le coltivazioni sono in pratica impossibili, a causa del vento impietoso. Piccoli giardini circondati da muri di pietra consentono di avere palme da datteri e banane; tutto il resto viene importato.
Per le donne è nata una cornoperativa per promuovere l’artigianato della ceramica e tessitura. Vasi molto originali nelle forme, decorati col succo della pianta del drago (dracarnena) e stuoie tessute a mano con lana di pecora bianca e grigia vengono venduti nel negozio del centro di Hadibu.
Tra i primi 10 paradisi botanici al mondo, l’arcipelago di Socotra, che comprende altre tre isolette, è stato definito le Galapagos dell’Oceano Indiano. Alcuni torrenti scendono dai monti sempre avvolti da nuvole, formando pozze di acqua limpida. Le spiagge sono intatte, coperte di corallo e conchiglie che ancora nessuno ha raccolto. Numerose sono le colonie di uccelli marini nelle aree di riproduzione protette. La varietà di coralli e pesci comprende tutti quelli del mar Rosso e molti degli oceani.
Mezzaluna ROSSA
L’appuntamento è alle 5,30 del mattino, sull’unica strada che taglia a metà l’abitato del villaggio. Mi unisco a un gruppo di medici yemeniti per raggiungere la spiaggia e fare il bagno all’alba.
Saleh è nato e cresciuto in un villaggio presso Aden, nello Yemen più laico e socialista, dove le donne giravano senza velo e dove risiedono ancora i suoi genitori. Gli studi li ha fatti a Leningrado e a Kiev, dove conobbe la moglie Irina. Ora abita e lavora a Abu Dhabi, presso due cliniche private, perché Irina, che è medico e ha una casa anche a Kiev, non vuole vivere nello Yemen. «Le mogli russe sono di supporto al marito. Sono forti e ben educate» mi dice convinto, mostrandomi le foto della famiglia.
Con 4 mila dollari al mese, auto e casa pagate, Saleh può permettersi di mandare a scuola privata le due figlie, di cui è molto orgoglioso. Degli anni vissuti in Russia Saleh ricorda con gratitudine la possibilità avuta di avvicinarsi alla vasta cultura del paese. Teatro, musica, letteratura lo hanno affascinato e segnato.
Mohammed, invece, ha studiato a Praga; è otorinolaringoiatra, ma meno loquace. L’esperienza interculturale che hanno fatto questi yemeniti è stata eccezionale. Rispetto ai connazionali, hanno la mente aperta e concordano sul fatto che la religione nel loro paese non ha un ruolo positivo.
Erano ragazzi diciottenni quando furono mandati a studiare in Unione Sovietica. Alcuni anni li passarono a studiare il russo, ucraino, ceco. Poi il latino, avendo scelto la facoltà di medicina. Dopo 14-15 anni di studi, il ritorno a casa, in uno Yemen appena uscito dal medioevo. Anche il direttore del piccolo ospedale di Socotra ha studiato in Unione Sovietica.
Tawfik è il più anziano del gruppo e invece di farsi una nuotata va alla ricerca di carcasse e spine di pesci, intatte e molto belle. Ha studiato in Pakistan e Sudan, a Khartoum; poi è ritornato a Sana’a, la sua città, dove ha lo studio ed è assistente di oculistica all’università.
Nel gruppo c’è anche una donna del Qatar, molto riservata, medico oculista. Ha il velo sul capo, veste di nero, ma il viso è scoperto; vi è pure un ingegnere di Abu Dabi che sta progettando il nuovo ospedale.
Dopo colazione, i medici raggiungono l’ospedale per operare, aiutati da infermieri, tutti della Mezzaluna rossa, mentre io vado alla scoperta dell’isola. Ci rivediamo a cena, nella trattoria di Hadibu, con gli ospiti dei due alberghi del luogo: qualche spagnolo, un gruppo di italiani e una signora di New York, accompagnata da due guide.
L’ultima sera prima della partenza, al ritorno da una lunga gita, siamo testimoni di un grave incidente. Un pick up carico di tifosi della locale squadra di calcio si è rovesciato, causando 17 feriti, che subito trasportiamo in ospedale. Due sono molto gravi e verranno portati a Sana’a la mattina dopo, su un aereo militare. La presenza della delegazione della Mezzaluna rossa è provvidenziale, i nostri amici medici passeranno la notte in ospedale a operare.

Claudia Caramanti




L’uomo protegga il pianeta

Il 20% della popolazione del Nord del mondo consuma l’86% delle risorse mondiali. Questo squilibrio non è una novità: non è la prima volta che viene sottolineato. Ma il legame fra uomo e ambiente, fra sfruttamento delle risorse e degrado degli ecosistemi naturali è oggetto di uno degli obiettivi del millennio, che getta un ponte fra la consapevolezza della situazione e l’assoluta necessità di passare all’azione.
I paesi ricchi hanno una bella responsabilità sulle spalle. Ai numeri appena citati si può aggiungere che il Nord del mondo è responsabile della produzione del 95% dei rifiuti tossici, nonché del 65% dei gas che contribuiscono all’effetto serra e all’aumento della temperatura della terra: un italiano, per fare un esempio, produce in media 455 chili di rifiuti ogni anno. Cambiare il corso delle cose, prima di tutto, richiede all’umanità intera la conoscenza del danno che sta arrecando all’ambiente, e quindi al suo stesso presente e futuro.

Regno vegetale e animale
Una prima meta è quindi far sì che ogni paese integri nella propria politica programmi di tutela dell’ambiente e di sfruttamento equilibrato delle risorse naturali che il pianeta offre. Basti pensare che, nel campo della pesca, il 70% delle riserve è sfruttato completamente o ipersfruttato, o ancora che il degrado del suolo coinvolge quasi 2 miliardi di ettari di terra, con ripercussioni sulla vita di un miliardo di persone.
Ancora, la superficie terrestre ricoperta da foreste sta riducendosi sempre più, nonostante gli alberi contribuiscano al sostentamento di 1,2 miliardi di soggetti che vivono in miseria e al 90% della biodiversità terrestre.
Se la perdita di parte del patrimonio in foreste appare inevitabile per lo sviluppo economico, vi è spesso una loro distruzione ingiustificata dal punto di vista sia economico sia ambientale. Ne è un esempio la denuncia di novembre 2005 di Global Witness, organizzazione ambientalista, su quanto accade in Myanmar: nello stato birmano del Kachin, al confine con la Cina, migliaia di operai stanno distruggendo una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo; ogni 7 minuti 15 tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra Myanmar e Cina, quantità cui si aggiunge quella che passa la frontiera legalmente.
In altri casi, accanto al taglio indiscriminato degli alberi, si aggiunge la capacità distruttiva del fuoco, come nello stato amazzonico dell’Acre (Brasile), dove gli incendi hanno imperversato per settimane nell’autunno del 2005.
Benché le foreste rappresentino una delle maggiori ricchezze dell’ecosistema, sono bastati 10 anni (fra il 1990 e il 2000), perché la superficie da loro ricoperta venisse ridotta di 940 mila chilometri quadrati, un’area grande quanto il Venezuela. Il motivo? La conversione del territorio boschivo in terreno agricolo o destinato ad altri usi.
Vi sono tuttavia alcuni segnali positivi: oltre il 13% del suolo terrestre, pari a 19 milioni di kmq, è area protetta, con un aumento di superficie del 15% dal 1994; minore fortuna ha invece il patrimonio marino, di cui al momento risulta protetto soltanto l’1%.
La responsabilità dell’uomo è grave anche sulla perdita della biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione, accelerata di 50-100 volte rispetto a quanto accadrebbe in assenza del genere umano. A dicembre 2005, un gruppo di ricercatori della Alliance for Zero Extinction ha lanciato un allarme in proposito, segnalando ben 794 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, se non verranno protette.

Calore e gas
Un altro punto cruciale nel rapporto fra uomo e ambiente è l’aumento della temperatura terrestre, cui le attività umane hanno contribuito. E a patire maggiormente il cambio climatico sono i paesi poveri, più dipendenti dal clima per le loro attività lavorative (agricoltura e pesca), oltre che con minori possibilità di contrastare tali cambi climatici.
Negli ultimi decenni, poi, l’utilizzo di combustibili fossili ha aumentato la produzione di anidride carbonica, che contribuisce all’innalzamento della temperatura. Ogni persona produce annualmente 6-7 milioni di tonnellate di CO2: 2 milioni di tonnellate sono assorbiti dall’oceano, 1,5-2,5 milioni dalle piante, il resto è rilasciato nell’atmosfera.
L’altra faccia della questione, con ricadute immediate sull’uomo, è rappresentata dall’utilizzo dei combustibili solidi (legno, sterco, carbone) nei paesi poveri. Il loro utilizzo domestico, ad es. per cucinare, provoca inquinamento degli ambienti chiusi, responsabile di oltre 1,6 milioni di morti, soprattutto bambini e donne. Nelle abitazioni si diffonderebbero i prodotti nocivi di combustione: per l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo causato dall’uso di combustibili solidi in casa è una delle quattro cause principali di morte e malattia nei paesi in via di sviluppo.
La rivista medica The Lancet ha riportato che l’esposizione per tutto il giorno delle donne a stufe e fornelli quadruplica loro il rischio di sviluppare malattie polmonari croniche ostruttive, con progressiva difficoltà nella respirazione; inoltre, pur essendo necessarie ancora ricerche, sono stati segnalati collegamenti anche tra inquinamento domestico e basso peso dei bambini alla nascita, mortalità infantile, cataratta e cancro.

Acqua disponibile
e sicura
Dimezzare entro il 2015 il numero di persone prive di accesso ad acqua sicura e di un sistema fognario che garantisca livelli igienici di base è il secondo traguardo delineato dal settimo obiettivo del millennio. La necessità di acqua pulita è sottolineata dalla diffusione di malattie e morte ove essa manca: nel 1990 la diarrea ha causato 3 milioni di morti, di cui l’85% bambini. Fra il 1990 e il 2002 circa 400 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua pulita, ma oltre un miliardo è ancora in attesa dell’acqua potabile, di cui il 42% nell’Africa subsahariana e il 22% nell’Asia dell’Est e nel Pacifico. Le situazioni peggiori si rilevano nelle zone rurali dell’Africa e nelle periferie povere delle città.
I progressi sul versante delle misure igieniche sono poi ancora più lenti: 2,6 miliardi di persone non hanno servizi fognari e sanitari adeguati; se le cose proseguono come è stato fra il 1990 e il 2002, questa cifra scenderà soltanto a 2,4 miliardi nel 2015. Le conseguenze della mancanza di acqua pulita e di fognature sono un numero di bambini uccisi dalla diarrea negli anni ‘90 superiore ai morti in tutti i conflitti armati dalla seconda guerra mondiale.
L’acqua è un bene prezioso, tanto da essere definita «oro blu» e diventare causa di conflitti fra popolazioni: eppure spesso è sprecata da chi ne ha in abbondanza. Se ne sono accorti anche alcuni bambini messicani, che proprio perché vivono costantemente con la paura, un giorno, di non avere più accesso al prezioso liquido, combattono contro gli sprechi. Hanno creato un gruppo chiamato Guardianes del Agua, per sensibilizzare la popolazione e stimolare un utilizzo razionale dell’oro blu. I guardiani dell’acqua, più di 5 mila bambini, si preoccupano di preservare questa risorsa naturale, cercando anche di favorire la formazione di una coscienza sociale su questo problema.

I quartieri poveri
La vita nei bassifondi è l’ultimo tema toccato dal settimo obiettivo. La rapida urbanizzazione dei paesi poveri ha portato circa un miliardo di persone a vivere nelle periferie degradate delle città, rappresentandone un terzo della popolazione totale. Fra il 1990 e il 2001 vi è stato un aumento del 28% degli abitanti dei bassifondi, pari a circa 200 milioni di persone arrivate nelle periferie povere, dove le condizioni di vita aumentano il rischio di malattia, morte e disgrazie.
Il 94% di loro si trova nei paesi poveri, ovvero in quelle regioni dove si è assistito a una rapida crescita della popolazione urbana senza un aumento delle possibilità di accoglienza da parte delle città stesse: ne conseguono scenari di povertà e privazioni fisiche e ambientali. Senza un intervento significativo per migliorare l’accesso all’acqua, il sistema fognario e l’alloggio, nei prossimi 15 anni, il numero di persone che vive in queste drammatiche condizioni potrebbe salire a un miliardo e mezzo.

Valeria Confalonieri




Quando disobbedire

Continua il viaggio alla scoperta della pace e della non violenza nelle più grandi religioni del mondo. Per il cristianesimo, tra le innumerevoli figure più rappresentative, abbiamo scelto don Lorenzo Milani. Profeta controcorrente, di fronte alle violenze che si commettono in guerra, pronunciò una frase rivoluzionaria: «L’obbedienza ormai non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Incompreso e osteggiato in vita, a quasi 40 anni dalla scomparsa, la sua voce è più attuale che mai

Da secoli, millenni, Dio è strattonato (quasi avesse braccia da tirare) di qua e di là per avallare questa o quella guerra fratricida.
Per questo abominio inventato dall’avidità e dall’aggressività umane si sono trovate sempre giustificazioni «nobili», fino ad arrivare alla manipolazione semantica odiea: «guerra preventiva», «guerra umanitaria», «guerra tecnologica», peace keeping che camuffa il war keeping, «intervento chirurgico», e così via. L’ipocrisia si spreca e il sangue scorre a fiumi.
«Beati i miti, perché erediteranno la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il Sermone della montagna di Gesù, riportato in Matteo 5, 1-12, non lascia spazio a interpretazioni: tra le beatitudini non si trova alcuna esaltazione della violenza o della guerra.
Ma c’è chi, di queste, ha fatto un mestiere: soldati, mercenari, body-guards, contractors della sicurezza privata in paesi con situazioni belliche, terroristi al soldo di quella o quell’altra organizzazione. E i cappellani militari.

N el febbraio del 1965 fece scalpore la lettera scritta da un prete, don Lorenzo Milani (Firenze 1923-1967), quasi integralista nel suo costante e continuo riferirsi all’insegnamento del suo Maestro:
«Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi, però, avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente, anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre, se le giustificherete alla luce del vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo, ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli… Art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri, dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che, obbedendo, resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri “superiori“, sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…
Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo, condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi, secondo l’esempio e il comandamento del Signore, è “estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi, se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di giustizia, libertà, verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, la verità e l’errore, la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano»2.

Q uanto siano al di là del tempo cronologico e sempre attuali le parole e le azioni del priore di Barbiana, questa lettera lo dimostra in modo piuttosto evidente. Alcuni passaggi, in particolare, ci possono far riflettere sulla presenza dei nostri militari in Iraq, dove svolgono azioni di guerra (come ha rivelato il video girato dalla troupe di Rai News 24 a Nassiriya e recentemente mandato in onda), in palese violazione dell’art.11 della nostra Costituzione. E, a meno di non voler credere che lo «scontro di civiltà», costruito a tavolino dalle multinazionali del petrolio e della guerra, abbia esteso i confini dell’Italia fino al Medio Oriente, in un discutibile concetto di «patria globalizzata»: qui l’amor patrio e la sicurezza nazionale c’entrano per nulla.
Come un tempo, la Patria è una nozione che allarga e restringe i propri confini: nel primo caso, quando si tratta di dar giustificazioni etico-politiche a guerre inique e lesive del diritto altrui; nel secondo, quando rifiuta di accogliere popolazioni devastate da queste stesse guerre o dalla povertà creata da uno «stile di vita» che non si vuole mettere in discussione.

Don Milani e la pace

Una pace che affonda solide radici in quei vangeli che Lorenzo, rampollo di una famiglia di ebrei laici, borghesi e coltissimi, ha imparato ad amare fino a scegliere la strada della conversione (era stato battezzato a 10 anni, per risparmiargli le discriminazioni razziali fasciste), del sacerdozio e della dedizione agli ultimi.
Ce ne parla il professor Bruno Becchi, storico e presidente del Centro di Studi milaniani di Vicchio Mugello, nonché autore del saggio Lassù a Barbiana, ieri e oggi 3.
«A don Lorenzo erano particolarmente cari alcuni temi, da lui ritenuti di importanza fondamentale, e che si possono sintetizzare in tre sostantivi: la chiesa, la scuola, la pace. Si tratta di tre grandi questioni che hanno un minimo comune denominatore: l’uomo con le sue prospettive di vita presente e futura.
La riflessione sul tema della pace si concentra soprattutto nell’ultimo segmento della breve esistenza del priore di Barbiana. Al riguardo c’è subito da sottolineare un aspetto che nell’immediato non può non apparire singolare: don Milani usa pochissimo il termine “pace” e praticamente mai l’espressione “educazione alla pace”. Il vocabolo “educazione” ha nel suo etimo il significato di “aiutare l’individuo a crescere intellettualmente e moralmente” E se per “morale” noi intendiamo il presupposto che presiede al comportamento dell’uomo in relazione al concetto di bene e di male, è chiaro che di fronte al dilemma “guerra-pace” un’educazione degna di essere considerata tale non potrà che indurre a scegliere la seconda delle due opzioni. “Educare alla pace” è dunque una sorta di ripetizione, una tautologia, usando un termine del lessico filosofico.
Un altro aspetto da sottolineare, parlando di don Milani e la pace, è che questa non assuma mai in lui il carattere di un concetto astratto, bensì quello di un fine da perseguire. Pertanto lavorare per la pace significa per il priore di Barbiana adoperarsi per individuare gli strumenti, affinché si possano creare le condizioni per un mondo senza conflitti. E ciò partendo dalla piena consapevolezza – per utilizzare le parole di don Milani – che le guerre sono il frutto non solo degli ordini di qualche ufficiale paranoico, ma anche dell’obbedienza di chi quegli ordini accetta passivamente».

In un brano della Lettera ai giudici si legge: «A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Buona parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca». È un passaggio forte…
«Sì, è un passaggio forte, ma di importanza fondamentale. Infatti la Risposta ai cappellani militari e la Lettera ai giudici – i due scritti in cui più organicamente don Milani affronta il problema della pace – sono documenti non tanto sull’obiezione di coscienza, quanto sull’obbedienza e sulla responsabilità individuale. Io non posso uccidere una persona perché me l’ha ordinato qualcuno, sia esso anche un superiore, e pensare al tempo stesso di sottrarmi al peso della responsabilità.
Ci sono studi importanti sul rapporto tra obbedienza e responsabilità: penso al Fromm di Fuga dalla libertà o alla Arendt de La banalità del male, per citare due nomi fra gli studiosi più significativi che si sono occupati del tema.
Ma torniamo a don Milani, per dire che il richiamo costante al primato della coscienza e al principio della responsabilità individuale assume in lui uno spiccato valore pacifista. Prima di compiere qualunque atto di rilevanza morale l’individuo deve sempre interrogare la propria coscienza e, nel caso di un credente, tener conto della legge di Dio. Ma affinché il richiamo alla responsabilità individuale e alla coscienza non finisca per rimanere un’indicazione puramente astratta, la persona deve essere in grado di rispondere in concreto a tale richiamo. In termini milaniani, l’individuo deve essere sovrano nelle proprie scelte. Ed ecco il ruolo fondamentale rivestito dalla scuola, quale strumento privilegiato – per i poveri, esclusivo – di educazione. È infatti soprattutto grazie ad essa che si potrà sviluppare nell’individuo la capacità di compiere scelte consapevoli.
Pertanto di fronte al binomio “guerra-pace” una persona, cosciente del potenziale di sofferenza e morte di cui la prima dispone, non potrà che optare per il secondo corno del dilemma. Riuscire ad emancipare uomini e donne dalla condizione di sudditi e farli diventare realmente sovrani significa fare di loro dei convinti assertori di un mondo di pace».
Attualmente siamo in un contesto di guerre inteazionali, definite umanitarie, di civiltà. È chiaro che non possiamo chiedere a don Lorenzo, morto nel 1967, che cosa pensi del conflitto in Iraq, ma qualche insegnamento possiamo desumerlo. Anche oggi ci sono i cappellani militari, e lo stesso Bush, che si definisce cristiano, ha dichiarato che questa guerra è nel nome di Dio…
«Premesso che non sarebbe storicamente corretto “far prendere posizione” su un problema specifico e attuale a una persona morta ormai quasi 40 anni fa, quindi in un contesto assai diverso, non possiamo non ricordare che don Milani sul problema della responsabilità in un contesto di guerra è stato di una chiarezza indiscutibile. Ha scritto nella Lettera ai giudici che chiunque contribuisca in qualche modo a un atto di guerra non potrà chiamarsi fuori rispetto alle responsabilità. A maggior ragione “il cristiano non potrà partecipare [ad un conflitto] nemmeno come cuciniere” perché anche in questo modo se ne farebbe promotore. Ma anche allargando il campo all’intero mondo cattolico, come non ricordare il capitolo 5° della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano ii, significativamente intitolato “La promozione della pace e la comunità dei popoli”, o l’enciclica Pacem in terris di Giovanni xxiii. Questa, a mio avviso, mostra due importanti elementi: a) si rivolge non solo ai cristiani, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”; b) afferma che “non esistono guerre giuste”. Non c’è dubbio che le tesi presenti nei documenti conciliari e in quello giovanneo siano ancor oggi di grande attualità».

Dunque, sembra di capire che, se i cattolici vogliono attenersi alle direttive emanate dalle encicliche papali, non possono che scegliere la pace e ripudiare la guerra.
«Certo. Storicamente dovremmo ricordare anche la definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” fatta da papa Benedetto xv. L’incompatibilità netta tra guerra e messaggio evangelico, ancor prima che nei documenti ecclesiastici, è presente ovviamente nelle scritture bibliche, sia vetero che neotestamentarie. Ma don Milani non si limita a questo, sostanzia le sue posizioni sul tema della pace anche di una componente civile, facendo esplicito riferimento naturalmente all’art. 11 della Costituzione italiana».

Sulla base di quanto fin qui sostenuto, verrebbe da aggiungere che l’Italia si trova in guerra contro l’Iraq nonostante la Costituzione lo vieti e, da paese che in più occasioni ha rivendicato le proprie radici cristiane, nonostante gli insegnamenti di Cristo e le encicliche papali.
«Direi di sì. Don Milani si spinse fino a proporre un nuovo e originale concetto di patria, in contrapposizione a quello storicamente consolidato, la cui difesa o velleità di espansione sono state fonte di inenarrabili sequele di lutti e sofferenze. Un concetto di natura trasversale, che pone confini tra diseredati e oppressi da una parte e privilegiati e oppressori dall’altra. Altro che principio di “esportazione della democrazia”».

Molti attualmente avvertono una sorta di involuzione rispetto ai decenni passati: gli stessi concetti di «patria» e di «eroe» sono stati rispolverati ad uso e consumo dei sostenitori delle «guerre umanitarie». Lei cosa ne pensa?
«Credo che si sia ritornati a un’idea di patria assai anacronistica rispetto alla visione di don Milani che, a 40 anni di distanza, mostra ancora tutta la sua lungimiranza».

Chi sono ora, secondo lei, gli eredi ideali di don Milani?
«Anche a questo riguardo, sarei molto cauto ad attribuire eredi a don Milani. Egli mi appare una figura che fuoriesce da qualunque catalogazione in ambiti più o meno ristretti. Molti sono coloro che, tra uomini di chiesa, di scuola, del mondo del lavoro, della società in genere, attraverso la lettura dei suoi scritti e lo studio del suo pensiero e della sua opera, hanno ricevuto qualcosa in eredità da don Lorenzo. A prescindere da “questioni di successione” o meno, se, proprio le devo fare qualche nome tra coloro che oggi si distinguono in molti campi che sono stati di interesse di don Milani, mi vengono in mente, così su due piedi, padre Alex Zanotelli, monsignor Luigi Bettazzi e il mio carissimo amico don Renzo Rossi, per 30 anni missionario nelle favelas del Brasile nel periodo della dittatura militare. In effetti, a guardarmi intorno, oggi, mi sembra di non vedee molte di persone carismatiche ed esemplari nel campo della politica o in quello sociale, spirituale o culturale in genere. Il panorama mi appare assai sconfortante, soprattutto ora che sono rimasto “orfano” del prof. Giorgio Spini, un maestro di storia, di fede, di vita. Parlando di panorama sconfortante, però, mi rendo conto di fare un torto a tutte quelle persone (sacerdoti, medici, insegnanti, gente comune), che in mezzo a inenarrabili difficoltà e grandissimi rischi hanno scelto di dedicarsi completamente agli altri in qualche landa sperduta del nostro pianeta. Persone alle quali, invece, va tutta la mia ammirazione».

Angela Lano




LA COLLERA DEI POVERI

Dopo che le elezioni democratiche nei territori palestinesi hanno dato la maggioranza assoluta ad Hamas, il movimento nato con lo scopo di distruggere Israele, che accadrà? Cosa dovrebbe succedere, per riavviare il cammino di pace
tra israeliani e palestinesi? Sono domande cui non è facile rispondere; tuttavia stimolano ad approfondire una situazione molto complessa.

Il 25 gennaio 2006 si sono svolte per la prima volta le elezioni politiche nei territori palestinesi. Queste elezioni sono state volute fortemente dagli Stati Uniti e contrastate da Israele: i primi perché volevano il rafforzamento della dirigenza di Abu Mazen e Abu Ala; gli altri perché vi scorgevano il principio della fine di un’occupazione ormai non più sostenibile, dopo che lo stesso «falco» Sharon si era convinto della necessità di ritirare una parte degli insediamenti.
I pronostici della vigilia sono stati smentiti clamorosamente: il popolo palestinese, da 60 anni in campi-lager, usando la scheda elettorale ha fatto piazza pulita di un’intera classe dirigente, identificata nel gruppo di Al Fatah, fondato da Arafat, e ha dato la maggioranza assoluta ad Hamas (Movimento di resistenza islamico).
Fondato dallo sceicco Ahmed Yassin e Mohammed Taha nel 1987 con il solo obiettivo di distruggere lo stato d’Israele e impiantare al suo posto uno stato palestinese islamico, Hamas è il gruppo armato più irriducibile, che nell’ultima intifada (2000-2002) ha inventato e utilizzato i kamikaze come bombe umane contro i civili israeliani, causando stragi nel cuore stesso di Israele: i propri figli carne da macello per macellare i figli del nemico.
Da un punto di vista geopolitico, peggio di così non poteva andare. Una domanda preme su tutte: che succederà adesso?
Hamas è nella lista nera dei terroristi, stilata dal governo Bush e condivisa dai governi europei incollati alla politica degli Usa. In Israele è fuori scena Sharon, le cui ultime scelte, prima della malattia invalidante, avevano aperto un fronte interno, rimettendo in moto un processo politico nuovo, approdato in un nuovo partito, Kadìma (Avanti), nato dalla scissione dello storico partito Likud (Rafforzamento).
Il primo contraccolpo si avrà proprio in Israele: alle elezioni di marzo Israele non voterà liberamente, perché la vittoria di Hamas lo condizionerà. Già dal giorno dopo il risultato elettorale, anche Ehud Olmert, sostituto di Sharon a capo di Kadìma, ha cominciato a rincorrere la destra di Netanyhau in dichiarazioni di totale chiusura senza se e senza ma.
Quando vivevo a Gerusalemme, nelle mie corrispondenze durante l’ultima intifada, pronosticavo che la Palestina negli anni a venire avrebbe visto ancora due guerre civili. Una all’interno delle fazioni armate palestinesi: evento che si sta verificando già, perché difficilmente il braccio armato di Al Fatah cederà il potere ad Hamas senza muovere muscolo. La seconda in Israele, che deve decidersi se essere uno stato laico o uno stato teocratico. La scissione di Sharon dal Likud e la formazione di un nuovo soggetto politico è una pietra verso questa soluzione.
L’effetto più sconcertante del risultato, infatti, è la radicalizzazione delle posizioni dentro Israele e il panico in cui sono cadute le organizzazioni estremiste all’interno della striscia di Gaza. Israele torna ad avere paura; Hamas e altri gruppi armati sono nel panico di non sapere come comportarsi. Hamas stesso, infatti, non aveva messo in conto una sua vittoria maggioritaria, ma solo una vittoria di minoranza, che gli avrebbe permesso di condizionare il governo di Al Fatah e restare estremista e all’opposizione.

D a queste elezioni tutti speravano un sussulto di «democrazia», come primo passo verso una soluzione graduale del cancro mediorientale. Il sussulto è accaduto e le regole della democrazia, su schema occidentale, hanno sancito che ha vinto Hamas, il nemico di Israele e Stati Uniti.
Questa vittoria ha un significato, oserei dire, psicoanalitico: il popolo palestinese, frustrato e represso, in parte consapevolmente, ha voluto punire il mondo occidentale per il suo atteggiamento pilatesco nei suoi confronti, eleggendo con lo strumento occidentale delle elezioni il gruppo che per l’Occidente è «puro fumo negli occhi».
Per fare questo, ha punito se stesso, perché Hamas significa isolamento, perdita dell’ingente sostegno economico occidentale, aumento della miseria, sconfinamento nell’inferno della non-vita, che potrebbe proseguire per almeno un altro decennio. È la logica illogica dei processi psichici: mi distruggo pur di distruggerti.

C he accadrà adesso? Nell’ultimo anno, oltre a parlare della Palestina religiosa, abbiamo dedicato due lunghi articoli alla Palestina «politica», intitolati: «Matassa imbrogliata» (MC maggio 2004) e «Abu Mazen tenta l’impresa» (MC marzo 2005). In essi mettevamo in evidenza i nodi geopolitici e quelli strettamente più locali che sarebbe stato necessario risolvere prima di giungere alla posa della prima pietra di un processo di pace.
Dicevamo anche che il cammino sarebbe stato lungo e avrebbe percorso almeno il primo secolo dell’incipiente primo millennio. Il groviglio Palestina è talmente annodato che soltanto chi avrà sapienza storica e intelligenza di stato avrà il privilegio di cominciare la lunga marcia nel deserto verso la Terra Promessa della pace in Palestina.
Abu Mazen è stato certamente un sapiente della storia e uno statista delle possibilità, finché non esercitò alcun potere. Nel momento in cui assunse l’eredità di Arafat, con la speranza ereditò anche una situazione di degenerazione abissale: struttura amministrativa inesistente, governo a immagine e somiglianza del rais, frantumazione di gruppi armati e rete di corruttela che ha soffocato ogni spiraglio di soluzione.
La corruzione diffusa da Arafat sopravvisse alla sua morte. Abu Mazen, uomo onesto e di valore, non ebbe la forza di tagliare l’intreccio mafioso con forza e immediatezza, di denunciare apertamente corrotti e corruttori.
Hamas ebbe facile gioco: fuori dei gangli del potere, si schierò dalla parte del popolo e da questo è stato sempre ricambiato. Il popolo che vive nella miseria, condannato a vita in lager a cielo aperto, come quello di Gaza, sperimenta la vicinanza di Hamas, che si incarica dell’assistenza degli anziani, paga le bollette, mantiene vedove e orfani, si prende cura delle famiglie dei carcerati, vive «con» i baraccati, si fa carico dei problemi spiccioli… Hamas è uno di loro.
Demagogia? Strumentalizzazione? Populismo? C’è tutto questo e anche di più; ma la gente vede che Hamas c’è sempre. Hamas non è un benefattore dell’umanità né del popolo palestinese; egli mira al potere, ma non al governo, perché governare significa scegliere, confrontarsi, prevedere; mentre potere significa essere sempre contro chi pensa in modo diverso, eliminare chi ostacola, distruggere stando all’opposizione senza l’onere delle responsabilità.

H amas è uno di quei frutti proibiti che nascono in Oriente, ma seminati dall’Occidente: è figlio di interessi incrociati. Chiunque ha interesse a destabilizzare la regione (Siria, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi e in modo sotterraneo anche Usa) crea o sostiene gruppi terroristici, finanziandoli con le armi a basso costo finché sono funzionali.
Quando Hamas cominciò a opporsi ad Arafat e la sua politica, giudicata remissiva, armi e finanziamenti provenivano da Usa e Russia, Europa (attraverso le frontiere dell’Egitto) e Israele, senza rigurgiti morali per chi da quegli armamenti traeva profitto. Per un certo tempo, Israele credette di poterlo manovrare, insieme agli altri gruppi terroristici, ma senza riuscirvi. Dopo la 2a intifada, Hamas divenne per Israele il nemico principale da distruggere. L’incapacità degli Usa di gestire una politica organica in tutto l’Oriente (dall’Afghanistan all’Iraq) e l’inesistenza di una politica estera comune europea hanno permesso la radicalizzazione della cancrena mediorientale.
La grandezza di Abu Mazen consiste nell’avere portato il suo popolo e tutti i gruppi a confrontarsi con un sistema quasi democratico. Convinse Hamas a entrare nella dialettica politica accettando il confronto delle elezioni, svoltesi sotto il controllo di Stati Uniti, Europa e Onu.
Tutte le proiezioni davano per vincente Abu Mazen e il suo gruppo Al Fatah. Fin dalla vigilia del voto, gli «esportatori» di democrazia dicevano che finalmente il popolo palestinese poteva cominciare una nuova èra; erano certi che, eleggendo Abu Mazen contando i voti con il criterio «una testa un voto», avrebbero isolato gli estremisti e dato impulso al processo di pace, come inteso e voluto dall’Occidente: una pace sbilanciata verso Israele.
Invece, la democrazia all’occidentale ha scelto Hamas, contro il volere occidentale. Per spirito anti-Bush, certo; per dare una lezione a Israele, sicuro; per chiedere rispetto dai predicatori di libertà, senza dubbio. Il popolo palestinese, esercitando un suo diritto fondamentale e primario, votando liberamente ha scelto contro tutte le aspettative degli altri.

R itorna la domanda iniziale: che cosa accadrà adesso? Anzi, cosa dovrebbe accadere adesso? Cominciamo a rispondere alla seconda domanda: non dovrebbe succedere «niente», perché ci aspettiamo che Stati Uniti, Israele, Europa e l’Onu prendano atto delle elezioni e della lezione di democrazia del popolo palestinese e s’inchinino, senza distinguo, ai risultati.
Hamas ha l’onere del governo e verrà giudicato non «preventivamente», ma solo in base alle scelte che farà e alle posizioni che assumerà nei consessi inteazionali, come si giudica e si esige da qualsiasi altro stato democratico.
Sappiamo che non accadrà, perché alcuni occidentali hanno della democrazia un concetto di sovranità limitata, contrariamente all’attuale governo palestinese di Abu Ala, che a ue ancora aperte si è dimesso, riconoscendo l’esito del voto come volontà del popolo libero e sovrano.
Non così l’ala armata di Al Fatah che, passando all’opposizione, assumerà quella che fu la posizione fino a oggi di Hamas. La guerra civile è sulla soglia.
Pur di non riconoscere Hamas, Israele e Usa cominceranno il balletto di richieste di supplemento di democrazia, come condizione per il riconoscimento. Nessuna risposta di Hamas sarà mai esauriente: di richiesta in richiesta si concluderà con un nulla di fatto.
Hamas risponderà per le rime, almeno in principio, rafforzando le dichiarazioni sulla propria radicalità, per non perdere la faccia davanti al suo popolo. Si ammorbidirà molto lentamente; ma così i tempi della pace si allontanano drasticamente.
In compenso faranno affari i venditori di armi d’Oriente e Occidente.

L a prima domanda è più complessa, ma possiamo azzardare alcune conseguenze, già iscritte nella realtà dei fatti. Hamas ha la maggioranza assoluta e può governare da solo. Bene ha fatto Abu Mazen a rifiutare, almeno per ora, qualsiasi accordo di coalizione: è bene che Hamas si cimenti e si misuri con i suoi progetti, il suo popolo, lo scenario mondiale.
Il primo anno trascorrerà in salamoia: ognuno resterà sulle sue posizioni. Hamas strillerà e inveirà per non perdere la faccia; ma, ogni giorno che passa, strillerà e inveirà un po’ meno. Sa infatti che, se rompe con l’Occidente, dovrà dire addio ai miliardi di euro e dollari stanziati e stanziabili per il rafforzamento democratico e la ricostruzione.
Dall’altra parte, Israele e Bush diranno ogni sorta di contumelia contro Hamas, ma questo fa parte del giochino della politica all’acqua minerale: si andrà avanti senza alcuna scelta perché adesso non scegliere è interesse di Israele.
Un’altra conseguenza riguarda le elezioni in Israele a marzo: si rimescolano le carte e si radicalizzerà lo scontro all’interno di Israele; perde la politica di Sharon e si rafforza quella di Netanyhau, cioè la destra oltranzista e i sionisti radicali.
Da parte sua, Hamas non è all’altezza di governo: non ne ha l’esperienza e la maggior parte dei suoi adepti e capi sono alquanto ignoranti. Cercherà a tutti i costi di governare con Al Fatah, che alla fine accetterà per senso di responsabilità, alzando la posta di contrattazione e imponendo figure estee nella compagine governativa. Alla fine del tira e molla, si avrà un governo «misto»: il nome sarà di Hamas, ma il potere reale sarà nelle mani di Abu Mazen, che goveerà nell’ombra, per garantire l’Occidente e per permettere ad Hamas di fare quei passi dolorosi, ma necessari verso un sistema parlamentare di confronto politico.
Questa soluzione permetterà ad Hamas di giocare la carta governativa e internazionale, l’unica che le permetterà di uscire dall’isolamento e principalmente dalla lista di proscrizione di Bush, con alcune conseguenze ovvie: da gruppo di pressione militare, vissuto di guerra e guerriglia senza esclusione di colpi, si riciclerà in soggetto politico, dichiarerà di abbandonare le armi, ma senza consegnarle; gli altri non gli crederanno, facendo finta di credergli.
Il popolo palestinese sa che con Hamas rischia ancora di più la miseria e la fame; ma quando i poveri sono costretti dalla cecità del mondo a vivere per tutta la vita nei campi profughi (dovevano essere provvisori, ma durano dal 1948), avendone avuto l’occasione, ha preferito levarsi una soddisfazione, facendo saltare d’un colpo tutte le cancellerie del mondo: il bisogno di onore spesso è più nutriente del pane. Per una volta i palestinesi sono sulle prime pagine dei giornali, come liberi democratici in democratiche elezioni. Lasciamogli godere in pace questo orgoglio di «popolo senza terra».
Nel 1967, Paolo vi aveva messo in guardia dalla «collera dei poveri» (Populorum progressio 49), perché avrebbe prodotto «conseguenze imprevedibili». Come volevasi dimostrare.

Paolo Farinella




010-Così sta scritto – Maschio e femmina li creò

L’ espressione «maschio e femmina» si trova nel secondo racconto della creazione (Gen 1,27), databile sec. v a.C., all’epoca dell’esilio a Babilonia. Ritorna quasi alla lettera in Gen 5,2, nell’elenco dei patriarchi prima del diluvio. Nel NT l’espressione è riportata come citazione indiretta da Mt 19,4 e Mc 10,6, in cui Gesù, nella questione del divorzio, non dà una risposta pronto-uso, ma rimanda al «principio» della creazione, cioè al disegno di Dio e alla sua prospettiva sull’uomo/donna.
Mantenendo in italiano lo stesso ordine delle parole ebraiche, Gen 1,27 ha il seguente schema:

A. Creò Dio l’Adam
B. a sua immagine
B1. a immagine di Dio
A1. creò esso:
B2. maschio e femmina
A2. creò loro
Nel greco della Lxx manca B1. Il testo presenta una costruzione tipica biblica, detta a chiasmo o incrocio, dove la prima parte (A) corrisponde all’ultima (A1), perché vi si trovano le stesse parole: creò l’Adam – creò lui. A1 poi si sviluppa in A2: il singolare «lui» diventa il plurale «loro», per dire che l’umanità (Adam) non è solo maschile, ma anche femminile. Allo stesso modo la seconda espressione (B), che introduce il tema dell’immagine: a sua immagine, anch’essa sviluppata in a immagine di Dio (B1), corrisponde alla penultima (B2), che ne chiarisce la natura: non l’uomo in quanto maschio rappresenta Dio sulla terra, ma Adam, cioè l’umanità nella sua struttura fondamentale, fatta di mascolinità e femminilità. Uomo e donna insieme sono l’immagine completa, la somiglianza adeguata di Dio sulla terra.
Questo modo di procedere per coppie a uncino era un sistema tipico delle lingue antiche per facilitare la memorizzazione e quindi la trasmissione orale, ma anche per esprimere concetti di inaudite profondità che proveremo a intuire.
Era usanza che i confini di un regno fossero segnati con le immagini o statue dei re in carica: chiunque vedeva l’immagine del sovrano ne riconosceva la signoria e ne accettava la supremazia. Creando il mondo, Dio non ha bisogno di segnae i confini, ma pone in esso «la sua immagine» vivente, Adam (maschio e femmina) come segno e garante della sua signoria. Adam non è il padrone del mondo, ma il luogotenente di Dio creatore: chiunque vede il maschio e la femmina insieme, dovrebbe riconoscere immediatamente il volto di Dio creatore.
Nella sezione A del v. 27 sopra riportato (A-A1-A2), la creazione dell’uomo è annunciata con il termine generico Adam (A) al singolare e indica il genere umano indistinto: si potrebbe tradurre con umanità. Il testo prosegue con il singolare generico lo creò (A1), per concludersi con un plurale di distinzione sessuale: creò loro (A2), perché il genere umano è composto di maschi e femmine. Maschile e femminile insieme specificano l’individualità personalizzata del genere umano/umanità. Non il maschio o la femmina separati.
Nella sezione B-B1 l’autore introduce una idea nuova: l’Adam in quanto genere umano è creato a immagine di Dio e questa immagine ha in sé le caratteristiche complementari del maschio e della femmina (B2).

I n ebraico il termine maschio si dice zakàr e letteralmente significa «pungente»; femmina si dice neqebàh significa «perforata». Il riferimento alla funzione degli organi sessuali è evidente. L’ebraico è una lingua descrittiva come tutte le lingue semitiche: racconta la realtà come la vede. In un contesto culturale maschilista, che relega la donna in uno stato di quasi schiavitù, nel sec. v a.C. un autore biblico ci consegna il vangelo della rappresentanza di Dio sulla terra con un’affermazione forte e rivoluzionaria: non è il maschio ad avere la prerogativa di rappresentante di Dio, perché fin dall’in principio solo «maschio e femmina» sono l’adeguata immagine di Dio. Non il maschio senza la femmina, non la femmina senza il maschio possono rivelare l’identità di Dio: il rapporto sessuale in quanto comunione di pungente e perforata dice la vera immagine di Dio creatore che genera alla vita. Realizzandosi sessualmente, la coppia esercita il proprio ruolo sacerdotale e vive la propria immagine nuziale come liturgia eucaristica sacramentale.
In questa prospettiva è la coppia il vero «sacramento» rivelatore di Dio che è Agàpe/Amore (1Gv 4,8). Il passaggio dal singolare al plurale nel v. 27: «creò esso/creò loro» è molto importante. Nella relazione sessuale, l’individuo cessa di essere «singolare», perché consegna la propria individualità a una nuova «personalità plurale», che nasce dalla fusione di pungente e perforata: la personalità della coppia, la personalità del «noi», che è la confluenza di «io» e di «tu».
Per questo, secondo la chiesa cattolica, il matrimonio sacramento celebrato nella chiesa (non solo in chiesa) non è compiuto finché non è consumato nel rapporto sessuale, che diventa così l’azione sacerdotale della coppia. Il maschio e la femmina, in quanto ministri del sacramento, celebrano la liturgia d’amore esprimendo come coppia il volto maschile-femminile di Dio creatore. Maschio e femmina, incastrati insieme, sono una persona nuova: un nuovo unico corpo e una nuova unica anima che danno origine a una nuova identità.
Si capisce perché Lv 20,10 punisce l’adulterio con la pena di morte, equiparandolo all’omicidio. L’adulterio, infatti, uccide la nuova personalità della coppia in quanto immagine sessuata di Dio. L’adultero divide in due (cioè uccide) la nuova persona che è la coppia e ne sostituisce metà con una falsa. Si uccide una persona togliendole la vita; si uccide la persona-coppia, spezzando in due la coppia, che così non può vivere: un corpo spezzato in due è un cadavere smembrato.

S e la coppia è l’immagine più adeguata di Dio, viene logico domandarsi, in rapporto a Dio, quale sia il ruolo del prete che coppia non è. In quanto «singolo», in forza di Gen 1,27 sarebbe incapace di rappresentare Dio, dal momento che egli per legge canonica non può esercitare la sessualità genitale. Lo stesso vale per i monaci, le monache e in generale per i religiosi che fanno un voto di verginità, promettendo a Dio di non essere mai coppia, ma di restare sempre sessualmente incompleti.
Da una parte tutta la creazione è proiettata verso la coppia, perché tutto ciò che è creato nei primi cinque giorni è in funzione del giorno sesto, il giorno in cui Dio crea zakàr/maschio e neqebàh/femmina. È la coppia il vertice del creato e, vivendo una relazione vitale fondante, è rappresentativa di Dio come Agàpe/Amore di cui è l’immagine adeguata. Dall’altra parte il prete (religioso/a, monaco/a) che ha fatto promessa di celibato (o voto di castità) non può rappresentare Dio-Agàpe/Amore perché egli è incompleto, non è coppia. Il Talmud babilonese nel trattato Jebamoth 63a, a questo riguardo è lapidario: «Un uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poiché è detto: maschio e femmina li creò… e dette loro nome Adam (Gen 5,2).
La domanda è: se la coppia è immagine di Dio, il prete (il monaco/a) di chi è immagine?
La risposta articolata, a mio parere, potrebbe essere la seguente. Sappiamo per rivelazione che Dio è «unità» e «trinità». Dio è uno solo e non c’è altro Dio al di fuori di lui: «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno» (Dt 6,4). Questa unicità di Dio si è manifestata a noi storicamente come comunione di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Per questo possiamo dire che «Dio è Amore» (1Gv 4,8). La trinità di Dio altro non è che l’unità divina vissuta come pienezza di comunione senza fine.
La coppia è una pienezza, un incastro d’amore mandato nel mondo a indicare la strada di Dio che è amare, amare sempre, amare comunque. Chiunque vede una coppia amante dovrebbe essere indotto immediatamente a rapportarsi con il suo Creatore di cui la coppia è copia conforme.
Ma la coppia in quanto sacramento visibile di Dio-Agàpe corre il rischio di Adamo ed Eva, cioè, della presunzione superba, che potrebbe indurla a credere di avere raggiunto la perfezione e quindi chiudersi all’interno di se stessa, senza bisogno di altre conversioni per mettere sempre più a fuoco l’immagine di Dio che racchiude. Amarsi anima e corpo potrebbe dare l’ebbrezza dell’autosufficienza ripiegata su se stessa, facendo dimenticare che l’obiettivo finale della coppia è sempre Dio.
Il celibe (il consacrato/a in genere) ha il ruolo pedagogico di ricordare alla coppia che c’è un solo Dio e solo lui è l’Assoluto, il Primo e l’Ultimo (Ap 1,17; 22,13) e che nessuna realizzazione di pienezza d’amore può esaurire il desiderio di amore infinito che c’è in ogni cuore. Il celibe (religioso/a) ha la funzione profetica di ricordare alla coppia che se l’incastro è autentico e se l’amore che sperimenta è vero, inevitabilmente conduce all’Assoluto dell’Amore di Dio, anche oltre la morte.
Chiunque vede il celibe (religioso/a) sente di essere riportato alla radicalità evangelica, che chi ama la moglie o il marito più di Lui non è degno di Lui (cf Mt 10,37): il maschio è la via di Dio che realizza la femmina; la femmina è la via di Dio che realizza il maschio; maschio e femmina dicono insieme al mondo intero e al celibe che «Dio è Amore/Agàpe» (1Gv 4,8).
Il celibe (monaco/a, religioso/a), a sua volta, potrebbe essere preso dal dèmone dell’esclusività, dall’intransigenza della casta e dalla disperazione della solitarietà senza riferimento al di fuori di sé. Il rischio dei celibi è il peccato di grettezza e chiusura narcisistica. Presumendo di essere più vicino a Dio-Uno, il celibe rischia di consumarsi in una vita gretta e senza amore, chiuso in rituali di morte liturgie, schiacciato dalla lettera della legge e ossessionato dal peccato.
La coppia diventa allora profezia vivente per il religioso/a o celibatario a cui ricorda che Dio non è solo Uno, ma è anche Trinità, cioè relazione e condivisione e senza comunione non può esserci vita né fede. Un celibe chiuso in sé, sterile nel ventre e arido nel cuore è inutile a sé, agli altri e anche a Dio. Un simile celibe di norma dedica la sua esistenza alla ricerca ossessiva degli onori della carriera.
Nessuno esiste per se stesso, ma ciascuno di noi è stato pensato e amato per amore e a servizio degli altri. Ecco dunque la reciprocità: la coppia è profezia della Trinità di Dio-Agàpe e il celibe-religioso/a è profezia dell’Unità di Dio e della sua esclusività. Coppia e celibe, procedono insieme protesi verso l’Assoluto, che si manifesta nella gloria della croce, il trono della redenzione che compie definitivamente la creazione in attesa dell’ultima ora, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).
Assaporiamo ancora una volta Gen 1,27 nella versione letterale con la trascrizione dell’ebraico:
E creò Dio l’Adam a sua immagine
Wayyibarà ’elohim et-ha’adam bezalmò
a immagine di Dio creò esso
bezelem ’elohim barà’ ’otò
maschio e femmina creò loro
zakàr u-neqebàh barà’ ’otàm

La coppia è immagine e somiglianza di Dio «Amore», che si esprime nella relazione di zakàr/u-neqebàh. Tale relazione costituisce il principio fondamentale non solo della persona umana, ma di tutta la creazione che vibra nella polarità maschile-femminile.
La cultura cinese parla allo stesso modo di yin e yan. Anche l’ebraismo dà vita a una specifica corrente di pensiero che sviluppa il significato nascosto della sapienza della vita per raggiungere il vertice e la sintesi della conoscenza che è la mistica: è la Qabalàh (tradizione/accoglienza/ricezione), che, nella corrispondenza delle parole e lettere con i corrispettivi numeri, applicando la scienza dei numeri o ghematrìa, è in grado di raggiungere significati profondi che ancora oggi riescono ad affascinarci e stupirci. Della Qabalàh e delle sue applicazioni a questo versetto tratteremo nel prossimo numero.

Paolo Farinella




VIVA LA ROJA

Un cileno su tre vive nella capitale, nelle cui periferie, come quella di Peñalolen, molta gente nasconde le ferite aperte dalla dittatura di Pinochet dietro la facciata della normalità. Oltre alla squadra nazionale di calcio, dal mese di gennaio i cileni hanno un buon motivo di orgoglio e di speranza, con l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza del paese.

Un’immensa distesa di luci gialle, a perdita d’occhio. Se una notte ti capita di ammirare Santiago del Cile da Peñalolen, quartiere periferico che finisce dove cominciano le Ande, rimani senza parole. Quei puntini luminosi che fanno fatica a entrare nel tuo campo visivo ti fanno capire che una metropoli latinoamericana è grande, proprio grande.
Non ha le cifre di Città del Messico o San Paolo, ma con i suoi cinque milioni di abitanti Santiago ospita il 35% della popolazione totale, vale a dire un cileno su tre. Gli altri? Vivono lungo i 4 mila chilometri del paese, il più lungo e stretto del continente, imbrigliato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico.
A Santiago, spesso, l’aria fa ammalare. Chiusa in una conca dalle montagne circostanti, la città non riesce a liberarsi dall’inquinamento che produce: la nube che si ferma a pochi metri d’altezza, imponente, giallastra, ti entra nelle vie respiratorie e lì ci rimane, fino a quando un raro acquazzone non ti permette di assaporare, ma solo per un attimo, l’odore delle stagioni.
Le stufe a legna, dichiarate fuorilegge dal governo per il fumo che sprigionano, sono ancora presenti. Soprattutto nelle zone più povere: una baracca che s’incendia è una stufa malridotta, assemblata male o troppo vicina a materiale infiammabile.
E di baracche, a Santiago del Cile, ce ne sono a volontà. Ma spesso non si vedono, perché nascoste tra case normali o «mimetizzate» tra esse. Ricco o povero, bianco o meticcio, il cileno è orgoglioso della sua patria: provate a cercarne uno per le strade in occasione delle partite della Roja (Rossa, la nazionale di calcio cilena), rimarrete completamente a mani vuote.

UN PULLMAN ARANCIONE

La strada che porta dall’aeroporto internazionale al centro città ti riempie gli occhi di «normalità». Industrie, cantieri, cartelloni pubblicitari, e poi grattacieli, macchine modee, ristoranti, cinema multisala: il modello di vita occidentale è stato assimilato completamente anche a queste latitudini.
Nella frenesia degli acquisti, del ritmo di lavoro, delle relazioni fra le persone, il centro di Santiago ricorda il Nord Italia. Persino i lineamenti delle persone, a volte, ricalcano quelli europei.
Le micro, gli onnipresenti pullman arancioni, sfrecciano per le vie della città in eterna competizione: chi ha più passeggeri ha maggiori guadagni, buona parte degli autisti sono proprietari del mezzo, e ognuno di essi lo personalizza a piacimento, con tendine colorate, santini, portafortuna, scritte e immagini incollate ai vetri.
Se riesci a prenderla o a salire senza cadere, la micro ti racconta Santiago, essendone il mezzo di trasporto più diffuso e popolare, che raggiunge anche le periferie più estreme. Salgono studenti, lavoratori, disoccupati (il 9% secondo le stime ufficiali, almeno il doppio a giudicare da quello che si vede nelle strade), anziani (ma pochissimi pensionati, la previdenza sociale è una chimera), vagabondi, artisti che si esibiscono in cambio di una mancia e mercanti di ogni bene di consumo, commestibile o meno.
I disoccupati, dice il governo, sono circa il 9%, meno dell’Italia. Ma se poi scopri che «occupati» sono considerati tutti coloro che hanno guadagnato anche solo qualche peso durante l’anno, il discorso cambia.
Luis è uno di questi: 35 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per furto, vende gelati sui pullman e agli incroci stradali. Lo incontri a una mensa popolare, tutti i giorni, dove racconta le sue peripezie agli altri avventori (anziani, alcolizzati cronici, famiglie indigenti) caricandole di immagini forti: «Ieri i carabineros mi hanno fermato (Luis non ha il permesso per fare il venditore ambulante, quasi nessuno ce l’ha); ho cercato di scappare, ma mi hanno raggiunto. E sono state botte da orbi» dice mostrandoti grossi lividi su braccia e gambe.
Per conoscere Luis e tanti altri come lui devi cambiare il tuo modo di «vedere» Santiago: via dal luccichio dei negozi del centro, via dai grattacieli della zona commerciale di Providencia, via dalle sontuose ville e dai futuristici centri commerciali di Las Condes e La Reina, dove sembra di passeggiare sopra un enorme tappeto di benessere.
Il cileno che tiene plata (ha i soldi, e ne ha tanti) vive in un mondo in cui tutto è possibile, a portata di mano. Cliniche private, università prestigiose, servizi alla persona impeccabili e tutti nelle vicinanze: un paradiso sociale.
Ma c’è un altro cileno, tanto diffuso quanto nascosto, che per tutta la vita sarà chiuso in un altro mondo, fatto di miseria, soprusi, nessuna speranza di sbarcare il lunario.
Nascosto perché vive lontano dai riflettori, in posti dai nomi molto meno accattivanti: La Pintana, Maipú, La Legua. O Peñalolen, il luogo da cui vedi le «luci gialle», la cui situazione merita una fermata speciale.

SOTTO IL TAPPETO

Con 200 mila abitanti, l’aria più pulita della città (lontano dal centro, 700 metri sul livello del mare) è uno degli esperimenti più riusciti di politiche socio-ambientali (una vasta comunità ecologica in cui centinaia di artisti e musicisti vivono in modo autonomo offrendo spunti culturali di notevole livello), Peñalolen avrebbe tutte le caratteristiche per essere un quartiere ricco, come la vicina La Reina. Ma non è così.
C’è una chilometrica cancellata che divide i due quartieri su Avenida Josè Arrieta, arteria importante della zona est di Santiago: dietro queste inferriate, guardie private assicurano agli abitanti di La Reina quel paradiso sociale di cui sopra.
Dall’altra parte, nessuna guardia, molta più gente a piedi apparentemente senza meta, cani randagi e affamati ai bordi delle strade. Ma niente esagerazioni: le case sono modeste ma di mattoni; le attività commerciali non mancano; frotte di bambini si recano a scuola con il loro grembiule color piombo, tanto obbligatorio quanto «scialbo».
Dove sta il dilemma? Toiamo per un attimo all’immagine del tappeto.
Se ci avviciniamo a queste case all’apparenza normali, notiamo subito due cose: una striscia verde, impeccabile, di erba, e una stradina che, circumnavigando l’abitazione, sparisce dietro di essa.
La striscia verde, innaffiata quotidianamente da ogni buon cileno, memore di un’efficace affermazione venuta dagli ambienti governativi («il giardino davanti a casa è lo specchio della vostra anima»), è il trionfo dell’apparenza: dentro, le case non sono così pulite, belle; spesso il cibo a tavola è scarso, l’arredamento ridotto all’essenziale, i letti meno delle persone. Invece, la televisione c’è e troneggia nel salotto, radio e computer non sono così insoliti.
La stradina è la via che conduce alla verità: ti aspetti un giardino nel retro, trovi una baracca; sposti di qualche metro lo sguardo, ne trovi un’altra, poi un’altra ancora.
Ecco che il tappeto si alza, per poi sparire senza lasciare traccia. Sotto questo tappeto centinaia di famiglie, migliaia di bambini che vivono in condizioni di forte disagio. Famiglie del tutto atipiche: padri inesistenti, ragazze-madri ospitate da zii, nonni, o conviventi con fratelli, cugini; un nugolo di niños che spesso condivide il proprio letto con due, tre persone adulte, con le conseguenze del caso. Nelle baracche, oltre all’acqua calda e alla vasca da bagno, mancano le divisioni fra gli ambienti.
Perché queste baracche così nascoste? Sono le uniche abitazioni che si trovano, per chi non è povero. L’affitto, seppur alto, è contrattabile con il proprietario del terreno, reduce anch’egli da un passato simile e dunque, quando va bene, «sensibile».
Ma la ragione vera è un’altra: se sei così nascosto, nessuno ti può vedere «dentro». Per ricostruirti un’immagine nella società, spendi i pochi soldi che hai in capi d’abbigliamento e altri beni secondari che ti fanno apparire interessante. Non ti accorgi, ma baratti la dignità con il materialismo, passando dalla povertà alla miseria.
A Peñalolen, negli ultimi 40 anni, si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla campagna, in cerca di un’anonima ma più speranzosa vita di città. Il quartiere si è espanso, tuttavia, con le Ande così vicine, i nuovi arrivati si sono dovuti incastrare dove hanno potuto. Poi è arrivata la dittatura, e con essa la volontà del regime militare di «ripulire il cuore della capitale»: migliaia di senzatetto, vagabondi cacciati nelle periferie, laggiù dove nessuno può né vederli né sentire il loro odore. Sotto il tappeto, dunque.
Molti sono stati torturati, chissà quanti desaparecidos (scomparsi) o eliminati sommariamente; pochi altri, quelli con più niente da perdere, si sono riorganizzati. Chi impugnando armi, aumentando in tal modo la spirale della violenza, chi i propri diritti: prendi un terreno qualsiasi, ne rivendichi il possesso, costruisci case di lamiera, legno, polistirolo, a volte decine in una sola notte, ti attacchi a edifici circostanti per ottenere luce, acqua, gas. Fai così nascere i campamentos: versione tutta cilena, assai organizzata a livello politico, delle baraccopoli sudamericane.

LE FERITE, IL FUTURO

Pinochet è l’eterno incubo con cui, ancora oggi, deve fare i conti gran parte della popolazione cilena.
Ultraottantenne, finalmente subissato dai processi a suo carico (per violazione dei diritti umani, dove riesce sempre a farla franca, facendosi passare per pazzo; per frodi bancarie di migliaia di dollari, per le quali anche la sua famiglia è finita agli arresti) e da «fedeli del regime», che gli voltano le spalle, il generale in ritiro Augusto Pinochet ha ancora il 30 per cento della popolazione che lo apprezza.
Persone che, per la maggior parte, hanno vissuto la dittatura senza conoscee le efferatezze, in quanto appartenenti alle classi alte, o lontani dalla politica. Sono molti quelli che negano la politica di terrore fisico e psicologico del regime, nonostante le migliaia di testimonianze raccolte e il recupero storico dei «luoghi della tortura»: case e ville private, scuole, edifici dismessi, disseminati in tutto il paese.
Uno di questi, il più famoso, è la Villa Grimaldi, che, guarda caso, si trova proprio a Peñalolen, al numero 8201 di Avenida Arrieta. Dall’11 settembre 1973, giorno del golpe, per i primi 5 anni del regime, migliaia di dissidenti politici e semplici cittadini «sospetti» sono stati sottoposti a violazioni di diritti umani, con forme brutali e umilianti. Chi per pochi giorni, settimane o mesi interi, chi scomparendo nel nulla o non uscendone vivo.
Hugo, che oggi ha 53 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più, è entrato e uscito diverse volte dalla Villa in quegli anni. Ieri era sostenitore del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, oggi si ritrova ridotto a uno straccio: fegato spappolato, numerose fratture intee che non si sono mai rimarginate, dentatura pressoché inesistente e una sofferenza sul viso che si attenua solo quando c’è una bottiglia di vino tinto nel suo campo visivo. Le torture l’hanno ucciso dentro, tanto da non aver risposto all’ultimo appello del governo, che ha chiesto ai cittadini di «raccontare» le proprie storie, in un tentativo di cancellare gli orrori del passato recente (la dittatura è caduta nel 1990, con l’esito a sorpresa di un referendum che avrebbe dovuto prolungarla), riportando verità e giustizia.
A Hugo fa troppo male scavare nel passato. In lui, come in tanti altri, rimane l’orgoglio di essere cileno, quello dell’attaccamento alla Roja e della goliardia delle Fiestas Patrias, che cadono il 18 settembre e riuniscono tutta la popolazione in balli e canti popolari. Ma è un orgoglio ferito, e rimarrà segnato per sempre.
Hugo non crede nel futuro, per colpa del passato. Gli abitanti di Santiago e del resto del Cile, invece, possono lottare per avere un futuro sempre più equo a livello etico, imparando proprio da un difficile passato in cui il valore di una vita umana dipendeva dall’appartenenza a un partito.
Possono cominciare dal rimuovere tutti i tappeti, magari destinandoli ad abbellire le tante micro sgangherate.

Daniele Biella




Tracce di futuro

Un viaggio in Africa, a contatto con le missioni e i missionari, può essere «l’occasione da non perdere», per chi vuole imparare a guardare la realtà dietro le cose e continuare a sognare che «un altro mondo è possibile». Ancora una volta, i poveri hanno molto da insegnarci… se siamo capaci a metterci in ascolto.

«I l futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto». È stato un viaggio attraverso alcune zone del Kenya, dove operano i missionari della Consolata, a dare un nuovo significato alle parole di Simone Weil, sul cui pensiero medito da anni.
Il viaggio era finalizzato all’incontro con una parte della popolazione e alla conoscenza di alcune attività missionarie che si svolgono in quei luoghi; ha avuto, però, anche la forza di obbligarci a contemplare la paradossale sproporzione tra l’assoluta bellezza degli spettacoli naturali e l’estrema ingiustizia che segna alcune vite umane. Forse, l’incontro con questa realtà ci ha aiutati a tener viva la fiducia nella possibilità di un mondo più equo.

IL CAMMINO DI SOWETO

Il Kenya riflette tutte le contraddizioni che dilaniano il nostro mondo globalizzato e la sua capitale ne è, in un certo senso, un concentrato. Nei «quartieri-bene» di Nairobi si intravedono ville di lusso, immerse in parchi da sogno e difese da alti muri, da filo spinato, anche da guardie; al centro della città e nei suoi rioni periferici residenziali, centri commerciali, banche e grandi alberghi restituiscono un’immagine di benessere.
Eppure, vicinissimi ai luoghi dell’opulenza, anche se nella quasi totalità dei casi ben nascosti, sorgono gli slums, immense baraccopoli dove un’umanità derelitta è costretta a lottare per la propria sopravvivenza e dignità, nutrendo spesso un’estrema, difficile speranza: quella in un futuro diverso. A Soweto, per esempio, dove seimila persone vivono ammassate in poche centinaia di metri quadrati, ho toccato con mano a che cosa alludeva la filosofa spagnola Maria Zambrano quando parlava del sottosuolo su cui si regge l’edificio della storia.
Di Soweto e, in generale, degli slums di Nairobi molto è stato scritto sulla rivista Missioni Consolata, ma è sempre utile ritornare su tale argomento, per ricordare i problemi della gente che vi vive e sottolineare l’infaticabile lavoro dei missionari che vi operano.
A Soweto padre Franco Cellana lavora in mezzo alla gente con straordinaria dedizione, forza e carica vitale. Egli accompagna il cammino di speranza della popolazione alla luce di un progetto d’insieme, in cui problemi materiali, esigenze morali e fame di nutrimento spirituale trovano pari attenzione. Di questo progetto vorrei sottolineare almeno quattro aspetti essenziali.
Il primo è che ogni intervento di promozione umana si inserisce in una prospettiva di trasformazione strutturale delle condizioni esistenti. L’acquisizione della proprietà della terra su cui sorgono le baracche da parte di chi le abita, la costruzione di strade e fognature, l’approvvigionamento d’acqua, l’installazione di punti-luce, scuola e refezione per bambini e ragazzi, la costruzione di case in muratura, la prevenzione e la cura dell’Aids sono le condizioni basilari irrinunciabili perché gli abitanti di Soweto possano incominciare a vivere con dignità. Dentro questo quadro generale si muovono le iniziative particolari.
Il secondo aspetto riguarda la partecipazione costante della popolazione, non solo alla realizzazione dei progetti, ma anche alla loro ideazione. Non si tratta di fruire un po’ passivamente di un aiuto programmato altrove, ma di essere soggetti attivi, pensanti, parlanti e, soprattutto, responsabili, cosicché si attuino, tra missionario e popolazione locale, un’autentica condivisione, un’interazione e un mutuo arricchimento e donazione reciproca.
Il terzo aspetto riguarda la costante interlocuzione con il governo per il riconoscimento degli slums. Questi agglomerati urbani esistono e non possono essere né ignorati né svuotati dei loro abitanti con opere di demolizione delle baracche, essendo gli abitanti stessi persone i cui diritti comportano obblighi e responsabilità pubbliche.
Infine, quarto aspetto, esiste un cornordinamento delle équipes pastorali di alcune parrocchie di Nairobi che, lavorando insieme, possono sia dare forza al movimento di coscientizzazione degli abitanti degli slums, che evitare la dispersione di forze progettuali e operative.

SPERANZE E REALIZZAZIONI

Anche altre realtà missionarie mi hanno fatto ugualmente e diversamente riflettere nel corso del mio viaggio. Penso alla Familia ya ufariji (la casa della consolazione) di Nairobi, dove bambini e ragazzini di strada per lo più orfani, affidati alle cure di padre Gilberto Forese e di alcuni educatori, tentano una non facile integrazione. Questi ragazzi continuano a vivere in famiglia e, al tempo stesso, frequentano scuole estee in modo da evitare la ghettizzazione.
Penso alla Tumaini Children’s Home di Nanyuki, dove bimbi sieropositivi o malati di Aids ricevono assistenza e amore, in un contesto per quanto possibile sereno. Penso agli ospedali ben attrezzati, come quello di Wamba, o ai dispensari e ai centri di formazione tecnica e professionale presenti un po’ dovunque.
Penso a quanto ho ascoltato a Maralal da padre Tablino e padre Tallone, riguardo al lavoro per la riconciliazione tra samburu, turkana e pokot; tre gruppi etnici tradizionalmente ostili gli uni agli altri per questioni legate ai pascoli, ai pozzi d’acqua e alla proprietà del bestiame e, tuttavia, capaci di appianare i loro conflitti in nome non solo di evidenti affinità, ma del valore più alto della pace.
Penso anche a quella grandiosa opera, ormai nota a livello internazionale, che è l’acquedotto ideato da fratel Argese, missionario a Mukululu, e realizzato sotto la sua direzione recuperando l’acqua proveniente dalla condensa nottua che si forma sugli alberi della foresta del Nyambene. L’acquedotto, la cui storia è stata ricostruita nel marzo 2005 dalla rivista Missioni Consolata e al quale sono stati dedicati anche servizi televisivi nell’ambito dei programmi «Geo & Geo» e «Alle falde del Kilimangiaro», fornisce attualmente acqua a 250 mila persone.

VOLTI SENZA MASCHERE

Infine, per concludere, vorrei concentrarmi più a lungo su un incontro, per me di forte impatto emotivo, avvenuto a Sagana, nella «Casa di Betania», con le «vecchiette» di cui si prende cura padre Gerardo Martinelli. Forse perché sono una donna anch’io, o forse perché la curva della mia vita ha raggiunto ormai la sua fase discendente, ho avvertito un’immediata simpatia per queste anziane.
Di molte di loro non si conosce nulla: non l’età, non la storia, non la provenienza originaria; talora neppure il nome. Alla «Casa di Betania» le porta generalmente la polizia; vengono dalla strada dove finiscono per motivi non sempre ricostruibili. Si può pensare che non abbiano più nessuno e restino prive di sostegno e di risorse o che vengano cacciate da casa perché inutili, pesi morti in situazioni già difficili.
Il dato certo è che diventano nude vite esposte alla brutalità del mondo. La «Casa di Betania» non solo le sottrae alla violenza e ai pericoli della strada, ma offre loro un luogo dignitoso e sereno in cui vivere. Se restano loro delle energie, possono svolgere qualche lavoretto, come coltivare l’orto, lavare, pulire le stanze, badare agli animali; dispongono di momenti di solitudine, ma possono godere della compagnia reciproca.
Non tutto è idilliaco, ovviamente, e non sempre i risultati del loro trasferimento sono quelli sperati. Accade, infatti, che qualcuna scappi, ritornando alla strada. Difficile dire cosa le spinga a fuggire da un luogo protetto e accogliente, senza aver in mano alcuna alternativa. Ma in gran parte restano e, forse, riescono a guarire almeno un poco dalle ferite che sono state loro inferte, provando a rinascere come persone, nonostante i mille ostacoli, un lungo tratto di vita già percorso.
Quando facciamo loro visita, le donne non sembrano nutrire alcuna diffidenza nei nostri confronti, come ci si potrebbe aspettare, forse perché il tramite tra noi e loro è padre Martinelli. Proprio questa mediazione rompe, o almeno fluidifica, i confini che ci separano e consente l’inizio di una relazione, sia pure fatta di gesti e di sguardi più che di parole.
Ci accolgono, infatti, con espressioni di benvenuto, scambi di jambo, strette di mano, sorrisi. È come se, attraverso i corpi, si attuasse un travaso di anime. Credo di poter leggere nei loro gesti un infinito bisogno di affetto, ma soprattutto il desiderio di esserci, di rendersi visibili, di contare qualcosa, almeno per un momento.
Qualcuna di loro ha un aspetto vitale. Qualche altra, con gli arti rattrappiti, ha bisogno di una sedia a rotelle spinta dalle compagne dotate di maggior vigore. Commuove vedere quest’espressione di solidarietà che le esperienze di deprivazione da cui vengono non hanno cancellato e che basta un contesto adeguato per far emergere.
L’età di queste donne è indefinibile; ma, quanto più i loro volti sono solcati da rughe profonde, tanto più sono straordinariamente espressivi e, in modi diversi, belli, intensi, vissuti. Osservae la fragile bellezza e l’irriducibile unicità mi ricorda la filosofia di Lévinas e il suo richiamo all’appello implicito nell’assolutezza dell’alterità dell’altro.
Al tempo stesso, queste donne, prive di orpelli e di maschere sociali, spogliate di quello che siamo abituati a chiamare identità (e che invece spesso deriva da una serie di ruoli e appartenenze), dicono anche qualcosa di me, mi offrono uno specchio impietoso in cui guardarmi, mi interpellano e mi impegnano a fare la mia parte perché il mondo sia un po’ meno squilibrato.

UN’ALTRA STORIA

Camminando tra le baracche di Soweto, ascoltando i canti degli orfani della Familia ya ufariji, accarezzando i piccoli della Tumaini Children’s Home, abbracciando le «vecchiette», entrando negli ospedali, ho messo più concretamente a fuoco come siano proprio i calpestati, i divorati dalla storia, le «vite di scarto» a sprigionare, di fatto, con il loro stesso esistere, una forza di contrasto e a rappresentare il margine di incompiutezza, di irrealizzazione della storia, esplicando un’energia specifica e segnalando che un altro mondo è necessario.
Ma, in Kenya, di questo mondo «altro» ho anche intravisto le tracce. Nella storia c’è violenza, quella che ha buttato ai margini del consorzio sociale, letteralmente al bordo della strada, questi «poveri» che ho incontrato; ma ciò non significa affatto che tale violenza sia la realtà ultima o essenziale della storia stessa. La solidarietà, l’assistenza, la condivisione, l’appoggio nella difesa dei loro diritti, la promozione della loro dignità, nonché lo sforzo di far assumere a queste persone la responsabilità del loro destino, sono altrettanti segni che la storia può andare in un’altra direzione; in modo tale che, in essa, i senza-nome, gli invisibili possano avere un posto riconosciuto.
Non credo affatto che il dolore, la sofferenza, il male possano sparire dal mondo, ma ritengo che, almeno, possa essee eliminata quella parte che deriva dai rapporti di forza. Infatti, per citare ancora Simone Weil: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini».

Bruna Colombo




A proposito di soia

Mi congratulo per il bel servizio su Roraima (M.C. 12/2005). Un complimento particolare a Silvia Zaccaria. Poche ore dopo aver letto l’articolo, ho visto e ascoltato Silvia su Rai3, nella rubrica Geo & Geo (21 dicembre 2005).
Silvia e la conduttrice hanno ricordato le figure di Chico Mendes, di cui ricorreva il 17° anniversario della morte, e di suor Dorothy Stang, la missionaria statunitense trucidata il 23/1/05 dai sicari legati al giro dei grandi latifondisti e allevatori di bestiame, che non tolleravano il suo impegno per lo sviluppo sostenibile. Alla fine della trasmissione hanno parlato del ruolo che le piantagioni di soia giocano nella scomparsa della foresta amazzonica.
È appunto sulla soia che volevo rivolgervi alcune domande.
1 – Ci si può definire «innamorati del Brasile», «solidali con i popoli dell’America Latina», «favorevoli a una politica di equità sociale nel rispetto degli ecosistemi», se si continua ad accettare dal mercato beni prodotti nel più totale dispregio dei diritti e doveri dell’uomo e delle leggi della natura? È sincera la condanna del neoliberismo e della sua arroganza, quando manca la determinazione a ribellarsi ai nuovi capricci e alla moda consumistica dell’ultima ora, quale è appunto la moda della soia?
2 – Non era già abbastanza alta la febbre dell’oro e altri metalli più o meno «preziosi»? Non era abbastanza la foresta sacrificata per far posto al caffè, cacao, canna da zucchero, tabacco, banana, ananas? C’era proprio bisogno di sacrificarne altra per far diventare il Brasile primo produttore mondiale di un legume che, rispetto a tanti altri, non è né più buono, né più sano, né più nutriente?
3 – Può la dietetica fare a pugni con l’etica? Il boom della soia (compresa quella geneticamente modificata) in Brasile e Argentina non è anche la conseguenza della superficialità, della frivolezza dei consumatori occidentali e comunque convertiti allo stile di vita occidentale?
Non è una vergogna che a queste persone importi così poco sapere che per produrre la «bistecca» di soia che trovano al ristorante o al supermercato, è stata rasa al suolo una foresta, è stato irrimediabilmente inquinato un lago, pregiudicato il futuro di una comunità indigena e tanti uomini, donne e bambini sono stati uccisi o ridotti in schiavitù?
Non è una vergogna consumare soia brasiliana e argentina, quando è arcinoto che delle famose proprietà «ipocolesterolemizzanti, ipoglicemizzanti, antiossidanti…» possedute dalla soia sono dotati anche altri legumi che crescono benissimo nei paesi del vecchio mondo e potrebbero essere prodotti in quantità molto maggiori (ceci, fagioli, lenticchie, piselli…), senza alcun bisogno di abbattere foreste pluviali, sradicare popolazioni indigene, prosciugare bacini naturali (o creare bacini artificiali che sommergono migliaia di chilometri quadrati di vegetazione), di costruire speciali vie di comunicazione transcontinentale, di avvalersi delle subdole tecniche dell’ingegneria genetica caldeggiate da Monsanto e C.?

Urbino

Stefania De Tigris