VIVA LA ROJA

Un cileno su tre vive nella capitale, nelle cui periferie, come quella di Peñalolen, molta gente nasconde le ferite aperte dalla dittatura di Pinochet dietro la facciata della normalità. Oltre alla squadra nazionale di calcio, dal mese di gennaio i cileni hanno un buon motivo di orgoglio e di speranza, con l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza del paese.

Un’immensa distesa di luci gialle, a perdita d’occhio. Se una notte ti capita di ammirare Santiago del Cile da Peñalolen, quartiere periferico che finisce dove cominciano le Ande, rimani senza parole. Quei puntini luminosi che fanno fatica a entrare nel tuo campo visivo ti fanno capire che una metropoli latinoamericana è grande, proprio grande.
Non ha le cifre di Città del Messico o San Paolo, ma con i suoi cinque milioni di abitanti Santiago ospita il 35% della popolazione totale, vale a dire un cileno su tre. Gli altri? Vivono lungo i 4 mila chilometri del paese, il più lungo e stretto del continente, imbrigliato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico.
A Santiago, spesso, l’aria fa ammalare. Chiusa in una conca dalle montagne circostanti, la città non riesce a liberarsi dall’inquinamento che produce: la nube che si ferma a pochi metri d’altezza, imponente, giallastra, ti entra nelle vie respiratorie e lì ci rimane, fino a quando un raro acquazzone non ti permette di assaporare, ma solo per un attimo, l’odore delle stagioni.
Le stufe a legna, dichiarate fuorilegge dal governo per il fumo che sprigionano, sono ancora presenti. Soprattutto nelle zone più povere: una baracca che s’incendia è una stufa malridotta, assemblata male o troppo vicina a materiale infiammabile.
E di baracche, a Santiago del Cile, ce ne sono a volontà. Ma spesso non si vedono, perché nascoste tra case normali o «mimetizzate» tra esse. Ricco o povero, bianco o meticcio, il cileno è orgoglioso della sua patria: provate a cercarne uno per le strade in occasione delle partite della Roja (Rossa, la nazionale di calcio cilena), rimarrete completamente a mani vuote.

UN PULLMAN ARANCIONE

La strada che porta dall’aeroporto internazionale al centro città ti riempie gli occhi di «normalità». Industrie, cantieri, cartelloni pubblicitari, e poi grattacieli, macchine modee, ristoranti, cinema multisala: il modello di vita occidentale è stato assimilato completamente anche a queste latitudini.
Nella frenesia degli acquisti, del ritmo di lavoro, delle relazioni fra le persone, il centro di Santiago ricorda il Nord Italia. Persino i lineamenti delle persone, a volte, ricalcano quelli europei.
Le micro, gli onnipresenti pullman arancioni, sfrecciano per le vie della città in eterna competizione: chi ha più passeggeri ha maggiori guadagni, buona parte degli autisti sono proprietari del mezzo, e ognuno di essi lo personalizza a piacimento, con tendine colorate, santini, portafortuna, scritte e immagini incollate ai vetri.
Se riesci a prenderla o a salire senza cadere, la micro ti racconta Santiago, essendone il mezzo di trasporto più diffuso e popolare, che raggiunge anche le periferie più estreme. Salgono studenti, lavoratori, disoccupati (il 9% secondo le stime ufficiali, almeno il doppio a giudicare da quello che si vede nelle strade), anziani (ma pochissimi pensionati, la previdenza sociale è una chimera), vagabondi, artisti che si esibiscono in cambio di una mancia e mercanti di ogni bene di consumo, commestibile o meno.
I disoccupati, dice il governo, sono circa il 9%, meno dell’Italia. Ma se poi scopri che «occupati» sono considerati tutti coloro che hanno guadagnato anche solo qualche peso durante l’anno, il discorso cambia.
Luis è uno di questi: 35 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per furto, vende gelati sui pullman e agli incroci stradali. Lo incontri a una mensa popolare, tutti i giorni, dove racconta le sue peripezie agli altri avventori (anziani, alcolizzati cronici, famiglie indigenti) caricandole di immagini forti: «Ieri i carabineros mi hanno fermato (Luis non ha il permesso per fare il venditore ambulante, quasi nessuno ce l’ha); ho cercato di scappare, ma mi hanno raggiunto. E sono state botte da orbi» dice mostrandoti grossi lividi su braccia e gambe.
Per conoscere Luis e tanti altri come lui devi cambiare il tuo modo di «vedere» Santiago: via dal luccichio dei negozi del centro, via dai grattacieli della zona commerciale di Providencia, via dalle sontuose ville e dai futuristici centri commerciali di Las Condes e La Reina, dove sembra di passeggiare sopra un enorme tappeto di benessere.
Il cileno che tiene plata (ha i soldi, e ne ha tanti) vive in un mondo in cui tutto è possibile, a portata di mano. Cliniche private, università prestigiose, servizi alla persona impeccabili e tutti nelle vicinanze: un paradiso sociale.
Ma c’è un altro cileno, tanto diffuso quanto nascosto, che per tutta la vita sarà chiuso in un altro mondo, fatto di miseria, soprusi, nessuna speranza di sbarcare il lunario.
Nascosto perché vive lontano dai riflettori, in posti dai nomi molto meno accattivanti: La Pintana, Maipú, La Legua. O Peñalolen, il luogo da cui vedi le «luci gialle», la cui situazione merita una fermata speciale.

SOTTO IL TAPPETO

Con 200 mila abitanti, l’aria più pulita della città (lontano dal centro, 700 metri sul livello del mare) è uno degli esperimenti più riusciti di politiche socio-ambientali (una vasta comunità ecologica in cui centinaia di artisti e musicisti vivono in modo autonomo offrendo spunti culturali di notevole livello), Peñalolen avrebbe tutte le caratteristiche per essere un quartiere ricco, come la vicina La Reina. Ma non è così.
C’è una chilometrica cancellata che divide i due quartieri su Avenida Josè Arrieta, arteria importante della zona est di Santiago: dietro queste inferriate, guardie private assicurano agli abitanti di La Reina quel paradiso sociale di cui sopra.
Dall’altra parte, nessuna guardia, molta più gente a piedi apparentemente senza meta, cani randagi e affamati ai bordi delle strade. Ma niente esagerazioni: le case sono modeste ma di mattoni; le attività commerciali non mancano; frotte di bambini si recano a scuola con il loro grembiule color piombo, tanto obbligatorio quanto «scialbo».
Dove sta il dilemma? Toiamo per un attimo all’immagine del tappeto.
Se ci avviciniamo a queste case all’apparenza normali, notiamo subito due cose: una striscia verde, impeccabile, di erba, e una stradina che, circumnavigando l’abitazione, sparisce dietro di essa.
La striscia verde, innaffiata quotidianamente da ogni buon cileno, memore di un’efficace affermazione venuta dagli ambienti governativi («il giardino davanti a casa è lo specchio della vostra anima»), è il trionfo dell’apparenza: dentro, le case non sono così pulite, belle; spesso il cibo a tavola è scarso, l’arredamento ridotto all’essenziale, i letti meno delle persone. Invece, la televisione c’è e troneggia nel salotto, radio e computer non sono così insoliti.
La stradina è la via che conduce alla verità: ti aspetti un giardino nel retro, trovi una baracca; sposti di qualche metro lo sguardo, ne trovi un’altra, poi un’altra ancora.
Ecco che il tappeto si alza, per poi sparire senza lasciare traccia. Sotto questo tappeto centinaia di famiglie, migliaia di bambini che vivono in condizioni di forte disagio. Famiglie del tutto atipiche: padri inesistenti, ragazze-madri ospitate da zii, nonni, o conviventi con fratelli, cugini; un nugolo di niños che spesso condivide il proprio letto con due, tre persone adulte, con le conseguenze del caso. Nelle baracche, oltre all’acqua calda e alla vasca da bagno, mancano le divisioni fra gli ambienti.
Perché queste baracche così nascoste? Sono le uniche abitazioni che si trovano, per chi non è povero. L’affitto, seppur alto, è contrattabile con il proprietario del terreno, reduce anch’egli da un passato simile e dunque, quando va bene, «sensibile».
Ma la ragione vera è un’altra: se sei così nascosto, nessuno ti può vedere «dentro». Per ricostruirti un’immagine nella società, spendi i pochi soldi che hai in capi d’abbigliamento e altri beni secondari che ti fanno apparire interessante. Non ti accorgi, ma baratti la dignità con il materialismo, passando dalla povertà alla miseria.
A Peñalolen, negli ultimi 40 anni, si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla campagna, in cerca di un’anonima ma più speranzosa vita di città. Il quartiere si è espanso, tuttavia, con le Ande così vicine, i nuovi arrivati si sono dovuti incastrare dove hanno potuto. Poi è arrivata la dittatura, e con essa la volontà del regime militare di «ripulire il cuore della capitale»: migliaia di senzatetto, vagabondi cacciati nelle periferie, laggiù dove nessuno può né vederli né sentire il loro odore. Sotto il tappeto, dunque.
Molti sono stati torturati, chissà quanti desaparecidos (scomparsi) o eliminati sommariamente; pochi altri, quelli con più niente da perdere, si sono riorganizzati. Chi impugnando armi, aumentando in tal modo la spirale della violenza, chi i propri diritti: prendi un terreno qualsiasi, ne rivendichi il possesso, costruisci case di lamiera, legno, polistirolo, a volte decine in una sola notte, ti attacchi a edifici circostanti per ottenere luce, acqua, gas. Fai così nascere i campamentos: versione tutta cilena, assai organizzata a livello politico, delle baraccopoli sudamericane.

LE FERITE, IL FUTURO

Pinochet è l’eterno incubo con cui, ancora oggi, deve fare i conti gran parte della popolazione cilena.
Ultraottantenne, finalmente subissato dai processi a suo carico (per violazione dei diritti umani, dove riesce sempre a farla franca, facendosi passare per pazzo; per frodi bancarie di migliaia di dollari, per le quali anche la sua famiglia è finita agli arresti) e da «fedeli del regime», che gli voltano le spalle, il generale in ritiro Augusto Pinochet ha ancora il 30 per cento della popolazione che lo apprezza.
Persone che, per la maggior parte, hanno vissuto la dittatura senza conoscee le efferatezze, in quanto appartenenti alle classi alte, o lontani dalla politica. Sono molti quelli che negano la politica di terrore fisico e psicologico del regime, nonostante le migliaia di testimonianze raccolte e il recupero storico dei «luoghi della tortura»: case e ville private, scuole, edifici dismessi, disseminati in tutto il paese.
Uno di questi, il più famoso, è la Villa Grimaldi, che, guarda caso, si trova proprio a Peñalolen, al numero 8201 di Avenida Arrieta. Dall’11 settembre 1973, giorno del golpe, per i primi 5 anni del regime, migliaia di dissidenti politici e semplici cittadini «sospetti» sono stati sottoposti a violazioni di diritti umani, con forme brutali e umilianti. Chi per pochi giorni, settimane o mesi interi, chi scomparendo nel nulla o non uscendone vivo.
Hugo, che oggi ha 53 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più, è entrato e uscito diverse volte dalla Villa in quegli anni. Ieri era sostenitore del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, oggi si ritrova ridotto a uno straccio: fegato spappolato, numerose fratture intee che non si sono mai rimarginate, dentatura pressoché inesistente e una sofferenza sul viso che si attenua solo quando c’è una bottiglia di vino tinto nel suo campo visivo. Le torture l’hanno ucciso dentro, tanto da non aver risposto all’ultimo appello del governo, che ha chiesto ai cittadini di «raccontare» le proprie storie, in un tentativo di cancellare gli orrori del passato recente (la dittatura è caduta nel 1990, con l’esito a sorpresa di un referendum che avrebbe dovuto prolungarla), riportando verità e giustizia.
A Hugo fa troppo male scavare nel passato. In lui, come in tanti altri, rimane l’orgoglio di essere cileno, quello dell’attaccamento alla Roja e della goliardia delle Fiestas Patrias, che cadono il 18 settembre e riuniscono tutta la popolazione in balli e canti popolari. Ma è un orgoglio ferito, e rimarrà segnato per sempre.
Hugo non crede nel futuro, per colpa del passato. Gli abitanti di Santiago e del resto del Cile, invece, possono lottare per avere un futuro sempre più equo a livello etico, imparando proprio da un difficile passato in cui il valore di una vita umana dipendeva dall’appartenenza a un partito.
Possono cominciare dal rimuovere tutti i tappeti, magari destinandoli ad abbellire le tante micro sgangherate.

Daniele Biella

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