Il «paese delle Aquile» ha una caratteristica pressoché unica: la popolazione che vive al di fuori dei confini è quasi uguale al numero di coloro che vi vivono dentro – 3 milioni contro 3.3 -, un terzo dei quali concentrati nella capitale Tirana, luogo dove ogni giorno si vede abbattere una casa di solidi mattoni, costruita dal regime fascista negli anni ’30, per far posto ad un frettoloso palazzo di almeno 15 piani, spesso costruito con denaro ripulito da qualche traffico illecito. Teatro del conflitto italo-greco durante la seconda guerra mondiale, sotto il dominio dittatoriale del partito comunista guidato da Enver Hoxha per oltre mezzo secolo, solo nel 1989 l’Albania avvia una parziale ristrutturazione dell’economia e, abolendo i divieti d’ingresso per i turisti, riprende i rapporti con gli Usa e con l’Urss, autorizza la professione religiosa, riduce il numero di reati punibili con la pena di morte e concede il diritto alla proprietà dell’abitazione. Dal 3 luglio 2005, dopo otto anni all’opposizione di Fatos Nano, il primo ministro è nuovamente Sali Berisha, costretto a lasciare il potere nel 1997, quando il paese piombò nel caos più totale – durante il quale la popolazione perse circa 1.2 miliardi di dollari con lo scandalo delle piramidi finanziarie – e i disordini causarono quasi 3.000 morti.
L’urbanizzazione e la sovrappopolazione sono le principali sfide del governo locale: il flusso migratorio dalla campagna alla capitale trova ragione nella povertà economica e sociale che interessa oltre l’80% della popolazione, spesso privata della tutela dei diritti fondamentali e, dal 1990, si trasforma in un’emigrazione verso l’estero – ritenuta il modo più sicuro per assicurarsi un futuro -, influenzata più da forze di avversione per il proprio paese, che da forze attrattive dei paesi di destinazione. Con promesse di matrimonio o prospettive di un’occupazione lavorativa, migliaia di ragazze sono finite sulle nostre strade, prigioniere dei loro aguzzini ma anche della situazione, essendo il rientro in famiglia difficilissimo, sia per la cultura albanese che non accetta la prostituzione, sia per il fatto che spesso sono le famiglie stesse complici ignare dell’espatrio.
Qualcosa sta lentamente cambiando ed i giovani – la fascia d’età 0-19 anni rappresenta oltre il 40% della popolazione – che arrivano nelle città per conseguire un titolo di studio, chiedono a gran voce riforme sociali, trasparenza e lotta ad una corruzione che, per troppi anni, ha tacitamente accontentato le generazioni precedenti. Cinquant’anni di dittatura hanno spolpato il sapere di un popolo che guardando nell’ultimo decennio il mondo con la parabola, ha cercato «Lamerica» oltre l’Adriatico scoprendo che, alla fine, si sta meglio a casa propria. Ed i fratelli minori dei primi migranti scelgono oggi sempre più di restare… per cambiare le cose, per tingere di colore – come sta metaforicamente succedendo sui muri della capitale – un futuro vittima di un passato che troppo spesso ha rinnegato se stesso.
Paolo Rossi