Un viaggio in Africa, a contatto con le missioni e i missionari, può essere «l’occasione da non perdere», per chi vuole imparare a guardare la realtà dietro le cose e continuare a sognare che «un altro mondo è possibile». Ancora una volta, i poveri hanno molto da insegnarci… se siamo capaci a metterci in ascolto.
«I l futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto». È stato un viaggio attraverso alcune zone del Kenya, dove operano i missionari della Consolata, a dare un nuovo significato alle parole di Simone Weil, sul cui pensiero medito da anni.
Il viaggio era finalizzato all’incontro con una parte della popolazione e alla conoscenza di alcune attività missionarie che si svolgono in quei luoghi; ha avuto, però, anche la forza di obbligarci a contemplare la paradossale sproporzione tra l’assoluta bellezza degli spettacoli naturali e l’estrema ingiustizia che segna alcune vite umane. Forse, l’incontro con questa realtà ci ha aiutati a tener viva la fiducia nella possibilità di un mondo più equo.
IL CAMMINO DI SOWETO
Il Kenya riflette tutte le contraddizioni che dilaniano il nostro mondo globalizzato e la sua capitale ne è, in un certo senso, un concentrato. Nei «quartieri-bene» di Nairobi si intravedono ville di lusso, immerse in parchi da sogno e difese da alti muri, da filo spinato, anche da guardie; al centro della città e nei suoi rioni periferici residenziali, centri commerciali, banche e grandi alberghi restituiscono un’immagine di benessere.
Eppure, vicinissimi ai luoghi dell’opulenza, anche se nella quasi totalità dei casi ben nascosti, sorgono gli slums, immense baraccopoli dove un’umanità derelitta è costretta a lottare per la propria sopravvivenza e dignità, nutrendo spesso un’estrema, difficile speranza: quella in un futuro diverso. A Soweto, per esempio, dove seimila persone vivono ammassate in poche centinaia di metri quadrati, ho toccato con mano a che cosa alludeva la filosofa spagnola Maria Zambrano quando parlava del sottosuolo su cui si regge l’edificio della storia.
Di Soweto e, in generale, degli slums di Nairobi molto è stato scritto sulla rivista Missioni Consolata, ma è sempre utile ritornare su tale argomento, per ricordare i problemi della gente che vi vive e sottolineare l’infaticabile lavoro dei missionari che vi operano.
A Soweto padre Franco Cellana lavora in mezzo alla gente con straordinaria dedizione, forza e carica vitale. Egli accompagna il cammino di speranza della popolazione alla luce di un progetto d’insieme, in cui problemi materiali, esigenze morali e fame di nutrimento spirituale trovano pari attenzione. Di questo progetto vorrei sottolineare almeno quattro aspetti essenziali.
Il primo è che ogni intervento di promozione umana si inserisce in una prospettiva di trasformazione strutturale delle condizioni esistenti. L’acquisizione della proprietà della terra su cui sorgono le baracche da parte di chi le abita, la costruzione di strade e fognature, l’approvvigionamento d’acqua, l’installazione di punti-luce, scuola e refezione per bambini e ragazzi, la costruzione di case in muratura, la prevenzione e la cura dell’Aids sono le condizioni basilari irrinunciabili perché gli abitanti di Soweto possano incominciare a vivere con dignità. Dentro questo quadro generale si muovono le iniziative particolari.
Il secondo aspetto riguarda la partecipazione costante della popolazione, non solo alla realizzazione dei progetti, ma anche alla loro ideazione. Non si tratta di fruire un po’ passivamente di un aiuto programmato altrove, ma di essere soggetti attivi, pensanti, parlanti e, soprattutto, responsabili, cosicché si attuino, tra missionario e popolazione locale, un’autentica condivisione, un’interazione e un mutuo arricchimento e donazione reciproca.
Il terzo aspetto riguarda la costante interlocuzione con il governo per il riconoscimento degli slums. Questi agglomerati urbani esistono e non possono essere né ignorati né svuotati dei loro abitanti con opere di demolizione delle baracche, essendo gli abitanti stessi persone i cui diritti comportano obblighi e responsabilità pubbliche.
Infine, quarto aspetto, esiste un cornordinamento delle équipes pastorali di alcune parrocchie di Nairobi che, lavorando insieme, possono sia dare forza al movimento di coscientizzazione degli abitanti degli slums, che evitare la dispersione di forze progettuali e operative.
SPERANZE E REALIZZAZIONI
Anche altre realtà missionarie mi hanno fatto ugualmente e diversamente riflettere nel corso del mio viaggio. Penso alla Familia ya ufariji (la casa della consolazione) di Nairobi, dove bambini e ragazzini di strada per lo più orfani, affidati alle cure di padre Gilberto Forese e di alcuni educatori, tentano una non facile integrazione. Questi ragazzi continuano a vivere in famiglia e, al tempo stesso, frequentano scuole estee in modo da evitare la ghettizzazione.
Penso alla Tumaini Children’s Home di Nanyuki, dove bimbi sieropositivi o malati di Aids ricevono assistenza e amore, in un contesto per quanto possibile sereno. Penso agli ospedali ben attrezzati, come quello di Wamba, o ai dispensari e ai centri di formazione tecnica e professionale presenti un po’ dovunque.
Penso a quanto ho ascoltato a Maralal da padre Tablino e padre Tallone, riguardo al lavoro per la riconciliazione tra samburu, turkana e pokot; tre gruppi etnici tradizionalmente ostili gli uni agli altri per questioni legate ai pascoli, ai pozzi d’acqua e alla proprietà del bestiame e, tuttavia, capaci di appianare i loro conflitti in nome non solo di evidenti affinità, ma del valore più alto della pace.
Penso anche a quella grandiosa opera, ormai nota a livello internazionale, che è l’acquedotto ideato da fratel Argese, missionario a Mukululu, e realizzato sotto la sua direzione recuperando l’acqua proveniente dalla condensa nottua che si forma sugli alberi della foresta del Nyambene. L’acquedotto, la cui storia è stata ricostruita nel marzo 2005 dalla rivista Missioni Consolata e al quale sono stati dedicati anche servizi televisivi nell’ambito dei programmi «Geo & Geo» e «Alle falde del Kilimangiaro», fornisce attualmente acqua a 250 mila persone.
VOLTI SENZA MASCHERE
Infine, per concludere, vorrei concentrarmi più a lungo su un incontro, per me di forte impatto emotivo, avvenuto a Sagana, nella «Casa di Betania», con le «vecchiette» di cui si prende cura padre Gerardo Martinelli. Forse perché sono una donna anch’io, o forse perché la curva della mia vita ha raggiunto ormai la sua fase discendente, ho avvertito un’immediata simpatia per queste anziane.
Di molte di loro non si conosce nulla: non l’età, non la storia, non la provenienza originaria; talora neppure il nome. Alla «Casa di Betania» le porta generalmente la polizia; vengono dalla strada dove finiscono per motivi non sempre ricostruibili. Si può pensare che non abbiano più nessuno e restino prive di sostegno e di risorse o che vengano cacciate da casa perché inutili, pesi morti in situazioni già difficili.
Il dato certo è che diventano nude vite esposte alla brutalità del mondo. La «Casa di Betania» non solo le sottrae alla violenza e ai pericoli della strada, ma offre loro un luogo dignitoso e sereno in cui vivere. Se restano loro delle energie, possono svolgere qualche lavoretto, come coltivare l’orto, lavare, pulire le stanze, badare agli animali; dispongono di momenti di solitudine, ma possono godere della compagnia reciproca.
Non tutto è idilliaco, ovviamente, e non sempre i risultati del loro trasferimento sono quelli sperati. Accade, infatti, che qualcuna scappi, ritornando alla strada. Difficile dire cosa le spinga a fuggire da un luogo protetto e accogliente, senza aver in mano alcuna alternativa. Ma in gran parte restano e, forse, riescono a guarire almeno un poco dalle ferite che sono state loro inferte, provando a rinascere come persone, nonostante i mille ostacoli, un lungo tratto di vita già percorso.
Quando facciamo loro visita, le donne non sembrano nutrire alcuna diffidenza nei nostri confronti, come ci si potrebbe aspettare, forse perché il tramite tra noi e loro è padre Martinelli. Proprio questa mediazione rompe, o almeno fluidifica, i confini che ci separano e consente l’inizio di una relazione, sia pure fatta di gesti e di sguardi più che di parole.
Ci accolgono, infatti, con espressioni di benvenuto, scambi di jambo, strette di mano, sorrisi. È come se, attraverso i corpi, si attuasse un travaso di anime. Credo di poter leggere nei loro gesti un infinito bisogno di affetto, ma soprattutto il desiderio di esserci, di rendersi visibili, di contare qualcosa, almeno per un momento.
Qualcuna di loro ha un aspetto vitale. Qualche altra, con gli arti rattrappiti, ha bisogno di una sedia a rotelle spinta dalle compagne dotate di maggior vigore. Commuove vedere quest’espressione di solidarietà che le esperienze di deprivazione da cui vengono non hanno cancellato e che basta un contesto adeguato per far emergere.
L’età di queste donne è indefinibile; ma, quanto più i loro volti sono solcati da rughe profonde, tanto più sono straordinariamente espressivi e, in modi diversi, belli, intensi, vissuti. Osservae la fragile bellezza e l’irriducibile unicità mi ricorda la filosofia di Lévinas e il suo richiamo all’appello implicito nell’assolutezza dell’alterità dell’altro.
Al tempo stesso, queste donne, prive di orpelli e di maschere sociali, spogliate di quello che siamo abituati a chiamare identità (e che invece spesso deriva da una serie di ruoli e appartenenze), dicono anche qualcosa di me, mi offrono uno specchio impietoso in cui guardarmi, mi interpellano e mi impegnano a fare la mia parte perché il mondo sia un po’ meno squilibrato.
UN’ALTRA STORIA
Camminando tra le baracche di Soweto, ascoltando i canti degli orfani della Familia ya ufariji, accarezzando i piccoli della Tumaini Children’s Home, abbracciando le «vecchiette», entrando negli ospedali, ho messo più concretamente a fuoco come siano proprio i calpestati, i divorati dalla storia, le «vite di scarto» a sprigionare, di fatto, con il loro stesso esistere, una forza di contrasto e a rappresentare il margine di incompiutezza, di irrealizzazione della storia, esplicando un’energia specifica e segnalando che un altro mondo è necessario.
Ma, in Kenya, di questo mondo «altro» ho anche intravisto le tracce. Nella storia c’è violenza, quella che ha buttato ai margini del consorzio sociale, letteralmente al bordo della strada, questi «poveri» che ho incontrato; ma ciò non significa affatto che tale violenza sia la realtà ultima o essenziale della storia stessa. La solidarietà, l’assistenza, la condivisione, l’appoggio nella difesa dei loro diritti, la promozione della loro dignità, nonché lo sforzo di far assumere a queste persone la responsabilità del loro destino, sono altrettanti segni che la storia può andare in un’altra direzione; in modo tale che, in essa, i senza-nome, gli invisibili possano avere un posto riconosciuto.
Non credo affatto che il dolore, la sofferenza, il male possano sparire dal mondo, ma ritengo che, almeno, possa essee eliminata quella parte che deriva dai rapporti di forza. Infatti, per citare ancora Simone Weil: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini».
Bruna Colombo