QUALI SPERANZE PER L’ALBANIA?

Quando Madre Teresa, nel 1979, ricevette il Premio Nobel, si espresse così: «Ho sempre nel cuore il mio popolo albanese e prego Dio affinché la Sua pace ed il Suo amore siano nei nostri cuori, in ogni famiglia».
Madre Teresa era albanese. Se si segue l’evolversi della sua opera, si comprende che se non fosse stata albanese non sarebbe stata Madre Teresa, senza nulla togliere al valore dell’opera di Dio nelle vicende umane. Anzi, si potrebbe dire che Dio affidò questa sua opera proprio ad una albanese, perché ne conosceva bene le caratteristiche: la determinazione, la testardaggine nel perseguire quanto prefissato e deciso, l’instancabilità di fronte alle difficoltà di qualsiasi genere.
Madre Teresa era una donna albanese. Da quando misi piede la prima volta nel paese, nel luglio 1991, mi sono convinto che la speranza dell’Albania passerà attraverso la donna. Dalla catastrofe del comunismo feudale di Enver Hoxha, il quale, volendo proporre «l’uomo nuovo socialista» in realtà gli ha negato qualsiasi dimensione spirituale, la donna albanese è uscita molto più integra ed affidabile del suo compagno. Essa riesce ad essere più attenta all’essenziale e ad avere una visione meno dispersiva e più definita nel perseguire uno scopo. Questo sembrerà un’eresia a tanti uomini albanesi, convinti che solo l’uomo sia capace di prendere buone decisioni. Parlo delle convinzioni che mi sono fatto in questi anni e parlo soprattutto di un paese che ha il suo futuro solo nell’integrazione europea. Ad accompagnarlo su questa strada, penso che le donne albanesi avranno più successo degli uomini.
Madre Teresa era una donna albanese «emigrante». La valorizzazione dell’esperienza migratoria albanese è un elemento determinante, sia per fondare su basi sicure e solide la definitiva rinascita del paese, sia nel facilitargli il percorso dell’integrazione.
Ora toccherebbe alla politica intervenire per prima sul fenomeno migratorio, con misure che ne contrastino, nel medio termine, i risvolti negativi che pure esistono. Innanzitutto nel valutare la capacità del paese a «rincorrere» il cammino dell’Europa. Bisogna non dimenticare mai che l’emigrazione ha interessato il 20% della popolazione albanese (dato ufficiale del censimento del 2001), cui va aggiunta l’alta percentuale di famiglie della migrazione intea, non inferiore al 12-13%. Ora bisognerebbe immaginare cosa potrebbe succedere in Italia se emigrassero 11 milioni e mezzo di abitanti ed allo stesso tempo altri 7 milioni abbandonassero la campagna per la città…
Oltre a questi dati, poi, occorre considerare anche che il 56% degli emigrati albanesi ha il diploma di scuola media superiore ed il 12% la laurea universitaria. Il paese, cioè, deve anche fare i conti con una disponibilità di energie e di competenze limitata e con la mancanza di stabilità sociale intea.
Il ritorno degli emigrati sarà un elemento di grande importanza per lo sviluppo del paese, perché potranno mettere a disposizione le competenze acquisite, il valore delle relazioni intessute, i loro capitali e dare un impulso definitivo e stabile alla crescita economica e sociale. Di estrema importanza, inoltre, è il loro patrimonio di esperienza nei diversi paesi in cui operano normalmente le forme organizzate della cosiddetta società civile.
La speranza di domani, infine, non può non tener conto anche della necessità che le istituzioni inteazionali assumano un atteggiamento meno superficiale nei confronti di popoli poco conosciuti (e per questo spesso anche poco apprezzati) come gli albanesi. Mustafà Nano, stimato opinionista albanese, sinteticamente dice: « …il dilemma è che noi vogliamo entrare in Europa, ma non siamo capiti dall’Europa».

Pier Paolo Ambrosi