Il 20% della popolazione del Nord del mondo consuma l’86% delle risorse mondiali. Questo squilibrio non è una novità: non è la prima volta che viene sottolineato. Ma il legame fra uomo e ambiente, fra sfruttamento delle risorse e degrado degli ecosistemi naturali è oggetto di uno degli obiettivi del millennio, che getta un ponte fra la consapevolezza della situazione e l’assoluta necessità di passare all’azione.
I paesi ricchi hanno una bella responsabilità sulle spalle. Ai numeri appena citati si può aggiungere che il Nord del mondo è responsabile della produzione del 95% dei rifiuti tossici, nonché del 65% dei gas che contribuiscono all’effetto serra e all’aumento della temperatura della terra: un italiano, per fare un esempio, produce in media 455 chili di rifiuti ogni anno. Cambiare il corso delle cose, prima di tutto, richiede all’umanità intera la conoscenza del danno che sta arrecando all’ambiente, e quindi al suo stesso presente e futuro.
Regno vegetale e animale
Una prima meta è quindi far sì che ogni paese integri nella propria politica programmi di tutela dell’ambiente e di sfruttamento equilibrato delle risorse naturali che il pianeta offre. Basti pensare che, nel campo della pesca, il 70% delle riserve è sfruttato completamente o ipersfruttato, o ancora che il degrado del suolo coinvolge quasi 2 miliardi di ettari di terra, con ripercussioni sulla vita di un miliardo di persone.
Ancora, la superficie terrestre ricoperta da foreste sta riducendosi sempre più, nonostante gli alberi contribuiscano al sostentamento di 1,2 miliardi di soggetti che vivono in miseria e al 90% della biodiversità terrestre.
Se la perdita di parte del patrimonio in foreste appare inevitabile per lo sviluppo economico, vi è spesso una loro distruzione ingiustificata dal punto di vista sia economico sia ambientale. Ne è un esempio la denuncia di novembre 2005 di Global Witness, organizzazione ambientalista, su quanto accade in Myanmar: nello stato birmano del Kachin, al confine con la Cina, migliaia di operai stanno distruggendo una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo; ogni 7 minuti 15 tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra Myanmar e Cina, quantità cui si aggiunge quella che passa la frontiera legalmente.
In altri casi, accanto al taglio indiscriminato degli alberi, si aggiunge la capacità distruttiva del fuoco, come nello stato amazzonico dell’Acre (Brasile), dove gli incendi hanno imperversato per settimane nell’autunno del 2005.
Benché le foreste rappresentino una delle maggiori ricchezze dell’ecosistema, sono bastati 10 anni (fra il 1990 e il 2000), perché la superficie da loro ricoperta venisse ridotta di 940 mila chilometri quadrati, un’area grande quanto il Venezuela. Il motivo? La conversione del territorio boschivo in terreno agricolo o destinato ad altri usi.
Vi sono tuttavia alcuni segnali positivi: oltre il 13% del suolo terrestre, pari a 19 milioni di kmq, è area protetta, con un aumento di superficie del 15% dal 1994; minore fortuna ha invece il patrimonio marino, di cui al momento risulta protetto soltanto l’1%.
La responsabilità dell’uomo è grave anche sulla perdita della biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione, accelerata di 50-100 volte rispetto a quanto accadrebbe in assenza del genere umano. A dicembre 2005, un gruppo di ricercatori della Alliance for Zero Extinction ha lanciato un allarme in proposito, segnalando ben 794 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, se non verranno protette.
Calore e gas
Un altro punto cruciale nel rapporto fra uomo e ambiente è l’aumento della temperatura terrestre, cui le attività umane hanno contribuito. E a patire maggiormente il cambio climatico sono i paesi poveri, più dipendenti dal clima per le loro attività lavorative (agricoltura e pesca), oltre che con minori possibilità di contrastare tali cambi climatici.
Negli ultimi decenni, poi, l’utilizzo di combustibili fossili ha aumentato la produzione di anidride carbonica, che contribuisce all’innalzamento della temperatura. Ogni persona produce annualmente 6-7 milioni di tonnellate di CO2: 2 milioni di tonnellate sono assorbiti dall’oceano, 1,5-2,5 milioni dalle piante, il resto è rilasciato nell’atmosfera.
L’altra faccia della questione, con ricadute immediate sull’uomo, è rappresentata dall’utilizzo dei combustibili solidi (legno, sterco, carbone) nei paesi poveri. Il loro utilizzo domestico, ad es. per cucinare, provoca inquinamento degli ambienti chiusi, responsabile di oltre 1,6 milioni di morti, soprattutto bambini e donne. Nelle abitazioni si diffonderebbero i prodotti nocivi di combustione: per l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo causato dall’uso di combustibili solidi in casa è una delle quattro cause principali di morte e malattia nei paesi in via di sviluppo.
La rivista medica The Lancet ha riportato che l’esposizione per tutto il giorno delle donne a stufe e fornelli quadruplica loro il rischio di sviluppare malattie polmonari croniche ostruttive, con progressiva difficoltà nella respirazione; inoltre, pur essendo necessarie ancora ricerche, sono stati segnalati collegamenti anche tra inquinamento domestico e basso peso dei bambini alla nascita, mortalità infantile, cataratta e cancro.
Acqua disponibile
e sicura
Dimezzare entro il 2015 il numero di persone prive di accesso ad acqua sicura e di un sistema fognario che garantisca livelli igienici di base è il secondo traguardo delineato dal settimo obiettivo del millennio. La necessità di acqua pulita è sottolineata dalla diffusione di malattie e morte ove essa manca: nel 1990 la diarrea ha causato 3 milioni di morti, di cui l’85% bambini. Fra il 1990 e il 2002 circa 400 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua pulita, ma oltre un miliardo è ancora in attesa dell’acqua potabile, di cui il 42% nell’Africa subsahariana e il 22% nell’Asia dell’Est e nel Pacifico. Le situazioni peggiori si rilevano nelle zone rurali dell’Africa e nelle periferie povere delle città.
I progressi sul versante delle misure igieniche sono poi ancora più lenti: 2,6 miliardi di persone non hanno servizi fognari e sanitari adeguati; se le cose proseguono come è stato fra il 1990 e il 2002, questa cifra scenderà soltanto a 2,4 miliardi nel 2015. Le conseguenze della mancanza di acqua pulita e di fognature sono un numero di bambini uccisi dalla diarrea negli anni ‘90 superiore ai morti in tutti i conflitti armati dalla seconda guerra mondiale.
L’acqua è un bene prezioso, tanto da essere definita «oro blu» e diventare causa di conflitti fra popolazioni: eppure spesso è sprecata da chi ne ha in abbondanza. Se ne sono accorti anche alcuni bambini messicani, che proprio perché vivono costantemente con la paura, un giorno, di non avere più accesso al prezioso liquido, combattono contro gli sprechi. Hanno creato un gruppo chiamato Guardianes del Agua, per sensibilizzare la popolazione e stimolare un utilizzo razionale dell’oro blu. I guardiani dell’acqua, più di 5 mila bambini, si preoccupano di preservare questa risorsa naturale, cercando anche di favorire la formazione di una coscienza sociale su questo problema.
I quartieri poveri
La vita nei bassifondi è l’ultimo tema toccato dal settimo obiettivo. La rapida urbanizzazione dei paesi poveri ha portato circa un miliardo di persone a vivere nelle periferie degradate delle città, rappresentandone un terzo della popolazione totale. Fra il 1990 e il 2001 vi è stato un aumento del 28% degli abitanti dei bassifondi, pari a circa 200 milioni di persone arrivate nelle periferie povere, dove le condizioni di vita aumentano il rischio di malattia, morte e disgrazie.
Il 94% di loro si trova nei paesi poveri, ovvero in quelle regioni dove si è assistito a una rapida crescita della popolazione urbana senza un aumento delle possibilità di accoglienza da parte delle città stesse: ne conseguono scenari di povertà e privazioni fisiche e ambientali. Senza un intervento significativo per migliorare l’accesso all’acqua, il sistema fognario e l’alloggio, nei prossimi 15 anni, il numero di persone che vive in queste drammatiche condizioni potrebbe salire a un miliardo e mezzo.
Valeria Confalonieri