Dopo che le elezioni democratiche nei territori palestinesi hanno dato la maggioranza assoluta ad Hamas, il movimento nato con lo scopo di distruggere Israele, che accadrà? Cosa dovrebbe succedere, per riavviare il cammino di pace
tra israeliani e palestinesi? Sono domande cui non è facile rispondere; tuttavia stimolano ad approfondire una situazione molto complessa.
Il 25 gennaio 2006 si sono svolte per la prima volta le elezioni politiche nei territori palestinesi. Queste elezioni sono state volute fortemente dagli Stati Uniti e contrastate da Israele: i primi perché volevano il rafforzamento della dirigenza di Abu Mazen e Abu Ala; gli altri perché vi scorgevano il principio della fine di un’occupazione ormai non più sostenibile, dopo che lo stesso «falco» Sharon si era convinto della necessità di ritirare una parte degli insediamenti.
I pronostici della vigilia sono stati smentiti clamorosamente: il popolo palestinese, da 60 anni in campi-lager, usando la scheda elettorale ha fatto piazza pulita di un’intera classe dirigente, identificata nel gruppo di Al Fatah, fondato da Arafat, e ha dato la maggioranza assoluta ad Hamas (Movimento di resistenza islamico).
Fondato dallo sceicco Ahmed Yassin e Mohammed Taha nel 1987 con il solo obiettivo di distruggere lo stato d’Israele e impiantare al suo posto uno stato palestinese islamico, Hamas è il gruppo armato più irriducibile, che nell’ultima intifada (2000-2002) ha inventato e utilizzato i kamikaze come bombe umane contro i civili israeliani, causando stragi nel cuore stesso di Israele: i propri figli carne da macello per macellare i figli del nemico.
Da un punto di vista geopolitico, peggio di così non poteva andare. Una domanda preme su tutte: che succederà adesso?
Hamas è nella lista nera dei terroristi, stilata dal governo Bush e condivisa dai governi europei incollati alla politica degli Usa. In Israele è fuori scena Sharon, le cui ultime scelte, prima della malattia invalidante, avevano aperto un fronte interno, rimettendo in moto un processo politico nuovo, approdato in un nuovo partito, Kadìma (Avanti), nato dalla scissione dello storico partito Likud (Rafforzamento).
Il primo contraccolpo si avrà proprio in Israele: alle elezioni di marzo Israele non voterà liberamente, perché la vittoria di Hamas lo condizionerà. Già dal giorno dopo il risultato elettorale, anche Ehud Olmert, sostituto di Sharon a capo di Kadìma, ha cominciato a rincorrere la destra di Netanyhau in dichiarazioni di totale chiusura senza se e senza ma.
Quando vivevo a Gerusalemme, nelle mie corrispondenze durante l’ultima intifada, pronosticavo che la Palestina negli anni a venire avrebbe visto ancora due guerre civili. Una all’interno delle fazioni armate palestinesi: evento che si sta verificando già, perché difficilmente il braccio armato di Al Fatah cederà il potere ad Hamas senza muovere muscolo. La seconda in Israele, che deve decidersi se essere uno stato laico o uno stato teocratico. La scissione di Sharon dal Likud e la formazione di un nuovo soggetto politico è una pietra verso questa soluzione.
L’effetto più sconcertante del risultato, infatti, è la radicalizzazione delle posizioni dentro Israele e il panico in cui sono cadute le organizzazioni estremiste all’interno della striscia di Gaza. Israele torna ad avere paura; Hamas e altri gruppi armati sono nel panico di non sapere come comportarsi. Hamas stesso, infatti, non aveva messo in conto una sua vittoria maggioritaria, ma solo una vittoria di minoranza, che gli avrebbe permesso di condizionare il governo di Al Fatah e restare estremista e all’opposizione.
D a queste elezioni tutti speravano un sussulto di «democrazia», come primo passo verso una soluzione graduale del cancro mediorientale. Il sussulto è accaduto e le regole della democrazia, su schema occidentale, hanno sancito che ha vinto Hamas, il nemico di Israele e Stati Uniti.
Questa vittoria ha un significato, oserei dire, psicoanalitico: il popolo palestinese, frustrato e represso, in parte consapevolmente, ha voluto punire il mondo occidentale per il suo atteggiamento pilatesco nei suoi confronti, eleggendo con lo strumento occidentale delle elezioni il gruppo che per l’Occidente è «puro fumo negli occhi».
Per fare questo, ha punito se stesso, perché Hamas significa isolamento, perdita dell’ingente sostegno economico occidentale, aumento della miseria, sconfinamento nell’inferno della non-vita, che potrebbe proseguire per almeno un altro decennio. È la logica illogica dei processi psichici: mi distruggo pur di distruggerti.
C he accadrà adesso? Nell’ultimo anno, oltre a parlare della Palestina religiosa, abbiamo dedicato due lunghi articoli alla Palestina «politica», intitolati: «Matassa imbrogliata» (MC maggio 2004) e «Abu Mazen tenta l’impresa» (MC marzo 2005). In essi mettevamo in evidenza i nodi geopolitici e quelli strettamente più locali che sarebbe stato necessario risolvere prima di giungere alla posa della prima pietra di un processo di pace.
Dicevamo anche che il cammino sarebbe stato lungo e avrebbe percorso almeno il primo secolo dell’incipiente primo millennio. Il groviglio Palestina è talmente annodato che soltanto chi avrà sapienza storica e intelligenza di stato avrà il privilegio di cominciare la lunga marcia nel deserto verso la Terra Promessa della pace in Palestina.
Abu Mazen è stato certamente un sapiente della storia e uno statista delle possibilità, finché non esercitò alcun potere. Nel momento in cui assunse l’eredità di Arafat, con la speranza ereditò anche una situazione di degenerazione abissale: struttura amministrativa inesistente, governo a immagine e somiglianza del rais, frantumazione di gruppi armati e rete di corruttela che ha soffocato ogni spiraglio di soluzione.
La corruzione diffusa da Arafat sopravvisse alla sua morte. Abu Mazen, uomo onesto e di valore, non ebbe la forza di tagliare l’intreccio mafioso con forza e immediatezza, di denunciare apertamente corrotti e corruttori.
Hamas ebbe facile gioco: fuori dei gangli del potere, si schierò dalla parte del popolo e da questo è stato sempre ricambiato. Il popolo che vive nella miseria, condannato a vita in lager a cielo aperto, come quello di Gaza, sperimenta la vicinanza di Hamas, che si incarica dell’assistenza degli anziani, paga le bollette, mantiene vedove e orfani, si prende cura delle famiglie dei carcerati, vive «con» i baraccati, si fa carico dei problemi spiccioli… Hamas è uno di loro.
Demagogia? Strumentalizzazione? Populismo? C’è tutto questo e anche di più; ma la gente vede che Hamas c’è sempre. Hamas non è un benefattore dell’umanità né del popolo palestinese; egli mira al potere, ma non al governo, perché governare significa scegliere, confrontarsi, prevedere; mentre potere significa essere sempre contro chi pensa in modo diverso, eliminare chi ostacola, distruggere stando all’opposizione senza l’onere delle responsabilità.
H amas è uno di quei frutti proibiti che nascono in Oriente, ma seminati dall’Occidente: è figlio di interessi incrociati. Chiunque ha interesse a destabilizzare la regione (Siria, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi e in modo sotterraneo anche Usa) crea o sostiene gruppi terroristici, finanziandoli con le armi a basso costo finché sono funzionali.
Quando Hamas cominciò a opporsi ad Arafat e la sua politica, giudicata remissiva, armi e finanziamenti provenivano da Usa e Russia, Europa (attraverso le frontiere dell’Egitto) e Israele, senza rigurgiti morali per chi da quegli armamenti traeva profitto. Per un certo tempo, Israele credette di poterlo manovrare, insieme agli altri gruppi terroristici, ma senza riuscirvi. Dopo la 2a intifada, Hamas divenne per Israele il nemico principale da distruggere. L’incapacità degli Usa di gestire una politica organica in tutto l’Oriente (dall’Afghanistan all’Iraq) e l’inesistenza di una politica estera comune europea hanno permesso la radicalizzazione della cancrena mediorientale.
La grandezza di Abu Mazen consiste nell’avere portato il suo popolo e tutti i gruppi a confrontarsi con un sistema quasi democratico. Convinse Hamas a entrare nella dialettica politica accettando il confronto delle elezioni, svoltesi sotto il controllo di Stati Uniti, Europa e Onu.
Tutte le proiezioni davano per vincente Abu Mazen e il suo gruppo Al Fatah. Fin dalla vigilia del voto, gli «esportatori» di democrazia dicevano che finalmente il popolo palestinese poteva cominciare una nuova èra; erano certi che, eleggendo Abu Mazen contando i voti con il criterio «una testa un voto», avrebbero isolato gli estremisti e dato impulso al processo di pace, come inteso e voluto dall’Occidente: una pace sbilanciata verso Israele.
Invece, la democrazia all’occidentale ha scelto Hamas, contro il volere occidentale. Per spirito anti-Bush, certo; per dare una lezione a Israele, sicuro; per chiedere rispetto dai predicatori di libertà, senza dubbio. Il popolo palestinese, esercitando un suo diritto fondamentale e primario, votando liberamente ha scelto contro tutte le aspettative degli altri.
R itorna la domanda iniziale: che cosa accadrà adesso? Anzi, cosa dovrebbe accadere adesso? Cominciamo a rispondere alla seconda domanda: non dovrebbe succedere «niente», perché ci aspettiamo che Stati Uniti, Israele, Europa e l’Onu prendano atto delle elezioni e della lezione di democrazia del popolo palestinese e s’inchinino, senza distinguo, ai risultati.
Hamas ha l’onere del governo e verrà giudicato non «preventivamente», ma solo in base alle scelte che farà e alle posizioni che assumerà nei consessi inteazionali, come si giudica e si esige da qualsiasi altro stato democratico.
Sappiamo che non accadrà, perché alcuni occidentali hanno della democrazia un concetto di sovranità limitata, contrariamente all’attuale governo palestinese di Abu Ala, che a ue ancora aperte si è dimesso, riconoscendo l’esito del voto come volontà del popolo libero e sovrano.
Non così l’ala armata di Al Fatah che, passando all’opposizione, assumerà quella che fu la posizione fino a oggi di Hamas. La guerra civile è sulla soglia.
Pur di non riconoscere Hamas, Israele e Usa cominceranno il balletto di richieste di supplemento di democrazia, come condizione per il riconoscimento. Nessuna risposta di Hamas sarà mai esauriente: di richiesta in richiesta si concluderà con un nulla di fatto.
Hamas risponderà per le rime, almeno in principio, rafforzando le dichiarazioni sulla propria radicalità, per non perdere la faccia davanti al suo popolo. Si ammorbidirà molto lentamente; ma così i tempi della pace si allontanano drasticamente.
In compenso faranno affari i venditori di armi d’Oriente e Occidente.
L a prima domanda è più complessa, ma possiamo azzardare alcune conseguenze, già iscritte nella realtà dei fatti. Hamas ha la maggioranza assoluta e può governare da solo. Bene ha fatto Abu Mazen a rifiutare, almeno per ora, qualsiasi accordo di coalizione: è bene che Hamas si cimenti e si misuri con i suoi progetti, il suo popolo, lo scenario mondiale.
Il primo anno trascorrerà in salamoia: ognuno resterà sulle sue posizioni. Hamas strillerà e inveirà per non perdere la faccia; ma, ogni giorno che passa, strillerà e inveirà un po’ meno. Sa infatti che, se rompe con l’Occidente, dovrà dire addio ai miliardi di euro e dollari stanziati e stanziabili per il rafforzamento democratico e la ricostruzione.
Dall’altra parte, Israele e Bush diranno ogni sorta di contumelia contro Hamas, ma questo fa parte del giochino della politica all’acqua minerale: si andrà avanti senza alcuna scelta perché adesso non scegliere è interesse di Israele.
Un’altra conseguenza riguarda le elezioni in Israele a marzo: si rimescolano le carte e si radicalizzerà lo scontro all’interno di Israele; perde la politica di Sharon e si rafforza quella di Netanyhau, cioè la destra oltranzista e i sionisti radicali.
Da parte sua, Hamas non è all’altezza di governo: non ne ha l’esperienza e la maggior parte dei suoi adepti e capi sono alquanto ignoranti. Cercherà a tutti i costi di governare con Al Fatah, che alla fine accetterà per senso di responsabilità, alzando la posta di contrattazione e imponendo figure estee nella compagine governativa. Alla fine del tira e molla, si avrà un governo «misto»: il nome sarà di Hamas, ma il potere reale sarà nelle mani di Abu Mazen, che goveerà nell’ombra, per garantire l’Occidente e per permettere ad Hamas di fare quei passi dolorosi, ma necessari verso un sistema parlamentare di confronto politico.
Questa soluzione permetterà ad Hamas di giocare la carta governativa e internazionale, l’unica che le permetterà di uscire dall’isolamento e principalmente dalla lista di proscrizione di Bush, con alcune conseguenze ovvie: da gruppo di pressione militare, vissuto di guerra e guerriglia senza esclusione di colpi, si riciclerà in soggetto politico, dichiarerà di abbandonare le armi, ma senza consegnarle; gli altri non gli crederanno, facendo finta di credergli.
Il popolo palestinese sa che con Hamas rischia ancora di più la miseria e la fame; ma quando i poveri sono costretti dalla cecità del mondo a vivere per tutta la vita nei campi profughi (dovevano essere provvisori, ma durano dal 1948), avendone avuto l’occasione, ha preferito levarsi una soddisfazione, facendo saltare d’un colpo tutte le cancellerie del mondo: il bisogno di onore spesso è più nutriente del pane. Per una volta i palestinesi sono sulle prime pagine dei giornali, come liberi democratici in democratiche elezioni. Lasciamogli godere in pace questo orgoglio di «popolo senza terra».
Nel 1967, Paolo vi aveva messo in guardia dalla «collera dei poveri» (Populorum progressio 49), perché avrebbe prodotto «conseguenze imprevedibili». Come volevasi dimostrare.
Paolo Farinella