La pandemia in cifre

Alla fine di novembre 2005 è stato reso pubblico il rapporto del programma congiunto delle Nazioni Unite per Hiv/Aids (Unaids o Onusida): ne riportiamo l’introduzione e alcune statistiche, che rivelano la drammaticità della situazione in tutto il mondo.

Da quando fu scoperta, nel 1982, la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) ha ucciso più di 25 milioni di persone. È diventata una delle più distruttive epidemie che la storia abbia mai registrato. Nonostante sia migliorato in varie regioni del mondo l’accesso ai trattamenti e cure antiretrovirali, cresce ogni anno il numero delle vittime della pandemia.
Secondo il rapporto Unaids (Programma congiunto delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids), aggiornato al mese di dicembre 2005, il numero totale di persone che vivono col virus dell’Hiv ha raggiunto il livello più alto: circa 40,3 milioni; quasi 5 milioni sono state le nuove infezioni nel 2005 e 3,1 milioni i morti a causa dell’Aids durante il 2005.
Circa la distribuzione geografica, il continente africano mantiene il triste primato: circa 25,8 milioni di persone con l’Hiv nell’Africa subsahariana e 510 mila nell’Africa del Nord e nel Medio Oriente.
Circa 7,4 milioni di persone infette sono nell’Asia meridionale e sud orientale. Segue l’America Latina con circa 1,8 milioni di persone e 300 mila nella regione caraibica. In America del Nord le persone affette dal virus sono circa 1,2 milioni; nell’Europa Orientale e nell’Asia Centrale circa 1,6 milioni di casi e nell’Europa Occidentale 720 mila.
Negli ultimi due anni il numero di persone che vivono con l’Hiv è cresciuto in tutte le regioni, eccetto nei Caraibi, dove non si sono registrati aumenti rispetto al 2003, ma che restano ugualmente la seconda regione più infettata al mondo.
L’Africa subsahariana rimane la più colpita dal virus: 25,8 milioni, un milione in più del 2003. In questa regione sono i due terzi di tutte le persone che vivono con l’Hiv e il 77% di tutte le donne con Hiv; nel 2005 sono morti circa 2,4 milioni di persone a causa del virus o malattie ad esso connesse e altri 3,2 milioni sono state infettate da tale epidemia.
Dal 2003 le persone colpite da Hiv sono aumentate di un quarto, raggiungendo l’1,6 milioni e il numero dei morti è raddoppiato (62 mila) nell’Europa Orientale e in Asia Centrale; mentre nell’Asia Orientale l’aumento è stato di un quinto nello stesso periodo.
Continua ad aumentare, soprattutto, la proporzione delle donne colpite dal virus: 17,5 milioni; un milione in più rispetto al 2003; 13,5 milioni di esse vivono nell’Africa subsahariana. L’impatto si allarga pure nel Sud-Est Asiatico (quasi 2 milioni di donne con Hiv) e nell’Est Europa e Asia Centrale.
Lo stesso rapporto sottolinea l’intensificarsi dell’epidemia nell’Africa australe: il livello di infezione tra le donne pregnanti raggiunge il 20% (e oltre) in sei paesi (Botswana, Lesotho, Namibia, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe). In due di essi (Botswana e Swaziland) i livelli di infezione sono attorno al 30%. Allarmante è pure la crescita dei livelli di infezione in Mozambico. Segni incoraggianti sul declino nazionale dell’Hiv si registrano in Zimbabwe, anche se l’infezione delle pregnanti rimane a livelli alti (21% nel 2004).
In Africa Orientale la diminuzione dell’infezione tra le donne incinte è iniziata verso la metà degli anni ‘90 ed ora è evidente anche in varie zone urbane del Kenya, dove i livelli di infezione sono in diminuzione, dovuto probabilmente a cambiamenti di comportamento. Ma rimangono casi eccezionali; altrove nell’Africa Orientale (come in quella Occidentale e Centrale), i livelli di infezione rimangono stabili da vari anni.
Per quanto riguarda l’Asia e l’Oceania, l’epidemia è in espansione, specialmente in Cina, Papua Nuova Guinea e Vietnam. Ci sono pure segni allarmanti che altri paesi asiatici (inclusi Pakistan e Indonesia) siano sull’orlo di serie epidemie. Tali epidemie trovano il maggiore impulso da una combinazione di iniezioni endovenose di droghe e il commercio sessuale. Solo una manciata di paesi stanno facendo seri sforzi per introdurre programmi che mettono a fuoco questi comportamenti rischiosi.
La stessa cosa vale anche per l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale, dove il numero di persone con Hiv è cresciuto nel 2005, e nell’America Latina, soprattutto tra le donne che vivono in situazione di povertà.
Tuttavia, negli ultimi due anni, l’accesso al trattamento antiretrovirale è notevolmente migliorato. Non è più solo nei ricchi paesi del Nord America e dell’Europa Occidentale che le persone bisognose di tali cure hanno una ragionevole possibilità di ottenerle; ma l’estensione del trattamento antiretrovirale ha raggiunto l’80% in paesi come Argentina, Brasile, Cile e Cuba. Ma nonostante tali progressi, la situazione è molto differente nei paesi poveri dell’America Latina e Caraibi, in Est Europa, nella maggior parte dell’Asia e praticamente in tutta l’Africa subsahariana.
Tuttavia, più di un milione di persone, nei paesi con medio e basso reddito, ora vive meglio e più a lungo, perché sotto cura antiretrovirale. Grazie a tali trattamenti iniziati alla fine del 2003, sono state evitate 250-350 mila morti nel 2005.

(Tradotto e adattato da: Unaids/Who Aids epidemic update: december 2005).

Unaids/Who Aids epidemic update




Dal rettore magnifico

T ra l’Università di Torino e l’Africa esiste un rapporto molto concreto, tangibile e in fase di continuo arricchimento. Da molti anni ormai diverse facoltà e gruppi di ricerca del nostro ateneo svolgono attività di cooperazione nel continente africano: un continente problematico, ma allo stesso tempo ricco di risorse umane e di interessi di ricerca.
Gli accordi esistenti riguardano sia la cooperazione interuniversitaria che quella a sostegno dello sviluppo e rientrano sia nell’ambito della didattica che della ricerca scientifica. I progetti spaziano in diversi ambiti disciplinari, dal campo medico e sanitario, a quello della medicina veterinaria, delle scienze agrarie, biologiche, matematiche e fisiche, ma anche delle discipline giuridiche, antropologiche ed umanistiche.
Docenti e studenti torinesi e africani trascorrono periodi di studio e ricerca presso l’ateneo partner, rendendo possibili esperienze estremamente arricchenti sia sotto il profilo didattico e professionale sia, più in generale, nella prospettiva della comunicazione interculturale.
Allo stretto rapporto tra l’Università di Torino e l’Africa, nei mesi di maggio e giugno 2005, sono state dedicate una mostra fotografica e una giornata di studi, organizzata dal dipartimento di Scienze antropologiche, archeologiche e atorico-territoriali e dal Centro piemontese di studi africani.
Le due iniziative, ospitate nel rettorato della nostra Università, sono state preziose occasioni per diffondere la conoscenza sui progetti avviati e i risultati ottenuti.

L’ impegno dell’Università in Africa in ambito medico e sanitario prevede essenzialmente interventi di tipo assistenziale, didattico e scientifico dall’implicito carattere umanitario.
Nel villaggio burundese di Kiremba, a 30 km dal confine con il Rwanda, dal 1966 sorge un ospedale fatto costruire dalla diocesi di Brescia per volere di sua santità Paolo vi. L’ospedale, a cui attualmente accedono circa 100 mila abitanti, è dotato di reparti di medicina, pediatria, ostetricia, ginecologia, chirurgia, ortopedia e alcuni servizi quali un laboratorio analisi e uno di radiologia, e il centro nutrizionale e terapeutico. Le facoltà di medicina dell’Università di Torino e Verona operano in stretta collaborazione a livello medico per la gestione della struttura che è affidata alla Ong Ascom (Associazione per la cooperazione missionaria) di Legnago (VR).
L’Università di Torino inoltre cornordina un’attività di ricerca clinica soprattutto su malaria, virus dell’Hiv, tubercolosi e collabora con la facoltà di Medicina di Ngozi, tenendo un corso di malattie infettive e tropicali agli studenti del 3° anno, i quali hanno anche la possibilità di svolgere uno stage teorico pratico presso l’ospedale di Kiremba.
Si tratta di un intervento che permette all’ospedale di Kiremba di avere medici specializzati senza spese di gestione e all’Università di Torino di implementare lavori di ricerca scientifica con una importante ricaduta sulla sanità pubblica mondiale.

I n Kenya l’Università di Torino nel 2000 ha siglato un accordo quadro di cooperazione con il Nazareth Hospital di Limuru, un ospedale missionario di 220 letti in cui ogni anno vengono ricoverati e assistiti 15 mila pazienti, in gran parte provenienti dagli slums della capitale Nairobi.
Il prof. Giorgio Olivero, direttore della 3a scuola di specializzazione in chirurgia generale è il responsabile del progetto, che prevede l’invio di docenti, specializzandi e studenti della nostra facoltà di Medicina e Chirurgia, l’organizzazione di seminari e convegni scientifici e la donazione di attrezzature.
Personalmente il prof. Olivero ogni anno svolge per un mese la propria attività chirurgica e didattica presso l’ospedale, addestrando personale locale, studenti di medicina e specializzandi.
La Scuola di specializzazione di malattie infettive di Torino, diretta dal prof. Giovanni Di Perri, cornopera con l’ospedale inviando, con cadenza semestrale, un medico specializzando che svolge un ruolo di assistenza medica nel reparto di pediatria ed educazione sanitaria permanente per il personale medico infermieristico.

L’ ateneo guarda con vivo interesse al proseguimento della ricerca africanistica svolta in partenariato con le università e le istituzioni africane. L’intenzione per il futuro è quella di promuovere nuove strategie per la crescita di un positivo confronto interdisciplinare tra ricercatori italiani e africani, di esplorare possibili sinergie e mettere a punto iniziative comuni che coinvolgano le istituzioni di ambo le parti.

Ezio Pelizzetti




We care, oppure…

Non si può far finta di niente: l’Aids è un problema di tutti. Chi pensa di lavarsene le mani, relegandolo al ruolo di semplice «problema africano», uno fra i tanti, si sbaglia di grosso. Con la Campagna di sensibilizzazione e aiuto «Salute Africa» vogliamo rompere il silenzio e scuotere le coscienze, nel segno della consolazione.

Questa è la storia di Thandi, una bambina sudafricana di dieci anni; una bambina come tante. Per lungo tempo, Thandi aveva curato sua madre, che soffriva di una malattia che nessuno chiamava per nome; nel frattempo, faceva da mamma a due fratelli più piccoli. Tutto questo le aveva tolto molte energie e le aveva causato un grande stress. Aveva lasciato la scuola per guardare la famiglia che, nel frattempo, era stata abbandonata dal padre.
Un giorno, sua madre morì e, durante il funerale, lei sentì per la prima volta la parola «Aids», sussurrata dai vicini. Sebbene Thandi non avesse alcun introito, continuò a prendersi cura dei due fratellini. Non solo; pensò che sarebbe anche stato opportuno ritornare a scuola, per migliorare la propria educazione. Lo stigma, però, la segnava a causa della morte di sua mamma; non aveva alcun soldo per comperare la divisa scolastica e pagare la retta, e il direttore le rifiutò un posto alla scuola.
Quando i vicini vennero a saperlo, decisero di andare loro stessi dal direttore per spiegare la situazione di Thandi. Sebbene essi sapessero che il responsabile della scuola dispensava le persone più povere dall’acquisto della divisa e dal pagamento della retta, erano certi che la vera causa per cui la bambina veniva rifiutata era lo stigma dell’Aids.
I vicini si presentarono direttamente al Consiglio d’istituto, ma non ci fu niente da fare. Citarono persino la Costituzione del Sudafrica, che dice: «Ogni bambino ha il diritto all’educazione e non può essere rifiutato a causa della mancanza di soldi». La risposta dei membri del Consiglio d’Istituto fu: «We do not care (non c’interessa), noi stiamo con la decisione del direttore».
Lo stigma era il marchio che si imprimeva a fuoco sul bestiame, come segno di proprietà; era anche il marchio a fuoco con cui si bollavano sulla fronte, per punizione, i delinquenti e gli schiavi fuggitivi. Oggi, lo scao racconto di un fatto realmente avvenuto diventa la premessa per accogliere il grido di questa bambina e dare noi una risposta: «We care». A noi interessa, dicono migliaia di missionari e missionarie della Consolata e loro collaboratori, lanciando il loro appello all’Europa in particolare. Essi, giorno dopo giorno, sentono il pianto e vedono il dolore degli oltre 11 milioni di bambini orfani d’Aids in Africa. Il loro grido d’aiuto chiede una risposta delle scienze mediche, economiche, politiche, sociali e religiose, oltre che una risposta umanitaria.
Chiaramente non è solo un problema africano. L’Aids è un problema globale; devasta intere aree dell’Asia, dell’Europa orientale, oltre ad essere un problema e una fonte di preoccupazione in America e nell’Europa occidentale.
Tutti preferiscono far finta di niente, mantenere il silenzio il più possibile, parlare d’altro o ritenerla una malattia come tante altre. Al contrario, i responsabili del futuro dell’umanità ne sono veramente preoccupati. Scriveva Giovanni Paolo ii nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale dell’ammalato 2005: «Nella lotta contro l’Aids, tutti devono sentirsi coinvolti.
Tocca ai governanti e alle autorità civili fornire chiare e corrette informazioni al servizio dei cittadini, come pure dedicare risorse sufficienti all’educazione dei giovani ed alla cura della salute. Agli operatori pastorali domando di portare ai fratelli e alle sorelle colpiti dall’Aids tutto il conforto possibile sia materiale che morale e spirituale. Agli uomini di scienza e ai responsabili politici di tutto il mondo chiedo con viva insistenza che, mossi dall’amore e dal rispetto dovuti ad ogni persona umana, non facciano economia quanto ai mezzi capaci di mettere fine a questo flagello».
Suggerisce Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite: «Per il momento le uniche armi disponibili sono l’unione e la collaborazione tra i diversi protagonisti delle strategie contro l’Hiv-Aids, per cui occorre far crescere la mobilizzazione di tutti i soggetti, le imprese private, le istituzioni nazionali e le organizzazioni non governative. Ogni attore sociale ed ogni individuo hanno una responsabilità verso la collettività perché l’Hiv/Aids è un problema di tutti non solo delle persone Hiv positive».
Infine le parole di Thabo Mbeki, l’attuale presidente del Sudafrica, che all’inizio del suo mandato presidenziale affermava: «Il virus è tra di noi, è reale, si sta diffondendo. Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi, sperando che la verità non fosse così vera. E invece è con noi, nei posti di lavoro, nelle nostre classi scolastiche, nelle biblioteche. C’è nei nostri incontri di preghiera e in altre funzioni religiose… L’Aids è un mio problema. È un tuo problema. Ogni giorno e ogni notte, ovunque noi siamo, noi informeremo le nostre famiglie, amici e vicini che essi si possono salvare e possono salvare la nazione, cambiando il loro modo di vivere e di amare. Coloro che sono ammalati di Hiv-Aids sono persone umane, come voi e come me. Quando diamo loro una mano, noi costruiamo la nostra propria umanità».

P ur salvaguardando i diritti legati ai brevetti farmaceutici, il diritto alla salute, soprattutto per i poveri, viene prima di ogni possibile business miliardario delle case farmaceutiche. Anche per questo, la Campagna «Salute Africa» ha come sottotitolo «Nella Giustizia la lotta all’Aids». Affermo con forza: «Prima la salute, poi il commercio».
Già la Santa Sede, in occasione della presentazione del messaggio della Quaresima 2004, dedicato alla difesa dei bambini, chiedeva ufficialmente, attraverso il presidente del Pontificio consiglio per la promozione umana e cristiana Cor Unum, l’arcivescovo Paul Josef Cordes, che fossero abbassati i prezzi dei farmaci antiretrovirali. Ma il forte appello non ha minimamente scalfito le coscienze dei signori del farmaco. Anche in questi momenti, in Africa e in altre vaste regioni del Sud del mondo, continuano a morire nel silenzio milioni di persone che potrebbero essere salvate. E allora, senza perdere altro tempo:

«ROMPIAMO IL SILENZIO!»

Per questo i missionari della Consolata (padri e suore, fratelli e volontari) hanno scelto di scendere in campo e chiedono di unirsi a loro nel farsi carico di questa immane tragedia.

Giordano Rigamonti




Qui e altrove

Prima di andare in casa altrui, andiamo a vedere cosa succede in casa nostra. In Italia, a un calo del numero delle persone colpite da Aids, corrisponde un aumento di problematiche sociali ad esso relazionate. Con alcuni luoghi comuni da sfatare.

S e la malattia e la morte sono esperienza comune di tutti gli esseri umani, il luogo in cui una persona nasce incide profondamente sulle diverse opportunità di vita dei vari individui. Il fatto di nascere e vivere in paesi dove sono possibili diagnosi, cura e prevenzione, pone alcuni in una posizione di enorme privilegio rispetto ad altri. Questo vale in particolare per l’infezione da Hiv/Aids, da cui non si può ancora guarire, ma che evidenzia le enormi differenze di quantità e qualità di vita che esistono tra persone che vivono in paesi ricchi ed altre che vivono in paesi poveri, disuguaglianze valutabili non solo in termini di cure farmacologiche.
I dati ufficiali foiti dall’Unaids, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del fenomeno Aids a livello mondiale, ci dicono che, a dicembre 2005, le persone che al mondo vivevano con l’infezione da Hiv erano in totale 40,3 milioni, di cui 25,2 milioni nell’Africa subsahariana. Il continente risulta il più colpito sia per numero di nuove infezioni che di morti, registrati nel corso del 2005 (vedi statistiche complete a pag. 35).
In Europa occidentale, le persone che convivono con l’infezione da Hiv sono circa 720 mila, mentre le nuove infezioni sono state calcolate, nel 2005, in circa 22 mila (erano 18 mila nel 2002); il numero dei morti accertati si aggirerebbe, invece, intorno ai 12.000.

Il caso italiano

In Italia, come in quasi tutti i paesi occidentali, è rallentata in questi anni l’incidenza di nuovi casi di Aids ed è cresciuta la speranza di vita di chi è sieropositivo. Ciò sembra aver generato nei più l’idea che l’infezione da Hiv non faccia più paura e che l’Aids sia stato sconfitto. Certamente, dopo il picco dei primi anni ’90, si è verificata una diminuzione del numero di nuovi casi di Aids conteggiati ogni anno, tanto che il numero di nuovi casi, diagnosticati nel 2004, è pressoché identico a quello riportato nel 1988; ma il numero delle persone che oggi vivono con l’Aids è almeno 10 volte superiore ad allora. Le cifre ufficiali ci dicono che, alla fine di dicembre 2004, le persone che in Italia vivevano con l’Aids erano 20.460, due terzi delle quali nel solo territorio di Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Liguria.
Accanto al numero noto dei malati di Aids, resta il numero (in realtà solo ipotizzabile, perché al di fuori di ogni possibilità di conteggio), delle persone sieropositive. Si stima che nel nostro paese vivano attualmente tra le 110 e le 130 mila persone sieropositive. Questa cifra è comprensiva sia di chi è a conoscenza della propria situazione, ma anche di coloro che non sospettano minimamente di essere stati contagiati. Nel nostro paese, la metà circa dei casi delle persone che si pensa abbiano contratto un’infezione da Hiv non sono consapevoli della loro situazione, fino al momento in cui la malattia non si rende evidente attraverso i segni inequivocabili dell’Aids. Ciò significa che, grazie agli enormi passi avanti fatti in campo terapeutico, con cure che permettono una più lunga aspettativa di vita anche a chi ha già la malattia conclamata, ogni anno aumenta costantemente il numero di persone sieropositive o con l’Aids che vive accanto a noi.
La percezione collettiva è che, oggi, l’Aids in Italia sia un fenomeno in grado di autolimitarsi, che richiede meno impegno, meno servizi e meno risorse. Come conseguenza, sarebbe quindi urgente spostare attenzione, impegno e risorse su progetti riguardanti persone con Aids in altri continenti.
Attenzione, impegno, servizi e risorse devono certamente essere indirizzate a creare partnership significative con coloro che vivono con l’Aids in Africa e altrove, senza però dimenticare che anche le persone con Hiv/Aids che ci vivono accanto sono portatrici di bisogni complessi e rilevanti, sicuramente di tipo sanitario, ma anche – e molto spesso – di tipo sociale, psicologico e relazionale; persone che rischiano di vivere le loro situazioni in totale solitudine.
I farmaci allungano la vita, ma non sono in grado di restituirla alla sua integrità; la vita continua dopo la diagnosi di Aids, ma purtroppo, su questa si infrangono spesso tanti progetti di autonomia, di relazioni, di lavoro. La vita, che in qualche misura viene restituita, deve fare i conti con disabilità residue, con compromissioni fisiche e psichiche, con gli effetti collaterali delle terapie. Spesso, inoltre, va a scontrarsi con problematiche preesistenti la malattia, con dinamiche familiari e personali compromesse, che è difficile recuperare e che richiedono, spesso, il sostegno di strutture e operatori, espressi per lo più dal privato sociale.

Casi insospettabili

Nel tempo, sono variate sensibilmente le modalità di trasmissione: si è verificato un aumento percentuale delle infezioni attribuibili a un contagio per via sessuale (omosessuale ed eterosessuale) con una diminuzione delle altre modalità di trasmissione. La trasmissione attraverso rapporti eterosessuali (dovuta a rapporto con partner sieropositivo, dell’altro sesso) è stata la modalità di contagio più frequente nell’ultimo anno.
Anche se la fascia giovanile è sempre la più rappresentata (il 69,7% ha un’età compresa tra i 25 e i 39 anni), è aumentata la quota di persone con Aids al di sopra dei 40 e persino dei 60 anni. Oggi, in Italia, accanto ad un numero ridotto di morti per Aids e di pazienti terminali, i servizi dedicati a persone con Hiv/Aids si trovano ad affrontare problematiche socio-sanitarie sempre più complesse.
Queste sono portate sia da persone provenienti da percorsi con difficoltà di integrazione (uso di droghe, alcol o marginalità sociale), ma anche, sempre più spesso, da coloro che hanno contratto l’infezione attraverso rapporti eterosessuali.
Fra questi figurano soggetti più che cinquantenni, uomini e donne socialmente integrati e, nella maggior parte dei casi, ignari a proposito della loro sieropositività. Soggetti che svolgono abitualmente il ruolo di padre-madre e di marito-moglie all’interno delle loro famiglie, ma che, all’emergere della malattia, sperimentano la difficoltà di mantenere saldi tali legami familiari.
Sempre più spesso, in Italia, incontriamo persone straniere, provenienti da contesti geografici e culturali estremamente eterogenei; dette persone rimangono spesso prive di supporti familiari, ma anche amicali, per il problema avvertito di rivelare il loro stato di salute a parenti o connazionali. A ciò, si associa talvolta la condizione di irregolarità, che richiede l’attivazione di percorsi specifici per l’accompagnamento alla cura del malato e per il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali.
Oggi più che mai, siamo chiamati non solo a «non discriminare», ma ad accogliere e sostenere chi è colpito dall’Aids (come da ogni altra forma di malattia cronica e inguaribile) accompagnando i malati e le loro famiglie: soggetti che, troppo spesso, non trovano luoghi di senso, conforto e ascolto in cui poter liberamente esprimere la propria sofferenza.
Non si tratta di promuovere soltanto gesti «profetici» o creare luoghi appositamente dedicati, quanto di aprirci alla quotidianità e alla ferialità dell’incontro con altre persone affette, in questo caso, da Hiv/Aids; persone che molto sovente vivono accanto a noi. Sarebbe un primo passo verso l’accoglienza «possibile» e sincera della persona colpita dal virus. Senza avere l’alibi di doversi occupare dei «lontani» e di non aver modo di badare ai «vicini».

Laura Rancilio




Non c’è tempo da perdere

Dopo due anni di studi e ricerche, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) ha presentato, il 4 marzo 2005 ad Addis Abeba, il rapporto: «Aids in Africa: tre scenari al 2025». Vengono descritte tre possibili direzioni di lotta all’Aids nei prossimi 20 anni, con relative implicazioni e conseguenze economiche, politiche e sociali. Tali evoluzioni o scenari dipendono dalle decisioni che vengono prese oggi sia dai leaders africani che dal resto del mondo.

Quali saranno, nei prossimi 20 anni, le risposte dell’Africa e del mondo all’epidemia di Aids? Quale futuro per la prossima generazione? Per rispondere a tali domande, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) lanciò un progetto di studio, nel febbraio 2003, in collaborazione con l’Unione africana, banche e altri organismi inteazionali.
Per 18 mesi si sono tenuti seminari, simposi, ricerche, analisi… in cui hanno messo a disposizione tempo, esperienze e competenze centinaia di persone di ogni ceto sociale, per lo più coinvolte in prima persona con i problemi dell’Hiv/Aids nel continente africano. I risultati sono stati resi pubblici il 4 marzo 2005, ad Addis Abeba nel rapporto «Aids in Africa: tre scenari al 2025».

Punti di partenza e natura degli scenari

Il progetto parte dall’analisi delle forze che provocano e influiscono sull’evoluzione dell’epidemia dell’Aids in Africa: sono fattori culturali, che sono alla base dei comportamenti sessuali, le disuguaglianze sociali e tra i sessi, le condizioni economiche di povertà e sottosviluppo, i fattori politici, come instabilità e inefficienze dei governi.
Inoltre, il progetto poggia su due ipotesi fondamentali: 1) l’Aids non è un problema di breve durata, ma colpirà l’Africa ancora per 20 anni; 2) le decisioni che prendiamo oggi forgeranno il futuro del continente.
Il progetto descrive tre diversi scenari possibili, che non sono predizioni, ma storie plausibili sul futuro del continente, a seconda delle diverse scelte con cui dovranno confrontarsi i paesi africani nei due decenni a venire.
La situazione non è inevitabile. Milioni di nuove infezioni potrebbero essere evitate, se l’Africa e il resto del mondo decidono di affrontare l’Aids come una crisi eccezionale, con la potenzialità di devastare intiere società ed economie.
Ciò che facciamo oggi può cambiare il futuro. Nonostante la persistenza per lungo tempo dell’Aids, la vastità dell’impatto dell’epidemia dipenderà dalla reazione e dagli investimenti del presente. L’applicazione e il sostegno degli insegnamenti del prossimo ventennio farà la grande differenza nel futuro dell’Africa.
Questo progetto non intende decretare quali saranno queste decisioni. Il suo scopo è semplice: offrire uno strumento capace di aiutare a prendere le decisioni migliori, esplorando l’interconnessione tra i vari fattori sociali, culturali, economici e politici, identificando e sfidando le ipotesi e i meccanismi, spesso sottintesi, dei medesimi fattori.
In ogni scenario vengono illustrati anche i costi dei programmi di lotta all’Hiv/Aids, calcolati sulla base di quanto è stato fatto nell’ultimo decennio, analizzando la relazione tra interventi e risultati. Naturalmente tali scenari non nascondono la persistenza di alcune importanti incertezze che circondano l’epidemia dell’Aids: come è percepita la crisi dell’Aids e da chi? Ci saranno incentivi e capacità di affrontarla? I diversi scenari offrono risposte diverse a queste domande e illustrano gli effetti prodotti dai vari livelli di incentivi e risorse disponibili.

1° SCENARIO: scelte senza concessioni

Il primo scenario racconta una storia in cui l’Africa si impegna realmente nella lotta; i leaders africani scelgono di prendere misure drastiche e inflessibili per ridurre la diffusione dell’Hiv a lungo termine, anche se tale scelta comporta difficoltà a breve termine in altri settori.
Lo scenario è raccontato quasi fosse il copione di un documentario realizzato nel 2026: insieme alle osservazioni di una parte di esperti e leaders africani, sono descritte le rigorose scelte economiche, sociali ed etniche che i governi devono adottare per generare un rinnovamento nazionale. Non è un tempo di abbondanza per l’Africa.
In tale contesto governi capaci sono della massima importanza, ma anche lo sviluppo di istituzioni regionali e panafricane assume un ruolo chiave. Lo scenario dimostra che è possibile creare una risposta in cui leaders e comunità procedono insieme; dimostra che un approccio tempestivo e rigoroso alla prevenzione darà i suoi effetti, anche se occorrerà del tempo prima di registrare effetti evidenti.
Nonostante i considerevoli sforzi nella prevenzione, la crescita demografica aumenta il numero di persone affette da Hiv/Aids, per attestarsi su livelli simili a quelli di oggi entro il 2025, per poi diminuire, quando gli investimenti a lungo termine in capitale sociale, economico e umano del prossimo ventennio cominceranno a dare i primi frutti.
Mentre lo sforzo principale dei programmi contro Hiv/Aids si focalizza sulla prevenzione, c’è un aumento progressivo della terapia antiretrovirale, grazie al costante investimento nei sistemi sanitario e scolastico e nella produzione di farmaci in Africa.
Il numero dei morti continua a essere alto almeno fino al 2015; dopo di che la percentuale comincia a calare: le misure preventive, infatti, hanno bisogno di tempo per dare risultati all’interno del sistema.
In tutto il corso dello scenario, raddoppia il numero dei bambini resi orfani dall’Aids; ma anche le iniziative a loro sostegno aumentano rapidamente intorno al 2010 e continuano con il crescere della popolazione.
Per quanto riguarda i costi, buona parte del loro aumento deriva dalle maggiori spese per attività di prevenzione e sarà sempre più rapido tra il 2008 e il 2014. I costi per le cure, invece, all’inizio della prima decade crescono lentamente, ma subiranno un’accelerazione negli anni successivi, quando sistemi e capacità saranno messi in campo per una diffusione durevole degli interventi.
In tale scenario si ipotizza un costante e consistente aiuto da parte dei donatori nella lotta all’Aids, mentre ristagna la promozione dello sviluppo.

2° SCENARIO: il peso del passato

Il secondo scenario racconta una storia in cui l’Africa intera non riesce a sfuggire ai suoi maggiori retaggi del passato, per cui l’Aids penetra profondamente nelle trappole della povertà, sottosviluppo ed emarginazione in un mondo globalizzato.
Nonostante le buone intenzioni dei leaders e l’aiuto sostanziale di donatori inteazionali, una serie di ostacoli impedisce a tutti, eccetto poche nazioni o settori privilegiati della popolazione, di sfuggire alla povertà e all’alta diffusione dell’Hiv.
Lo scenario ipotizza che Hiv e Aids continueranno a ricevere forte enfasi nel prossimo futuro, ma le reazioni saranno disperse e a breve termine, spesso non riescono ad affrontare la realtà quotidiana e pertanto a dare una soluzione duratura.
Lo scenario identifica 7 ostacoli che impediscono uno sviluppo efficace, a lungo termine o largamente diffuso nel continente:
1. il retaggio della storia dell’Africa;
2. il ciclo di povertà, ineguaglianza e malattia;
3. le divisioni e fratture sociali;
4. la ricerca di guadagni rapidi;
5. le sfide della globalizzazione: integrazione e marginalizzazione;
6. la dipendenza dagli aiuti e la ricerca di sicurezza globale;
7. la reazione all’epidemia dell’Aids: scorciatornie e rimedi miracolosi.
Il secondo scenario ha come sottotitolo: la spirale infeale. Da una parte le politiche dei paesi africani nella lotta all’Aids si mostrano inefficaci e l’aiuto esterno è fluttuante e/o diminuisce; dall’altra l’infezione soffoca le risorse e indebolisce le infrastrutture; la piaga della povertà, sottosviluppo e disuguaglianze si allarga ulteriormente; in molti paesi diminuisce la speranza di vita; effetti devastanti si ripercuotono a livello familiare e sociale, aumentando disunità e disintegrazione, tensioni etniche e religiose, fino alla frammentazione degli stati. Di tale situazione si avvantaggiano i soliti profittatori, con spreco di risorse e fondi destinati alla cosiddetta industria dell’Aids.
Così, entro il 2025, la percentuale di persone colpite dall’epidemia supererà i livelli attuali, e continuerà ad aumentare negli anni seguenti, poiché la prevenzione non è diffusa efficacemente a livello periferico e i costi di tale prevenzione continueranno a salire.

3° SCENARIO: tempi di transizione

In «tempi di transizione», dal sottotitolo «l’Africa recupera il tempo perduto», l’epidemia è percepita come una crisi eccezionale che esige risposte eccezionali: politiche intee e aiuti estei si intrecciano in modo efficace.
Transizioni e trasformazioni descrivono il modo in cui l’Africa e il resto del mondo devono affrontare insieme vari problemi: la salute, lo sviluppo, il commercio, la sicurezza e le relazioni inteazionali, per poter raggiungere lo scopo di dimezzare il numero di persone affette da Hiv/Aids e assicurare che la maggioranza di coloro che necessitano della terapia antiretrovirale possa accedervi entro il 2025.
Una serie di «storie» identificano 6 trasformazioni interdipendenti, per dare al futuro dell’Africa una nuova faccia e il suo posto nel mondo:
1. «Dall’orlo della catastrofe» descrive i cambiamenti nel modo di trattare Hiv/Aids, con una rapida diffusione delle cure ed efficaci strategie di prevenzione, sostenute da una società civile molto attiva;
2. «Mettere in ordine la casa» si concentra sulle reazioni della politica nazionale, per ridurre la povertà e rafforzare lo sviluppo, cruciale per limitare la diffusione dell’epidemia;
3. «Lavorare insieme per lo sviluppo» studia il miglioramento della collaborazione tra governi africani e alleati estei nei primi 25 anni del secolo, tempo in cui le risorse sono dirette e cornordinate sempre più dai governi africani e dai loro popoli;
4. «Commerciare sulle forze» affronta in modo dettagliato i cambiamenti chiave che hanno luogo nel commercio;
5. «Sentimenti e diritti umani» descrive la popolazione al centro dello scenario e i modi in cui essa è cambiata: mutamenti radicali che riguardano anche le relazioni tra uomini e donne, tra questi e le loro comunità;
6. «Piantare la pace» descrive come la prevenzione dei conflitti e la promozione della pace e sicurezza, tra le nazioni e all’interno di una stessa nazione, giochi un ruolo vitale nei nuovi impegni africani del xxi secolo.
Lo scenario descrive i cambiamenti fondamentali che avvengono anche nel modo in cui i donatori foiscono aiuti e come i governi li gestiscono, affinché tali aiuti rispettino autonomie e sovranità nazionali, non siano causa di inflazione e non generino dipendenza.
In questo scenario, oltre a dettare nuove regole e nuove relazioni di collaborazione negli affari inteazionali, viene mobilitata la società civile nazionale e internazionale. Si inizia con attivisti impegnati nell’attenta somministrazione delle terapie antiretrovirali; quindi altri settori della società civile sono interessati, coinvolti e impegnati nella lotta.
Se queste transizioni riuscissero a essere attuate in una sola generazione, si ridurrebbe notevolmente il numero delle infezioni: tra il 2003 e il 2025 il numero di persone affette da Hiv si dimezza e la diffusione delle terapie antiretrovirali è strepitosa.
Sotto l’aspetto finanziario, lo scenario descrive una crescita iniziale delle spese per la prevenzione, ma l’investimento per le cure e terapie comincia a diminuire a partire dal 2019, anno in cui si dovrebbe registrare anche un calo nel numero di persone affette dal virus.

Implicazioni e insegnamenti

Presi nel loro insieme, i tre scenari introducono alcune importanti considerazioni per attivisti, politici, pianificatori e per coloro che mettono in opera questi programmi. Ma non garantiscono una reazione sufficiente contro l’epidemia. Essi indicano che ci sono ancora grandi cose da fare per cambiare la traiettoria a lungo termine dell’epidemia e per incidere sul numero delle persone che contrarranno l’infezione.
Di fronte a una crisi che supera l’attuale capacità di reagire, non tutto può essere fatto subito. Non c’è un rimedio miracoloso. L’Hiv/Aids è un evento di lunga durata.
Tutto dipende da come e da chi viene affrontata la crisi in Africa. Il risultato delle azioni intraprese deve tenere in considerazione la cultura locale, i valori e significati nell’elaborazione delle politiche da seguire. Ma anche l’identità religiosa sembra giocare un ruolo importante. Tuttavia, risposte efficaci possono essere raggiunte solo con un effettivo impegno e supporto dal centro.
La vulnerabilità sociale, economica e fisiologica delle donne nei confronti dell’Hiv è evidentissima; ma non sono state adeguatamente implementate politiche e azioni per meglio favorire la loro protezione. È di capitale importanza prendere misure per migliorare il loro status nella società: istruzione obbligatoria per tutte le ragazze, eliminare la violenza sulle donne, garantire loro uguale accesso alla proprietà, rendite e lavoro. Una soluzione efficace del problema della parità tra i sessi, si riverbera necessariamente sulla riforma di altri settori in campo sociale, economico e politico.
Finora, la volontà delle comunità di prendersi cura dei bambini orfani è stata notevole, ma la natura ricorrente e ciclica della crisi dell’Aids potrebbe condurre all’esaurimento di questa volontà. Alteative più a lungo termine devono essere pianificate oggi. Gli scenari mostrano come l’investimento nei bambini sia una risorsa del futuro e il mantenere i genitori sani e vivi contribuisca in modo significativo ai risultati generali in questa lotta.
L’impatto psicologico dell’epidemia, in generale, è stato poco studiato. La salute mentale, come quella fisica, deve essere inclusa nei programmi di prevenzione, trattamenti e cure.
Infine, gli scenari dimostrano chiaramente che non conta solo quanto si spende per i programmi di lotta all’Hiv/Aids, ma come e in quale contesto: l’aumento delle spese dovrebbe mirare a ottenere miglioramenti significativi nel frenare la diffusione dell’Hiv, mitigae l’impatto e facilitare l’accesso alle terapie.

Uso degli scenari

Lo sviluppo degli scenari è solo il primo passo: essi sono studiati e applicati in modo efficace attraverso processi interattivi, che incoraggiano chi li usa a riflettere sulle ipotesi e sui giudizi individuali e collettivi. Con tali scenari il progetto Unaids spera di:
1. aumentare la comprensione dell’Hiv/Aids e delle forze che ne delineano il futuro nel continente;
2. far crescere la consapevolezza (e la possibile sfida) delle percezioni, credenze, ipotesi e mappe mentali in cui si radica l’epidemia;
3. aumentare l’intesa reciproca tra le varie parti, per creare un linguaggio comune con cui discutere il problema dell’Hiv/Aids in Africa;
4. aumentare la consapevolezza e la comprensione dei fattori, forze guida e incertezze fondamentali (e loro relazioni) che determinano il futuro dell’Hiv/Aids;
5. stimolare la presa di coscienza dei dilemmi posti e scelte da fare;
6. identificare le lacune da colmare e l’ordine in cui farlo, accompagnando organismi e paesi dal punto di partenza fino al raggiungimento degli scopi prefissati;
7. creare e sviluppare piani, strategie e politiche; e poi valutare o sfidare la validità e consistenza di ogni visione e strategia;
8. analizzare le situazioni specifiche, i rischi e le opportunità concrete di un dato paese o regione;
9. fornire lo sfondo per una storia specifica che necessita di essere raccontata, per creare passione e sostegno per una politica concreta.

Problema tempo

Costruire scenari significa impegnarsi con il tempo: presente, passato e futuro assumono significati diversi nei tre scenari.
In scelte inflessibili il tempo è intergenerazionale: passato, valori ancestrali, identità storica e familiare danno forma al presente; le azioni del presente hanno conseguenze non solo per la generazione attuale, ma anche per quelle a venire.
In retaggi del passato il tempo è breve, il ritorno dei risultati deve essere immediato, gli obiettivi sono legati a un tempo determinato e le azioni si misurano in termini di mandati politici. Eventi a lungo corso come l’Hiv/Aids non rispondono bene alla brevità del tempo.
In tempi di transizione si parla più della profondità del tempo che della sua durata. Le transizioni e trasformazioni immaginate potrebbero aver bisogno di generazioni, che si susseguono in maniera consequenziale. Ma questo scenario parla di un mondo in cui i passaggi bruschi e la sinergia sono metafore dominanti: i progressi contro l’epidemia sono rapidi perché generati da altre transizioni che avvengono simultaneamente.
Gli scenari permettono un impegno a più dimensioni su un problema e foiscono un quadro più completo da esplorare. Ciò che essi offrono è il punto di partenza per avviare un processo; il loro valore sarà evidente nel momento in cui essi saranno ampiamente diffusi, discussi e usati.
Soprattutto, questi scenari ci dicono che, mentre da un lato qualsiasi azione intrapresa è in ritardo per i milioni di persone già morte di Aids, dall’altro è ancora possibile cambiare il futuro di altri milioni di persone. Ma non c’è tempo da perdere.

(Da: AIDS in Africa: Three Scenarios to 2025, sezioni 1-2-8, traduzione e sintesi di E. Zanchi, F. Mazzarella e Laura Picchio)

a cura di Unaids ( E. Zanchi)




Non nascondiamoci!

È chiaro che, a causa della diffusione dell’Aids, la famiglia sia in grave pericolo. Non è difficile incontrare famiglie che non abbiano più un genitore, o addirittura entrambi. Spesso si viene a conoscere che sono morti per «la malattia dei nostri giorni», senza dire apertamente cosa sia successo, come se non si sapesse di cosa si stia parlando. In questa situazione, chi sopporterà maggiormente il peso della vita, se non i bambini? Le testimonianze che seguono provengono da due donne affette dal virus dell’Aids e ci spronano a non tacere davanti a questa tragedia che ci tocca tutti.

(Testimonianze raccolte da padre Gianni Treglia e pubblicate sulla rivista Enendeni)

Sono una vedova e ho 42 anni. Ho quattro figli, di cui l’ultimo ha 13 anni ed è in settima (l’ultima classe delle primarie, ndr). Nel 1996, mio marito si ammalò e morì.
Dopo la sua morte, anch’io mi ammalai di tubercolosi e fui ricoverata nell’ospedale regionale dove fui curata. Dopo di ciò, cominciai ad avere problemi di salute, con dolori alle ossa. Per lungo tempo sopportai questa situazione, finché un giorno, fortunatamente, incontrai un consulente medico e con lui accettai di controllare a fondo la mia situazione. Dopo varie analisi, risultò che avevo contratto il virus dell’Aids. A dire il vero, questo mi sconvolse alquanto e già pensai di essere una morente.
Però Dio è buono e il consulente mi indicò in che modo vivere, cosa mangiare, cosa lasciare, cosa fare. Ritornai dal primo medico, il quale mi consigliò allo stesso modo. Ora mi ritrovo ad avere speranza di vivere, ad accettare la mia condizione. Ora vivo grazie anche agli aiuti di organizzazioni non governative, che contribuiscono a mandare avanti i miei figli negli studi, a ricevere dei microcrediti che mi permettono di vivere una vita dignitosa.
Non nascondo la mia situazione e per dare una informazione giusta voglio sensibilizzare la società: è bene andare a controllare la propria salute, piuttosto che vivere nella paura. Se conosceremo la nostra situazione sanitaria, sapremo programmare meglio la vita. Nonostante la morte sia lì, spazza via la paura e va’ a fare le analisi. Non farti ingannare dall’aspetto esteriore della persona. L’unica medicina è fare le analisi. I centri per questo sono tanti. Dopo aver fatto le analisi e accettata la tua condizione, vivrai in pace, scaccerai la paura che hai ogni volta che non stai bene e pensi: ecco, sono finito! Queste possono essere piccole malattie secondarie, che possono essere curate. Il virus, di per sé, non ti danneggerà più di tanto, se seguirai i consigli dei consulenti e potrai vivere più a lungo senza problemi.
Sono ormai nove anni che so di avere il virus dell’Aids, eppure sto bene e vado avanti con speranza nella vita. Alzati, allora, e vai a controllare la tua salute.

Vivo a Kihesa (quartiere di Iringa) e ho tre bambini. È dal 1996 che ho scoperto di avere il virus dell’Aids, quando andai per una visita.
Nel 2003, mi recai al «Centro Allamano», l’ospedale per affetti da virus di Aids, gestito dalle missionarie della Consolata, per fare un nuovo controllo e ho visto che il virus era ancora lì, non se ne era andato, né era diminuito.
Il motivo per cui andai a controllarmi fu questo: mio marito desiderava che avessimo il quarto figlio e io, da parte mia, ho creduto bene di verificare lo stato della mia salute, prima di rimanere incinta. È qui che scoprii di essere affetta dal virus dell’Aids. Consigliai a mio marito di fare altrettanto, dicendogli che sarei stata disposta a rimanere incinta dopo aver fatto le analisi.
Non mi diede retta, ma questo durò solo due mesi. Si convinse e lo portai al «Centro Allamano», dove diagnosticarono la presenza del virus, ma ci consigliarono il modo di vivere da marito e moglie nonostante l’Aids. Ricevemmo tanti insegnamenti che ci aiutarono a poter allevare i nostri figli senza perdere la speranza (poi il marito morì, ndr).
Ringraziamo Dio per il «Centro Allamano», che si ricorda delle persone affette dal virus, le raduna, dà loro aiuti di ogni genere che permettono alla gente di vivere senza doversi rompere il capo per sapere delle medicine o del cibo. Inoltre, il Centro fa prestiti a chi ha ancora la forza di lavorare. Offre pure piccoli progetti di allevamento di bestiame (quali polli, capre, ecc.) e anche attrezzature varie per l’agricoltura. Ci è stato anche insegnato come fare l’orto: non abbiamo problemi di verdura, ora, anche nei periodi di siccità.
Perciò, fatevi avanti e controllatevi, non fatevi ingannare dall’apparenza del vostro stato di salute, pensando di stare bene. No, fai le analisi per conoscerti. E se non hai fatto le analisi, sta’ zitto, non indicare a dito le persone!

M i chiamo Abely Myovela, ho 39 anni. Con molte speranze vivo nella città di Iringa. Ho scoperto di avere il virus dell’Aids il 12 dicembre del 1996. Questo avvenne dopo lunga malattia, che mi vide ricoverato per più di due anni. Mentre ero in ospedale, fui consigliato di fare le analisi per vedere se avessi l’Aids, ma non accettai quel consiglio.
Il dolore cresceva, il mio problema diventava sempre più grande e cominciarono a venir fuori molti bubboni. Toai così dal dottore che mi aveva in cura, il quale mi consegnò un foglio con cui mi mandava dal consulente medico dell’ospedale.
Il dialogo si protrasse a lungo, almeno due ore e mezzo; dopo di che, mi fu prelevato il sangue. Quando le analisi furono pronte, i risultati erano inequivocabili: avevo contratto il virus dell’Aids! Il consulente, in quel secondo colloquio e dopo avermi fatto conoscere i risultati, si accorse che avevo cambiato atteggiamento, tanto da andarmene sbattendo forte la porta.
Quando la rabbia si affievolì, tornai dal consulente, che mi rassicurò riguardo il mio comportamento: era cosa normale. Non ero il solo in quella situazione, c’erano anche degli altri e, se lo desideravo, mi avrebbe accompagnato da loro. Accettai la proposta e mi condusse a un incontro con malati che avevano contratto il virus; in gruppo, ricevemmo dei consigli.
Ho deciso di non nascondermi alla società, anzi desidero che la gente veda una testimonianza vera, affinché comprenda la gravità di questo problema. Ho continuato a ricevere tanti insegnamenti per poter vivere con speranza; ho la possibilità di incontro con altre persone che hanno il virus; ho frequentato seminari per conoscere l’importanza di una buona alimentazione per curare le malattie a esso collegate e prevenire nuovi contagi.
Nonostante sia infetto, posso vivere più a lungo. Ho imparato che avere il virus non significa essere già morto. Ho incontrato altre persone malate e associazioni che si occupano di loro. Sono venuto a conoscenza dei luoghi dove vengono offerti servizi e aiuti di altro genere. In ospedale, conoscendo la mia situazione, vengo subito accolto e curato.
A dire il vero, all’inizio ho avuto molti problemi, soprattutto quando ho ammesso apertamente la mia situazione; e così, quando gli altri ne sono venuti a conoscenza, ho sperimentato una situazione di infelicità. Ero, infatti, visto come un «diverso». Ciononostante, non mi sono scoraggiato. Mi sono fatto avanti e ho cominciato a dire a tutti che solo facendo le analisi è possibile sapere se uno sia affetto o no dal virus dell’Aids.
Poiché in quel periodo ero in una situazione pietosa, la gente mi aveva già battezzato con svariati nomi: «Il compare ha il tamburo; il compare si è inciampato; il compare ha l’elettricità; il compare è andato a sbattere…» (espressioni che ho tradotto letteralmente, molto efficaci nel nostro linguaggio di strada, ma che in fondo indicano chi è stato contagiato, ndr).
Però non ho mollato e ho continuato a espormi. Ho creduto che ciò fosse normale. Allo stesso tempo, molti di coloro che mi indicavano a dito se ne sono andati proprio per lo stesso male. Non sapevano che l’Aids è una tragedia nazionale e mondiale. Altri che hanno contratto il virus ora mi cercano per consigli, come «maestro del vivere con speranza»: le accolgo, le consolo, dicendo loro di non perdere la speranza di vivere, di accettare il problema e prenderlo per quello che è. Fino ad ora vado avanti con i miei impegni quotidiani e per questo non mi vedono diverso dagli altri.
Ora consiglio a tutti che bisogna conoscere la propria situazione. Personalmente, dopo aver avuto certezza della mia condizione, vivo tranquillo. Non è facile per un altro conoscere che ho il virus dell’Aids, poiché il mio stato di salute è buono. A tutti dico di abbandonare i comportamenti che diffondono il virus e di non emarginare nessuno, perché nella lotta contro il nemico dell’Aids bisogna combattere uniti.

Gianni Treglia




Dolore tangibile…

Avevo circa 9 anni quando mia zia suor Michela, missionaria della Consolata, ritoò in Italia per un periodo di vacanza. Ero come la sua ombra, quasi sempre appresso. Un bel giorno le confidai che da grande l’avrei aiutata… Parole di bambina, desiderio che è rimasto in me sempre, anche se i miei studi hanno limitato le possibilità di andare in missione: non sono medico, né infermiera, né maestra, né psicologa, ma ho una specializzazione in marketing e finanza, decisamente un altro campo.
Passa il tempo e le strade tra Dublino (dove vivevo) e Iringa (dove vive suor Michela), si incontrano. Al «Centro Allamano», in cui la zia gestisce un dispensario diuo adibito all’assistenza sociale, psicologica, medica, economica delle persone affette dal virus Hiv/Aids, dei loro bambini e dei numerosi orfani.
Nasce l’esigenza di una persona che si occupi di amministrazione, perché l’attività si sta ingrandendo, sempre più persone vengono a bussare alla sua porta e la tendenza non sembra diminuire. Suor Michela, con qualche dubbio e incertezza, mi scrive una lettera, nella quale mi chiede di andare a Iringa per aiutarla nel lavoro del Centro. Provo una forte emozione: mi sembra di toccare il cielo… Sì, l’avrei aiutata! E parto per il Tanzania.
Il 3 febbraio arrivo a Dar es Salaam con un visto turistico di 3 mesi, senza contratto di lavoro, e subito inizio il mio servizio nel «Centro Allamano», dove non mi occupo solo di amministrazione, ma guido una delle macchine per l’assistenza domiciliare ai malati: ogni giorno andiamo su e giù per le colline di Iringa e i villaggi dei dintorni a visitare i nostri pazienti.
Sono a contatto diretto con i malati, le loro famiglie, problemi, dolore, desolazione, miglioramenti, ricadute, progressi… L’esperienza quotidiana è molto forte: non è facile toccare con mano il dolore, sentirsi inutili, impotenti di fronte alla realtà di sofferenza. Ma qualcosa accade. La nostra visita, le nostre parole, il nostro affetto danno sollievo alle persone che ci ringraziano e benedicono. Quanto bene ricevo, io che pensavo di dae!
Seguire i malati non è semplice: occorre dare loro assistenza psicologica, medica, sociale e, soprattutto, aiutarli a crescere, affinché, nel limite delle loro forze, possano riprendere in mano la loro esistenza. Al Centro si organizzano corsi di formazione per microcrediti e microprogetti; si incentivano idee per una piccola attività, perché gli ammalati ritornino a essere operativi in famiglia e nella società, sentendosi nuovamente delle persone.
I bambini (molti sono orfani) vengono aiutati e spronati affinché vadano a scuola, apprendano un mestiere, diventino autosufficienti da adulti. Con la morte prematura dei genitori, rischiano di finire sulla strada, oppure di fare i «servetti» presso qualche famiglia di parenti; il nostro impegno è proprio quello di salvarli da queste situazioni, perché possano costruirsi un futuro.
Quanta gioia si prova quando nascono bambini sani pur da mamme malate, perché hanno ricevuto la medicina antiretrovirale; oppure malati che stanno meglio e li si incontra per strada a parlare con gli amici o di ritorno dal mercato con un po’ di frutta; o ancora, che il micro progetto a loro affidatogli dà buoni risultati; e vedi l’orto con tanta verdura: sono come luce di stelle in una notte buia, che ti guidano verso una Luce più grande.

A circa un anno dal mio arrivo, mi rendo conto che devo imparare ancora molto su come vivere a pieno lo «spirito missionario», per evitare retorica e luoghi comuni. L’andare in missione (ovunque sia) non deve essere un’avventura fine a se stessa, un’esperienza alternativa al «grigiore» della nostra esistenza, una fuga, ricerca di una soddisfazione personale, egoistica; se così fosse, si sbaglierebbe tutto.
Spesso si parte con tante buone intenzioni, poi la realtà mette alla prova; occorre trovare la forza per continuare e cercare di imparare a fare bene il bene, il che non è semplice.
Ammiro i missionari, che da tanti anni vivono e lavorano qui; sono un esempio molto importante per me; le loro esperienze di vita, conquiste, sconfitte, riflessioni, dubbi, proposte… mi aiutano ad aprire gli occhi e chiedermi quali sono i motivi per cui sono volata in Tanzania. Sono venuta perché potevo essere di aiuto in questa terra drammaticamente bella; spero di crescere, di maturare e che la mia presenza sia fonte di sollievo al prossimo che incontro.
La strada della vita mi ha condotta fin qui; il Signore mi ha guidata per mano, fino all’Allamano Centre; ma ognuno di noi può essere «missionario», il prossimo è ovunque, vicino o lontano dal posto in cui viviamo.

Paola Viotto




Un volto, un nome, un fratello

Nel «Centro Allamano» di Iringa alcune volontarie collaborano con le missionarie
della Consolata, nella prevenzione e assistenza ai malati di Aids. Una dottoressa e una volontaria raccontano le lore esperienze di sofferenza di fronte al dolore umano e di gratificazione per quanto ricevono dai pazienti.
I malati che vi ricevono attenzione e cure, vengono coinvolti nell’aiutare gli altri a lottare con coraggio contro il nemico comune dell’Hiv/Aids.

A distanza di un anno, sono tornata in quel pezzetto d’Africa, dove ho lavorato come medico, seppure solo per due anni. Già l’anno scorso questa generosa terra di Tanzania mi si è presentata diversa da come me la ricordavo. Alcuni progressi, certo: più strade asfaltate, più mezzi di comunicazione, più telefoni… Ma, nel complesso, la nazione è peggiorata per via del flagello dell’Aids.
Lo si legge su riviste impegnate in prima linea in questa lotta impari; a volte, gli echi di tale strage silenziosa giungono persino sulle pagine di alcuni nostri quotidiani. Le grandi promesse dei politici del G8 non hanno sortito finora alcun risultato concreto, in termini di progetti fattibili. Un’altra cosa è, però, vedere con i propri occhi. Per quanto una foto o un servizio televisivo siano realizzati bene, non si prova lo stesso effetto di quando si entra in un ospedale, dove i malati giungono spesso ridotti in condizioni pietose, sapendo di non poter guarire, ma almeno certi che non moriranno soli e senza alcuna consolazione.
Così, pur sapendo bene cosa avrei visto e quali tragedie umane avrei incontrato (o almeno sfiorato per pochi giorni), sono tornata in quell’Africa subsahariana dove povertà, malnutrizione e malattie endemiche hanno trovato in questo virus un alleato formidabile per fare strage di un’intera generazione, rendere orfani migliaia di bambini (spesso infettati dalla nascita) e provocare una reazione a catena con ripercussioni sociali ed economiche che solo ora il mondo sta conoscendo, anche se fa comodo a molti mettere la sordina, per evitare probabili contraccolpi economici a livello planetario.
I ricordi si affollano, non so da quale storia cominciare, anche perché sono tutte ugualmente tragiche.
M aria è ha meno di vent’anni; è malata di Aids e, nel momento in cui scrivo, forse è già morta. La ricordo su un pagliericcio in una stanza piccola, ma dignitosa e pulita. Fuori, nel piccolo cortile davanti alla porta, alcuni bambini fanno festa alle mie figlie venute con le caramelle. Dentro, con lei, i genitori, in piedi in fondo alla stanza.
Maria è «pelle e ossa», rannicchiata sotto una coperta di lana, malgrado i trenta gradi di oggi. Le viene messa una flebo, appesa a un chiodo nel muro; non riesce più a nutrirsi, perché un germe le ha infettato le mucose dalla bocca fino all’intestino, che non riesce più a assorbire i cibi, causandole una dolorosa diarrea.
Gli occhi infossati mi guardano: qualcuno le ha spiegato che sono un medico e negli occhi le si è accesa una luce di speranza. Vorrei dirle qualcosa, ma il mio swahili fa cilecca (è soltanto un problema di lingua?); riesco solo a balbettare alcune parole di cordoglio e poi le lacrime mi annebbiano la vista. Le prendo la mano per qualche istante. Forse il gesto serve più a me che a lei. Mi occorre sentirla, quella mano fredda e malata; almeno un contatto umano, al di là delle parole. Vorrei uscire, scappare; ma il ricordo di Maria non mi lascia proprio.
Passano pochi minuti e con Paola, una volontaria italiana che lavora al «Centro Allamano» di Iringa, torniamo alla base. Rientrano anche le altre infermiere che hanno finito il giro di visite domiciliari. E le storie si ripetono: un bambino è morto stanotte, una mamma è stata ricoverata in ospedale in fin di vita; pochi sono quelli che migliorano.
È la tragedia dell’Aids in Africa, ove i farmaci sono per pochi, troppo pochi. Paola abbozza un po’ di numeri: «Qui abbiamo in cura domiciliare circa 1.500 malati di Aids: a tutti portiamo da mangiare e, poi, cerchiamo di curare le infezioni, alleviare il dolore, dare ai malati un po’ di dignità. Solo per 130 abbiamo i farmaci; è stato difficile inserire i pazienti nella lista dei candidati alle cure.
Seguiamo le indicazioni del ministero tanzaniano della sanità, ma molti sono fuori dal programma di trattamento, a causa della mancanza di fondi; perché i farmaci adesso arrivano, ma per loro sono troppo costosi (una cura costa più dello stipendio annuale). Solo per il supporto alimentare a domicilio, i vestiti e le rette scolastiche per i figli, spendiamo circa 10 mila euro al mese. Abbiamo fra i nostri utenti 150 bambini, ma sono destinati a morire, perché non possiamo fornire loro i farmaci.
Ecco, se già prima avrei voluto scappare, adesso rimango senza parole e, a distanza di 20 giorni da quell’incontro, ancora mi tornano alla mente i 150 bambini destinati a morire. E questo non è che uno dei tanti luoghi che ho visitato, dei tanti missionari che ho incontrato; le storie si ripetono, ognuno ha centinaia di malati da curare, migliaia di orfani da assistere.

C erto, ai ricordi tristi si alternano anche momenti di gioia, come l’esperienza vissuta al villaggio di Ihela, nella regione dell’Ukinga, ove spesso si reca suor Emelina, missionaria della Consolata. Insieme incontriamo la gente del villaggio e pranziamo con loro. Qui, l’anno scorso abbiamo cominciato un progetto di adozioni a distanza dei bambini orfani. È una esperienza di «gemellaggio», di vicinanza, di familiarità con i più poveri, che ha riempito di gioia il cuore mio e di quelli che erano con me, ricordandoci quanto sono vere le parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere».
E, ancora, i ricordi belli: tante persone che abbiamo incontrato e che stanno dando la vita a servizio di chi soffre, missionari, ma anche laici, come il dottor Gerold, un medico tedesco che lavora come volontario a Ikonda. Egli mi ha impressionato, oltre che per la sua professionalità, per la sua grande umanità verso i malati, che cura con amore e dedizione totale.
Ora non ho che un sogno: vedere tanti bambini sorridere, avere tante mani da stringere e scorgere finalmente la speranza sul volto di questi fratelli e sorelle che il Signore mi ha dato la gioia di incontrare sul cammino.

Marina Barcella Franceschi




Seminatori di speranza


La chiesa africana (vescovi, preti diocesani, missionari e missionarie) è impegnata su due fronti: combatte la malattia dell’Hiv e l’afro-pessimismo.
È una lotta impari, per mancanza di risorse e, spesso, per la latitanza dei governi locali.
Eppure ci sono molti segni di speranza, come testimoniano le esperienze qui riportate di alcuni paesi: Uganda, Sudafrica, Tanzania e Mozambico.
In questa lotta sono coinvolti anche i missionari e missionarie della Consolata.

Lottiamo contro l’Aids e, allo stesso tempo, contro l’afro-pessimismo». È questo l’appello che mons. John Onayiekan, arcivescovo di Abuja e presidente del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam), ha rivolto al mondo in occasione della Giornata internazionale di lotta contro l’Aids, che si è celebrata lo scorso 1° dicembre.
Un appello forte, il suo, fatto a nome di tutte le conferenze episcopali africane, che da molto tempo ormai hanno fatto loro la sfida imposta dall’Aids a tutte le realtà africane, chiesa cattolica compresa. E non potrebbe essere altrimenti, visto che questa pandemia sta sconvolgendo la vita di popolazioni intere e di interi stati, mettendo a dura prova i sistemi sanitari, indebolendo le economie, ma anche mettendo in discussione i modelli valoriali di riferimento e la stessa struttura sociale, disgregando le famiglie e uccidendo le giovani generazioni.
Per questo, di fronte allo slogan dell’ultima giornata internazionale di lotta all’Aids «Manteniamo le promesse», le chiese d’Africa non si sono tirate indietro. «Noi promettiamo – scrive l’arcivescovo – a voi tutti che siete colpiti dalla malattia di essere al vostro fianco, e incoraggiamo tutti gli agenti pastorali ad aiutarvi e a prendersi cura di voi totalmente, nel corpo e nell’anima». Al tempo stesso, sottolinea mons. Onayiekan, «noi vescovi africani ci opponiamo alla marginalizzazione dell’Africa come continente. Chiediamo di rispettare l’Africa, che non ha bisogno di pietà, ma di amore vero, solidarietà e giustizia».
E guardando al continente e alle sue ricchezze umane, alla sua capacità di affrontare le difficoltà e le sofferenze, e di custodire, nonostante tutto, l’ottimismo, il presidente del Sceam dice con convinzione: «Noi non abbiamo paura. I popoli dell’Africa sono ricchi di forza interiore e di valori nobili, di coraggio e di determinazione a vincere la pandemia. È per questo che facciamo appello a tutti i popoli africani, affinché si impegnino coraggiosamente nella lotta contro l’Hiv/Aids. E accoglieremo la solidarietà di tutti gli uomini e le donne di buona volontà».

Rapporto «olistico»

Il ruolo delle chiese africane e dei missionari in Africa, nel settore della salute, è assolutamente rilevante. Ancora oggi, oltre la metà di tutte le strutture sanitarie presenti nel continente sono gestite da enti ecclesiali o missionari. E inoltre, se si guarda allo specifico della lotta all’Aids, «la percentuale dei centri di assistenza sanitaria della chiesa cattolica che curano l’Aids in tutto il mondo è il 26,7%, contro il 42% gestiti dai governi di tutto il mondo con copertura economica». Lo fa notare in un’intervista a Fides, il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute, che aggiunge: «Anche per questo il santo padre ha voluto la Fondazione il “Buon Samaritano”, che si occupasse di aiutare i poveri malati». Creata il 12 settembre 2004, e affidata al Pontificio consiglio per la pastorale della salute, la Fondazione ha ricevuto una donazione personale di Benedetto xvi di 100 mila euro. Nei suoi primi mesi di vita, precisa mons. Lozano, «la Fondazione ha già inviato 40 mila dollari, equamente divisi tra Etiopia, Congo, Tanzania e Birmania, che possiamo dire sono già pasticche antiretrovirali».
Quello di fornire farmaci, tuttavia, non è l’unico strumento con cui la chiesa interviene direttamente nella lotta all’Aids. Quattro sono le linee di fondo, per un approccio di tipo «olistico» al problema, un approccio cioè che prende in considerazione tutti gli aspetti legati a questa terribile pandemia. Non solo trattamenti antiretrovirali, dunque, ma anche prevenzione e formazione, assistenza psicologica e spirituale, accompagnamento dei malati e delle loro famiglie, assistenza alle vedove e agli orfani, e un lavoro di base per promuovere valori e comportamenti responsabili ispirati al vangelo.
Anche in ambiti non ecclesiali, pare essere questa la linea guida predominante nella lotta all’Aids, come dimostra l’ultima Conferenza internazionale che si è tenuta ad Abuja, in Nigeria, all’inizio di dicembre 2005, significativamente incentrata sul tema: «Hiv/Aids e famiglia».
«Dobbiamo prendere in mano il nostro destino – ha dichiarato per l’occasione il presidente della Conferenza, Femi Soyinka – e liberarci dell’Hiv/Aids: per questo sono necessarie politiche che rinforzino il modello familiare africano, basato sui valori dell’ospitalità, della cura e dell’assistenza».

In Uganda

Un esempio positivo in questo senso viene dall’Uganda. Dove la chiesa ha dato un contributo fondamentale alla riduzione della prevalenza dell’Hiv/Aids, adottando una formula basata sulla promozione dei valori, la fedeltà e l’astinenza. Questo intervento capillare, in tutte le regioni del paese, anche quelle rurali più isolate – e persino, dove è stato possibile, in quelle devastate dalla guerriglia nel nord – si è associato a un importante lavoro in rete di tutti i soggetti impegnati nella lotta all’Aids, dal governo ai donatori inteazionali, dalle associazioni locali alle Ong straniere. I risultati sono incoraggianti. Si è infatti passati dal 12% di persone affette da Hiv/Aids all’inizio degli anni ‘90, al 4,1% nel 2003 (ultimo dato disponibile) con una prevalenza tra gli adulti del 7,5%. Anche nella capitale Kampala la percentuale è scesa significativamente dal 29% di 10 anni fa all’8% attuale.
Questo grazie anche all’intervento tempestivo del governo che, a fronte del primo caso diagnosticato nel 1982, ha messo a punto un piano nazionale di lotta all’Aids già quattro anni dopo, aggiornato successivamente in diverse fasi per rispondere sempre meglio all’emergenza. Nel 2001, il Progetto di controllo dell’Hiv/Aids coinvolgeva 12 ministeri, 28 Ong locali e inteazionali, e 30 partners.

In Sudafrica

Lo stesso non si può dire per molti altri governi africani, alcuni dei quali, come quello del Sudafrica, portano pesanti responsabilità per il grave ritardo con cui hanno affrontato il problema Aids. Nonostante il paese abbia il numero assoluto più alto di malati – 5 milioni su una popolazione di 44 – il governo di Thabo Mbeki ha elaborato un serio piano nazionale di lotta all’Aids solo nel novembre 2003, con 15 anni di colpevole ritardo. Oggi il Sudafrica si trova a far fronte a una pandemia fuori controllo che sta devastando la società a tutti i livelli.
Anche qui la chiesa cattolica – che pure non è maggioritaria nel paese – sta facendo un lavoro enorme ed è seconda solo al governo quanto a erogazione di servizi legati alla prevenzione e alla cura dell’Aids.
Un contributo importante all’opera cornordinata dall’Ufficio Aids della Conferenza dei vescovi del Sudafrica (Sabc) è dato dall’AidsRelief Consortium, un cornordinamento di più soggetti guidato dal Catholic Relief Services (Crs), la Caritas statunitense.
In Sudafrica, AidsRelief – attraverso Sabc e un altro partner, l’Inteational Youth Development – è riuscita a raggiungere 5.500 pazienti con trattamenti antiretrovirali, più di 11 mila con cure mediche in 24 strutture.
Complessivamente AidsRelief interviene in 9 paesi, dove distribuisce trattamenti antiretrovirali a 26.600 malati e cura 78.650 pazienti in 89 strutture.
Durante una conferenza che si è tenuta alla fine del 2004 presso il Sizanani Village di Bronkhonstpruit, una sessantina di chilometri da Pretoria – un centro creato da un missionario altornatesino, padre Charles Kuppelwieser, dove tra le molte attività si curano anche malati terminali di Aids e si realizzano programmi di assistenza domiciliare – l’imperativo emerso da tutti i partecipanti è quello di rendere i trattamenti antiretrovirali sostenibili sia economicamente che nella gestione concreta di una cura che richiede grande rigore e assistenza.
«I nostri pazienti trattati con antiretrovirali – spiega Bulelani Kuwane, responsabile del centro Sizanani, che con le sue strutture coloratissime, secondo la tradizione locale, è tutt’altro che un luogo che evoca malattia e morte – vengono seguiti da assistenti sociali e infermieristici, che visitano i malati nelle loro case, assistono le famiglie e curano l’aspetto comunitario, che è estremamente importante anche nella lotta all’Aids. Perché è nella comunità che il malato trova i riferimenti a cui aggrapparsi per poter sopravvivere».
«La situazione in Sudafrica è drammatica – conferma Johan Viljoen, nel suo studio presso l’Ufficio Aids della Sabc -. In dodici anni, la prevalenza del virus tra gli adulti è salita dall’1 a oltre il 20%. Ma solo un’esigua minoranza – 10% circa – è consapevole di essere malata. E pochissimi vengono curati. In alcune zone del KwaZulu Natal, i risultati dei test sulle donne incinte mostrano che circa il 40% di loro sono sieropositive».
E proprio le donne sono le più colpite, ma anche le più attive nel reagire. Lo conferma la dottoressa Malebo Maponyane, medico infettivologo, che pure lavora presso l’Ufficio Aids della Sabc. E mentre ci porta a visitare un centro sanitario gestito dalle suore di Holy Cross, alla periferia di Pretoria, dove sono stati introdotti con grande successo, lo scorso anno, i trattamenti antiretrovirali, commenta: «Le donne continuano ad avere uno status sociale inferiore rispetto all’uomo. Dunque, non hanno voce e sono spesso oggetto di abusi anche fisici. Basti pensare che in questo paese si registra più di un milione di stupri all’anno. Molti dei quali non denunciati».
Non è medico, ma si rende perfettamente conto che l’Aids è innanzitutto donna, anche chi presta una silenziosa e paziente assistenza ai malati. Come Matsediso Mthethwa, che vive a Daveyton, una township a pochi chilometri da Johannesburg, dove padre José Luis Ponce de León, missionario della Consolata, ha creato un gruppo di volontari che si dedicano all’assistenza domiciliare.
«Le mie prime pazienti sono state due sorelle, la più grande allo stadio terminale. La loro famiglia le aveva abbandonate. La madre non se la sentiva di assisterle. E allora, insieme a una vicina, ho cercato di occuparmi di loro. Molti malati continuano a morire nel nascondimento, senza nessun tipo di assistenza perché loro stessi e i loro familiari ancora si vergognano di questa malattia che è sinonimo di maledizione e tabù».
È per combattere lo stigma, prima ancora che la malattia in sé, che padre José Luis aveva avviato un analogo progetto di assistenza domiciliare a Madadeni, periferia di Newcastle, nel KwaZulu Natal, la regione più colpita del Sudafrica.
Oggi è padre Joseph Mang’ongo, kenyano d’origine, a seguire e cornordinare una cinquantina di volontari. «L’Aids – conferma – continua a essere considerata una malattia infamante. A volte è addirittura difficile, per noi e i nostri volontari, “scoprire” i malati ed entrare in contatto con loro. Ma è importante sensibilizzare la gente e far capire che non c’è nulla di cui vergognarsi. Lo ripetiamo sempre, anche in chiesa, ma è un messaggio ancora difficile da trasmettere».

In Tanzania

Un altro missionario della Consolata, padre Alessandro Nava, sta affrontando analoghi problemi in un contesto molto diverso, in una regione povera e isolata come quella di Ikonda, sulle montagne di Livingston nel sud del Tanzania. Insieme ad alcune suore della Consolata, gestisce un ospedale che fino a pochi anni fa aveva tutt’altro di cui occuparsi e che oggi si trova assediato dall’Aids.
«Quando i missionari della Consolata hanno cominciato a costruire l’ospedale nel 1962 – spiega padre Alessandro -, la priorità era quella di curare le popolazioni di questa regione remota e di migliorae le condizioni di salute e di vita. Quando la situazione stava finalmente migliorando, l’Aids si è abbattuto anche su questa gente, con pesanti conseguenze sociali e sanitarie. Il nostro ospedale è sempre più sollecitato da questa pandemia, che nessuno, in questo paese e penso nell’intera Africa, è in grado di combattere efficacemente».
«Sono soprattutto le donne e i giovani a essee colpiti – conferma suor Egle Casiraghi, una delle missionarie della Consolata che lavorano in ospedale, mentre si aggira preoccupata nel reparto mateità -. Le campagne di prevenzione sono insufficienti e non abbastanza efficaci, la gente, continua ad ammalarsi, ma sono pochissimi quelli che hanno il coraggio di venire in ospedale a fare il test. C’è paura e vergogna. Al punto che, persino tra gli infermieri, c’è chi si rifiuta di sottoporsi al test, per timore di affrontare una malattia che rimane per molti incomprensibile e maledetta».
Nello studio medico, il dottor Gerold Jäger, una lunga esperienza in Uganda alle spalle, visita una giovane donna, che si è sottoposta al test e sa di essere sieropositiva. «Sono soprattutto le donne – afferma – che accettano di fare il test, ma spesso quando tornano a casa non osano rivelare il risultato al marito, perché rischiano di essere malmenate o cacciate, anche se è quasi sempre l’uomo a trasmettere la malattia. Purtroppo la situazione di inferiorità della donna la rende più vulnerabile anche di fronte a una catastrofe come l’Aids».
Secondo i dati ufficiali, in Tanzania l’Aids colpisce il 9% della popolazione adulta. Ma chi lavora nel settore è pronto a giurare che la percentuale è molto più alta. Realisticamente potrebbe aggirarsi attorno al 20%.
Nel dicembre del 2004, anche all’ospedale di Ikonda hanno cominciato a distribuire farmaci antiretrovirali. «Attualmente curiamo circa 150 pazienti – dice padre Nava -. Ma sono molti di più quelli che ne avrebbero bisogno. Altri 500 ricevono medicine per le malattie opportunistiche, in attesa di poter entrare nel programma degli antiretrovirali. Per il momento, con le nostre risorse, è tutto quello che riusciamo a fare».

In Mozambico

I bisogni sono enormi, qui come altrove. Un po’ più a sud, cambia il paese, il Mozambico, e il contesto, l’interno della provincia di Sofala, ma non la gravità del problema. È un altro missionario, padre Ottorino Poletto, comboniano, che si è trovato in questi anni di fronte a una sfida nella sfida: quella di lottare contro le devastazioni della guerra e, sempre di più, contro l’Aids.
«Su mandato del vescovo – racconta padre Ottorino, aggrappato al volante della sua auto, mentre percorre piste sconnesse che lui stesso ha cercato di far sistemare – sto cercando di ricostruire e riavviare quattro missioni completamente distrutte dal conflitto civile e a lungo abbandonate. Ma da qualche tempo mi sono trovato di fronte a un’altra devastazione, quella dell’Aids».
E così, nella missione di Mangunde, grazie alla presenza e al sostegno delle suore comboniane, ha aperto lo scorso anno un centro per la prevenzione della trasmissione del virus da madre a figlio, sul modello di quello proposto dalla Comunità di Sant’Egidio, che proprio in Mozambico ha lanciato il progetto Dream nel 2002. Partita da Maputo, l’iniziativa si è poi trasferita in altri luoghi, tra i quali anche a Beira, la seconda città del paese, dove fa base padre Ottorino. Il quale, però, non si è accontentato di avere un punto di riferimento in città e ha fatto di tutto per avviare il primo centro di prevenzione e cura dell’Aids in una zona rurale del Mozambico.
«Questo progetto – continua padre Ottorino – rappresenta per noi un grande impegno e un onere non indifferente. Ma ci sembrava giusto esser presenti anche così tra la nostra gente, portare questo segno di solidarietà e di carità attraverso il quale cerchiamo di dare una testimonianza autentica della presenza di Gesù in mezzo ai poveri e agli ammalati. Il nostro lavoro in missione, dalla pastorale all’educazione, dalla sanità sino alla cura dell’Aids si radica nella Parola che libera l’uomo integralmente».

Anna Pozzi




Attenti… al cuore

Secondo la cultura dei macua, etnia bantu delle province settentrionali del Mozambico, il mondo è popolato da un insieme di forze vitali che, come i fili di una ragnatela, interagiscono tra loro. La malattia non è mai un fatto privato, ma nasce e si evolve in un complesso mondo di relazioni, che diversificano anche le forme di terapia… E l’Aids, prima di tutto, è una malattia del cuore.

Il 24 aprile 2004, i vescovi mozambicani hanno scritto la lettera pastorale «Curate i malati»1, affrontando il problema dell’Aids in Mozambico. Il dato è allarmante: nonostante le campagne di prevenzione promosse negli ultimi anni dal servizio sanitario nazionale e da varie Ong, il Mozambico è oggi uno dei paesi africani con il più alto tasso d’infezione da Hiv: 17% della popolazione. Circa 500 mila bambini sono orfani di genitori, deceduti per Aids, e 50 mila neonati contraggono ogni anno l’infezione per via verticale.
Le campagne di prevenzione realizzate in questi anni hanno per lo più presentato il preservativo come metodo preventivo: ne sono state distribuite ai giovani enormi quantità, spiegando pubblicamente come utilizzarli2. Uno degli effetti collaterali di tali campagne sembra essere stato un maggiore disimpegno dei giovani (e non solo) verso un comportamento sessuale responsabile: adolescenti e bambini, informati sull’uso facile del preservativo, sono stati di fatto sollecitati all’attività sessuale. In questo senso, sembra che le campagne informativo-preventive abbiano avuto un effetto boomerang sulla diffusione dell’infezione da Hiv.
Al di là della trasmissione per via sessuale, bisogna anche considerare la trasmissione sanguinea, che ha un suo importante ruolo, sia all’interno delle strutture sanitarie, spesso precarie, che nell’ambito dei vari trattamenti di medicina tradizionale (es. incisioni tramite lamette).
Ultimamente, in alcuni centri maggiormente popolati, sono nati alcuni consultori per la prevenzione e il trattamento dell’Aids. Tipico è il progetto Dream della Comunità di S. Egidio, che ha realizzato tre centri principali (Maputo, Beira, Nampula), attrezzati con laboratori altamente specializzati, e una rete di piccoli centri e servizi domiciliari3.

Un mondo di forze vitali

Per chi opera o simpatizza con l’Africa e vuole entrare in dialogo con le persone con cui collabora, è necessario aprirsi alla conoscenza del pensare africano, cercando di intendee non solo la lingua, ma anche il linguaggio. Senza tale conoscenza, ogni dialogo, compreso quello «sanitario», risulta impedito e causare troppi equivoci da ambo le parti; nel discorso e prassi sanitaria, si rischia di usare gli stessi termini e si intendono realtà diverse.
Per capire il pensiero africano, soprattutto il concetto di malattia, bisogna tener presente che i popoli bantu si muovono in un mondo fatto non tanto di cose o esseri, ma piuttosto di forze vitali, che si intrecciano in relazioni e influenze reciproche.
Questo, in modo estremamente semplificato, è il principio chiave per comprendere la cultura bantu4: un «pensare» che alcuni studiosi contemporanei definiscono «vitalogia», ossia, una filosofia a partire dalla vita più che dall’essere5.
L’immagine della ragnatela6 può rendere l’idea di questo mondo di forze vitali in relazione: se si muove un filo, la sua vibrazione si ripercuote su tutta la ragnatela. Sullo sfondo di questa concezione del mondo si muove il pensiero e la vita bantu, compreso il modo di vedere e vivere salute e malattia.
Se a un macua xirima domandate «come sta», la risposta può variare in modo sorprendente per la mentalità occidentale. Essa può essere molto simile a quella che anche noi siamo abituati a dare: «Bene, e tu?». Ma, come in un motivo musicale, le variazioni sono spesso numerose e significative: «Bene, non so però come va il tuo corpo»; «bene, non so però come stanno le tue forze»; «bene, non so però come sta la tua vita»; «bene, non so però come stanno le tue ossa».
Oppure la risposta può essere «così, così», seguito dal racconto, spesso complesso e dettagliato, della ragione del «così, così», spaziando da un mal di pancia notturno a un brutto sogno, da un problema di relazione familiare alla malattia di un parente vicino o lontano… fino agli elefanti che hanno rovinato il campo di granoturco. Sono risposte che esprimono le ragioni per cui una persona si sente minacciata nella propria vita/salute.
Il bantu vive di relazioni e influenze reciproche, sia a livello intrapersonale che interpersonale. Mi spiego. Sotto l’aspetto intrapersonale, il bantu considera la persona come un’unità, composta da tre dimensioni fondamentali: corpo, spirito e ombra, i quali, integrando tra loro, influiscono sullo stato di salute o provocano la malattia.
A livello interpersonale, il bantu riconosce nell’altro (sia esso persona umana vivente o antenato, realtà animate e inanimate e Dio stesso) un qualcuno col quale, in qualche modo, è in continuo scambio: tale scambio può aumentare o diminuire la «vita» e non lascia mai inalterate le condizioni che trova.

Malattia e rimedi nella cultura macua

Da tale visione del mondo derivavano i criteri per classificare le malattie e per applicarvi i relativi rimedi. Secondo la mentalità bantu-macua, tutte le infermità possono essere racchiuse in due grandi categorie. La prima comprende le malattie «di Dio» o «naturali», quelle, cioè, che si ritengono causate da agenti naturali; la seconda quelle «culturali», cioè, causate da influenze negative di altri (persone viventi o del passato).
Per un loro adeguato trattamento bisogna tenere presente il contesto culturale completo (filosofia, religione, vita familiare, sociale), soprattutto l’antropologia bantu-macua, con le sue tre dimensioni: corpo, spirito e ombra, distinte ma mai separate7.
La cerchia dei «personaggi» coinvolti nel dramma della malattia si allarga rispetto alla mentalità occidentale. Un ruolo preminente è svolto da Dio e dagli antenati (relazioni e influenze del mondo dell’aldilà); ci sono poi gli esperti tradizionali della salute (indovini, medici tradizionali); c’è il malato con i suoi parenti, con i suoi vicini e con quanti in qualche modo entra in contatto.
Per questo la malattia non è puramente una condizione personale, un fatto privato, ma è un evento multidimensionale che muove, coinvolge, nasce e si evolve in un contesto relazionale che abbraccia tutto l’orizzonte del mondo bantu-macua. Di conseguenza, anche la «farmacologia» e la terapia si dilatano e diversificano in modo impressionante8.
Nell’universo bantu-macua si può parlare, prima di tutto, di terapia mistico-religiosa. «Dio è la vita, gli antenati sono medicine» dice un proverbio macua.
La terapia tradizionale include aspetti mitico-cosmogonici: essa è impensabile senza il contatto con il mito fondativo del popolo, con le origini della collettività e dell’individuo malato, con la scaturigine della forza vitale.
La terapia abbonda di aspetti simbolici: simboli e gesti usati evocano significati ed emozioni. Ma non mancano, naturalmente, gli aspetti prettamente farmacologici: i medici tradizionali conoscono rimedi naturali a volte molto efficaci.
Infine, nelle terapie tradizionali giocano un ruolo importante le relazioni tra il malato e il medico, la famiglia e il mondo dell’aldilà. Tali relazioni costituiscono l’ambiente in cui si collocano i vari trattamenti.
In questo scenario, si comprende come la cura di una malattia non possa fare a meno di essere multidimensionale: deve interessare le tre dimensioni della antropologia bantu (corpo, spirito, ombra), dialogare con i diversi ambiti (religioso, familiare, sociale) del mondo macua e abbracciare diversi tempi: presente, passato (il tempo mitico delle origini) e naturalmente il futuro.
Credo che anche la medicina scientifica, in qualche modo, abbia bisogno di un cammino di inculturazione; debba, cioè, entrare in dialogo con le istanze che la persona e il popolo presentano, nell’ascolto umile e empatico di come la persona o il popolo comprende se stesso e, di conseguenza, del significato che attribuisce a un dato avvenimento, anche quello della malattia.

E se l’Aids fosse una malattia del cuore?

Estate 2003: siamo in una missione della provincia del Niassa. È un pomeriggio di sole, caldo ma non troppo. Con Roberto, un ragazzo di 27-28 anni, siamo seduti in un luogo ombroso e fresco. Parliamo della vita: della sua e del suo popolo.
Roberto è figlio del suo tempo e del suo popolo: tempo e popolo che hanno ritrovato la pace da appena 11 anni, dopo una guerra lunga ed estenuante, che ha lasciato segni fuori e, soprattutto, dentro le persone.
Roberto parla volentieri; lo sento vibrare nel raccontare e approfondire i suoi pensieri e sentimenti. Lo fa soprattutto prendendo spunto dalla sapienza tradizionale, proverbi e detti del suo popolo, ma li rielabora con talento poetico e acutezza d’intuito.
Il discorso cade sull’Aids, che sta mietendo giovani vittime anche nel suo villaggio. A un certo punto il giovane esordisce: «Di Aids però ce ne sono due tipi». Gli chiedo spiegazioni. «C’è quella che conosciamo, quella del virus – afferma -. Sappiamo come si trasmette, come si previene. Sappiamo che non ci sono cure, che porta alla morte. Queste cose le sappiamo. Però tutto ciò non ci impedisce di ammalarci…».
Approfondiamo il dialogo e Roberto spiega che forse il problema della prevenzione dell’Aids non sta solo nell’informazione. I ragazzi del suo villaggio sono ben informati sulla malattia. Il fatto è, dice Roberto, che probabilmente ai ragazzi non interessa molto di ammalarsi, piuttosto che rimanere sani. E rilancia: «Vedi, c’è un altro tipo di Aids, che è anche peggio di quella del virus, e che viene prima…». E continua parlandomi di un’altra «malattia», diffusa e mortale, «è come un verme che ti mangia dentro… e tu non hai più voglia di vivere… e cominci a morire».
Mi spiega che è una malattia «del cuore» e ne elenca i «sintomi». Nella mia mente, ascoltandolo, riconosco con precisione impressionante la descrizione del vuoto, della depressione, della solitudine. Roberto va oltre, elencandone pure alcune cause, con lucidità e intuito ammirevole; e corona la sua analisi con una parabola.
«Quando soffia il vento e cade un albero, noi pensiamo che sia stato il vento a farlo cadere, ed è vero. Ma non è tutta la verità. Se guardiamo bene l’albero, ci accorgiamo che dentro era “mangiato”, vuoto. Prima del vento, c’era un verme che era entrato e aveva fatto il suo lavoro. L’albero sembrava vivo, ma era già morto. Il vento ha dato solo l’ultimo colpo».
Roberto mi ha dato un’altra lezione di vita. Mi ha insegnato che bisogna stare attenti al vento, prevenirlo, rinforzare gli alberi perché non cadano. Ma mi ha insegnato che questo non è tutto, che «c’è un altro tipo di Aids, che viene prima». C’è una persona che forse è ferita dentro e a questa ferita va data attenzione. Non è una ferita che si cura con le medicine. È una ferita del cuore, dell’anima, che richiede un «trattamento» diverso, fatto di cose forse meno visibili e quantificabili delle medicine, ma non per questo meno importanti.
Richiede silenzio, ascolto, presenza, discrezione, delicatezza, capacità di comprendere, intuire e sfidare. Richiede l’impegno in relazioni vere, che possano costituire quello spazio/luogo in cui la persona possa «sedersi» al sicuro, avere il coraggio di guardare le proprie ferite e recuperare le energie, la vita.
Richiede l’impegno e la passione di creare con l’altro una comunicazione attraverso cui la consolazione passi. Non la consolazione delle frasi fatte, della pacca sulle spalle, ma la consolazione biblica, cristiana, cioè di Cristo. La consolazione che circola anche attraverso gli umili canali delle relazioni umane più vere, in cui si incarna la carità, che non è assistenzialismo umiliante, ma condivisione di se stessi nel dare e nel ricevere la ricchezza dell’altro e dell’Altro.
Roberto mi ha dato una buona lezione, sfidandomi ad approfondire il mio essere cristiana e missionaria. Grazie, Roberto!

Simona Brambilla