We care, oppure…
Non si può far finta di niente: l’Aids è un problema di tutti. Chi pensa di lavarsene le mani, relegandolo al ruolo di semplice «problema africano», uno fra i tanti, si sbaglia di grosso. Con la Campagna di sensibilizzazione e aiuto «Salute Africa» vogliamo rompere il silenzio e scuotere le coscienze, nel segno della consolazione.
Questa è la storia di Thandi, una bambina sudafricana di dieci anni; una bambina come tante. Per lungo tempo, Thandi aveva curato sua madre, che soffriva di una malattia che nessuno chiamava per nome; nel frattempo, faceva da mamma a due fratelli più piccoli. Tutto questo le aveva tolto molte energie e le aveva causato un grande stress. Aveva lasciato la scuola per guardare la famiglia che, nel frattempo, era stata abbandonata dal padre.
Un giorno, sua madre morì e, durante il funerale, lei sentì per la prima volta la parola «Aids», sussurrata dai vicini. Sebbene Thandi non avesse alcun introito, continuò a prendersi cura dei due fratellini. Non solo; pensò che sarebbe anche stato opportuno ritornare a scuola, per migliorare la propria educazione. Lo stigma, però, la segnava a causa della morte di sua mamma; non aveva alcun soldo per comperare la divisa scolastica e pagare la retta, e il direttore le rifiutò un posto alla scuola.
Quando i vicini vennero a saperlo, decisero di andare loro stessi dal direttore per spiegare la situazione di Thandi. Sebbene essi sapessero che il responsabile della scuola dispensava le persone più povere dall’acquisto della divisa e dal pagamento della retta, erano certi che la vera causa per cui la bambina veniva rifiutata era lo stigma dell’Aids.
I vicini si presentarono direttamente al Consiglio d’istituto, ma non ci fu niente da fare. Citarono persino la Costituzione del Sudafrica, che dice: «Ogni bambino ha il diritto all’educazione e non può essere rifiutato a causa della mancanza di soldi». La risposta dei membri del Consiglio d’Istituto fu: «We do not care (non c’interessa), noi stiamo con la decisione del direttore».
Lo stigma era il marchio che si imprimeva a fuoco sul bestiame, come segno di proprietà; era anche il marchio a fuoco con cui si bollavano sulla fronte, per punizione, i delinquenti e gli schiavi fuggitivi. Oggi, lo scao racconto di un fatto realmente avvenuto diventa la premessa per accogliere il grido di questa bambina e dare noi una risposta: «We care». A noi interessa, dicono migliaia di missionari e missionarie della Consolata e loro collaboratori, lanciando il loro appello all’Europa in particolare. Essi, giorno dopo giorno, sentono il pianto e vedono il dolore degli oltre 11 milioni di bambini orfani d’Aids in Africa. Il loro grido d’aiuto chiede una risposta delle scienze mediche, economiche, politiche, sociali e religiose, oltre che una risposta umanitaria.
Chiaramente non è solo un problema africano. L’Aids è un problema globale; devasta intere aree dell’Asia, dell’Europa orientale, oltre ad essere un problema e una fonte di preoccupazione in America e nell’Europa occidentale.
Tutti preferiscono far finta di niente, mantenere il silenzio il più possibile, parlare d’altro o ritenerla una malattia come tante altre. Al contrario, i responsabili del futuro dell’umanità ne sono veramente preoccupati. Scriveva Giovanni Paolo ii nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale dell’ammalato 2005: «Nella lotta contro l’Aids, tutti devono sentirsi coinvolti.
Tocca ai governanti e alle autorità civili fornire chiare e corrette informazioni al servizio dei cittadini, come pure dedicare risorse sufficienti all’educazione dei giovani ed alla cura della salute. Agli operatori pastorali domando di portare ai fratelli e alle sorelle colpiti dall’Aids tutto il conforto possibile sia materiale che morale e spirituale. Agli uomini di scienza e ai responsabili politici di tutto il mondo chiedo con viva insistenza che, mossi dall’amore e dal rispetto dovuti ad ogni persona umana, non facciano economia quanto ai mezzi capaci di mettere fine a questo flagello».
Suggerisce Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite: «Per il momento le uniche armi disponibili sono l’unione e la collaborazione tra i diversi protagonisti delle strategie contro l’Hiv-Aids, per cui occorre far crescere la mobilizzazione di tutti i soggetti, le imprese private, le istituzioni nazionali e le organizzazioni non governative. Ogni attore sociale ed ogni individuo hanno una responsabilità verso la collettività perché l’Hiv/Aids è un problema di tutti non solo delle persone Hiv positive».
Infine le parole di Thabo Mbeki, l’attuale presidente del Sudafrica, che all’inizio del suo mandato presidenziale affermava: «Il virus è tra di noi, è reale, si sta diffondendo. Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi, sperando che la verità non fosse così vera. E invece è con noi, nei posti di lavoro, nelle nostre classi scolastiche, nelle biblioteche. C’è nei nostri incontri di preghiera e in altre funzioni religiose… L’Aids è un mio problema. È un tuo problema. Ogni giorno e ogni notte, ovunque noi siamo, noi informeremo le nostre famiglie, amici e vicini che essi si possono salvare e possono salvare la nazione, cambiando il loro modo di vivere e di amare. Coloro che sono ammalati di Hiv-Aids sono persone umane, come voi e come me. Quando diamo loro una mano, noi costruiamo la nostra propria umanità».
P ur salvaguardando i diritti legati ai brevetti farmaceutici, il diritto alla salute, soprattutto per i poveri, viene prima di ogni possibile business miliardario delle case farmaceutiche. Anche per questo, la Campagna «Salute Africa» ha come sottotitolo «Nella Giustizia la lotta all’Aids». Affermo con forza: «Prima la salute, poi il commercio».
Già la Santa Sede, in occasione della presentazione del messaggio della Quaresima 2004, dedicato alla difesa dei bambini, chiedeva ufficialmente, attraverso il presidente del Pontificio consiglio per la promozione umana e cristiana Cor Unum, l’arcivescovo Paul Josef Cordes, che fossero abbassati i prezzi dei farmaci antiretrovirali. Ma il forte appello non ha minimamente scalfito le coscienze dei signori del farmaco. Anche in questi momenti, in Africa e in altre vaste regioni del Sud del mondo, continuano a morire nel silenzio milioni di persone che potrebbero essere salvate. E allora, senza perdere altro tempo:
«ROMPIAMO IL SILENZIO!»
Per questo i missionari della Consolata (padri e suore, fratelli e volontari) hanno scelto di scendere in campo e chiedono di unirsi a loro nel farsi carico di questa immane tragedia.
Giordano Rigamonti