Solidarietà da reinventare

L’accesso alla tutela della salute è un diritto fondamentale di ogni persona, ma esso viene per lo più negato alle popolazioni dei paesi poveri, nei quali infierisce la pandemia dell’Aids. Mentalità e insufficienze da parte dei paesi più ricchi, unite alle incapacità e deficienze a livello locale, hanno allargato la forbice tra bisogni e risorse, a scapito della giustizia. Occorre reinventare il futuro a tutti i livelli, smascherando individualismi, errori, furbizie interessate, e rivitalizzando il concetto di solidarietà.

Il principio di giustizia nella tutela del diritto alla salute può essere un buon titolo per un contributo teorico, che sappia di lucerna. Vorrei parlare, invece, di cose più concrete, come hanno fatto e fanno quotidianamente coloro che vivono in prima persona il dramma dell’Aids.
E vorrei ricordare, prima di tutto a me stesso, che anche in questo ambito non si tratta soltanto di diritti (come abitualmente si fa ogni volta che si menziona la giustizia), ma anche di doveri.
Le chiacchiere, cui siamo adusi, privilegiano i primi, mentre i secondi sono lasciati sullo sfondo, perché sono scomodi; e così, su di essi domina spesso il silenzio, eccetto quando diventano argomento di rissa politica, il che è un rischio che mal si accorda con i dettami della ragione; ma che appartiene – e lo sappiamo quanto – all’esperienza quotidiana.
Il diritto a cui mi riferisco riguarda, da un lato, un livello adeguato di vita che assicuri la salute e il benessere; dall’altro, la legittima attesa di ricevere, quando necessario, un’assistenza sanitaria degna, qualunque sia il modo, pubblico o privato, di foirla.
Parlando di Aids, potremmo parafrasare John Rawls (Una teoria della giustizia, 1982) e dire che il fatto per cui alcuni godono buona salute e altri cattiva, non è qualificabile né come giusto, né come ingiusto; ma si tratta di dinamiche che vanno riferite alla sorte o, per usare una sua espressione, agli esiti favorevoli o sfavorevoli della «lotteria naturale».
Sappiamo che, nel corso della infermità da HIV, tale «lotteria» talora è «aiutata» da un non trascurabile contributo colposo di insipienza, imprudenza, faciloneria; per cui viene sottintesa una colpa del paziente, che il moralismo pubblico spesso ha condannato a priori, per assolvere se stesso dalle insufficienze del trattamento terapeutico successivo.
Sono nate così le accuse di mercantilismo, arroganza, insensibilità, sopraffazione di una società governata dalla potenza, palese o occulta, del denaro. L’avere è il surrogato magico dell’essere. Chi non ha, non è. Chi è, deve mostrare d’essere, avendo. Poiché il mondo ama i vittoriosi e disprezza gli sconfitti.
È il fascino del successo: chi non riesce, non conta.
Ora, pensate forse che, nell’accesso alla tutela della salute, il problema si ponga in termini diversi, in particolar modo, nei paesi sottosviluppati? No, di certo. E ciò tanto più in un momento che sappiamo essere di difficoltà generale e di forbice aperta tra risorse e bisogni.
In verità la meta dell’assistenza (e di una assistenza uguale) per tutti sembra essersi convertita in una coperta stretta e corta, che tutti tirano con ostinazione, ma che non basta a riparar dal freddo e talora neppure a coprire le vergogne.
È tempo di realismo. Occorre privilegiare la perseveranza insieme alla speranza, che premia le buone battaglie.
Occorre evitare che la sanità venga abbandonata all’appiattimento su base monetaristica e alle semplificazioni economiche dell’aziendalismo (da noi) e delle grandi industrie farmaceutiche che, nel Terzo Mondo, dominano il campo, condizionando gli interventi.
Occorre ricordare che, al di là dei grandi problemi sociali che tormentano, e giustamente, il politico, vi è quello meno rumoroso del cittadino qualunque, del poveraccio di tuo, che non ha (o ha poca) voce e perciò meno si fa sentire.

Mi riferisco agli ultimi, ai diseredati, nel cui nome molti parlano, anche se non sono talora quelli che hanno più titolo a farlo.
Gli ultimi: senza privilegi, né gerarchie, né speciali riconoscimenti che ricevono sole, pioggia, arsura e tempesta a capo chino, continuamente inciampando, cadendo, rialzandosi, reinciampando ancora.
Quello stesso piccolo uomo anonimo che, le parole sono di Mazzolari, «nasce senza molti auguri e muore senza necrologi», è un fante della umanità, emblematicamente il milite ignoto, e che sulla via accidentata dell’assistenza quotidiana è e resta pedina di un gioco altrui.
È a lui che vogliamo rivolgere uno sguardo intenzionale, perché anche noi medici possiamo correre dei rischi nei suoi confronti: di divenire i mandarini di una scienza e di una professione che, sotto il manto della neutralità, pratica un antico integralismo e stabilizza pericolosi sodalizi regressivi o repressivi, non certo a vantaggio dei sofferenti e degli esclusi.

Il problema dell’Aids è nato circa un quarto di secolo fa, non contemporaneamente in tutti i paesi e con una diversa risposta da parte dei singoli stati, ma si è trasformato in pochissimo tempo in una piaga biblica per la diffusione della malattia in tutti gli strati della popolazione e per l’altissima mortalità.
Nei paesi più ricchi la prevenzione e il controllo si sono fatti ora efficaci, non invece in quelli in via di sviluppo, che costituiscono i due terzi della superficie del pianeta, ospitano i tre quarti dell’umanità. Paesi che sono sinonimo di povertà, stato di bisogno, assenza di regole, arbitrio politico, diseguaglianze sociali, guerre civili, rovina per le carenze (corruzione compresa) del potere e, talora, per un triage medico (valutazione della gravità e priorità di assistenza, ndr) di tipo militare.
Questi paesi hanno di fatto vanificato anche alcuni sforzi compiuti per aiutarli, perché i fondi sono stati dirottati verso spese militari e/o vantaggi per gli uomini al potere, o sono stati mal utilizzati per incapacità e cattiva coscienza nella gestione amministrativa.
Ma la cattiva politica non si trova soltanto a casa loro, perché medicina, morale e moneta hanno anche altrove vissuto in difficile coabitazione. Nell’istituzione sociale deputata alla cura del malato, ciascuna ha infatti avuto sempre bisogno dell’altro e si è trovata imbarazzata nel dover ammettere la co-presenza dell’altra.
Se poi si aggiungono i progressi rapidi della tecnologia medica da importare, gli ubiquitariamente crescenti costi delle cure, l’incapacità di pianificare le pur limitate risorse, l’ignoranza grave e la impreparazione della popolazione, nonché la incapacità di autogestione, non si ha difficoltà a capire perché il bilancio dei risultati terapeutici sia colà risultato così fallimentare.
Nella maggior parte dei casi si è scelto di fatalisticamente attendere con le mani in mano e di continuare sulla via comoda della cattiva gestione interessata e delle sperequazioni nella distribuzione delle risorse e quindi nell’accesso alle cure.
A tale incapacità locale si sono aggiunte poi quelle dei paesi ricchi, la cui cultura, spesso disillusa dalle grandi narrazioni metafisiche del passato,
– ha rinunciato a fondare l’etica dei suoi rapporti con i paesi poveri sul solido terreno dell’Assoluto, personale e trascendentale, per rifugiarsi nelle sabbie mobili del contrattualismo e dell’utilitarismo;
– ha disatteso le istanze personalistiche e comunitarie;
– ha ceduto alle pressioni del profitto (eretto talora a suprema norma dell’agire anche in ambito medico);
– ha calpestato esigenze di giustizia e di solidarietà;
– ha giustificato, anche in termini farmacologici, l’assunto che «chi più ha, più può; chi non ha, meno riceve»;
– ha prodotto una veloce e ideologizzata liquidazione dello stato sociale;
– ha rivelato aspetti contraddittori: cultura del rischio o della paura, della prudenza o del desiderio?
– ha dato vita a riforme sanitarie che non hanno prodotto i frutti attesi ma si sono spesso rivelate un «ombrello bucato», per usare l’espressione di Rosaia (1980);
– ha alimentato una politica asfittica e appiattita sulle regole del gioco, alla mercé dei grandi potentati commerciali.
La somma di tutte queste insufficienze ha progressivamente allargato la forbice tra bisogni e risorse, a tutto danno della giustizia, con grande preoccupazione per chi ha responsabilità programmatiche.

Va detto pure ciò che avviene in molti dei paesi del continente africano:
– non vi è democrazia o vi è una grave sua erosione, per lo meno per quel che riguarda l’assistenza sanitaria;
– il potere diventa l’artefice della «giustizia» e della «morale» nella forma più egoistica e brutale; non vi è rispetto per l’autonomia dei singoli pazienti (del resto in buona misura incapaci di autogestirsi per quel che concee cure complesse e da protrarre nel tempo);
– prevale l’esercizio o di uno spregiudicato abuso o, per lo meno, di un patealismo forte, che viola le regole morali, gli obiettivi fondamentali della medicina, i diritti del paziente e la stessa sua natura umana.
Il futuro sarà quel che faremo oggi. È come piantare un albero, attendere e curare che cresca. La nostra è l’epoca di chi pianta alberi, non di chi fugge dalla responsabilità o di chi sostituisce la saggezza con la tecnica, la solidarietà con il controllo.
È vero. Siamo in una terza fase dello sviluppo della medicina. Nella prima ci si prendeva cura del malato, si foiva al più una diagnosi, per il resto ci si limitava di fatto a offrire conforto e qualche palliativo.
Nella seconda l’orizzonte è mutato: ci si è ripromessi di curare, vincere le malattie e salvare i malati.
Ci piaccia o no, siamo ora nella terza, che, secondo Callahan (1987), è l’era dei limiti imposti dalle restrizioni che pesano sulla economia. Il dilemma non è più del singolo o del solo volontariato o della missione emblematicamente impegnata, ma della società intiera.
Fu forse una generosa utopia quella che ci ha portato a progettare una sanità pubblica, in cui ciascuno ricevesse secondo i propri bisogni, pur contribuendo nei soli limiti delle proprie possibilità? Forse sì, ma resta il dovere di:
– non rinunciare a un’importante conquista di civiltà;
– provvedere a un riassetto istituzionale e organizzativo dell’esistente;
– e adeguatamente correggere gli errori e gli sprechi di uno stato sociale spendaccione, corrotto e diseducatore, senza far passare il tutto sulla testa del più debole e diseredato.
Se la questione vertesse solo sulla razionalizzazione della spesa sanitaria, attraverso modelli più appropriati e controlli più sistematici, saremmo di fronte (Pasini 1998) a una mera questione di efficienza e la questione andrebbe risolta a livello organizzativo. Ma non si tratta soltanto di questo, bensì di decidere anche chi curare e fino a che punto estendere i servizi.
Di qui la inevitabilità delle scelte, che implicano ulteriori dilemmi etici, quali il valore della vita delle singole persone, la qualità dell’esistenza loro assicurata, la dignità da sottrarre alla valutazione del mercato.
Certamente il mito del tutto a tutti (e per di più gratis) deve fare i conti con i diversi tipi di razionamento e la questione, essendo pubblica e dunque politica, tocca al cuore il rapporto tra democrazia e assistenza sanitaria.

Ed è così che se ne è parlato in questo Convegno. Per dire che cosa? Che intendiamo sia giustizia, in questo ambito, l’impegno di:
– non alimentare le confusioni,
– non mascherare le differenze,
– deflazionare gli individualismi, privilegi, errori, furbizie interessate,
– preparare un clima di reciproco servizio, fatto di fiducia partecipe e autorevolezza competente, senza
– annullare le responsabilità di ognuno, a tutti i livelli.
Qualcosa si muove in quello che, da parte di tanti, si ritiene lo sfascio: molte coscienze prendono la parola, varie energie vanno mobilitandosi. Solo che il presente non produce da sé il futuro, occorre reinventarlo nella misura delle proprie speranze. Noi medici per primi.
Ci dobbiamo aiutare tutti, perché fare delle scelte significa anche rivitalizzare il concetto di solidarietà, altrimenti svuotato (perché spinto oltre i limiti di ciò che si può ragionevolmente ottenere), rispettando:
– l’uguaglianza delle persone,
– il bisogno fondamentale di protezione della vita umana,
– il principio di reciproco aiuto.
E che l’invito parta anche da questo Convegno è frutto di una coscienza critica che dovrebbe far ben sperare chi da fuori guarda e di noi non dispera.

Mario Portigliatti Barbos

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