Seminatori di speranza


La chiesa africana (vescovi, preti diocesani, missionari e missionarie) è impegnata su due fronti: combatte la malattia dell’Hiv e l’afro-pessimismo.
È una lotta impari, per mancanza di risorse e, spesso, per la latitanza dei governi locali.
Eppure ci sono molti segni di speranza, come testimoniano le esperienze qui riportate di alcuni paesi: Uganda, Sudafrica, Tanzania e Mozambico.
In questa lotta sono coinvolti anche i missionari e missionarie della Consolata.

Lottiamo contro l’Aids e, allo stesso tempo, contro l’afro-pessimismo». È questo l’appello che mons. John Onayiekan, arcivescovo di Abuja e presidente del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam), ha rivolto al mondo in occasione della Giornata internazionale di lotta contro l’Aids, che si è celebrata lo scorso 1° dicembre.
Un appello forte, il suo, fatto a nome di tutte le conferenze episcopali africane, che da molto tempo ormai hanno fatto loro la sfida imposta dall’Aids a tutte le realtà africane, chiesa cattolica compresa. E non potrebbe essere altrimenti, visto che questa pandemia sta sconvolgendo la vita di popolazioni intere e di interi stati, mettendo a dura prova i sistemi sanitari, indebolendo le economie, ma anche mettendo in discussione i modelli valoriali di riferimento e la stessa struttura sociale, disgregando le famiglie e uccidendo le giovani generazioni.
Per questo, di fronte allo slogan dell’ultima giornata internazionale di lotta all’Aids «Manteniamo le promesse», le chiese d’Africa non si sono tirate indietro. «Noi promettiamo – scrive l’arcivescovo – a voi tutti che siete colpiti dalla malattia di essere al vostro fianco, e incoraggiamo tutti gli agenti pastorali ad aiutarvi e a prendersi cura di voi totalmente, nel corpo e nell’anima». Al tempo stesso, sottolinea mons. Onayiekan, «noi vescovi africani ci opponiamo alla marginalizzazione dell’Africa come continente. Chiediamo di rispettare l’Africa, che non ha bisogno di pietà, ma di amore vero, solidarietà e giustizia».
E guardando al continente e alle sue ricchezze umane, alla sua capacità di affrontare le difficoltà e le sofferenze, e di custodire, nonostante tutto, l’ottimismo, il presidente del Sceam dice con convinzione: «Noi non abbiamo paura. I popoli dell’Africa sono ricchi di forza interiore e di valori nobili, di coraggio e di determinazione a vincere la pandemia. È per questo che facciamo appello a tutti i popoli africani, affinché si impegnino coraggiosamente nella lotta contro l’Hiv/Aids. E accoglieremo la solidarietà di tutti gli uomini e le donne di buona volontà».

Rapporto «olistico»

Il ruolo delle chiese africane e dei missionari in Africa, nel settore della salute, è assolutamente rilevante. Ancora oggi, oltre la metà di tutte le strutture sanitarie presenti nel continente sono gestite da enti ecclesiali o missionari. E inoltre, se si guarda allo specifico della lotta all’Aids, «la percentuale dei centri di assistenza sanitaria della chiesa cattolica che curano l’Aids in tutto il mondo è il 26,7%, contro il 42% gestiti dai governi di tutto il mondo con copertura economica». Lo fa notare in un’intervista a Fides, il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute, che aggiunge: «Anche per questo il santo padre ha voluto la Fondazione il “Buon Samaritano”, che si occupasse di aiutare i poveri malati». Creata il 12 settembre 2004, e affidata al Pontificio consiglio per la pastorale della salute, la Fondazione ha ricevuto una donazione personale di Benedetto xvi di 100 mila euro. Nei suoi primi mesi di vita, precisa mons. Lozano, «la Fondazione ha già inviato 40 mila dollari, equamente divisi tra Etiopia, Congo, Tanzania e Birmania, che possiamo dire sono già pasticche antiretrovirali».
Quello di fornire farmaci, tuttavia, non è l’unico strumento con cui la chiesa interviene direttamente nella lotta all’Aids. Quattro sono le linee di fondo, per un approccio di tipo «olistico» al problema, un approccio cioè che prende in considerazione tutti gli aspetti legati a questa terribile pandemia. Non solo trattamenti antiretrovirali, dunque, ma anche prevenzione e formazione, assistenza psicologica e spirituale, accompagnamento dei malati e delle loro famiglie, assistenza alle vedove e agli orfani, e un lavoro di base per promuovere valori e comportamenti responsabili ispirati al vangelo.
Anche in ambiti non ecclesiali, pare essere questa la linea guida predominante nella lotta all’Aids, come dimostra l’ultima Conferenza internazionale che si è tenuta ad Abuja, in Nigeria, all’inizio di dicembre 2005, significativamente incentrata sul tema: «Hiv/Aids e famiglia».
«Dobbiamo prendere in mano il nostro destino – ha dichiarato per l’occasione il presidente della Conferenza, Femi Soyinka – e liberarci dell’Hiv/Aids: per questo sono necessarie politiche che rinforzino il modello familiare africano, basato sui valori dell’ospitalità, della cura e dell’assistenza».

In Uganda

Un esempio positivo in questo senso viene dall’Uganda. Dove la chiesa ha dato un contributo fondamentale alla riduzione della prevalenza dell’Hiv/Aids, adottando una formula basata sulla promozione dei valori, la fedeltà e l’astinenza. Questo intervento capillare, in tutte le regioni del paese, anche quelle rurali più isolate – e persino, dove è stato possibile, in quelle devastate dalla guerriglia nel nord – si è associato a un importante lavoro in rete di tutti i soggetti impegnati nella lotta all’Aids, dal governo ai donatori inteazionali, dalle associazioni locali alle Ong straniere. I risultati sono incoraggianti. Si è infatti passati dal 12% di persone affette da Hiv/Aids all’inizio degli anni ‘90, al 4,1% nel 2003 (ultimo dato disponibile) con una prevalenza tra gli adulti del 7,5%. Anche nella capitale Kampala la percentuale è scesa significativamente dal 29% di 10 anni fa all’8% attuale.
Questo grazie anche all’intervento tempestivo del governo che, a fronte del primo caso diagnosticato nel 1982, ha messo a punto un piano nazionale di lotta all’Aids già quattro anni dopo, aggiornato successivamente in diverse fasi per rispondere sempre meglio all’emergenza. Nel 2001, il Progetto di controllo dell’Hiv/Aids coinvolgeva 12 ministeri, 28 Ong locali e inteazionali, e 30 partners.

In Sudafrica

Lo stesso non si può dire per molti altri governi africani, alcuni dei quali, come quello del Sudafrica, portano pesanti responsabilità per il grave ritardo con cui hanno affrontato il problema Aids. Nonostante il paese abbia il numero assoluto più alto di malati – 5 milioni su una popolazione di 44 – il governo di Thabo Mbeki ha elaborato un serio piano nazionale di lotta all’Aids solo nel novembre 2003, con 15 anni di colpevole ritardo. Oggi il Sudafrica si trova a far fronte a una pandemia fuori controllo che sta devastando la società a tutti i livelli.
Anche qui la chiesa cattolica – che pure non è maggioritaria nel paese – sta facendo un lavoro enorme ed è seconda solo al governo quanto a erogazione di servizi legati alla prevenzione e alla cura dell’Aids.
Un contributo importante all’opera cornordinata dall’Ufficio Aids della Conferenza dei vescovi del Sudafrica (Sabc) è dato dall’AidsRelief Consortium, un cornordinamento di più soggetti guidato dal Catholic Relief Services (Crs), la Caritas statunitense.
In Sudafrica, AidsRelief – attraverso Sabc e un altro partner, l’Inteational Youth Development – è riuscita a raggiungere 5.500 pazienti con trattamenti antiretrovirali, più di 11 mila con cure mediche in 24 strutture.
Complessivamente AidsRelief interviene in 9 paesi, dove distribuisce trattamenti antiretrovirali a 26.600 malati e cura 78.650 pazienti in 89 strutture.
Durante una conferenza che si è tenuta alla fine del 2004 presso il Sizanani Village di Bronkhonstpruit, una sessantina di chilometri da Pretoria – un centro creato da un missionario altornatesino, padre Charles Kuppelwieser, dove tra le molte attività si curano anche malati terminali di Aids e si realizzano programmi di assistenza domiciliare – l’imperativo emerso da tutti i partecipanti è quello di rendere i trattamenti antiretrovirali sostenibili sia economicamente che nella gestione concreta di una cura che richiede grande rigore e assistenza.
«I nostri pazienti trattati con antiretrovirali – spiega Bulelani Kuwane, responsabile del centro Sizanani, che con le sue strutture coloratissime, secondo la tradizione locale, è tutt’altro che un luogo che evoca malattia e morte – vengono seguiti da assistenti sociali e infermieristici, che visitano i malati nelle loro case, assistono le famiglie e curano l’aspetto comunitario, che è estremamente importante anche nella lotta all’Aids. Perché è nella comunità che il malato trova i riferimenti a cui aggrapparsi per poter sopravvivere».
«La situazione in Sudafrica è drammatica – conferma Johan Viljoen, nel suo studio presso l’Ufficio Aids della Sabc -. In dodici anni, la prevalenza del virus tra gli adulti è salita dall’1 a oltre il 20%. Ma solo un’esigua minoranza – 10% circa – è consapevole di essere malata. E pochissimi vengono curati. In alcune zone del KwaZulu Natal, i risultati dei test sulle donne incinte mostrano che circa il 40% di loro sono sieropositive».
E proprio le donne sono le più colpite, ma anche le più attive nel reagire. Lo conferma la dottoressa Malebo Maponyane, medico infettivologo, che pure lavora presso l’Ufficio Aids della Sabc. E mentre ci porta a visitare un centro sanitario gestito dalle suore di Holy Cross, alla periferia di Pretoria, dove sono stati introdotti con grande successo, lo scorso anno, i trattamenti antiretrovirali, commenta: «Le donne continuano ad avere uno status sociale inferiore rispetto all’uomo. Dunque, non hanno voce e sono spesso oggetto di abusi anche fisici. Basti pensare che in questo paese si registra più di un milione di stupri all’anno. Molti dei quali non denunciati».
Non è medico, ma si rende perfettamente conto che l’Aids è innanzitutto donna, anche chi presta una silenziosa e paziente assistenza ai malati. Come Matsediso Mthethwa, che vive a Daveyton, una township a pochi chilometri da Johannesburg, dove padre José Luis Ponce de León, missionario della Consolata, ha creato un gruppo di volontari che si dedicano all’assistenza domiciliare.
«Le mie prime pazienti sono state due sorelle, la più grande allo stadio terminale. La loro famiglia le aveva abbandonate. La madre non se la sentiva di assisterle. E allora, insieme a una vicina, ho cercato di occuparmi di loro. Molti malati continuano a morire nel nascondimento, senza nessun tipo di assistenza perché loro stessi e i loro familiari ancora si vergognano di questa malattia che è sinonimo di maledizione e tabù».
È per combattere lo stigma, prima ancora che la malattia in sé, che padre José Luis aveva avviato un analogo progetto di assistenza domiciliare a Madadeni, periferia di Newcastle, nel KwaZulu Natal, la regione più colpita del Sudafrica.
Oggi è padre Joseph Mang’ongo, kenyano d’origine, a seguire e cornordinare una cinquantina di volontari. «L’Aids – conferma – continua a essere considerata una malattia infamante. A volte è addirittura difficile, per noi e i nostri volontari, “scoprire” i malati ed entrare in contatto con loro. Ma è importante sensibilizzare la gente e far capire che non c’è nulla di cui vergognarsi. Lo ripetiamo sempre, anche in chiesa, ma è un messaggio ancora difficile da trasmettere».

In Tanzania

Un altro missionario della Consolata, padre Alessandro Nava, sta affrontando analoghi problemi in un contesto molto diverso, in una regione povera e isolata come quella di Ikonda, sulle montagne di Livingston nel sud del Tanzania. Insieme ad alcune suore della Consolata, gestisce un ospedale che fino a pochi anni fa aveva tutt’altro di cui occuparsi e che oggi si trova assediato dall’Aids.
«Quando i missionari della Consolata hanno cominciato a costruire l’ospedale nel 1962 – spiega padre Alessandro -, la priorità era quella di curare le popolazioni di questa regione remota e di migliorae le condizioni di salute e di vita. Quando la situazione stava finalmente migliorando, l’Aids si è abbattuto anche su questa gente, con pesanti conseguenze sociali e sanitarie. Il nostro ospedale è sempre più sollecitato da questa pandemia, che nessuno, in questo paese e penso nell’intera Africa, è in grado di combattere efficacemente».
«Sono soprattutto le donne e i giovani a essee colpiti – conferma suor Egle Casiraghi, una delle missionarie della Consolata che lavorano in ospedale, mentre si aggira preoccupata nel reparto mateità -. Le campagne di prevenzione sono insufficienti e non abbastanza efficaci, la gente, continua ad ammalarsi, ma sono pochissimi quelli che hanno il coraggio di venire in ospedale a fare il test. C’è paura e vergogna. Al punto che, persino tra gli infermieri, c’è chi si rifiuta di sottoporsi al test, per timore di affrontare una malattia che rimane per molti incomprensibile e maledetta».
Nello studio medico, il dottor Gerold Jäger, una lunga esperienza in Uganda alle spalle, visita una giovane donna, che si è sottoposta al test e sa di essere sieropositiva. «Sono soprattutto le donne – afferma – che accettano di fare il test, ma spesso quando tornano a casa non osano rivelare il risultato al marito, perché rischiano di essere malmenate o cacciate, anche se è quasi sempre l’uomo a trasmettere la malattia. Purtroppo la situazione di inferiorità della donna la rende più vulnerabile anche di fronte a una catastrofe come l’Aids».
Secondo i dati ufficiali, in Tanzania l’Aids colpisce il 9% della popolazione adulta. Ma chi lavora nel settore è pronto a giurare che la percentuale è molto più alta. Realisticamente potrebbe aggirarsi attorno al 20%.
Nel dicembre del 2004, anche all’ospedale di Ikonda hanno cominciato a distribuire farmaci antiretrovirali. «Attualmente curiamo circa 150 pazienti – dice padre Nava -. Ma sono molti di più quelli che ne avrebbero bisogno. Altri 500 ricevono medicine per le malattie opportunistiche, in attesa di poter entrare nel programma degli antiretrovirali. Per il momento, con le nostre risorse, è tutto quello che riusciamo a fare».

In Mozambico

I bisogni sono enormi, qui come altrove. Un po’ più a sud, cambia il paese, il Mozambico, e il contesto, l’interno della provincia di Sofala, ma non la gravità del problema. È un altro missionario, padre Ottorino Poletto, comboniano, che si è trovato in questi anni di fronte a una sfida nella sfida: quella di lottare contro le devastazioni della guerra e, sempre di più, contro l’Aids.
«Su mandato del vescovo – racconta padre Ottorino, aggrappato al volante della sua auto, mentre percorre piste sconnesse che lui stesso ha cercato di far sistemare – sto cercando di ricostruire e riavviare quattro missioni completamente distrutte dal conflitto civile e a lungo abbandonate. Ma da qualche tempo mi sono trovato di fronte a un’altra devastazione, quella dell’Aids».
E così, nella missione di Mangunde, grazie alla presenza e al sostegno delle suore comboniane, ha aperto lo scorso anno un centro per la prevenzione della trasmissione del virus da madre a figlio, sul modello di quello proposto dalla Comunità di Sant’Egidio, che proprio in Mozambico ha lanciato il progetto Dream nel 2002. Partita da Maputo, l’iniziativa si è poi trasferita in altri luoghi, tra i quali anche a Beira, la seconda città del paese, dove fa base padre Ottorino. Il quale, però, non si è accontentato di avere un punto di riferimento in città e ha fatto di tutto per avviare il primo centro di prevenzione e cura dell’Aids in una zona rurale del Mozambico.
«Questo progetto – continua padre Ottorino – rappresenta per noi un grande impegno e un onere non indifferente. Ma ci sembrava giusto esser presenti anche così tra la nostra gente, portare questo segno di solidarietà e di carità attraverso il quale cerchiamo di dare una testimonianza autentica della presenza di Gesù in mezzo ai poveri e agli ammalati. Il nostro lavoro in missione, dalla pastorale all’educazione, dalla sanità sino alla cura dell’Aids si radica nella Parola che libera l’uomo integralmente».

Anna Pozzi