Nuovi samaritani
Il Sudafrica è tra i paesi con il più alto numero di malati di Aids e, nonostante gli sforzi, il morbo sembra fuori controllo: chi ne è colpito cerca di nascondere la malattia, per paura di essere emarginato dalla società e dalla famiglia. Nelle parrocchie affidate ai missionari della Consolata, sono stati formati gruppi di volontari, impegnati in varie iniziative per prevenire la diffusione del virus Hiv e accompagnare persone e famiglie che ne sono colpite.
Una mattina di settembre 2000, nella regione del KwaZulu-Natal. Celebrata l’ultima messa, rimasi nell’ufficio parrocchiale, parlando per più di un’ora con diverse persone. Mentre stavo per tornare a casa, arrivò una ragazza che mi disse a bruciapelo: «Sono sieropositiva. Ti prego di pensare ai miei figli dopo la mia morte».
In 10 anni di lavoro in quella regione, ho accompagnato molti pazienti fino al momento della loro pasqua: un tempo molto lungo e sofferto, fino al punto di chiedermi: «Prega perché io muoia». Ma sono poche le persone che mi hanno confessato apertamente di essere state colpite da tale malattia, anche se le statistiche dicono che nel KwaZulu-Natal una su tre risulta sieropositiva.
Eppure da molto tempo in Sudafrica si parla a iosa di Aids. Enormi cartelloni costeggiano le strade. Si distribuiscono preservativi nelle università. Abbondano le informazioni con volantini, programmi radio-televisivi, raduni a tutti i livelli per dibattere il problema… Numerose sono pure le iniziative per far conoscere la gravità della situazione. Lo stesso Nelson Mandela si è impegnato in prima persona, partecipando ai famosi «Concerti 46664» (numero con cui l’ex-presidente era identificato in carcere, ndr), fino a confessare con coraggio che il suo primogenito è morto a causa dell’Aids.
Paura e confusione
Mi sono chiesto molte volte perché siano tanto pochi coloro che parlano apertamente della loro malattia. Ripensando alla mia esperienza, ho trovato tanti motivi, che potrebbero essere sintetizzati in due parole: paura e confusione.
Paura di essere emarginati e perdere gli amici. Il film sudafricano Yesterday (2004) descrive crudamente questa situazione: appena si viene a sapere che una persona è sieropositiva è subito isolata dalla gente. Ho visto il film insieme a un altro missionario e, alla fine della proiezione, ci siamo guardati in faccia e abbiamo esclamato nello stesso momento: «È proprio così».
Soprattutto, si ha paura di perdere la famiglia. All’inizio del 2005, ho dovuto interessarmi di una ragazza che, quando la famiglia venne a sapere che era positiva, fu cacciata da casa. Ho visitato molti malati che, evitati da tutti, passano la giornata in camera soli; altri sono mandati presso un familiare, perché i vicini non vedano l’avanzare della malattia.
C’è la paura di fare la fine di Gugu Dlamini e altri come lei: sono stati uccisi dopo avere parlato apertamente della loro malattia.
Viviamo in una società in cui mancano certi valori forti, come misericordia, perdono e comprensione. Per questo la moglie non ha il coraggio di dire al marito di essere sieropositiva; il marito fa altrettanto nei riguardi della propria sposa; entrambi hanno paura di dirlo ai figli. Tempo fa, una ragazza mi confidava e mi avvertiva che la mamma sapeva, ma non aveva il coraggio di dirlo al padre.
Infine c’è la paura dalla morte. Sebbene alcuni hanno la possibilità di accedere alla medicina antiretrovirale, per molti l’Aids è fondamentalmente una condanna a morte. Perciò alcuni dicono: «Se ce l’ho, meglio non saperlo».
Messaggio… senza eco
Ho l’impressione che l’atteggiamento del governo sudafricano non aiuti a vincere la paura, ma aumenti la confusione.
Il 9 ottobre 1998, per la prima volta, fu lanciato un messaggio chiaro e coraggioso: il vicepresidente Thabo Mbeki chiamò a raccolta la nazione per una «coalizione contro l’Aids», con queste parole: «L’Hiv-Aids è tra noi. È reale. È in espansione… Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi come nazione, sperando che la realtà non fosse vera. Per troppi anni abbiamo permesso che il virus si diffondesse… È con noi, nei nostri posti di lavoro, nelle nostre aule scolastiche e universitarie. È lì, nei nostri raduni religiosi e in altre funzioni di culto. L’Hiv-Aids cammina con noi, viaggia con noi dovunque andiamo… Non è il problema di qualcun altro. È il nostro problema. Ogni giorno e ogni notte, dovunque noi siamo, faremo sapere ai nostri familiari, amici e colleghi che essi possono salvare se stessi e salvare la nazione, cambiando il nostro modo di vivere e di amare. Useremo ogni opportunità apertamente per discutere l’argomento dell’Aids… Coloro che vivono con l’Hiv-Aids sono esseri umani, come te e come me. Quando ci diamo una mano, costruiamo la nostra propria umanità…».
Dopo quel primo messaggio, non ne ho sentiti altri simili. Anzi, ci sono stati diversi interventi che hanno seminato dei dubbi sulla connessione fra Hiv e Aids, sull’aiuto della medicina per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio e sull’efficacia dei farmaci antiretrovirali. Avevamo nutrito molte speranze, ma siamo rimasti sorpresi dal suo silenzio, dopo che Mbeki è diventato presidente del Sudafrica: ho la sensazione che abbia scelto di chiudere la porta che lui stesso aveva aperto.
Cercasi… ascoltatore
Così, continua lo stigma dell’emarginazione verso i malati colpiti dal virus, e questi continuano a tacere, pensando che nel parlare della propria situazione ci sia molto da perdere e poco da guadagnare. Il silenzio, almeno, permette loro di non essere visti come lebbrosi.
I malati di Aids sono doppiamente colpiti: dalla malattia fisica e, spesso, dal non trovare alcuno con cui parlarne. Da parte loro ci vuole coraggio; ma questo può nascere solo quando si incontrano veri ascoltatori.
L’anno scorso, durante un incontro di sacerdoti, organizzato dalla diocesi di Johannesburg per parlare sull’Aids, una delle «dinamiche di gruppo» chiedeva di discutere su queste domande: «Se tua sorella scoprisse di essere ammalata di Aids, ne parlerebbe con te? Lo direbbe a suo marito? Cosa le accadrebbe sul posto di lavoro?». Nella discussione azzardai un’altra domanda: «Se tu, prete, scoprissi di avere l’Aids, ne parleresti… e con chi?».
Credo che anche nella chiesa, anzi, nelle chiese cristiane (in Sudafrica ce ne sono più di 5.000) non siamo ancora riusciti a liberarci e a liberare la nostra gente. In un paese dove il 90% della popolazione si dichiara cristiana, non siamo stati ancora capaci di diventare «buona notizia», di rivelare il volto misericordioso di Dio, che continua a sfidarci: «Ero malato e…». L’Aids ha mostrato che il nostro cuore, almeno in parte, assomiglia più a quello del fariseo che al cuore di Dio, che si identifica con il malato.
I volontari, ministri della consolazione
La «coalizione» lanciata dall’attuale presidente del Sudafrica è stata una sfida all’abituale ritmo del lavoro nelle parrocchie affidate a noi missionari della Consolata. Verso la metà dell’anno 2000, abbiamo invitato una suora delle Francescane di Nardini, comunità che si occupa di malati di Aids, a parlare del problema durante la messa domenicale: lanciammo l’appello perché qualcuno offrisse la propria disponibilità al servizio degli ammalati della comunità.
La risposta fu immediata. Si presentarono una cinquantina di giovani e adulti, che nei mesi successivi furono preparati con appositi corsi, tenuti dalle stesse Francescane, sulla prevenzione e l’accompagnamento dei malati di Aids. Nasceva così il primo gruppo di volontari, diventati ministri di consolazione, volto visibile dell’amore del Padre.
Il primo impegno fu quello dell’accompagnamento. Si cominciò con il lavoro di collegamento tra l’ospedale e gli ammalati, dal momento che la struttura sanitaria non poteva prendersi cura a lungo di un numero tanto elevato di malati e li rimandava a casa appena notava in essi un qualche miglioramento.
Ma come rintracciare tanti altri, che hanno paura di parlare del loro male? Come primo passo, una domenica fu organizzata una celebrazione religiosa per i malati, in cui tutti erano invitati, anche i non cattolici. Iniziammo il rito con l’aspersione dell’acqua benedetta, chiedendo al Signore di purificare i nostri cuori. Dopo aver chiesto a Dio di guidarci con la sua Parola, abbiamo ascoltato alcune letture, commentate da due volontari che, alla luce della loro esperienza, illustrarono il cammino intrapreso dalla nostra comunità e le sfide che doveva ancora affrontare.
Quindi, altri due volontari hanno guidato la preghiera sui malati, chiedendo al Signore di darci un cuore nuovo e riempirlo con il suo spirito: le parole erano seguite dal gesto dell’imposizione delle mani.
Infine chiedemmo al Signore di guarirci con il suo olio santo e risuonò l’invito: «Chi sente il bisogno, si avvicini per ricevere l’unzione dei malati». Nessuno rimase seduto. Eravamo coscienti che tutti avevamo bisogno di guarigione, dal bambino al più anziano, dal momento che in Africa non si fa alcuna distinzione tra una malattia e l’altra.
Alla fine della celebrazione ungemmo con l’olio santo anche i volontari ed esortammo la gente affinché li invitasse a ripetere ciò che avevano fatto in chiesa: pregare e condividere la Parola di Dio con i malati rimasti in casa.
Anche noi missionari, quando troviamo qualche ammalato nelle visite alle famiglie, offriamo loro la possibilità di essere visitati regolarmente dai nostri volontari; in questo modo possiamo sapere se si tratta di semplice indisposizione o di Aids e essere informati sul suo stadio e della sua evoluzione.
Nelle loro visite, i volontari svolgono un servizio prezioso: spiegano alla famiglia come prendersi cura del malato, pregano con loro e per loro, ascoltano e cercano di mantenere viva la speranza… Quando i malati sono abbandonati a se stessi, tale servizio si traduce nel portare il malato all’ospedale, procurare documenti d’identità, registrare i bambini all’anagrafe, pulire l’abitazione, lavare i vestiti e tanti altri aiuti di ordinaria amministrazione.
Il nostro motto è sempre stato: «Dalla chiesa cattolica a tutta la comunità». Un messaggio chiaro per tutti, come provano i numerosi inviti da parte di organismi e autorità civili a discutere e pianificare insieme le strategie di lotta contro l’Aids. Moltissimi sono i non cattolici che chiedono aiuto ai nostri volontari. All’inizio del 2005 una famiglia ha scritto una breve lettera alla nostra comunità, chiedendo di leggerla in chiesa, per ringraziare la nostra vicinanza in un momento molto difficile: la malattia e la perdita di due figlie in poche settimane.
La fatica di ricominciare
Ma è un servizio che richiede un «prezzo da pagare», soprattutto in termini psicologici. I volontari spendono la vita accanto ai malati, intessendo una relazione di amicizia e reciproca fiducia, ben presto troncata dal sopravvento della morte. È un’esperienza d’impotenza che si ripete con troppa frequenza: data la difficoltà di accesso ai farmaci antiretrovirali, la morte sopravviene troppo presto.
Ne è un esempio la crisi di una giovane volontaria. Aveva accompagnato per alcuni mesi una donna sola e molto malata, finché riuscimmo a trovarle un posto in un ospizio gestito dai francescani. La ragazza era al colmo della gioia: il luogo incantevole; la paziente non più sola; un prete tutti i giorni vicino a lei; comunione quotidiana; possibilità di avere medicine antiretrovirali… ma la donna morì tre giorni dopo il ricovero e la giovane non riusciva a farsene una ragione. Era distrutta. C’è voluto molto tempo prima di accettare tale fatto, pacificare il suo cuore e ricominciare l’attività di volontaria.
Ma le prove più dolorose sono quelle causate dall’impotenza di fronte a tanto dolore. La paura dello stigma, che costringe i malati a tacere sulla loro malattia, fa sì che in molti casi veniamo chiamati quando è troppo tardi e l’accompagnamento dura appena tre o quattro giorni. Per i volontari si tratta di ricominciare costantemente da capo.
Per superare tali difficoltà, i volontari si radunano ogni settimana per parlare e condividere le loro esperienze, per pianificare il loro servizio e, soprattutto, per pregare insieme e incoraggiarsi a vicenda. In questo modo, il volontario riconosce il volto di Gesù, che si è identificato nel malato. A sua volta, il malato vede nel volontario il volto di Dio, che si è incarnato e si è avvicinato a noi, che condivide con cuore di Padre-Madre le sofferenze dei suoi figli e figlie.
La sfida dell’Abcd
Non basta occuparsi dei malati. In molte occasioni cerchiamo di formare anche le famiglie, per aiutare anch’esse a diventare misericordia. Si tratta di un cammino di formazione e prevenzione che si fa con la comunità, con un’attenzione particolare ai giovani, perché intraprendano una scelta di vita che non riguarda solo l’aspetto sessuale.
Abbiamo sintetizzato tale cammino nell’acronimo «abcd» di quattro parole in inglese:
– Abstain (astieniti) da crimine, corruzione, abuso di sostanze nocive, sporcare l’ambiente, vandalismo, condotta sessuale irresponsabile.
– Be faithful (sii fedele) a te stesso, al tuo corpo, alla tua famiglia, amici e comunità.
– Change your lifestyle (cambia il tuo stile di vita), facendo scelte consapevoli, sviluppando la tua coscienza, vivendo la tua cultura africana, sperimentando la cultura dell’amore.
Cambia stile di vita, altrimenti potresti essere in…
– Danger (pericolo) di non vivere la vita in pienezza (Gv 10,10), diventando un criminale o tossicomane, deturpando l’ambiente o contraendo l’Hiv-Aids.
È un cammino che si fa in comunità, poiché forte è la pressione sociale e grande la confusione.
Alla formazione e prevenzione si aggiungono altre sfide, come l’attenzione agli orfani, spesso anch’essi sieropositivi; la preoccupazione per trovare e offrire le medicine…
Tutto questo è nelle mani dei volontari. Sono essi che hanno la possibilità di parlare con le famiglie, preparare il futuro, parlare della propria esperienza, incoraggiare il malato a fare il test e cominciare il trattamento…
A volte il volontario stesso vive il proprio cammino alla scoperta dell’amore di Dio, perché anche lui è ammalato e, come gli altri, ha paura di parlarne apertamente.
All’inizio del 2005, i vescovi del Sudafrica hanno organizzato una speciale giornata di preghiera per i malati di Aids, celebrata nella chiesa Regina Mundi di Soweto: avevano bisogno di 15 persone che avessero il coraggio di dichiarare apertamente, davanti a migliaia di persone, di essere contagiati dal virus. Vi sono riusciti, ma con fatica. Quel giorno è stato un evento memorabile: finalmente si rompeva il cerchio del silenzio e si infrangeva il tabù dello stigma.
Confesso che mi diventa sempre più difficile parlare di tutto questo. Non si tratta di numeri o statistiche, ma di persone, ognuna unica e irripetibile. Porto nel cuore nomi, momenti, parole, silenzi, impotenza, rabbia… ricordi di tante persone care. Se da una parte la fede mi dice che ora esse sono nella pace del Signore, dall’altra non riesco ad accettare che si debba vivere nella paura e soffrire in silenzio.
Penso a tanti giovani che ho visto soffrire fisicamente, immobili nel letto per lungo tempo. E non riesco ad accettare che tali sofferenze continuino ancora oggi, perché non si vuole provvedere le medicine che permetterebbero loro di vivere con dignità.
Come chiesa, non abbiamo nessun dubbio sulla strada che abbiamo intrapreso. In questi ultimi anni sono stati avviati e moltiplicati tanti progetti, gestiti da centinaia di volontari. Sono stati istituiti 22 posti dove, con l’aiuto di tanti benefattori, vengono attuati i programmi antiretrovirali.
«Sono venuto perché abbiano vita… e questa sia piena!». È il nostro sogno di missionari; è la nostra forza quotidiana. È la nostra fede.
osé Luis Ponce de León