L’infezione africana

Dal 1983 molte cose sono cambiate nella lotta all’Aids. Anche se tuttora non esiste un vaccino, i trattamenti farmacologici hanno di molto allungato (e migliorato) la vita dei malati. Ma non in Africa, dove la situazione è addirittura peggiorata, sconvolgendo un continente già segnato da problemi di ogni tipo. Ed anche le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rassicuranti.

R ispetto alla data di identificazione del virus Hiv, avvenuta nel 1983, molto oggi è noto sulle sue caratteristiche, modalità di trasmissione e meccanismo patogenetico. Sappiamo che, per il progressivo danno immunitario, la malattia passa da una fase apparentemente silente sino a quella della comparsa di infezioni opportunistiche. Le manifestazioni cliniche sono strettamente condizionate da fattori quali l’età, sesso, razza, sede geografica, trattamento e storia comportamentale.
L’infezione da Hiv ha assunto un suo specifico inquadramento all’inizio degli anni ’80 quando in tre città americane (Los Angeles, New York e San Francisco) venne identificata in giovani omosessuali una forma apparentemente epidemica di Sarcoma di Kaposi. Da allora molta strada è stata fatta, soprattutto nella ricerca di farmaci per il trattamento; ciò ha permesso di trasformare in cronica una malattia che aveva all’origine esito letale nel giro di 10 anni.
Dal punto di vista epidemiologico il modello di diffusione si è drammaticamente trasformato in questi ultimi anni. Mentre all’ inizio la malattia era soprattutto confinata in Nord America, in Europa e in alcune aree dell’Africa subsahariana, oggi focolai di infezione sono presenti in tutto il mondo.
Sotto l’aspetto socio-economico l’Aids non differisce dalle «classiche» malattie infettive che, come noto, tendono a colpire popolazioni più «vulnerabili» da ogni punto di vista. Nei paesi industrializzati i nuovi casi sono identificati tra persone definite «a rischio» (omosessuali, tossicodipendenti), ma è nei paesi dell’ Est Europa e soprattutto in Africa che si riscontra il 90% di nuove infezioni. In questi soggetti la via più frequente di contagio è quella eterosessuale.
A livello mondiale si stima che i casi di Aids siano circa 45 milioni, di cui 25-30 localizzati nell’area subsahariana. I fattori che maggiormente incidono sulla diffusione sono da ricondurre a variabili comportamentali, biologiche, demografiche, politiche ed economiche.

Fattori responsabili dell’epidemia

Variabili comportamentali
L’infezione da Hiv è una malattia a trasmissione sessuale, e pertanto le abitudini sessuali sono il determinante maggiore nella diffusione del virus. Tali abitudini possono variare molto, sia tra differenti popolazioni che all’ interno di una stessa popolazione. Indagini effettuate in area subsahariana hanno documentato che fattori critici per il contagio sono il numero di partner, l’età d’inizio dell’attività sessuale, il tasso di rapporti occasionali e/o per sesso a pagamento.
Nella diffusione del virus hanno un ruolo chiave i cosiddetti core groups: si tratta di popolazioni numericamente ridotte, che, mantenendo comportamenti a rischio acquisiscono più facilmente il contagio e contribuiscono a mantenere l’epidemia. In Africa subsahariana è possibile che la donna diventi Hiv positiva avendo come unico partner il marito, il quale può aver acquisito il contagio attraverso rapporti sessuali con partner differenti.
Altri fattori che incidono nella trasmissione sono il tipo di rapporto sessuale e l’uso o meno del preservativo. Sempre in Africa si è rilevato come in coppie discordanti il preservativo abbia ridotto la frequenza di contagio e come, di conseguenza, efficaci misure di prevenzione possano essere effettuate anche in contesti tradizionalmente considerati «difficili».

Variabili demografiche
Uno degli aspetti che maggiormente differenzia paesi con risorse limitate da quelli industrializzati è la più elevata prevalenza nella popolazione di persone in età sessualmente attiva; tale fattore di per sé giustifica la maggior incidenza di Infezioni sessualmente trasmesse (Ist), tra cui anche l’infezione da Hiv. Da sempre la migrazione e la rapida urbanizzazione si associano ad un più elevato tasso di Ist, e migrazioni dalla campagna alla città, oltre che inteazionali, avvengono in tutto il mondo.
Lo squilibrio numerico tra sessi rappresenta un determinante importante nella epidemiologia di Hiv: nelle città dove tale squilibrio è evidente per effetto della immigrazione maschile la diffusione avviene in modo più rapido. La mobilità verso paesi industrializzati può generare problematiche di altro tipo; tra queste, la disapprovazione per il comportamento sessuale del maschio, in particolare per rapporti prima del matrimonio o extraconiugali, oppure il matrimonio in età tardiva per motivi economici. Aspetti socio-demografici di tale tipo possono favorire il maggior contatto con la prostituzione da parte dell’uomo, con le ben note conseguenze sul contagio.

Variabili biologiche
La trasmissione eterosessuale di Hiv avviene in modo più efficace quanto più la malattia è in fase avanzata, e la carica e l’escrezione del virus sono elevate. Nelle popolazioni africane, in cui l’epidemia da Hiv è presente da lungo tempo, si assiste a una maggior efficienza della trasmissione eterosessuale e perinatale.
Inoltre, ceppi Hiv africani mostrano un più alto grado di variabilità genetica: se tale caratteristica favorisse infettività e tropismo cellulare, potrebbero esservi importanti ripercussioni dal punto di vista epidemiologico. È assai probabile che differenze tra Hiv 2 e Hiv 1 giochino un ruolo importante nella diffusione del contagio.
L’elevata prevalenza di Malattie sessualmente trasmesse (Mst) in una data popolazione facilita la trasmissione di Hiv e contribuisce a rendere la stessa più vulnerabile. Ciò è quanto si verifica nei paesi africani, specie in aree urbane, dove i core groups per Mst e Hiv sono rappresentati da prostitute e loro clienti, militari, camionisti, ecc. Va, tuttavia, tenuto presente che l’elevata incidenza di Mst non è solo frutto di comportamenti sessuali non sicuri, ma anche di terapia inadeguata.
Infine, il rituale che coincide con la circoncisione maschile, praticato in molte popolazioni africane, può favorire la diffusione di Hiv sia durante l’atto chirurgico, se effettuato in assenza di sterilità, sia per i comportamenti sessuali successivi. Nella cultura locale, infatti, la libertà sessuale è uno degli aspetti che caratterizzano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Variabili economiche e politiche
Sia in paesi industrializzati che in quelli a risorse limitate si è dimostrato che è possibile bloccare la diffusione del contagio se è presente una risposta nazionale all’epidemia. È indispensabile che la prevenzione rientri nelle politiche del governo; nel caso di Paesi in via di sviluppo (Pvs) si calcola siano necessarie risorse finanziarie almeno 10 volte superiori alle attuali per controllare la pandemia da Hiv.
Il sistema sanitario dei paesi africani, oltre a essersi progressivamente deteriorato negli ultimi 10 anni, ha visto diminuire il numero di pazienti che richiedono il trattamento di Malattie sessualmente trasmissibili con l’introduzione di una seppur piccola quota di pagamento. A Nairobi, il ticket ha fatto ridurre del 40% il numero di pazienti che richiedono le cure.
Infine, la povertà non è solo una conseguenza dell’epidemia da Hiv, ma anche una delle maggiori forze che la diffondono. Terreno fertile sono la prostituzione, la presenza di ragazzi di strada, bassi tassi di scolarizzazione, migrazioni, separazioni familiari, basso livello sociale nella donna.

IMPATTO DELL’EPIDEMIA DA HIV/AIDS

Le conseguenze dell’epidemia in molti paesi a risorse limitate sono gravissime e lo saranno ancora di più nei prossimi anni. La malattia colpisce non solo la persona e il proprio nucleo familiare, ma la comunità in generale con impatto a lungo termine su famiglie, sanità, assetto demografico e sul sistema economico e sociale.
Uno degli aspetti più gravi è forse l’elevato numero di uomini e donne Hiv positivi presenti in ospedale; si calcola che in molte città africane, tra cui Abidjan, Kampala, Lusaka e Kinshasa il 50% dei ricoverati sia Hiv positivo, e che nel 90% l’Aids sia la più frequente causa di morte tra i ricoverati. Con l’incremento di individui infetti, cresce la domanda di cure e di conseguenza anche il budget sanitario, difficilmente sostenibile da paesi poveri. Stime sull’impatto demografico a lungo termine evidenziano una diminuzione di crescita della popolazione sino all’azzeramento nelle aree più colpite.
L’Aids contribuisce in modo rilevante anche alla mortalità di bambini sotto i cinque anni di età e vanifica i benefici di iniziative avviate per la loro assistenza. Il numero di orfani è in progressiva crescita, e ha raggiunto i 15 milioni nei paesi dell’area subsahariana. In termini economici, l’Aids rappresenta una delle cause che più incidono sul settore socio-economico, in quanto colpisce adulti negli anni di maggiore attività lavorativa. Il prodotto interno lordo è destinato a ridursi nei settori agricolo e industriale, oltre che nei servizi, e tale riduzione potrà superare il 30% nei paesi più colpiti dall’epidemia.
Sin dal 1998 sono emerse nuove evidenze basate su studi community based, sorveglianze e censimenti a livello nazionale che hanno permesso a epidemiologi, sociologi ed economisti di sviluppare tecniche analitiche e modelli teorici per stimare in modo empirico gli effetti di Hiv sulla famiglia, la comunità e a livello nazionale. Inizialmente tali modelli sono stati utilizzati per predire l’evoluzione dell’epidemia: oggi vengono usati per definire politiche nazionali e per valutae le risposte.
Conoscenze in ambito socio-demografico sono state utilizzate per misurare l’impatto macro e microeconomico, con l’intento di potenziare investimenti sui servizi sanitari, sulla formazione e sugli orfani. Politiche di intervento devono, infatti, basarsi su dati attendibili e analisi rigorose.
Con una stima di 25-30 milioni di individui Hiv infetti nell’area subsahariana, e con una prevalenza nell’adulto 10 volte superiore a quella di altre parti del mondo, è chiaro che l’impatto socio-economico sulla popolazione e sulla economia ha dimensioni non paragonabili a quelle dei paesi industrializzati.
Va inoltre puntualizzato che nello stesso continente Africano gli scenari sono diversi e devono generare risposte differenti; in Sudafrica, per esempio, la prevalenza di Hiv in donne gravide supera di 3-5 volte quella osservata in paesi dell’area subsahariana, e ciò implica necessariamente politiche diversificate.

Accuratezza delle stime sull’impatto
Valutazioni sull’ impatto dell’epidemia sono suscettibili di ampio margine di errore per il limitato numero di dati disponibili. La crescente evidenza di associazione tra Aids e mortalità negli adulti e nell’infanzia, e tra Aids e numero di orfani, ha fatto riconsiderare il ruolo di modelli basati su stime demografiche ed epidemiologiche. Walker N. e altri, basandosi su dati raccolti da Unaids in paesi in cui è in atto l’epidemia, hanno valutato il rapporto di mortalità tra Hiv positivi e Hiv negativi, la proporzione di tutti gli adulti deceduti per Aids e il numero di orfani, e ha osservato che la differenza per quanto riguarda indicatori demografici tra Unaids e studi mirati rientra in un raggio compreso tra più o meno il 25-35%.
Tali risultati sono da ritenersi incoraggianti, in quanto dimostrerebbero che stime basate su modelli demografici sono sufficientemente adeguate per la pianificazione a medio termine; per quella a breve termine sono da preferire indagini più mirate, dato l’ampio raggio osservato.
Il miglioramento di sorveglianze basate su popolazioni ed estese ai servizi per le cure prenatali possono migliorare le stime sulla prevalenza di Hiv, ma non sulla sopravvivenza. È probabile, infatti, che l’aumentato accesso alle cure antenatali amplii il raggio di incertezza sulla mortalità correlata all’epidemia.

Mortalità nell’adulto
È l’effetto più drammatico correlato all’epidemia; la probabilità che un ragazzo di 15 anni muoia prima di raggiungere i 60 anni è passata dal 10-30% (metà degli anni ‘80) al 30-60% nel 2000. I dati sono ricavati da sorveglianze comunitarie sullo stato sierologico, e confronta la mortalità tra soggetti infetti e non infetti.
In 5 studi community based condotti in Est Africa, la mortalità nei soggetti Hiv + era maggiore di 10-20 volte rispetto a quella di non infetti. Tra infetti e non infetti si è, inoltre, osservato un caratteristico patte correlato all’età e caratterizzato da un picco tra i 20 e 40 anni, più precoce (di 5-10 anni) nelle donne rispetto all’uomo.
Porter e altri hanno valutato la mortalità attribuibile in rapporto alla prevalenza dell’infezione in una data popolazione; con valori del 4-16% la mortalità Hiv – correlata è compresa tra 24 e 75% (circa sei volte il valore della prevalenza) e dipende sia dalla durata dell’epidemia che da altri fattori condizionanti l’ exitus. In Africa la sopravvivenza è di circa 9 anni dal contagio, di due anni inferiore a quella osservata nei paesi industrializzati prima dell’avvento della terapia antiretrovirale.
Per misurare la mortalità nei paesi colpiti dall’epidemia sono stati utilizzati censimenti e altri sistemi di sorveglianza sulla popolazione. Ciascun metodo ha in sé intrinseche debolezze: comunque, è sempre necessario integrare i dati con sorveglianze su popolazioni target, in particolare quelle di età compresa tra 20 e 40 anni. Studi specifici hanno, infatti, evidenziato elevata prevalenza di infezione ed elevata mortalità per i motivi più disparati sia tra soggetti Hiv positivi che Hiv negativi. Tra gli anni ‘90 e il 2000 la probabilità di morire tra 15 e 60 anni è aumentata in Kenya dal 18 al 28%, in Malawi dal 30 al 45%, e in Zimbabwe è arrivata al 50% nelle donne e al 65% negli uomini.

Mortalità infantile
Sin dall’ inizio dell’epidemia quasi 4 milioni di bambini sotto i 15 anni sono stati contagiati dal virus, e nel solo 2003 si stima ci sia stato un milione di nuove infezioni, per lo più acquisite attraverso la trasmissione madre – bambino. Relativamente a tale aspetto, in assenza di registrazione delle nascite o della mortalità, è pressoché impossibile avere dati esatti: quelli disponibili sono frutto di sorveglianze condotte in piccoli ospedali o a livello comunitario.
In assenza di terapia antiretrovirale, la sopravvivenza dopo il contagio è nettamente inferiore nei bambini africani rispetto a quelli di paesi industrializzati (2 anni vs 5 anni). La durata della vita dipende da alcuni fattori, quali lo stadio di malattia matea, la sopravvivenza della madre, l’uso di farmaci antiretrovirali, la mortalità per altre cause e l’epoca del contagio. Al momento non vi sono evidenze scientifiche che indichino una più elevata mortalità nei bambini infettati in utero o durante il parto, rispetto a quelli infettati con l’allattamento al seno.
Studi longitudinali su comunità in Malawi, Tanzania e Uganda hanno fatto rilevare che bambini nati da madre Hiv positiva hanno una probabilità 3 volte maggiore di morire entro i 5 anni rispetto a quelli nati da madre sana, e che gli stessi risultati si osservano in bambini che diventano orfani di madre, indipendentemente dal contagio da Hiv.
I dati sulla mortalità infantile sono molto disparati, variano tra i diversi paesi e all’interno di uno stesso paese e risentono della modalità di raccolta; è, tuttavia, opportuno ricordare che laddove sono state fatte politiche mirate di prevenzione la mortalità si è ridotta. Il problema necessita di ulteriori approfondimenti, anche se appare sufficientemente attendibile la stima che in Africa la morte per Aids colpisca il 10% dei bambini di età inferiore ai 5 anni.

Fertilità femminile
Ricerche a livello comunitario, concluse alla fine degli anni ‘90, hanno evidenziato che in società con ridotto uso di contraccettivi le donne Hiv positive hanno un tasso di fertilità inferiore del 25% rispetto alle donne Hiv negative. Fanno eccezione le donne giovani Hiv positive e con precocità di rapporti sessuali, in cui si sarebbe dimostrato più elevato il tasso di fertilità rispetto alle donne sieronegative. I risultati a disposizione provengono da centri per le cure prenatali e necessitano di conferme a più ampio raggio.
È comunque certo che l’impatto dell’epidemia sulla fertilità di una popolazione può non essere trascurabile, anche con valori di prevalenza relativamente piccoli. È dimostrato che con una variazione dell’1% dei tassi di prevalenza di Hiv vi è una modifica dello 0,4% sulla fertilità totale, che può tradursi nella riduzione del 6% della natalità.

Assetto familiare e di popolazione
Nella popolazione adulta di paesi dell’area subsahariana l’incremento della mortalità Aids-correlata ha provocato alterazioni importanti sulla struttura familiare e sociale con conseguenze socio economiche notevoli. Negli anni futuri, indipendentemente dall’accesso alla terapia antiretrovirale, tale tendenza difficilmente potrà modificarsi.
Sorveglianze condotte per valutare l’impatto dell’epidemia sulla prevalenza di orfani hanno evidenziato che in regioni in cui la maggior parte della popolazione è rappresentata da giovani sotto i 15 anni, il 9% ha perso almeno un genitore e l’1% ambedue. Laddove i parenti possono provvedere alla continuità assistenziale, gli orfani rimangono all’interno di un nucleo familiare; in questi bambini, tuttavia, il grado di scolarizzazione sembrerebbe essere alquanto insufficiente.

Impatto socio-economico
L’infezione da Hiv/Aids colpisce i giovani proprio nell’età di massima potenzialità dal punto di vista lavorativo. In una prospettiva di tipo economico è a livello individuale e della famiglia che l’epidemia ha l’impatto più significativo. Se, come si verifica in molti paesi dell’area subsahariana, molte famiglie sono colpite dalla malattia, il danno si estende alla comunità, in particolare sul settore economico, e di qui all’intera economia nazionale. In termini economici il macro è frutto del micro; da sempre la malattia e la morte provocano miseria e aumentata povertà nella famiglia colpita, ma sono le migliaia di malattie che possono mettere in crisi la crescita economica di un paese.
Stime sull’impatto socio-economico sono difficili per svariati motivi, primo tra tutti la mancanza di dati. Gli epidemiologi utilizzano dati demografici che non sempre sono così utili per gli economisti; inoltre, a livello nazionale i dati non sono raccolti routinariamente e spesso sono limitati o incompleti. Non esistono studi di economia su base nazionale, e ci si deve accontentare di estrapolazioni da sorveglianze a livello di nuclei familiari o comunitario per il calcolo del costo della vita o della forza lavoro. Difficile correlare i risultati osservati al tasso di Hiv; più facile collegarli alla morbilità/mortalità osservata in un determinato contesto familiare.
Altro aspetto che rende difficile la valutazione dell’impatto socio-economico è che per molto tempo non sono state misurate le conseguenze dell’infezione su morbilità e mortalità. Se, come noto, la morte arriva dopo 8-10 anni dal contagio, le conseguenze diverranno evidenti dopo tale periodo. In molti paesi africani l’incidenza della malattia è in progressiva crescita; inoltre, vi è evidenza che in paesi in cui la prevalenza è in calo il numero di orfani continua ad aumentare. Ciò significa che anche dopo che l’epidemia avrà raggiunto il suo picco i problemi sociali continueranno ad aumentare.
Sociologi ed economisti osservano gli effetti dell’Aids mentre sono in atto: malattia, morte, povertà, orfani. Per contro, gli epidemiologi sono prevalentemente interessati a mettere in rilievo eventi vitali, quali la nascita o la morte. Per il governo, un evento quale la malattia tra il personale viene affrontato con la sostituzione dello stesso, mentre per l’azienda lo stesso evento è interpretato come diminuita produttività per variazione della forza lavoro. In ogni caso morbilità e mortalità sono i determinanti dell’impatto socio-economico sulle famiglie, e sul lungo tempo anche sull’ economia nazionale .
Altra differenza tra epidemiologi ed economisti è che, in alcuni casi, i primi possono misurare qualcosa che non è più presente. Se un nucleo familiare scompare e la sorveglianza prosegue, si considera una famiglia in meno. Per gli economisti questo può significare che se i bambini emigrano in un altro nucleo, tale riallocazione potrà creare problemi nella nuova famiglia.
Altro aspetto da non sottovalutare a livello nazionale è quello di possibili ridotti investimenti in paesi dove è in atto l’epidemia; come si può misurare l’effetto di denaro che non è stato introitato a causa di tale motivo?
Infine, nell’osservare l’impatto della malattia e della morte su nuclei familiari e sull’economia emerge che in termini economici il valore della vita può essere differente. Le economie dei Pvs crescono lentamente, e le strutture si modificano con lo stesso ritmo. Questo può comportare minore necessità di lavoro e conseguentemente minor necessità di denaro per la salute. In tale scenario ed a livello macroeconomico, la morte potrebbe non incidere sul funzionamento di una economia che va a rilento e, in termini puramente economici, coloro che soppravvivono potrebbero stare meglio.
Le argomentazioni sul valore relativo della vita stanno diventando sempre più importanti con la maggior diffusione del trattamento antiretrovirale: chi potrà accedere alla terapia e come sarà presa tale decisione? Si tratta di problemi etici che, se non sufficientemente approfonditi, porterebbero gli economisti a generare politiche che contrastano con il sentire comune.

PER QUANTO ANCORA SPETTATORI INDIFFERENTI?

L’epidemia di Aids, come tutte le malattie che nei secoli hanno sconvolto il pianeta, ha spinto a trovare soluzioni che permettessero la sopravvivenza della nostra specie. Rispetto ad altre infezioni, l’Aids ha una connotazione del tutto particolare, sia sotto l’aspetto scientifico che sociale. Ha permesso di sviluppare la ricerca di base e clinica, ed ha portato a conquiste utili anche in ambiti non strettamente infettivologici. Se il capitolo non si è ancora chiuso per la mancata realizzazione di un vaccino, si è tuttavia riusciti a trasformare un’infezione mortale in una malattia curabile. Ma l’Aids è stata ed è anche altro; ci ha sensibilizzato su aspetti sociali, economici, etici, comportamentali e ci ha spinto ad approfondire temi che sembravano non dover interessare la nostra coscienza.
Le conseguenze dell’epidemia sono sotto gli occhi di tutti attraverso il numero di morti, di contagiati, di orfani, ecc., ma la dimensione socio-economica, attuale e soprattutto futura, ci sfugge. I dati a disposizione non ci permettono di definire con chiarezza politiche di intervento e ancor meno di predire risultati raggiungibili; in tale incerto scenario continua a crescere il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. È opportuno chiederci se continueremo a rimanere spettatori indifferenti.

Maria Luisa Soranzo