Il moltiplicatore della povertà
Oggi l’Aids uccide più persone di qualunque altra malattia infettiva. I sieropositivi, i nuovi infettati e i morti sono concentrati nell’Africa subsahariana. L’Aids si diffonde nella povertà e, allo stesso tempo, causa povertà. Anche se i costi delle cure sono drasticamente diminuiti (nel 2000 una cura antiretrovirale costava 12.000 dollari all’anno, oggi 300), nel continente più colpito la povertà ha ancora il sopravvento, tanto che le persone in trattamento sono appena lo 0,4% dei malati africani. In questo contesto si innescano le polemiche sui brevetti dei farmaci antiretrovirali (proprietà di poche multinazionali farmaceutiche) e sui fondi inteazionali per la lotta all’Aids.
Nel mondo, ogni anno muoiono 15 milioni di persone per malattie infettive: di queste 3 milioni per l’Aids (dal 1981, anno della sua «scoperta» ufficiale, fra i 20 e i 25 milioni di persone); 1-2 milioni per malaria; 2 milioni per tubercolosi. Aids, malaria, tubercolosi, i grandi flagelli epidemici dell’umanità, colpiscono soprattutto i paesi del Sud del mondo (il 97% dei decessi avviene infatti in quei paesi).
Per quanto riguarda l’Aids, si stima che i sieropositivi siano fra 35 e 42 milioni di persone (90% nel Sud del mondo); che i contagiati siano 5 milioni ogni anno (14 mila al giorno), il 95% dei quali abitanti nel Sud.
Questa grave epidemia mondiale assume la dimensione di una vera pandemia nell’Africa subsahariana, nella quale si stima vi siano 25-26 milioni di sieropositivi, 2,2 milioni di morti ogni anno (13 milioni dall’inizio dell’epidemia), 3 milioni di contagiati ogni anno; valori che si aggirano su percentuali del 60-70% del totale mondiale, a fronte di una popolazione di poco più del 10% del totale mondiale.
La presenza non è la stessa nelle diverse parti dell’Africa: in sei paesi la quota della popolazione adulta sieropositiva non supera il 2%; più elevata è la presenza nell’Africa del Sud (16% di sieropositivi sulla popolazione adulta); nell’Africa Orientale la stessa percentuale scende al 6%; nell’Africa Centrale e Occidentale è attorno al 4,5% e nel Nord Africa è meno dell’1%, ma in sette paesi essa supera il 20% (in Botswana e Swaziland si arriva al 35%).
In alcuni paesi subsahariani, nell’ultimo decennio, si è avuto il raddoppio della mortalità per Aids: Kenya, Malawi, Zimbabwe, fra questi. In Kenya e Malawi, la probabilità di morire di Aids per le persone di età compresa tra 15 e 60 anni è salita in dieci anni dal 48 al 63%; in Zimbabwe è arrivata all’80%.
I decessi di cui si parla non si devono esclusivamente all’Aids: infezioni batteriche intestinali e delle vie respiratorie, tubercolosi e malaria fanno il resto. Diffusa è la presenza di coinfezioni Hiv-Tbc. Se la cura anti Hiv fosse più diffusa, anche le altre infezioni di tipo epidemico subirebbero un rallentamento o una battuta d’arresto.
L’Africa, però, è tuttora il continente a copertura farmacologica più bassa: le persone in trattamento anti Hiv sono appena 100 mila, lo 0,4% di quello che servirebbe, mentre si stima che tale percentuale sia pari al 7 nel Sud del mondo e al 10 nell’intero mondo.
L’epidemia di Hiv e Aids rappresenta una delle catastrofi più grandi della nostra epoca, e non ha i connotati di un mero problema di salute. L’epidemia ha conseguenze tragiche nella vita sociale, economica e politica delle popolazioni investite e investe in modo assai differente uomini e donne, città e campagna, ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, occupati e inoccupati. L’Aids va affrontato sapendo che si è di fronte non solo a un problema di salute, ma anche ad una grave manifestazione del sottosviluppo economico, delle disuguaglianze sociali, della povertà del Sud del mondo, e dell’Africa sudsahariana in particolare. La risposta deve saper affrontare questa vasta problematica, non solamente l’aspetto sanitario.
Quel circolo vizioso Aids-povertà
Causa dell’Aids è il virus dell’Hiv; ma la causa della diffusione dell’Hiv e dell’Aids nei paesi sottosviluppati è la povertà. Le cause dell’espansione dell’epidemia sono infatti:
a) le condizioni igieniche scadenti (e la povertà non consente di migliorare tali condizioni);
b) gli scarsi servizi sanitari (e la povertà non consente di avee di migliori);
c) l’ignoranza e l’analfabetismo (e la povertà non permette di realizzare un’adeguata attività educativa cui normalmente è associata anche una minore attività sessuale, fonte principale della trasmissione dell’Hiv);
d) il maschilismo, gli abusi sessuali e la discriminazione femminile, che fanno sì che il rapporto fra sieropositivi uomini e donne (sia pari a 13/10 in Africa, ma pari a 20/10 in Sudafrica e a 45/10 in Kenya fra le persone con età 15-24 anni); l’ignoranza, anch’essa conseguenza della povertà, costituisce un forte ostacolo all’empowerment della donna;
e) aspetti culturali, giuridici e sociali, fortemente collegati ai livelli di educazione presenti nella società;
f) le migrazioni, prodotte dalla miseria.
Se l’Aids prolifera nella povertà, al tempo stesso l’Aids crea povertà poiché:
a) contagi e decessi sono prevalentemente di giovani adulti (il 50% dei contagi riguardano persone di età tra i 15 e i 24 anni) e questo indebolisce e fa venir meno forza lavoro a elevato potenziale produttivo, sovente colpendo e distruggendo competenze professionali in essere o in divenire (insegnanti, medici, infermieri, tecnici, artigiani, commercianti…). L’epidemia colpisce persone che avevano studiato, si erano formate o erano in itinere per divenirlo, persone indispensabili per creare il tessuto economico, sociale e politico necessario per la realizzazione dei programmi di sviluppo. Fiaccandone la capacità di agire e distruggendone la vita, l’epidemia elimina il potenziale di sviluppo dei sistemi economici e sociali;
b) i sistemi economici perdono i beni che gli ammalati e i defunti avrebbero altrimenti potuto produrre: si stima che nell’Africa Orientale si sia perso, per questo motivo, il 25% della produzione agricola; che in Africa in complesso si sia perso il 10% del prodotto interno; che se ne sia perso l’1% in tutto il mondo;
c) le famiglie colpite vedono ridursi le loro risorse poiché devono sostenere spese per cure e per funerali e a causa di esse possono essere ridotte in miseria. Si stima che queste spese possano arrivare a ridurre i redditi famigliari in media di un terzo (ma anche di due terzi o di tre quarti in Sud Africa);
d) l’epidemia ha effetti deleteri nel lungo periodo in quanto i milioni di morti in età giovane e adulta portano ad un drammatico calo nella fertilità della popolazione e la scarsità della popolazione tarpa le possibilità di crescita economica nei paesi laddove la produttività del lavoro supera il consumo procapite;
e) l’epidemia lascia dietro di sé milioni di bambini orfani di almeno un genitore. Si stimano attualmente nella misura di 15 milioni, di cui 12 milioni nell’Africa subsahariana. Questi bambini o vengono seguiti da nonni o parenti, che li avviano al lavoro per poter permettere alla famiglia di sopravvivere, o vengono abbandonati (leggere articolo di Touadi). Gli uni e gli altri non avranno modo di andare o di continuare la scuola, di formarsi, di acquisire capitale umano attraverso un curriculum formativo o anche solo con l’acquisizione di conoscenze, di abilità, di esperienze che i genitori defunti avrebbero altrimenti potuto dare loro. L’epidemia distrugge il capitale umano dei defunti e non permette l’acquisizione di nuovo capitale umano da parte dei giovani orfani.
DA 10.000 A 300 DOLLARI
S’è detto della insufficiente copertura farmacologica anti Hiv (è più in generale anti malattie infettive). Eppure i dati scientifici mostrano come le nuove terapie contro l’Hiv – le cosiddette multiterapie antiretrovirali – che si utilizzano nei paesi occidentali a partire dal 1996 abbiano nettamente aumentato le possibilità di sopravvivenza dei malati. Nel Nord del mondo, con la multiterapia, la mortalità da Aids è diminuita del 75% e si ipotizza che una persona infetta, se curata precocemente, possa avere davanti a sé oltre 30 anni di vita (non si parla più di durata della «sopravvivenza»). Non c’è più la percezione che un malato di Aids abbia necessariamente una sopravvivenza limitata. Al contrario, in Africa, il decesso avviene in media dopo 7-8 mesi.
La risposta farmacologica dunque esiste, e qui si riapre allora la questione della disponibilità e dei costi dei farmaci.
Le case farmaceutiche sono accusate di applicare prezzi troppo elevati e di realizzare, grazie alla situazione di monopolio in cui operano, profitti esorbitanti. È vero, i mercati dei farmaci hanno tuttora strutture concorrenziali alquanto limitate; basta vedere la differenza di prezzo di molti farmaci in due paesi economicamente e geograficamente vicini come l’Italia e la Francia.
Inoltre, l’Omc è accusata di permettere la presenza di forme di monopolio nel settore farmaceutico con l’applicazione, anche a questo, dell’accordo Trips (del 1996), che regola il brevetto dei prodotti e dei processi di fabbricazione, per impedire il commercio dei beni contraffatti, vietando la produzione da parte di soggetti non titolari dei brevetti e vincolando importazione, uso e vendita dei prodotti all’autorizzazione del titolare del brevetto.
BREVETTO SÌ, BREVETTO NO
Il brevetto è l’istituto giuridico – di diritto interno e, con l’accordo Trips, di diritto internazionale – indispensabile affinché le imprese private facciano ricerca applicata: senza la possibilità di essere l’unico produttore – che il brevetto consente – non sarebbe possibile all’impresa privata sostenere i costi della ricerca (da 100 a 1.000 milioni di dollari Usa per prodotto) poiché non avrebbe nessuna garanzia di poter recuperare i costi con i ricavi, se anche altri soggetti potessero vendere lo stesso prodotto. Gli elevati profitti che la posizione di monopolio permette di realizzare possono poi essere la fonte di autofinanziamento per ulteriori ricerche di nuovi prodotti e di nuovi processi.
Il brevetto viene fatto valere e nei mercati dei prodotti farmaceutici dei paesi ricchi e in quelli dei paesi poveri e gli elevati utili derivano e dagli uni e dagli altri. Ma nei primi paesi, ci si può permettere di pagare i prezzi dei farmaci nei secondi no (la cura anti Hiv costava nel 2000 circa 10-12 mila dollari Usa, mentre il reddito procapite del Sud era fra 150 e 7.000).
Se si vogliono abbassare ovunque i prezzi dei farmaci, un modo è quello di ridurre le posizioni di monopolio svincolate dai brevetti; l’altro è di abbassare i costi della ricerca privata attraverso lo sviluppo della ricerca pubblica o attraverso la contribuzione pubblica alla ricerca privata. La collettività non può avere farmaci – così come altri beni – a prezzi bassi lasciando che siano le imprese private a sostenere i costi di produzione (e della ricerca, quindi). Se si vogliono avere prezzi bassi, una parte dei costi (quelli della ricerca, in primis) devono essere assunti dalla collettività; non invece si aboliscano i brevetti, che permettono il formarsi di prezzi alti, ma senza i quali la ricerca verrebbe a scomparire se lasciata a carico delle imprese private. D’altra parte, vaccini, antivirali e antibiotici sono «beni pubblici», beni i cui benefici trascendono coloro che li usano direttamente e quindi richiedono l’impiego di risorse pubbliche.
Questo in generale. Quanto alla disponibilità che le imprese farmaceutiche foiscano ai paesi più poveri i farmaci antivirali a prezzi bassi, e quindi ridotti rispetto ai costi (in assenza di un adeguato sostegno pubblico alla ricerca privata), la questione è semplice.
Si tratta di un’ulteriore manifestazione del modo in cui i paesi ricchi devono porsi nei confronti dei paesi poveri. Questi hanno una disponibilità di beni insufficiente rispetto alle proprie esigenze: il mondo produce una massa di beni sufficiente per soddisfare i bisogni dell’umanità, ma la produzione è squilibrata e il principio dominante del «a ciascuno il suo» – secondo il quale ognuno ha a disposizione quello che ha prodotto, per cui chi produce molto ha molto a disposizione e chi produce poco ha poco a disposizione – porta ad una distribuzione squilibrata fra beni disponibili e bisogni.
L’unico modo di breve periodo è quello che una parte dei beni prodotti dai paesi ricchi vengano trasferiti senza contropartita ai paesi poveri. Beni d’investimento per poter crescere in futuro, ma anche beni di consumo, poiché una popolazione che muore di fame e malattia non potrà mai iniziare un cammino di sviluppo.
In quest’ottica va posto il significato dell’annullamento dei debiti dei paesi poveri (regalare con ritardo, nel senso di rinunciare a recuperare i prezzi dei beni ceduti in passato con dilazioni di pagamento) e nella stessa ottica è posizionata la cessione dei farmaci salvavita a prezzi sottocosto, perché i manager delle imprese produttrici applicano prezzi sottocosto o gli azionisti impongono ai manager di fare meno utili per aiutare i paesi sottosviluppati (casi rari!) o perché i costi vengono abbattuti dalla presenza di attività di ricerca pubblica o sono coperti da contribuzioni pubbliche dei paesi ricchi.
In effetti, negli ultimi anni, sono stati effettuati importanti progressi nell’attivazione di fondi per combattere la pandemia Aids. Si stima che nel 2003 siano stati impiegati per la lotta all’Aids fondi (aggiratisi sui 5 miliardi di dollari Usa) provenienti da agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni non governative, governi nazionali, donazioni e spese dirette da parte dei paesi e delle persone colpite dalla pandemia. Quest’importo corrisponderebbe a meno della metà dei fondi stimati come necessari nel 2005 (12 miliardi).
Ci si aspetta che due terzi dei fondi necessari per la lotta all’Aids nel 2005 siano foiti dalla comunità internazionale. La maggior parte di questi fondi dovrebbero essere spesi nei paesi più poveri e più affetti dalla pandemia (Asia e Africa subsahariana); questi paesi dovrebbero ricevere dall’estero fondi liberali corrispondenti all’80% del loro fabbisogno.
In questo modo, dovrebbe essere ridotta di molto la forte divergenza, esistente nel 2002, fra le risorse destinate alle persone affette da Hiv. Una ricerca evidenziava, infatti, come la spesa procapite per affetti da Hiv fosse negli Stati Uniti pari a 35 volte la spesa procapite dei paesi dell’America Latina e pari a 1.000 volte la spesa procapite dell’Africa.
Alla diminuzione di queste enormi differenze dovrebbe contribuire anche la rilevante riduzione avutasi negli ultimi anni quanto al costo di una cura antiretrovirale anti Hiv, passato da 10-12 mila dollari Usa pro-capite del 2.000 a 300 dollari Usa nel 2004.
Con la cura, anche l’azione culturale
Non è sufficiente portare ai paesi africani farmaci a prezzi bassi o nulli. È indispensabile un intervento su larga scala e di grande impegno, cioè non solo sanitario e farmaceutico, ma anche culturale.
Prima di tutto è necessario espandere i servizi di informazione e di prevenzione, che ora toccano meno del 20% della popolazione mondiale. Prima di iniziare qualsiasi trattamento medico, è necessario procedere a test per valutare l’infezione Hiv ed è allora indispensabile convincere della necessità di questi esami coloro che hanno influenza sull’opinione pubblica: capi religiosi, notabili, autorità di governo, personale medico-sanitario, organizzazioni femminili, che hanno conoscenza della cultura locale, dei comportamenti sessuali della popolazione, dei modi di comunicazione (termini e modi di comprensione) riguardo alle campagne di informazione e di istruzione in funzione antidiffusione dell’Hiv.
Preparata la strada per l’azione terapeutica, si deve assicurare l’approvvigionamento dei farmaci sul lungo periodo. Personale addestrato deve spiegare ai soggetti sotto cura il significato e l’importanza di una costante assunzione dei farmaci, attualmente realizzata nella forma di complessi cocktail di farmaci. Inoltre, nel pianificare e realizzare la terapia, non bisogna assolutamente perdere di vista il rischio che insorgano resistenze; quindi bisogna ben guardarsi da una somministrazione selvaggia dei farmaci che porti alla diffusione di varianti resistenti ai farmaci esistenti dall’agente patogeno.
È richiesto quindi un intervento su larga scala e di grande impegno per consentire la riorganizzazione dei sistemi sanitari organizzati, per ripristinare le elementari attività di diagnosi, prevenzione, educazione sanitaria e promozione della salute indispensabili per contenere l’espandersi dell’epidemia. Occorre disporre di un affidabile sistema informativo e di valide strategie di comunicazione con tutti gli strati della popolazione.
Il rapporto di Unaids «Aids in Africa: Three scenarios to 2025», del gennaio 2005, individua cinque driver (forze guida) cruciali per un futuro senza Hiv/Aids in Africa:
1) la crescita dell’unità e dell’integrazione sociale e politica. L’unità e l’integrazione fra le persone e le loro comunità di appartenenza formano una potente base per una convivenza pacifica che facilita un’effettiva implementazione delle politiche e dei programmi sull’Hiv e sull’Aids;
2) l’evoluzione dei modi di pensare, dei valori e dei significati. Se l’Aids è percepita come inevitabile o come una trasgressione, uno stigma, una punizione, difficile è realizzare un efficace intervento (prevenzione e cura) in opposizione all’Hiv;
3) la capacità di attivare risorse finanziarie, di persone, di sistemi, di istituzioni che operino in modo cornordinato fra di loro;
4) la generazione e applicazione di conoscenze, nonché nuovi modi di applicare conoscenze esistenti (biomediche, di comportamento sessuale, di consapevolezza delle conseguenze che la malattia ha sui malati e su coloro che ne hanno cura);
5) la distribuzione del potere e dell’autorità all’interno delle società in modo che i diversi centri interagiscano positivamente fra di loro.
Solo attivando questi driver si riuscirà – come si è avuto nei paesi sviluppati – a trasformare l’Aids da malattia mortale per i più in una patologia di tipo cronico grazie all’impiego sistematico e cornordinato dei farmaci antiretrovirali.
Si riuscirà a realizzare quanto preventivato dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu: «Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid; abbiamo la forza per vincere anche l’Aids».
Daniele Ciravegna