Futuro per tutti

In una conferenza tenuta a Parigi nel marzo del ‘79 sul tema «Il terzo mondo interpella l’Europa», dom Helder Camara toccò i punti principali del dialogo Nord-Sud, con varie osservazioni sull’Africa di straordinaria attualità. In quegli anni, l’Europa si consolidava nella Comunità economica, lasciandosi alle spalle il secolo dei nazionalismi e dittature e presentandosi come modello di pace e integrazione tra popoli, divisi da guerre sanguinose; l’Africa stava uscendo dalla colonizzazione, ma persisteva comunque una condizione di «dipendenza» economica e in molti casi anche di sudditanza politica dai paesi del «vecchio continente».
Per un vero dialogo tra Sud e Nord del mondo, sosteneva Camara, in primo luogo è necessario lottare contro il modello consumistico che domina nei paesi industrializzati. Fino a quando questi paesi, che controllano quasi tutte le risorse finanziarie e consumano la maggior parte delle risorse, non guariranno dalla pratica del consumismo e dello spreco, gli sforzi per avviare una politica di sviluppo nei paesi più poveri sono destinati al fallimento.
In secondo luogo, non bisogna pensare di affrontare il problema dell’esplosione demografica, cioè della crescente pressione delle masse giovanili del terzo mondo, «attraverso un’invasione teleguidata di pillole anticoncezionali». Oggi potremmo fare una considerazione analoga per i «preservativi». Senza un’attenzione coraggiosa a questo problema e senza la capacità di integrare queste masse giovanili «in uno sviluppo portatore di futuro, si porranno le premesse per una rivoluzione e una guerra civile».
Sono parole tremendamente profetiche, se guardiamo alle migrazioni bibliche dal Sud al Nord del mondo e all’esplosione di violenza nelle banlieues delle città francesi; ma anche al fallimento del recente vertice tra i paesi dell’America del Nord e America Latina e alle conclusioni non incoraggianti della conferenza euro-africana sul Mediterraneo, tenuta a Barcellona alla fine di novembre 2005. Anche l’assemblea del Wto (Hong Kong, dicembre 2005) non sembra offrire risultati migliori.
Il terzo problema è quello della fame, provocata anche dalle ingiustizie nel commercio internazionale, cioè dalle ragioni di scambio imposte dalle economie più forti e dal protezionismo (specie nel campo dell’agricoltura), che ancora caratterizza la politica americana e quella europea: cioè economie che impongono a tutti i paesi un modello liberista.
Tuttavia non è sufficiente, per uscire dal circolo vizioso della povertà, abbassare le tariffe doganali verso i paesi poveri. Senza altre decisioni, deprime gli sforzi dei paesi più poveri. Senza vera solidarietà politica, questi interventi si risolveranno in un vantaggio per le multinazionali che controllano il mercato mondiale.
A questi problemi, sin dal ’79, Camara ha aggiunto quello rappresentato dal crescente indebitamento dei paesi in via di sviluppo rispetto a quelli industrializzati: squilibrio aggravato dell’inflazione mondiale e internazionale, che avvantaggia i ricchi.
L’uscita dell’Africa dal circolo vizioso della povertà comporta una «restituzione» di ciò che l’Europa ha «depredato» al tempo delle colonie, specialmente con un forte investimento in capitale umano, nella formazione professionale. Di questo, più che di un «regalo», in effetti si dovrebbe parlare.

I n 30 anni, sono cambiate molte cose. In alcune realtà si sono avviati processi virtuosi; ma in molte regioni del mondo la situazione è peggiorata. In Africa in particolare. Per la Comunità europea l’interesse si è concentrato per molti anni sui problemi della «guerra fredda» (tra Alleanza atlantica e Urss) e sui rapporti con i paesi del Mediterraneo. Essi sono stati in qualche modo associati alla Comunità europea, anche se il conflitto medio-orientale ha impedito il concreto decollo del progetto di Barcellona del 1999, che riguardava la cooperazione con i paesi dell’area del Mediterraneo.
In seguito, tramontato l’impero sovietico, è entrata in discussione la realizzazione del mercato, cioè le relazioni con sistemi economici (dal Giappone alla Cina) che la globalizzazione ha avvicinato a un’Europa sempre più interessata all’allargamento degli scambi commerciali e alla competizione economica.
E questo orizzonte ha spinto l’Europa a ridurre il costo di ogni intervento (o aiuto) in qualche modo assimilabile alla politica sociale e agli impegni di solidarietà internazionale. D’altra parte, i bilanci della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, non sopportano il costo delle cure che sarebbe possibile adottare contro le pandemie che minacciano questi paesi.
Poi l’allargamento dell’Unione europea verso i paesi dell’Est, spostano risorse finanziarie europee verso i paesi che si sono integrati con l’Europa o che si apprestano ad aderire all’Unione europea.
E questi mutamenti di orizzonte, insieme al consolidarsi del mercato unico, hanno accentuato, in concreto, la marginalità dell’Africa, anche se continua il richiamo al dovere di un forte impegno per il suo sviluppo, mentre per molti aspetti si stava aggravando la situazione economica e sociale del «Continente nero».
Di fatto, non solo si è accentuato il fenomeno di cui parlava Helder Camara: milioni di poveri hanno lasciato campagne desolate per migrare verso città, «che vedono trasformarsi le periferie, in enormi favelas, da cui i poveri possono venire spazzati via per sempre, quando disturbano i progetti turistici». Inoltre, sono esplose guerre tribali, spesso fomentate dall’esterno (dal Rwanda al Coo d’Africa), che hanno provocato la morte di milioni di persone, distrutto immense ricchezze e scavato solchi di odio molto profondi; e poi conflitti (Darfur) che minacciano equilibri da sempre precari tra popolazioni di diverse radici culturali e religiose.
Tutto questo ha a che fare con la diffusione dell’Aids e con le difficoltà che si incontrano per combatterlo.

I documenti del Parlamento europeo riassumono l’interesse dell’Europa per i problemi dell’Africa. Accanto all’interesse per i programmi di sviluppo economico (e istruzione), per la difesa del valore dei prodotti su cui è fondata l’economia tradizionale (cotone, zucchero, banane) e per la lotta contro la fame e povertà, è cresciuto l’impegno per prevenire i conflitti, creare una pace durevole, difendere i diritti umani, rafforzare la democrazia. Infine si delinea l’interesse ai problemi della salute della popolazione e quindi, negli ultimi anni, anche per il flagello dell’Aids.
Sulla politica da adottare per prevenire e combattere la pandemia si è sviluppata una vivace polemica sui suoi costi, sulla corruzione, che devia la destinazione degli aiuti, sulle priorità degli interventi, sulla politica dei brevetti; ma, come per molte altre questioni, sino ad ora sono state più le parole dedicate all’analisi del problema che la consistenza degli interventi concreti.
Tuttavia nelle ultime risoluzioni dell’Assemblea parlamentare Acp-Ue (Lussemburgo, 25 giugno 2005), a fianco dell’obiettivo di «sradicare la povertà e inserire con armonia i paesi dell’Acp nell’economia mondiale» (anche per contrastare la minaccia del terrorismo), si colloca l’obiettivo di lottare contro l’Hiv/Aids, malaria e tubercolosi, riconoscendo che «la realizzazione degli obiettivi di sviluppo per il Millennio», esigono sforzi supplementari e un aumento sostanziale delle risorse.
Pertanto l’Ue è invitata, in partenariato con il settore privato (fondazioni e industrie farmaceutiche), ad «accrescere le risorse destinate alla ricerca e alla messa a punto di nuovi strumenti e progetti di lotta contro queste tre malattie».
Perché i propositi diventino realtà, di fronte a un fenomeno di dimensioni catastrofiche, specie nell’Africa subsahariana (vedi statistiche p. 35), è necessario che al centro della riflessione politica sia posta la questione indicata da Helder Camara: se non cambia il modello di vita dei paesi più ricchi, se non si afferma un nuovo umanesimo dell’economia, è molto difficile che si possano destinare le risorse necessarie alla lotta contro la povertà e per l’avvenire di popoli minacciati di estinzione.
Eppure, senza invocare le radici cristiane dell’Europa, anche solo una ragione egoistica dovrebbe convincere l’Unione europea e l’Occidente a fare scelte che si muovono in questa direzione: basta guardare alla crescente emigrazione dall’Africa ai paesi dell’Europa mediterranea, all’esplosione della violenza nella periferia delle metropoli europee, dove vivono ai margini della società migliaia di giovani africani, senza speranza di un futuro a misura umana.
Chi rinuncia a scelte possibili e accetta come ineluttabile il declino dell’Africa, dovrebbe mettere in conto che questa tragedia finirà per riflettersi anche sull’Europa. L’Europa non può dire «non mi interessa». Bisogna rompere la congiura del silenzio e rifiutare l’opinione che il declino dell’Africa è irreversibile. Se domina il timore delle guerre e non siamo in grado di combattere la povertà e la fame, è più difficile portare avanti un programma che guarda al futuro. Poiché «se non c’è speranza, non c’è futuro».

Guido Bodrato

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