Dolore tangibile…

Avevo circa 9 anni quando mia zia suor Michela, missionaria della Consolata, ritoò in Italia per un periodo di vacanza. Ero come la sua ombra, quasi sempre appresso. Un bel giorno le confidai che da grande l’avrei aiutata… Parole di bambina, desiderio che è rimasto in me sempre, anche se i miei studi hanno limitato le possibilità di andare in missione: non sono medico, né infermiera, né maestra, né psicologa, ma ho una specializzazione in marketing e finanza, decisamente un altro campo.
Passa il tempo e le strade tra Dublino (dove vivevo) e Iringa (dove vive suor Michela), si incontrano. Al «Centro Allamano», in cui la zia gestisce un dispensario diuo adibito all’assistenza sociale, psicologica, medica, economica delle persone affette dal virus Hiv/Aids, dei loro bambini e dei numerosi orfani.
Nasce l’esigenza di una persona che si occupi di amministrazione, perché l’attività si sta ingrandendo, sempre più persone vengono a bussare alla sua porta e la tendenza non sembra diminuire. Suor Michela, con qualche dubbio e incertezza, mi scrive una lettera, nella quale mi chiede di andare a Iringa per aiutarla nel lavoro del Centro. Provo una forte emozione: mi sembra di toccare il cielo… Sì, l’avrei aiutata! E parto per il Tanzania.
Il 3 febbraio arrivo a Dar es Salaam con un visto turistico di 3 mesi, senza contratto di lavoro, e subito inizio il mio servizio nel «Centro Allamano», dove non mi occupo solo di amministrazione, ma guido una delle macchine per l’assistenza domiciliare ai malati: ogni giorno andiamo su e giù per le colline di Iringa e i villaggi dei dintorni a visitare i nostri pazienti.
Sono a contatto diretto con i malati, le loro famiglie, problemi, dolore, desolazione, miglioramenti, ricadute, progressi… L’esperienza quotidiana è molto forte: non è facile toccare con mano il dolore, sentirsi inutili, impotenti di fronte alla realtà di sofferenza. Ma qualcosa accade. La nostra visita, le nostre parole, il nostro affetto danno sollievo alle persone che ci ringraziano e benedicono. Quanto bene ricevo, io che pensavo di dae!
Seguire i malati non è semplice: occorre dare loro assistenza psicologica, medica, sociale e, soprattutto, aiutarli a crescere, affinché, nel limite delle loro forze, possano riprendere in mano la loro esistenza. Al Centro si organizzano corsi di formazione per microcrediti e microprogetti; si incentivano idee per una piccola attività, perché gli ammalati ritornino a essere operativi in famiglia e nella società, sentendosi nuovamente delle persone.
I bambini (molti sono orfani) vengono aiutati e spronati affinché vadano a scuola, apprendano un mestiere, diventino autosufficienti da adulti. Con la morte prematura dei genitori, rischiano di finire sulla strada, oppure di fare i «servetti» presso qualche famiglia di parenti; il nostro impegno è proprio quello di salvarli da queste situazioni, perché possano costruirsi un futuro.
Quanta gioia si prova quando nascono bambini sani pur da mamme malate, perché hanno ricevuto la medicina antiretrovirale; oppure malati che stanno meglio e li si incontra per strada a parlare con gli amici o di ritorno dal mercato con un po’ di frutta; o ancora, che il micro progetto a loro affidatogli dà buoni risultati; e vedi l’orto con tanta verdura: sono come luce di stelle in una notte buia, che ti guidano verso una Luce più grande.

A circa un anno dal mio arrivo, mi rendo conto che devo imparare ancora molto su come vivere a pieno lo «spirito missionario», per evitare retorica e luoghi comuni. L’andare in missione (ovunque sia) non deve essere un’avventura fine a se stessa, un’esperienza alternativa al «grigiore» della nostra esistenza, una fuga, ricerca di una soddisfazione personale, egoistica; se così fosse, si sbaglierebbe tutto.
Spesso si parte con tante buone intenzioni, poi la realtà mette alla prova; occorre trovare la forza per continuare e cercare di imparare a fare bene il bene, il che non è semplice.
Ammiro i missionari, che da tanti anni vivono e lavorano qui; sono un esempio molto importante per me; le loro esperienze di vita, conquiste, sconfitte, riflessioni, dubbi, proposte… mi aiutano ad aprire gli occhi e chiedermi quali sono i motivi per cui sono volata in Tanzania. Sono venuta perché potevo essere di aiuto in questa terra drammaticamente bella; spero di crescere, di maturare e che la mia presenza sia fonte di sollievo al prossimo che incontro.
La strada della vita mi ha condotta fin qui; il Signore mi ha guidata per mano, fino all’Allamano Centre; ma ognuno di noi può essere «missionario», il prossimo è ovunque, vicino o lontano dal posto in cui viviamo.

Paola Viotto

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