Attenti… al cuore

Secondo la cultura dei macua, etnia bantu delle province settentrionali del Mozambico, il mondo è popolato da un insieme di forze vitali che, come i fili di una ragnatela, interagiscono tra loro. La malattia non è mai un fatto privato, ma nasce e si evolve in un complesso mondo di relazioni, che diversificano anche le forme di terapia… E l’Aids, prima di tutto, è una malattia del cuore.

Il 24 aprile 2004, i vescovi mozambicani hanno scritto la lettera pastorale «Curate i malati»1, affrontando il problema dell’Aids in Mozambico. Il dato è allarmante: nonostante le campagne di prevenzione promosse negli ultimi anni dal servizio sanitario nazionale e da varie Ong, il Mozambico è oggi uno dei paesi africani con il più alto tasso d’infezione da Hiv: 17% della popolazione. Circa 500 mila bambini sono orfani di genitori, deceduti per Aids, e 50 mila neonati contraggono ogni anno l’infezione per via verticale.
Le campagne di prevenzione realizzate in questi anni hanno per lo più presentato il preservativo come metodo preventivo: ne sono state distribuite ai giovani enormi quantità, spiegando pubblicamente come utilizzarli2. Uno degli effetti collaterali di tali campagne sembra essere stato un maggiore disimpegno dei giovani (e non solo) verso un comportamento sessuale responsabile: adolescenti e bambini, informati sull’uso facile del preservativo, sono stati di fatto sollecitati all’attività sessuale. In questo senso, sembra che le campagne informativo-preventive abbiano avuto un effetto boomerang sulla diffusione dell’infezione da Hiv.
Al di là della trasmissione per via sessuale, bisogna anche considerare la trasmissione sanguinea, che ha un suo importante ruolo, sia all’interno delle strutture sanitarie, spesso precarie, che nell’ambito dei vari trattamenti di medicina tradizionale (es. incisioni tramite lamette).
Ultimamente, in alcuni centri maggiormente popolati, sono nati alcuni consultori per la prevenzione e il trattamento dell’Aids. Tipico è il progetto Dream della Comunità di S. Egidio, che ha realizzato tre centri principali (Maputo, Beira, Nampula), attrezzati con laboratori altamente specializzati, e una rete di piccoli centri e servizi domiciliari3.

Un mondo di forze vitali

Per chi opera o simpatizza con l’Africa e vuole entrare in dialogo con le persone con cui collabora, è necessario aprirsi alla conoscenza del pensare africano, cercando di intendee non solo la lingua, ma anche il linguaggio. Senza tale conoscenza, ogni dialogo, compreso quello «sanitario», risulta impedito e causare troppi equivoci da ambo le parti; nel discorso e prassi sanitaria, si rischia di usare gli stessi termini e si intendono realtà diverse.
Per capire il pensiero africano, soprattutto il concetto di malattia, bisogna tener presente che i popoli bantu si muovono in un mondo fatto non tanto di cose o esseri, ma piuttosto di forze vitali, che si intrecciano in relazioni e influenze reciproche.
Questo, in modo estremamente semplificato, è il principio chiave per comprendere la cultura bantu4: un «pensare» che alcuni studiosi contemporanei definiscono «vitalogia», ossia, una filosofia a partire dalla vita più che dall’essere5.
L’immagine della ragnatela6 può rendere l’idea di questo mondo di forze vitali in relazione: se si muove un filo, la sua vibrazione si ripercuote su tutta la ragnatela. Sullo sfondo di questa concezione del mondo si muove il pensiero e la vita bantu, compreso il modo di vedere e vivere salute e malattia.
Se a un macua xirima domandate «come sta», la risposta può variare in modo sorprendente per la mentalità occidentale. Essa può essere molto simile a quella che anche noi siamo abituati a dare: «Bene, e tu?». Ma, come in un motivo musicale, le variazioni sono spesso numerose e significative: «Bene, non so però come va il tuo corpo»; «bene, non so però come stanno le tue forze»; «bene, non so però come sta la tua vita»; «bene, non so però come stanno le tue ossa».
Oppure la risposta può essere «così, così», seguito dal racconto, spesso complesso e dettagliato, della ragione del «così, così», spaziando da un mal di pancia notturno a un brutto sogno, da un problema di relazione familiare alla malattia di un parente vicino o lontano… fino agli elefanti che hanno rovinato il campo di granoturco. Sono risposte che esprimono le ragioni per cui una persona si sente minacciata nella propria vita/salute.
Il bantu vive di relazioni e influenze reciproche, sia a livello intrapersonale che interpersonale. Mi spiego. Sotto l’aspetto intrapersonale, il bantu considera la persona come un’unità, composta da tre dimensioni fondamentali: corpo, spirito e ombra, i quali, integrando tra loro, influiscono sullo stato di salute o provocano la malattia.
A livello interpersonale, il bantu riconosce nell’altro (sia esso persona umana vivente o antenato, realtà animate e inanimate e Dio stesso) un qualcuno col quale, in qualche modo, è in continuo scambio: tale scambio può aumentare o diminuire la «vita» e non lascia mai inalterate le condizioni che trova.

Malattia e rimedi nella cultura macua

Da tale visione del mondo derivavano i criteri per classificare le malattie e per applicarvi i relativi rimedi. Secondo la mentalità bantu-macua, tutte le infermità possono essere racchiuse in due grandi categorie. La prima comprende le malattie «di Dio» o «naturali», quelle, cioè, che si ritengono causate da agenti naturali; la seconda quelle «culturali», cioè, causate da influenze negative di altri (persone viventi o del passato).
Per un loro adeguato trattamento bisogna tenere presente il contesto culturale completo (filosofia, religione, vita familiare, sociale), soprattutto l’antropologia bantu-macua, con le sue tre dimensioni: corpo, spirito e ombra, distinte ma mai separate7.
La cerchia dei «personaggi» coinvolti nel dramma della malattia si allarga rispetto alla mentalità occidentale. Un ruolo preminente è svolto da Dio e dagli antenati (relazioni e influenze del mondo dell’aldilà); ci sono poi gli esperti tradizionali della salute (indovini, medici tradizionali); c’è il malato con i suoi parenti, con i suoi vicini e con quanti in qualche modo entra in contatto.
Per questo la malattia non è puramente una condizione personale, un fatto privato, ma è un evento multidimensionale che muove, coinvolge, nasce e si evolve in un contesto relazionale che abbraccia tutto l’orizzonte del mondo bantu-macua. Di conseguenza, anche la «farmacologia» e la terapia si dilatano e diversificano in modo impressionante8.
Nell’universo bantu-macua si può parlare, prima di tutto, di terapia mistico-religiosa. «Dio è la vita, gli antenati sono medicine» dice un proverbio macua.
La terapia tradizionale include aspetti mitico-cosmogonici: essa è impensabile senza il contatto con il mito fondativo del popolo, con le origini della collettività e dell’individuo malato, con la scaturigine della forza vitale.
La terapia abbonda di aspetti simbolici: simboli e gesti usati evocano significati ed emozioni. Ma non mancano, naturalmente, gli aspetti prettamente farmacologici: i medici tradizionali conoscono rimedi naturali a volte molto efficaci.
Infine, nelle terapie tradizionali giocano un ruolo importante le relazioni tra il malato e il medico, la famiglia e il mondo dell’aldilà. Tali relazioni costituiscono l’ambiente in cui si collocano i vari trattamenti.
In questo scenario, si comprende come la cura di una malattia non possa fare a meno di essere multidimensionale: deve interessare le tre dimensioni della antropologia bantu (corpo, spirito, ombra), dialogare con i diversi ambiti (religioso, familiare, sociale) del mondo macua e abbracciare diversi tempi: presente, passato (il tempo mitico delle origini) e naturalmente il futuro.
Credo che anche la medicina scientifica, in qualche modo, abbia bisogno di un cammino di inculturazione; debba, cioè, entrare in dialogo con le istanze che la persona e il popolo presentano, nell’ascolto umile e empatico di come la persona o il popolo comprende se stesso e, di conseguenza, del significato che attribuisce a un dato avvenimento, anche quello della malattia.

E se l’Aids fosse una malattia del cuore?

Estate 2003: siamo in una missione della provincia del Niassa. È un pomeriggio di sole, caldo ma non troppo. Con Roberto, un ragazzo di 27-28 anni, siamo seduti in un luogo ombroso e fresco. Parliamo della vita: della sua e del suo popolo.
Roberto è figlio del suo tempo e del suo popolo: tempo e popolo che hanno ritrovato la pace da appena 11 anni, dopo una guerra lunga ed estenuante, che ha lasciato segni fuori e, soprattutto, dentro le persone.
Roberto parla volentieri; lo sento vibrare nel raccontare e approfondire i suoi pensieri e sentimenti. Lo fa soprattutto prendendo spunto dalla sapienza tradizionale, proverbi e detti del suo popolo, ma li rielabora con talento poetico e acutezza d’intuito.
Il discorso cade sull’Aids, che sta mietendo giovani vittime anche nel suo villaggio. A un certo punto il giovane esordisce: «Di Aids però ce ne sono due tipi». Gli chiedo spiegazioni. «C’è quella che conosciamo, quella del virus – afferma -. Sappiamo come si trasmette, come si previene. Sappiamo che non ci sono cure, che porta alla morte. Queste cose le sappiamo. Però tutto ciò non ci impedisce di ammalarci…».
Approfondiamo il dialogo e Roberto spiega che forse il problema della prevenzione dell’Aids non sta solo nell’informazione. I ragazzi del suo villaggio sono ben informati sulla malattia. Il fatto è, dice Roberto, che probabilmente ai ragazzi non interessa molto di ammalarsi, piuttosto che rimanere sani. E rilancia: «Vedi, c’è un altro tipo di Aids, che è anche peggio di quella del virus, e che viene prima…». E continua parlandomi di un’altra «malattia», diffusa e mortale, «è come un verme che ti mangia dentro… e tu non hai più voglia di vivere… e cominci a morire».
Mi spiega che è una malattia «del cuore» e ne elenca i «sintomi». Nella mia mente, ascoltandolo, riconosco con precisione impressionante la descrizione del vuoto, della depressione, della solitudine. Roberto va oltre, elencandone pure alcune cause, con lucidità e intuito ammirevole; e corona la sua analisi con una parabola.
«Quando soffia il vento e cade un albero, noi pensiamo che sia stato il vento a farlo cadere, ed è vero. Ma non è tutta la verità. Se guardiamo bene l’albero, ci accorgiamo che dentro era “mangiato”, vuoto. Prima del vento, c’era un verme che era entrato e aveva fatto il suo lavoro. L’albero sembrava vivo, ma era già morto. Il vento ha dato solo l’ultimo colpo».
Roberto mi ha dato un’altra lezione di vita. Mi ha insegnato che bisogna stare attenti al vento, prevenirlo, rinforzare gli alberi perché non cadano. Ma mi ha insegnato che questo non è tutto, che «c’è un altro tipo di Aids, che viene prima». C’è una persona che forse è ferita dentro e a questa ferita va data attenzione. Non è una ferita che si cura con le medicine. È una ferita del cuore, dell’anima, che richiede un «trattamento» diverso, fatto di cose forse meno visibili e quantificabili delle medicine, ma non per questo meno importanti.
Richiede silenzio, ascolto, presenza, discrezione, delicatezza, capacità di comprendere, intuire e sfidare. Richiede l’impegno in relazioni vere, che possano costituire quello spazio/luogo in cui la persona possa «sedersi» al sicuro, avere il coraggio di guardare le proprie ferite e recuperare le energie, la vita.
Richiede l’impegno e la passione di creare con l’altro una comunicazione attraverso cui la consolazione passi. Non la consolazione delle frasi fatte, della pacca sulle spalle, ma la consolazione biblica, cristiana, cioè di Cristo. La consolazione che circola anche attraverso gli umili canali delle relazioni umane più vere, in cui si incarna la carità, che non è assistenzialismo umiliante, ma condivisione di se stessi nel dare e nel ricevere la ricchezza dell’altro e dell’Altro.
Roberto mi ha dato una buona lezione, sfidandomi ad approfondire il mio essere cristiana e missionaria. Grazie, Roberto!

Simona Brambilla