Ricerca… di se stessi

«Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d’estate siano tanti…
Soprattutto, non affrettare il viaggio fa che duri a lungo per anni…».
I versi di Costantinos Kavafis, preludio di Viaggio a Itaca, l’ultimo libro di Anita Desai, caratterizzano la vita della scrittrice indiana, premio Grinzane 2005 «una vita per la letteratura».

Il viaggio è fondamentale, ma deve essere inteso come pellegrinaggio. Un pellegrinaggio non necessariamente fisico, ma all’interno di se stessi» afferma la signora Desai, nata nel 1937 a Mussorie (India) da madre tedesca e padre bengali. Lei stessa pare continui a cimentarsi in questo «pellegrinaggio», da quando iniziò a scrivere per comprendere il caos della vita (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000).
Nell’introduzione di Notte e nebbia a Bombay (Einaudi 1999 – premio Grinzane 1993) racconta che «l’idea di quel libro è stata come un granello di sabbia che è entrato nel guscio di un’ostrica e poi è cresciuto, ben radicato nell’inconscio… Volendo essere più precisa riguardo a quell’iniziale granello di sabbia, devo dire che prese vita prima di me, con l’incontro tra mio padre, giovane che dai fiumi e dalle risaie del Bengala andò a studiare ingegneria in Germania, e mia madre, una giovane berlinese, nata negli anni ’20… A un certo punto anch’io faccio la mia comparsa in questa storia e raccolgo intorno a me il mio personale mucchietto di ricordi. La seconda guerra mondiale, per esempio, che fece da sfondo alla mia infanzia, per lontana che fosse dai campi di battaglia europei… Le atrocità, in quel periodo, in India avvenivano su un altro fronte… ed ebbero fine nel 1947 con l’indipendenza dell’India. Un momento che avrebbe dovuto essere glorioso e invece si rivelò tragico, perché coincise con la partizione di India e Pakistan, accompagnata dalla migrazione forzata di milioni di persone e da orrendi massacri».
Questo romanzo, che racconta le tristi vicissitudini di un ebreo tedesco, da 50 anni residente a Bombay, vuole essere soprattutto «una meditazione sopra la guerra e i danni che procura allo spirito umano, che è in grado di sopravvivere solo in condizioni di pace».

L a Desai ha iniziato il suo «pellegrinaggio», tradotto in scrittura, esplorando dapprima il mondo femminile, contesto esclusivo in cui visse fino al baccalaureato. In Chiara luce del giorno (1980 – Einaudi 1998), ambientato nella travagliata India degli anni ’40, famiglie borghesi indù abitano nella vecchia Delhi, vicino a ricche e colte famiglie musulmane, vivendo i conflitti dell’epoca, filtrati dalle emozioni e sentimenti di Bim, una donna forte e coraggiosa, professoressa di storia in grado di fronteggiare le gravi difficoltà della famiglia. Con la sorella Tara frequenta la scuola missionaria anglicana, ricordando: «Le aristocratiche missionarie che gestivano quella scuola grigia e austera… erano tutte anziane e nubili – avevano fatto voto di castità anche se non indossavano la veste monacale – oltremodo frenetiche, disponibili e piene di risorse. Lasciati i prati e le siepi, le canoniche e le feste di beneficenza della loro fiduciosa e donchisciottesca giovinezza, avevano vissuto esperienze che avrebbero piegato chiunque e che invece esse avevano saputo sopportare, restando a galla come barche sulla cresta delle onde (guerre e bombardamenti, disordini e rivolte, carestie e siccità, alluvioni, incendi e usanze locali) per poi ritirarsi, non tra canoniche e feste di beneficenza, ma a dirigere una severa e rigida scuola delle missioni, sostenute dalla propria fiducia e baldanza e da una fede intatta».
L’autrice mi ha confermato di aver rievocato, con queste immagini, le sue insegnanti della Queen’s Mary Higher Secondary School da lei frequentata in gioventù.
Quindi Anita Desai, madre di quattro figli ed affermata scrittrice internazionale nonché docente di scrittura creativa al Massachussets Institute of Technology (Usa), è cresciuta parlando indù e tedesco, ma la sua lingua letteraria è sempre stata l’inglese, appreso con eccellenza in una scuola missionaria.
Anche il suo «pellegrinaggio» con la scrittura è arricchito da questa formazione che le permette di descrivere con maestria e acume situazioni e personaggi, tratteggiati da un occhio critico e disincantato.
In uno dei suoi primi romanzi, Il villaggio sul mare (1982 – Einaudi 2002), tensioni e conflitti vissuti all’interno di semplici famiglie di pescatori indiani, la cui vita si illumina giorniosamente in occasione delle feste tradizionali, sono appesantiti dall’arrivo minaccioso dell’industria con tutte le incognite e, forse, l’inutile distruzione invece della promessa ricchezza.
Nel romanzo In custodia (1984, Tartaruga 1990), la Desai comincia ad esplorare il mondo maschile, lasciando le donne come personaggi marginali. Ma che donne! Informo la scrittrice che la mia presentazione di questo romanzo su Missioni Consolata (gennaio 2000) fu intitolata «La mafia delle donne». Con calma, la Desai conferma: «Altre persone mi hanno chiesto perché le donne di questo romanzo sono così orribili. E io ho risposto che questa è la reazione di donne trattate male e relegate solo nel ruolo di figlie, mogli e madri, senza la possibilità di partecipare alla vita attiva del mondo maschile, come appunto avviene in India. Attualmente, però, in certe fasce della popolazione la situazione comincia a cambiare».

N el recente Viaggio a Itaca (1995 – Einaudi 2005) la Desai cerca di raccontare motivazioni, stereotipi e realtà del «pellegrinaggio» di tanti giovani occidentali in India, moda abbastanza diffusa alla fine degli anni ’80. Un preludio è offerto in Notte e nebbia a Bombay, quando Farrock, il dignitoso proprietario di un caffè di terz’ordine, additando un ragazzo bianco ricoperto di stracci, che pretende di essere servito senza pagare il conto, sbotta: «Già avrà preso a calci in faccia i genitori, immagino; genitori ricchi, che hanno regalato al figlio una moto, un’automobile, l’orologio, i soldi, il biglietto per l’India, tutto. E che cosa hanno ottenuto? Una pedata, ciao e via. Eh? È così che vengono, in Afghanistan, in Nepal, in India. Dicono ai genitori che non vogliono un impiego, che non vogliono lavorare. Raccontano loro bugie enormi sugli dèi indù; sostengono di amare il Budda, di volere visitare i templi, vivere negli ashram (centri di spiritualità). Sì certo che visitano i templi e vivono negli ashram; ma badano al Budda o a Rama o a Krishna o a qualunque altro dio? Io so che cosa fanno. Prendono droghe in questi ashram, droghe da quei pandit e da altra gente come loro».
Tutti i giovani occidentali si aggrappano a una presunta «spiritualità» per cercare in India lo «sballo» della droga? In Viaggio a Itaca, Matteo, il giovane protagonista italiano, sognatore e ribelle, è sincero nella sua ricerca di spiritualità in India, perché ispirato dal romanzo Pellegrinaggio a oriente di Hesse, unico libro che pare avere influenzato la sua anomala formazione.
Figlio di un’agiata famiglia, residente in una villa sulle sponde del lago di Como, Matteo conosce e sposa Sophie, irrequieta giornalista, figlia di banchieri tedeschi. Inizia così la loro avventura in India, caratterizzata dalla spassionata e ingenua ricerca di Matteo accompagnato dalla razionalità, che talvolta diviene spietato cinismo della compagna.
È proprio Sophie, però, con il suo disincanto e la curiosità tipica della brava giornalista, che riesce a tratteggiare bene motivazioni e intenzione degli occasionali compagni di «pellegrinaggio» e degli stessi indiani.
Malgrado siano foraggiati dal denaro dei ricchi genitori di Sophie, i due «pellegrini» vivono una vita dura in ashram diversi per stile e conduzione. Partecipano anche a un faticoso e colorato pellegrinaggio verso un tempio, che lascerà in Sophie l’amaro ricordo di una donna nel tentativo supremo di salvare il figlioletto moribondo tanto da farla esclamare: «Al centro dell’India c’è un bambino morto».
Dopo aver soggiornato sulle spiagge di Goa, «il pellegrinaggio attraverso l’India si intrinse del denso e aromatico annebbiamento della marijuana: le si appiccicò addosso e diventò il suo abito. Penetrò in lei e diventò il suo essere… In tutta l’India, in quegli anni, cenciosi mendicanti bianchi, in pyjama sbrindellati e bandana, gironzolavano intorno agli ashram, ai santoni, per il divertimento e l’incredulità degli indiani che composero per loro una canzonetta “dai un tiro, dai un tiro, sentiti svenire”».
Quasi sempre questi giovani occidentali sono oggetto di dileggio da parte dei locali, che ne identificano il parassitismo e la lenta distruzione. Infatti non di rado questi «pellegrini» contraggono malattie mortali. Più volte Matteo e Sophie sono ricoverati in condizioni gravi in ospedali diversi. In uno di questi, un medico indiano capisce la sincerità di Matteo, gli salva la vita e con saggezza lo esorta: «La luce divina può uccidere… gli dèi sono distruttivi in questo paese… Viene in India e non si prende neppure la briga di imparare qualche cosa. Pensa di poter capire questo paese senza studiare nulla? Pensa che la luce divina sia come il bagliore di un lampo? Avrei dato qualunque cosa per andare in occidente a studiare».
Matteo riesce a farsi accettare in un rigido ashram, dove studia con rigore, ma deve anche subire la segregazione, ad esempio durante i pasti, perché ritenuto impuro. Quando Sophie scopre che i santoni dell’ashram sono in combutta con bande di malviventi, raggiunge con Matteo l’ashram retto da una leggendaria Madre, di cui Matteo diviene totalmente dipendente, tanto che «ora capiva per quale ragione perfino i dintorni paradisiaci della sua casa sul lago gli erano apparsi vuoti e terribili, perché non c’era nessuno a mostrargli che erano espressione di una verità eterna ed essenziale».
Sophie, intanto, ha avuto due figli che riesce a parcheggiare dai nonni italiani, per avventurarsi alla ricerca del passato della Madre, che si rivela essere un’altra «pellegrina», figlia ribelle di madre francese e padre egiziano. Laila, l’attuale Madre, nata e cresciuta ad Alessandria d’Egitto, conosce l’India in un negozietto di Parigi e diviene ballerina nel gruppo del famoso Krishna, danzando a Venezia, New York e, infine, approda a Bombay, dove danza per un «santone», che diviene suo maestro di vita.
Nella memoria del maestro, la Madre, che come danzatrice prediligeva la figura del «pavone», riesce, come il magnifico e vanitoso uccello, nelle sue apparizioni serali a incantare i «pellegrini» dell’ashram, taluni, come l’ingenuo Matteo, quasi schiavi. Con la morte della Madre l’ashram si avvia, però, verso l’oblio.

Incontro di culture? Secondo la Desai solo con una ricerca sincera e un amore autentico ci può essere un incontro proficuo. Intanto la scrittrice indiana ha proseguito il suo «pellegrinaggio» in Messico, scrivendo il romanzo The zig-zag way, che il prossimo anno uscirà tradotto in italiano.

Silvana Bottignole




Una penna per la democrazia

 

Arrestato 126 volte, fondatore di uno dei giornali più vecchi e rispettati dell’Africa francofona, Pius Njawe è da sempre attivista per la libertà di stampa a livello internazionale. Ci spiega l’evoluzione democratica del continente e confida le speranze per il futuro.

Camerunese, giornalista ed editore, Pius Njawe è uno dei più grandi difensori della libertà di stampa e diritto all’informazione sul continente africano. Nel ’79 ha fondato a Douala il settimanale Le Messager, (Il Messaggero), più tardi divenuto quotidiano. È stato arrestato 126 volte a causa delle sue pubblicazioni non gradite al potere; talvolta ha passato mesi in prigione, con pesanti conseguenze sulla sua salute.
Oggi è direttore generale del Free Media Group, società editrice del Messager, che sviluppa anche un’edizione elettronica (www.lemessager.net) e possiede un’agenzia di comunicazione: Cameroun communications incorporated. Il gruppo ha creato una stazione radio, Freedom FM, che è stata chiusa per due anni dal governo del Camerun e recentemente ha riottenuto il permesso di trasmettere. Peccato che tutti questi mesi di sigillo in ambiente umido abbiano deteriorato la maggior parte delle attrezzature e ne rendano impossibile l’operatività.
Njawe è anche il presidente dell’Unione editori della stampa dell’Africa Centrale, dopo aver creato l’Organizzazione camerunese per la libertà della stampa, ed è membro del Comitato per la libertà di stampa dell’Associazione mondiale dei giornali. È stato per 7 anni, due mandati, membro del gruppo consultivo dell’Unesco per la libertà di stampa, e membro della giuria del Premio mondiale per la libertà di stampa dell’Unesco «Guillermo Cano» (giornalista colombiano assassinato).

Si parla molto di libertà di stampa in Africa. Ma a che punto siamo?
La libertà di stampa ha conosciuto un’evoluzione positiva in Africa, grazie al vento dell’est, che ha soffiato anche un po’ da noi alla fine degli anni ’80. Negli stati anglofoni, c’è sempre stata libertà; non dico totale, ma esistevano già giornali con certa tradizione di indipendenza. In Africa francofona c’è stata una corrente, negli anni ’80, con Le Messager in Camerun, seguito a metà della decade da Sud Hebdo (oggi quotidiano) a Dakar, creato in Senegal da un gruppo di giovani giornalisti che volevano cambiare qualcosa. In Benin La Gazzette du Golfe e AST in Niger avevano uno spirito simile.
Questi 4 giornali hanno resistito alla repressione nei loro paesi rispettivi, il che ha creato una certa solidarietà tra di loro. Ogni volta che uno era attaccato, gli altri si sentivano implicati e si attivavano. È stata un’esperienza formidabile che ci ha aiutato a resistere. Poi le cose si sono evolute con l’avvento del multipartitismo in certi paesi dove il monolitismo era la regola.
La stampa è stata un po’ all’avanguardia della democratizzazione in molti paesi francofoni, cioè ha preceduto il pluralismo politico: una specie di esploratore per tutti gli attori dell’alternanza politica nel continente. E continua, in molti paesi come il mio, a essere il vero contropotere, di fronte al fallimento dei partiti di opposizione.
Malgrado il multipartitismo iniziato nei primi anni ’90, abbiamo conosciuto un’ondata di repressione cieca contro questa stampa, che talvolta ha impedito di rubare, di uccidere. In Camerun la «censura preventiva» è rimasta in vigore fino al ’96. Prima occorreva sottoporre ogni edizione del giornale a un censore, in un ufficio amministrativo: era lui a decidere, da solo quello che 15 milioni di camerunesi avrebbero letto: noi lo soprannominammo il «super redattore capo». Il giornale era pubblicato a volte con parti o intere pagine in bianco. Le Messager ne ha particolarmente sofferto. Senza contare gli arresti e attentati alla mia vita: ci sono stati così tanti episodi.

Oggi la situazione è evoluta.
Sul piano politico c’è una comunità internazionale che osserva: il principio dell’aiuto sottoposto ai criteri di democrazia ha portato a qualche progresso; poi la straordinaria evoluzione della tecnologia per l’informazione e comunicazione: prima il fax, poi internet. Questi mezzi hanno ridotto a nulla l’azione della censura, perché, malgrado ciò, la gente riusciva ad avere le informazioni che si volevano bloccare. In Camerun tale pratica è stata mantenuta a lungo per punire anche economicamente chi pubblicava informazioni non gradite, con il sequestro, ad esempio, di intere edizioni.
Dopo la soppressione della censura preventiva, il governo ha iniziato a comprare il mondo politico. Per conservare il potere, il regime di Paul Biya ha moltiplicato i partiti politici satelliti per soffocare quelli veri di opposizione, metterli in imbarazzo e mostrarli inaffidabili.
La strategia è la seguente: se un certo partito non scende a patti, se ne crea un altro che invece lo fa. Nascono così molti piccoli partiti e si mostra all’opinione pubblica che almeno 10 partiti stanno dalla parte del potere; mentre l’altro lo si dice radicale e che non vuole dialogare. Si demonizza il partito vero.
Lo stesso avviene con la stampa: dato che Le Messager da fastidio, si moltiplicano i giornali che lo contraddicono ogni volta che dà una informazione scomoda. Così si rafforza il quotidiano governativo, anche se la gente, ormai, non gli crede più. Con questi imbrogli il regime riesce a superare le tempeste e consolidare le posizioni.
Oggi questo potere non ha più bisogno dei partiti e giornali satelliti che ha creato, poiché l’opposizione è quasi inesistente e tutti si sono trovati un posto intorno alla tavola. Non ci sono più contestazioni; la gente non scende più in strada, neppure quando gli studenti vengono massacrati. Il regime ha portato il paese a una specie di unanimismo che chiamo il «monolitismo multipartitico». Abbiamo decine di partiti politici, ma tutti allineati. Non si oppongono agli abusi, non difendono la causa democratica di ieri. Il potere non ha più bisogno di loro.
Tutti hanno interesse a consolidare la propria posizione attorno alla maggioranza presidenziale; e per raggiungere tale scopo occorre avere un mezzo di comunicazione: i giornali di cui il potere non ha più bisogno, si mettono al servizio dei differenti clan. Tutto questo rende fragile la stampa e la relativa professione: anche i giornali seri non sono più presi come tali.

E i giornalisti?
I giornalisti finiscono per adottare il sistema: ciò favorisce la corruzione generalizzata anche nella professione giornalistica. Non è tipico solo del Camerun, ma di buona parte dei paesi africani, dove, con un po’ di soldi, si possono comprare articoli per distruggere o abbellire l’immagine di qualcuno.
Quando uno cerca di distinguersi, diventa il bersaglio di tutti gli altri e viene demonizzato con ogni sorta di titoli. È questa la battaglia che stiamo combattendo.

Le organizzazioni per la libertà di stampa quale ruolo possono giocare nel sostegno ai media realmente indipendenti?
Potrebbero fare un lavoro straordinario. Purtroppo a livello nazionale, dato il contesto che ho descritto, è difficile cambiare, perché ognuno crede di non aver niente da imparare da nessuno. Con l’Associazione mondiale dei giornali (Amg) abbiamo tentato di organizzare seminari in materia di gestione dell’impresa di stampa, con l’obiettivo di rinforzare le basi economiche dei media. Ha funzionato per certi paesi, ma non per il Camerun. La maniera in cui si arriva alla professione spesso non è lineare e ciò spiega la non predisposizione a migliorare: se ci si arriva per giocare sporco è chiaro che non si è pronti a progredire.
Credo che il lavoro fatto da Reporter senza frontiere, Amg e Commettee to protect journalists sia da moltiplicare. Ma la bonifica della professione, in tutti i sensi, passa innanzitutto dai professionisti stessi: essi devono prendere coscienza che quelli che vengono a distruggere sono di passaggio e, quando avranno raggiunto i loro obiettivi, se ne andranno.
Parlo delle persone che credono in questo mestiere. Ne esistono. Ma sfortunatamente sono sopraffatti da avventurieri in cerca di un salario o che hanno conti da regolare.

Lei è stato arrestato 126 volte a causa dei suoi scritti…
L’ultimo arresto avvenne in agosto 2002. Trovavo da Londra, dove avevo seguito dei corsi di diritto umanitario. Mi arrestarono all’aeroporto di Douala, mi ritirarono i documenti, ma dopo 6 ore fui rilasciato.
L’ultima volta che venni sbattuto in prigione fu nel 1998, colpevole di aver rivelato un leggero malore cardiaco del presidente Paul Biya.
Fui condannato a due anni di reclusione, ma ci fu un gran movimento internazionale di protesta sul mio caso e la corte d’appello fu costretta a dimezzare la pena. La pressione estea era così forte che, dopo 10 mesi sono stato liberato. Il presidente mi ha concesso una grazia da me non chiesta e, per paura che non volessi uscire di prigione, mandò l’esercito a sloggiarmi.
Alla fine avevano capito che la mia reclusione era per loro controproducente. Ma vi sono arrivati tardi, quando erano già stati fatti molti danni inutili. Ma questo non ha cambiato nulla nel mio comportamento, nelle mie preoccupazioni e nella mia determinazione, poiché nulla è cambiato nella situazione del Camerun.
Se l’avermi incarcerato avesse migliorato le cose che denunciavo, sarebbe servito a qualcosa; se parlo di malgoverno, corruzione, furto… è perché le cose continuano allo stesso modo. Il fatto di arrestarmi non smentisce quello che denuncio, al contrario, distrugge la loro immagine di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale.

È sempre lo stesso potere che vi ha arrestato?
Sì, e rimarrà in carica almeno fino al 2011! (Segue una grassa risata).

Oggi com’è cambiata la repressione?
È diventata più sofisticata: quella fiscale ha rimpiazzato la repressione fisica. Le azioni, che prima erano esercitate dall’amministrazione, sono state trasferite ai giudici dei tribunali. Si fanno simulacri di processi, sapendo che la giustizia è sul libro paga del potere esecutivo. Quando si è accusati di un delitto di diritto comune, in realtà si mira a reprimere il lavoro di giornalista. Non viene utilizzata la legge sulla stampa, che è già molto brutta. È stata soppressa la censura, ma si sono aperti altri fronti: per esempio, chiunque pensi di essere stato diffamato ha la possibilità di far sequestrare un giornale; è stato prolungato da sei mesi a tre anni il periodo di prescrizione, cioè il tempo che intercorre tra la pubblicazione di un articolo e la possibilità di denuncia.

A livello mondiale, cosa pensa del movimento che si oppone al neoliberismo e si appoggia sui diritti umani. Può avere un futuro e influenzare certe dinamiche in Africa?
È un movimento che bisogna incoraggiare e contribuire a sviluppare, anche se è minoritario da noi. È una lotta nobile contro il liberismo cieco e selvaggio, perché conduce alla distruzione totale dell’Africa. Chi lo persegue cerca solo di proteggersi contro i poveri o contro popoli che ha impoverito. È un’ingiustizia. Non si può ridurre un continente allo stato in cui è ridotta l’Africa e venire a dire che occorre liberalizzare.
Il movimento deve essere appoggiato da tutte le forze che credono in una giustizia mondiale; occorre lottare contro chi vuole monopolizzare tutto: ci impone il prezzo di acquisto delle materie prime, le trasforma altrove e ci riporta i prodotti finiti con relativo prezzo da lui fissato. Dobbiamo avere la libertà di vendere il nostro cotone a prezzi che scegliamo noi, calcolando gli investimenti in tempo e sofferenza per produrlo.

Pensa che la società civile in Africa sia abbastanza matura per questa lotta?
La società civile è qualcosa di molto importante, ma che deve prendere corpo e consolidarsi nei nostri paesi. In Camerun essa è gestita dagli uomini politici, che da un giorno all’altro decidono chi ne fa parte. Una società civile si definisce da sola: si tratta di gente che agisce e partecipa al consolidamento del progresso di un paese. In Africa, oggi, essa esiste, ma manca di organizzazione. È costituita da individualità, ma devono mettersi insieme per costituire dei veri contro-poteri, imparare a interpellare quando è necessario, a esigere di poter dire la propria opinione nelle decisioni che riguardano la sorte della comunità.
A questo dobbiamo lavorare oggi. In diverse parti dell’Africa ci sono embrioni di società civile che si mettono in piedi. Bisogna lavorare per rinforzarli, migliorare le loro capacità di discussione, i mezzi d’incontro, per facilitare gli scambi di idee e poter parlare di cose importanti per l’avvenire dei loro popoli.

Cosa vorrebbe dire ai dirigenti occidentali sullo sviluppo dell’Africa?
Se vogliono aiutarla, la facciano uscire dal circolo vizioso del debito. L’Africa non è debitrice di fronte all’Occidente; al contrario, sono i paesi ricchi debitori di questo continente. Se vogliono veramente aiutarla, ammettano questa realtà. Dopo di che, ammettano anche che l’Africa rigurgita di risorse per svilupparsi da sola e la smettano con quell’aiuto-trappola che serve a mantenerla al servizio dell’Occidente. La si aiuti a sviluppare le sue proprie potenzialità, a sfruttare le sue ricchezze sul suolo africano. Mandino gente che sappia trasmettere onestamente la tecnologia propria, per fare dell’Africa un continente sviluppato a partire dalle sue risorse. La maggior parte delle ricchezze dei vostri paesi vengono dal nostro continente: perché non possiamo far di tali ricchezze dei mezzi di sviluppo delle nostre popolazioni?

L’Africa ha mezzi sufficienti per svilupparsi: occorre orientarla per meglio servirsi delle proprie risorse, invece di mantenere certi nostri capi che, per restare al potere, prendono le nostre ricchezze e le offrono all’Occidente. Sotto questo aspetto, è meglio che l’Occidente non ci aiuti, ma lasci che ce la sbrighiamo da soli.
Voglio pure dire che anche l’africano deve riflettere su come svilupparsi e costruire il suo futuro sul fondamento dei propri valori e risorse. Stiamo organizzando l’Istituzione Nelson Mandela, con lo scopo di suscitare ai quattro angoli del continente le capacità umane, raccoglierle in sinergie al fine di trasformare sul posto le materie prime africane in prodotti locali.
Sono il responsabile della comunicazione di questo gruppo ancora in embrione; ma miriamo alla creazione di istituti regionali per le tecnologie, dove dei giovani possano ricevere la necessaria formazione. Il presidente Mandela ha accettato di essere padrino dell’iniziativa. Mi auguro che i paesi occidentali, istituzioni internazionali, quelle di Bretton Woods, portino il loro sostegno a questa idea, per renderla sempre più concreta e rispondente alla realtà africana.

 

Marco Bello

 

 




Tra curiosità e paure

La difficile arte di capirsi, nonostante diversità di pensiero
e stili di vita. Sorseggiando insieme, magari, un po’ di tè,
nel sogno di una convivenza possibile, costruita attraverso piccoli ponti
di umanità.

Egiziana di Luxor, Shayma lavora come commessa dieci ore al giorno, sei giorni su sette per 140 pounds al mese (poco meno di 20 euro), in un negozio di fotografie 24 ore su 24.
Shayma indossa l’hijab (velo che copre il capo, lasciando libero il volto) da quando aveva tredici anni e si cancella il viso sotto il trucco pesante: rossetto, fondotinta e fard. Quasi con grazia, abbina il velo alla tunica o ai pantaloni all’occidentale e, sotto le maglie larghe a maniche lunghe, prova a nascondere il seno vigoroso, addolcito dallo slancio della figura. È la migliore amica di Mervet, 23 anni, la pelle chiara, gli occhi verdi e una croce copta tatuata sul polso destro; Said, dal sorriso bianco nel volto scuro segnato da un’acne leggera, indossa spesso la maglia della nazionale di calcio italiana, perché «Roberto Baggio and Totò Schillaci are great».

«Ciaomancia»

«Non sposerei mai un musulmano» – confessa Mervet: «I musulmani sono cattivi con i cristiani, specialmente con noi cattolici, non ci lasciano lavorare»; e lo dice sbattendo con forza zucchero e Nescafè in un bicchiere di vetro per preparare un buon cappuccino ai suoi amici Shayma e Said, musulmani anche loro ma, a differenza degli altri, hanno un nome, un volto e offrono, quindi, la possibilità di un incontro.
Mervet ha imparato i segreti del cappuccino da suor Maria del Crocifisso, della comunità delle francescane, che le ha insegnato anche a preparare la pizza, il calzone e le tagliatelle. Mervet vorrebbe andare a Roma a vedere il papa e il suo desiderio è quello di sposare un bravo ragazzo, «prima di tutto un buon cattolico», che possa darle figli e pensare a loro.
Vive con i genitori e due fratelli a Sawaghy, il piccolo quartiere cristiano di Luxor dove convivono, non sempre dialogando, copti ortodossi e cattolici. Oltre la porta segnata col sangue di un animale ucciso anni prima per inaugurare l’arrivo nella nuova casa, letti dai materassi alti e duri si ammassano contro le pareti e la povertà estrema stride con il computer che troneggia in una delle stanze, ben protetto da una coperta di lana.
Nel negozio di fotografie, la tv rimane accesa 24 ore su 24 e fa entrare prepotente la massiccia programmazione di telenovelas, in cui donne truccate e senza velo si struggono d’amore per aridi uomini d’affari, che si alterna alla pubblicità: «Welcome to Egypt», dieci, cento volte ripetuta ogni giorno dal canale di stato Nile Tv, che mostra piramidi, templi e il magnifico Mar Rosso, accompagnati dal sottofondo trionfalistico della marcia dell’Aida, che pochi autoctoni sanno essere di un italiano chiamato Verdi.
Il percorso tipico del turista che decide di visitare l’Egitto consiste in una settimana di crociera dal Cairo fino ad Assuan, in Nubia, quasi al confine con il Sudan, e in una seconda settimana sulle belle spiagge di Hurghada, facendo snorkelling negli incantevoli fondali di un mare la cui costa è, purtroppo, sempre più simile ai nostri paradisi estivi dell’Adriatico.
Andando in Egitto da turisti, non sempre si può cogliere il fatto che tutto ha il doppio prezzo e quello per stranieri è due, tre, persino dieci o cinquanta volte più alto rispetto a quello per egiziani.
Laggiù c’è uno strano culto dei soldi: c’è il denaro per vivere (la lira egiziana) e quello per vivere meglio (la valuta straniera), per cui le mance e i pagamenti in euro e in dollari sono ambiti e quasi pretesi. Specialmente nel sud, i bambini più poveri sono educati ad assalire il turista con il continuo «hellobaksheesh!» (ciaomancia, tutto attaccato), parola unica e concetto inscindibile: io ti saluto – tu dammi; sempre accompagnato dalla manina tesa e dallo sguardo deciso: tu hai, tu dammi. Se nonostante l’assalto di gruppo il turista non cede, la richiesta passa da «hellobaksheesh» a «pen, pen». Spesso sono i genitori a spingere i figli a rincorrere i turisti, nella speranza di ricevere una penna rossa o blu.

Una sera dopo l’altra

I coffee shops sono luoghi per uomini arabi e donne occidentali. «Non si incontrano ragazze arabe per bene lì – spiega Shayma, la commessa del negozio di fotografia -, ma a te, italiana e sola, frequentare un coffee shop è permesso, perché sei straniera e loro tolleranti». Si raccomanda solo che, uscendo, mi copra bene le braccia e le gambe.
Ed è proprio nei coffee shops che si incontra l’Egitto, quello vero: tra le maioliche gialle, bianche e blu, tra i tavoli sbilenchi disposti sulle strade polverose dei piccoli centri, tra i giocatori di tawla (backgammon) che ti accettano solo se hai la pazienza di tornare una sera e poi un’altra e poi un’altra ancora, allo stesso tavolo a bere lo stesso tè, fumare la stessa sheesha (narghilé), tirare gli stessi dadi e sorridere alle stesse persone. Una sera dopo l’altra, quelle persone diventano capaci di un saluto più caldo, il tè profuma di rito e la sheesha diventa l’aroma di mela che la bocca pretende.
La tawla è un linguaggio, un incastro di mosse guidate da fili sotterranei in cui i dadi fanno da controcanto allo scivolare delle pedine sul legno: nello spazio quasi intimo di un gioco a mosaico che si disegna nel tempo, nascono le amicizie e le conversazioni. E il tempo che si vive non è un sentito dire, ma un’esperienza nata da uno scambio.
La curiosità non è prerogativa occidentale: i volti acquistano nomi ed è con Mohammed, Omar, Ahmed e Said che la sera si parla di «noi». «Noi», cioè di Europa e mondo arabo che sorseggiano insieme una iansung (tisana digestiva) sempre troppo dolce, domandandosi a vicenda: «Come ci vedete? Cosa pensate della nostra cultura? Cosa pensate della nostra religione?».
I ragazzi arabi seduti al coffee shop vorrebbero sapere tutto di Dio, di Cristo, della Trinità: «Se Dio è Gesù, e Gesù muore il venerdì e risorge la domenica, cosa accade il sabato? Può esistere un sabato senza Dio? Gesù è profeta di Dio, Dio ama i suoi profeti. Perché permette che Gesù soffra e muoia?».
«Perché bevete alcol, se l’alcol è peccato?». I giovani arabi ascoltano con interesse una donna senza velo la quale pensa che saper gestire il proprio rapporto con l’alcol sia una questione che chiama in causa la persona con la sua capacità di controllo, e non l’idea assoluta di Bene e di Male. E i giovani arabi, che sorseggiano tè e iansung, ascoltano: forse non concordano, ma ascoltano e rispettano, probabilmente perché la giovane donna senza velo parla di alcol e in Europa lo beve – è educazione al gusto, dice lei – ma lì, seduta al tavolino sbilenco del coffee shop di Omar, sorseggia tè e iansung proprio come loro, tenendo le braccia e le gambe coperte in segno di rispetto. Per essere rispettata.
Ai discorsi occidentali sull’undici settembre o sulle bombe di Madrid, i giovani arabi rispondono parlando di Afghanistan, Iraq e Palestina e dopo accese discussioni, in cui le parti non si incontrano, perché separate da una convinzione profonda che si barrica su due poli opposti (le nostre ragioni – i vostri torti), si arriva insieme alla conclusione che, in fondo, la pena che si sente per la miseria umana è la stessa da entrambi i lati della barricata.

«Raccontaci,
donna
senza velo!»

Ed è proprio lì che ci si incontra, quando si smette di sostenere una causa e si torna ad essere semplicemente ciò che si è: uomini e uomini mortali per di più. Uomini che si uccidono tra di loro, ma che quando bevono insieme tè e si chiamano per nome non sono più mostri dalle sette teste, bensì persone, persino interessanti.
E allora, per favore, donna occidentale senza velo, dicci com’è il mondo al di là del Mediterraneo. Dicci come sono i colori, i sapori, le facce della gente, i colori della pelle, i suoni delle strade; raccontaci come sono i vestiti, i giorni di festa e le promesse che gli innamorati si scambiano quando decidono che, sì, staranno insieme per tutta la vita.
C’è fame di sapere, perché uscire dall’Egitto è praticamente impossibile: non solo perché è troppo costoso, ma, soprattutto, perché non è facile ottenere un visto di ingresso in un altro paese e, naturalmente, un permesso di soggiorno. La possibilità a cui molti ricorrono è quella di farsi fare una carta di invito da qualche turista straniera che, in Egitto per le vacanze e spesso in età matura, si lascia affascinare dalle galanterie maschili che promettono, chissà, una ritrovata gioventù.
Un musulmano può sposare una donna cristiana, perché l’eventuale prole eredita la religione dell’uomo; quindi i matrimoni con straniere sono frequenti.
Benché l’Egitto sia un paese laico, la religione è un fattore identitario importantissimo; il 90% della popolazione è di fede islamica e il restante 10% è in gran parte di fede copto ortodossa. Solo una piccolissima minoranza è cattolica, evangelista o di rito armeno. Può capitare di sostare in meditazione nella piccola chiesa francescana di Luxor e di sentire entrare dal portone spalancato la voce metallica del muezzin che invita alla preghiera del tramonto. Ed è in quell’attimo, in quell’aria così pregna di Dio – qualunque nome abbia – che sfiora la mente il pensiero di una coabitazione possibile.
Raccogliendo le impressioni dei cristiani che vivono a Luxor, spesso si sente parlare di «restringimento degli spazi vitali» e cioè che le religioni non islamiche sono tollerate, ma ad esse non viene permesso di fare proseliti. Le scuole cristiane, in cui la maggior parte degli studenti è musulmana, faticano ad avere i permessi di ristrutturazione e devono sottostare a continui controlli e a leggi di restrizione dei posti disponibili. Le comunità cristiane si chiudono, così, a riccio al proprio interno, diventando mondi quasi in autornassorbimento. Dicono che sia per pura conservazione, ma questa strategia diventa una morte lenta, un riprodursi a l proprio interno, che porta dritto alla sterilità.
È una questione di stato, di organizzazione sociale, di mancanza di informazione, di possibilità di controllo: per chi governa, per chi tira le fila dell’intero paese è molto più semplice separare che unire, creare zone attorniate da confini marcati invece che lasciare alla gente la possibilità di spazi in cui conoscersi e, quindi, costruire piccoli ponti.

Non c’è certezza di sapere fino dove sarebbe possibile arrivare attraversando questi ponti… forse solo fino al primo coffee shop, con i tavoli sbilenchi nelle strade polverose del souq (mercato) di Luxor; ma già, questo sarebbe, in fondo, un primo e vero reciproco viaggio dentro l’Altro, che non fa paura.

Paola Cereda




Tracce di consolazione

Problemi e prospettive di pastorale ed evangelizzazione missionaria fra gli indigeni del Chimborazo

Gli indios del Chimborazo, fra cui lavoriamo, come missionari della Consolata, nella diocesi di Riobamba, sono divisi in nazioni, secondo distinzioni originarie che risalgono al periodo preincaico. Si avvertono, tuttavia, forti influenze, pressioni sociali e mescolanze (sovrapposte e trasversali), frutto di più di 500 anni di impero ispanico.
Abbiamo di fronte, quindi, un ritratto culturale, politico e organizzativo ufficiale, che include, però, un volto nascosto e invisibile. Pubblicamente, la società indigena si presenta con un’ identificazione amministrativa secondo schemi comunitari (dal cabildo locale alla federazione intercomunale), che vive all’ombra di un’organizzazione classista, che si impone sempre di più come movimento sociale e politico. Tuttavia, a ben vedere, la realtà etnico-culturale che si manifesta, raggiungendo dimensioni drammatiche, è la solitudine: i bambini vanno soli, i giovani vanno soli, gli adulti vanno soli, le donne vanno sole. Le affermazioni unitarie, da parte delle varie giunte locali e organizzazioni, sono pura pubblicità senza una vera applicazione alla realtà perché, in fin dei conti, frutto di un’imposizione.

N onostante il contesto conflittuale, dovuto allo sforzo di promuovere e formare persone nel nostro territorio pastorale, si vedono già alcuni segni di consolazione. Questi segni traspaiono negli uomini e nelle donne che sentono l’esigenza di una riflessione critica, che iniziano ad interrogarsi, che si chiedono la ragione delle decisioni prese. A queste persone, ora, bisogna giustificare i passi intrapresi e la veridicità dei proclami pubblici.
Dal 1990, quando gli indios, per la prima volta, fecero sentire con forza la loro presenza e pretesero di essere considerati e consultati nelle decisioni, comincia una nuova fase. Emerge una presa di coscienza chiara, anche se ancora racchiusa dentro i segni incerti di un processo che è appena agli inizi e, perciò, ancora lento.
Un altro segno di consolazione appare nell’urgenza di ritornare alle caratteristiche culturali proprie: idioma, usanze, tradizioni. Si parla di pensiero proprio, codici di comportamento propri, anche di sistemi giudiziari e penalizzazioni sancite secondo antiche tradizioni popolari. Si afferma il bisogno di identificarsi con schemi differenti da quelli nazionali e, nella nuova costituzione, si parla di un Ecuador multietnico e plurilinguistico. Si riconoscono, perfino, come diritti costituzionali, i diritti collettivi delle differenti presenze etniche: nazioni indie e nazioni di origine africana.
Non mancano, tuttavia, segni di desolazione; uno dei quali è, senza dubbio, la mancanza di un concetto chiaro di «consolazione». Nell’idioma quichua ordinario, la lingua degli indios, il verbo «consolare» arriva solo a esprimere il «soffrire assieme». Il significato che noi diamo alla parola consolare, quello, cioè, di «fare felice qualcuno» non entra ancora nel linguaggio comune. «Maria Consolata» diventa così «dolorosa», colei che soffre i nostri mali.
Un altro segno di desolazione è la «comunitarietà», identificata e venduta come caratteristica peculiare della comunità, soltanto da chi non è in grado di leggere molto a fondo la realtà. Di fatto, manca la intercomunitarietà negli eventi quotidiani della vita interfamigliare e sociale. La mentalità chiusa e la diffidenza tra comunità vicine fanno pensare ad una mancanza di riconoscimento dell’altro a livello basico.
La nostra risposta religiosa e missionaria, a livello istituzionale, parte con buone intenzioni ma, certamente, non è in grado di andare oltre le parole e le inquietudini.
Lo sforzo per programmare incontri, a ogni livello di categoria e geografia, è intenso. Dialogare è un fattore estremamente positivo e, senza dubbio, mai prima d’ora, si era verificata tanta promozione di dialogo come oggi. Si corre però il rischio che tutto questo dialogare si risolva, alla fin fine, in meri incontri organizzati per «esigenza di copione», in cui non riesce ad emergere la chiave di lettura della realtà. Non si riescono a vedere cambi di mentalità, sforzi sinceri per verificare le posizioni programmatiche e un lavoro che conduca a valutazioni schiette della realtà. Si avvertono critiche, lamentele, malesseri: l’arca è grande e, alla fine, c’è posto per tutti e per tutto. Si continua a parlare di famiglia, ma in realtà i problemi di convivenza fratea sono feriti e minimizzati. È preferibile, quindi, insistere a parlare di comunità, perché, in fondo, la comunità è un ufficio grande, dove i professionisti possono convivere benissimo otto ore al giorno, per poi ritornare ciascuno alla propria famiglia, alla propria solitudine e ai problemi di sempre.

P enso che ci sarebbe la possibilità di esprimere il nostro carisma in sintonia con il contesto reale. Lavoriamo per costruire una chiesa che sia comunione di fede, speranza e carità. In tal modo, la consolazione lavora per inserire nella chiesa una volontà caratteristica di apertura, disposta a restituire la visibilità culturale e spirituale propria, interrotta nel passato.
Se la chiesa è davvero sacramento universale, gli indigeni dovrebbero riuscire a diventae segni idonei. Dovrebbero «rivestirsi di Cristo», senza scartare le proprie memorie; arricchirsi del pensiero cristiano, senza disattivare completamente il proprio pensiero.
Ci sono dei paradigmi, oggi, in grado di esprimere l’esigenza di rispettare ed esprimere il «proprio» culturale. Si potrebbe cominciare con un paradigma di inculturazione pastorale. Il primo passo dovrebbe essere quello di «indigenizzare» i posti pastorali, facendo in modo che gli agenti di pastorale indigeni siano una maggioranza e che, di conseguenza, si possano fare programmazioni e valutazioni, partendo dalle forze locali. In questo modo, risulterebbe più facile capire se la diversità culturale ha davvero l’opportunità di essere avviata verso un’interculturalità creativa, per un rinnovamento pastorale nella pratica della evangelizzazione.
Noi siamo ancora troppo legati a consolazioni «materiali». Si continua a lavorare in ambiti di promozione sociale, di assistenza giuridica nei casi di ingiustizia contro i poveri, di sviluppo e formazione della leadership, nel tentativo di creare una mentalità comunitaria in grado di affrontare problemi di disabilità e altri ritardi o limiti, fisici e mentali.

L a chiesa locale, dal canto suo, non va oltre la «stagione della parola». I documenti sono coraggiosi per la critica e l’indignazione che esprimono. Diventano lettura ardita e meditazione interessante; ma rimangono solo buone intenzioni. Quelli che hanno firmato i manifesti incontrano insuperabili difficoltà a realizzare quanto scritto e, arrivati al dunque, a puntare esplicitamente il dito contro i colpevoli.
Per agire, si dovrebbe essere capaci di rispondere con decisione alle seguenti domande:
1. Che tipo di consolazione si considera necessaria per gli oppressi, oggi?
2. Che stile di presenza missionaria esige un ideale così impegnativo?
3. Che aspetti e atteggiamenti dovremmo approfondire e trasformare, a livello personale e comunitario, come regione e come continente, per vivere con maggior coerenza il nostro carisma di consolazione nell’oggi della storia?
Sono tutte eccellenti domande che si scontrano, oggi come oggi, con la nostra povertà «numerica» e qualitativa e che, molto difficilmente, potrebbero essere elaborate in risposte credibili e vissute. Consoliamoci, almeno, con la nostra caratteristica misericordiosa, che emerge nonostante tutto e che aiuta a superare la tristezza di quello che passa il convento.
Diceva Fito Paez (cantante argentino): «Quién dijo que todo está perdido? Yo vengo a ofrecer mi corazón…» (chi ha detto che tutto è perduto? Io vengo a offrire il mio cuore).

Giuseppe Ramponi




Ritorno disagiatoRiflessioni di un fidei donum rientrato in diocesi

L’evangelizzazione dell’Anaunia (Val di Non)
per opera di tre missionari venuti dalla Cappadocia (v sec.) è un esempio dello scambio del «dono della fede» tra le chiese dei primi secoli.
Tale tradizione è stata ripresa, dopo il Concilio Vaticano ii, con l’invio di preti «fidei donum» alle giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina, ma rischia di restare senza eredi.

Pochi mesi fa, ho visitato per la prima volta la basilica di Sanzeno in Val di Non. Ho sostato di fronte ai resti di martiri missionari del v secolo: Sisinio, Alessandro e Martirio e ne fui impressionato.

Nel silenzio della basilica ho tentato di ripercorrere mentalmente la loro vicenda umana e cristiana. Originari della Cappadocia, si misero in cammino verso Milano per approfondire la loro conoscenza nelle cose della fede presso il grande vescovo Ambrogio, che battezzò i due fratelli Martirio e Alessandro.

Su richiesta del vescovo Vigilio di Trento, Ambrogio gli inviò questi tre cristiani come un vero «dono della fede» (fidei donum), dopo aver ordinato Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro accolito.

È un’antichissima storia di scambio di doni tra chiese, di missioni, di formazione di comunità cristiane e di martirio. Eppure essa ha tutte le caratteristiche di una storia attualissima. Così, questa visita alla basilica di Sanzeno mi è stata di stimolo, non solo a ripensare a me stesso come prete fidei donum, ma anche alle missioni affidate a dei preti la cui vocazione missionaria ha però una durata limitata di esercizio ed è vissuta come dono alla chiesa che riceve e alla chiesa che invia.

La mia vita «a incastro», durante la quale si sono alternati periodi di presenza «missionaria» in America Latina (10 anni) e in Tunisia (5 anni), con periodi prolungati nella mia diocesi di appartenenza a servizio di migranti e rom, nell’impegno di dialogo e prossimità con i musulmani, mi offre a tutt’oggi il pozzo da cui attingere per ripensare la missione.

Dalla Cappadocia alla Val di Non

Quando ci si sofferma a riflettere sulla quantità e tipo di relazioni che intercorrevano tra le società antiche, fino alla nascita degli stati nazionali, si resta sorpresi dalla mobilità che le caratterizzava. Basti pensare alla vicenda di sant’Agostino, di Antonio di Padova e di innumerevoli altre importantissime figure della chiesa e delle culture antiche. La libera circolazione delle persone non costituiva un problema per nessuno. Sisinio, Martirio e Alessandro in questo non si differenziavano dai loro contemporanei.

Nella vicenda dei missionari della Val di Non si combinano insieme, in maniera del tutto spontanea, la ricerca personale dei tre compagni, che li fa spostare da un capo all’altro dell’orbe mediterraneo; il mandato del vescovo Ambrogio; la richiesta del vescovo Vigilio e il fatto che tutto questo avvenga dentro un quadro ammirevole di libertà e santità di tutti i protagonisti.

La particolare vocazione fidei donum sia caratterizzata da questi tratti fondamentali e comuni. Nel prete fidei donum, a mio parere, è forte il sentimento della responsabilità e dell’appartenenza a una realtà universale, che va al di là delle limitazioni del territorio e altrettanto forte è il sentimento di una vocazione che è continua ricerca di una rinnovata fedeltà al vangelo: ricerca che non accetta di interrompersi mai nel corso di tutta la propria esistenza.

Questi due dati fondamentali che caratterizzano il cammino interiore della sua vita, sono poi riconosciuti e fatti oggetto di un «mandato» da parte di chi ha il compito di servire la chiesa e di assecondare la piena maturazione della vocazione cristiana di ciascuno all’interno di essa. La proposta del servizio si orienterà, poi, verso la chiesa che ne ha fatto richiesta.

Inseguire Ambrogio e rendersi disponibili alla richiesta di Vigilio: è la storia di tante vocazioni fidei donum.

Il sentimento di saturazione che a volte si prova nel servizio alla propria chiesa di origine può degenerare in frustrazioni e apatia; ma in alcuni, esso ha fatto nascere la ricerca e il desiderio di mettersi al servizio di altre esperienze di chiesa in Asia, Africa, America Latina; di conoscere altre figure di pastori capaci di condurre al cuore del vangelo e sperimentare altra libertà umana ed evangelica.

Bisogna comunque aggiungere che accanto a queste motivazioni più strettamente ecclesiali, nel nostro partire è stata determinante la convinzione che fra evangelizzazione e promozione umana esistesse un legame per natura sua inscindibile.

Vangelo e poveri costituirono la bussola che ci ha guidato in questa nostra ricerca, che qui, in casa nostra, si alimentava delle grandi prospettive pervenuteci dalla Pacem in terris e Populorum progressio; tali prospettive trovarono nella chiesa di arrivo non solo una conferma, ma un metodo, una spiritualità, un reale campo di azione e sperimentazione.

Se da qui partimmo con un entusiasmo un poco ideologico, non ci fu difficile trovare «nelle terre di Anaunia» una vita piena di relazioni, prospettive, azioni concrete, convinzioni condivise, motivazioni teologiche e spirituali, che contribuivano a darci la serena certezza di star vivendo una vita piena, in abbondanza.

Credo che le partenze maturate negli anni immediatamente successivi al Concilio erano particolarmente segnate da queste prospettive, che per certi versi le distinguevano un poco anche rispetto alle scelte per la missione maturate negli anni precedenti al Concilio.

Ho l’impressione che oggi si tende a sottovalutare l’aspetto della traiettoria personale che conduce i tre Cappadoci a mettersi sulla strada di Milano, attirati dalla figura di Ambrogio, alla ricerca di una maturazione di fede e di una vocazione cristiana mai conclusa.

C’è allora il rischio che «questo scambio di doni» si trasformi in un fatto burocratico; in un atto che prescinde dalla storia della persona e che perciò tende a non recepire le ragioni del «fecondo disagio» che ha condotto a questa scelta e gli stimoli culturali e spirituali della stagione nella quale essa si è espressa.

Ciò impedisce di capire anche la successione che, guardata dall’esterno, potrebbe sembrare incoerente, ma che in realtà si produce per dinamica intea rispetto a quei «punti di partenza» che hanno caratterizzato «gli inizi».

La missione in Anaunia

I tre Cappadoci che in origine probabilmente parlavano greco, che presumibilmente conversavano con Ambrogio in latino, sono inviati da Vigilio nella regione «barbara» di Anaunia (Val di Non) e restarvi per annunciare il vangelo.

Sarebbe sbagliato pensare che in Anaunia non esistessero lingue, culture e tradizioni religiose. Il «luogo sacro» dove successivamente si costruì lo splendido monastero di San Romedio ne è la prova.

Il primo problema che si pone al missionario è come vivere e come entrare in relazione con le persone del posto. Stile di vita e inculturazione, nella quale è compresa la conoscenza della lingua sono le due sfide primarie a cui si è chiamati a far fronte.

In una mia recente lettura, sono rimasto impressionato da un paragrafo dove si riferiva delle scelte di Giustino De Jacobis, santo missionario dell’Abissinia del secolo xix. «De Jacobis abbandonò definitivamente il proprio paese e la propria cultura… Liberatosi così da ogni legame straniero e ogni senso di superiorità, condivise ogni cosa con il suo popolo, secondo le locali condizioni di vita… A casa dormiva su un pagliericcio e, nei frequenti viaggi, su una pelle di vacca. Anche nei percorsi più lunghi camminava scalzo, passando la notte in una baracca o in una cavea. La cosa più importante, tuttavia, fu che De Jacobis non tentò mai di introdurre la liturgia latina, ma adattò il ge’etz e i riti etiopici» (Storia del cristianesimo in Africa, pag. 243-244).

Ho avuto la fortuna di conoscere un prete fidei donum bellunese, tuttora in servizio, che si è avvicinato molto a questo stile «de Jacobis». L’impatto che questa scelta suscita in tutti è molto forte e stimola in chi lo avvicina il desiderio di vivere con integralità il vangelo.

Inculturazione e durata

Il passaggio dal greco al latino e alla lingua locale deve essere costato non poco ai tre missionari martiri. Da sottolineare, inoltre, che tutta la loro avventura cristiana e missionaria fu vissuta in gruppo, cosa che senza dubbio li aiutò, prima di tutto, a crescere nella fede, poi, a svolgere il compito loro affidato e, infine, ad affrontare la suprema testimonianza del martirio.

Il processo d’inculturazione è stato descritto dai vescovi africani in questi termini: «L’inculturazione è Dio che scende ed entra nella vita, nei comportamenti morali e nella cultura degli uomini per liberarli dal peccato e introdurli nella sua vita e santità» (ottobre 2003).

Prima di partire per l’America Latina ci avevano detto che occorreva rinascere e darsi dei prolungati tempi di attesa. Ma rinascere in un contesto tunisino o ciadiano è indubbiamente un altro paio di maniche! I tempi sono diversi e le difficoltà molto più grandi.

C’è da domandarsi se e come l’esercizio ad tempus del compito missionario che caratterizza la scelta fidei donum possa essere adeguato a questa realtà. Un periodo di missione della durata di 10 anni che sembra garantito a tutti coloro che lo desiderano è sufficiente?

Con mia sorpresa ho potuto constatare che nelle circostanze attuali succede spesso che i preti fidei donum abbiano maggiore stabilità degli stessi membri delle congregazioni missionarie. Ma questo non aiuta molto a individuare prospettive per il futuro. Anzi, se si tiene conto che il missionario fidei donum è svincolato da tante necessità intee di una congregazione e che la sua scelta è fondata, oltre che su un «mandato», su una disponibilità vocazionale aperta, forse si può arrivare a intravedere una soluzione.

Tra i fidei donum ci sono persone che maturano se stesse e le loro scelte di vita in una progressiva identificazione con «un popolo di poveri» a cui sono inviati. È un processo, lento, ma inarrestabile, che dipende da avvenimenti e persone da cui si è coinvolti.

Mi domando: perché stoppare una storia personale e collettiva che acquista un sempre più profondo significato? Benché lontana, la vita di tali persone si carica di senso e diventa un segno anche per la chiesa che li ha inviati, purché questa relazione venga coltivata. In tali casi si dovrebbe tener conto dell’impulso vocazionale di queste persone, nella certezza che questo è utile all’una e all’altra chiesa.

Vivere tra due appartenenze ecclesiali

Se la scelta molto prolungata o definitiva ha valore di segno per le due chiese, il rientro nella chiesa di origine fa parte della particolare dinamica della vocazione fidei donum. A mio parere, è proprio il rientro che viene disatteso, sia nella riflessione che nelle scelte di collocazione dei preti in questione.

È innegabile che la scelta di partire, per essere ecclesiale, deve essere convalidata dal mandato; ma questo non può essere considerato come la ragione che la spiega e la motiva.

Una partenza «troppo obbediente» agli inizi e un ritorno senza problemi alla conclusione potrebbero essere il segno che ciò che si è vissuto con intensità e immensa generosità nel periodo passato ad extra abbia costituito una bella parentesi senza profondi collegamenti né con «il prima» né con «il dopo».

Il disagio del rientro non attende di essere riassorbito come una ferita che si rimargina con il tempo. Deve piuttosto diventare interrogazione su ciò e su come si vive qui. Anche se questo passaggio si gioca la particolare vocazione del fidei donum.

Al momento del rientro dovrebbe succedere che ci si interroga su tutto: sulla nostra teologia europea, che ha pretese di universalità, sulla nostra abitudine di contrabbandare i problemi dell’uomo occidentale come fossero «i problemi dell’uomo» tout court; sulle relazioni umane nella chiesa; sull’uso della libertà e l’esercizio della comune responsabilità all’interno di essa; sull’uso dei mezzi, denaro e strutture; sulla semplificazione della pastorale; sui grandi problemi che investono l’umanità e che sono vincolati al nostro «locale»: giustizia, povertà, informazione, uso delle risorse; sulle relazioni tra le religioni e tra le culture.

Si ritorna diversi; si deve ritornare diversi; si dovrebbe restare diversi, non per attaccamento nostalgico a ciò che abbiamo vissuto ad extra, ma per continuare a offrire quel «rotolo amaro» (Ez 2,9) che, qualora venisse ingoiato, diventerebbe dolce come il miele (Ez 3,3). Ho l’impressione che scelte un po’ troppo rassegnate potrebbero contribuire a sterilizzare il potenziale innovativo legato al «disagio del ritorno».

I mezzi dei fidei donum

L’ampia disponibilità di mezzi di cui normalmente gode un fidei donum costituisce un suo punto di forza, ma forse soprattutto il suo tallone d’Achille, se paragonati con quelli del clero locale.

Personalmente, soprattutto durante la mia prima esperienza missionaria ad extra, ne ho fatto molto uso all’unica condizione che i beni da essi prodotti non restassero di proprietà della chiesa, ma delle associazioni e organizzazioni popolari per le quali venivano usati.

Favorire le organizzazioni popolari rendendole autonome sotto il profilo economico mi sembrava una buona scelta. Altri miei amici, che a distanza di anni devo ammettere essere stati molto più bravi di me, hanno fatto delle scelte più radicali: si sono limitati a chiedere qualche cosa di essenziale e di piccola entità.

Nella mia personale esperienza non mi è mai accaduto di dovermi confrontare con la povertà di mezzi di cui, generalmente, patiscono i colleghi della chiesa locale. Come succede di frequente in Africa.

Uno stile di sobrietà oppure di povertà radicale bisogna saperselo costruire ogni giorno nella libertà e nella gioia. Un sobrio contento è sicuramente meglio che un povero scontento. Ho trovato che i poveri contenti sono generalmente dei creativi, che usufruiscono in maniera diversa da tutte le realtà della vita.

Mi diceva un prete povero: «Quando guardo la catena di montagne, nella limpidezza di un mattino di sole, mi dico: guarda che spettacolo gratuito di cui posso godere, sempre a mia disposizione».

La doppia appartenenza, inoltre, dovrebbe offrire al fidei donum validi criteri per aiutare la chiesa di origine a giudicare sull’opportunità o meno di certe opere che, viste esclusivamente con occhio occidentale, rischiano di essere considerate necessarie o comunque molto utili.

Non si tratta di fare i professionisti della profezia e, meno ancora, di sentirsi investiti di tale ruolo; ma semplicemente di mettere davanti a ogni altro criterio il diritto dei poveri ai beni della chiesa e di farlo con quella insistenza che di solito caratterizza le richieste del povero.

Abbiamo assolto al nostro compito?

Sembra che nei piani alti del potere ecclesiastico ci sia stata, nel passato, una certa preoccupazione nei confronti dei fidei donum che si reinseriscono in diocesi. Forse, oggi, i timori sono stati almeno in parte digeriti. Personalmente credo che, almeno per quanto ci riguarda, noi non abbiamo assolto totalmente al nostro compito nel farci portavoce nella profezia dei poveri del mondo.
In tutti questi anni, non abbiamo sentito il bisogno di trovarci in gruppo, per riflettere insieme su ciò che via via accadeva nella nostra chiesa. Non c’è stato neppure il tentativo, come è successo in qualche altra diocesi, di ritrovarci periodicamente insieme. La nostra inerzia di gruppo ha probabilmente rassicurato molto chi nutriva dei timori nei nostri confronti. Credo che abbia giocato non poco anche la differenza tra il servizio alla chiesa latinoamericana e quella africana.
Abbiamo saputo trasferire solo parzialmente quel clima di libertà e creatività all’interno del vivere ecclesiale, che hanno assicurato quel sentimento di pienezza e autorealizzazione sperimentato quando eravamo in missione. Ora in sede di bilancio, mi pare di dover concludere che ci si trova di fronte ad un’eredità un po’ dilapidata e quasi inesistente per le giovani generazioni di preti.Abbiamo qualche medaglia sul petto, magari di dubbia lega, ma siamo rimasti senza eredi, anche per colpa nostra.

Giuliano Vallotto




… E ALCUNE PRECISAZIONI

La lettura dell’articolo di padre Bellesi «Se Allah lo vuole…» mi ha provocato un senso di smarrimento, perché esso non si è limitato alla denuncia della schiavitù ancora praticata da alcuni paesi musulmani, ma ha fatto una lettura complessiva dei rapporti schiavitù-islam.
Non tocca a me difendere i musulmani. Lo sanno fare benissimo da soli! Tocca a tutti, e quindi anche a me, tenere aperte le porte del dialogo, condotto con sincerità e umiltà, per evitare toni da «scontro di civiltà».
Per questo mi sono messo pacatamente a riflettere.
1) P. Bellesi fatte alcune citazioni del Corano, conclude: «Il Corano sancisce la schiavitù permanente come fatto normale e ne detta le regole per la stessa pratica».
Per quanto riguarda i testi fondatori si corre il rischio di dimenticare che anche nel N.T. viene dettato un codice di comportamento per il buon schiavo e il buon padrone (Col 3,21-4,1).
I migliori commentatori dicono che non si tratta di una «codificazione teologica dell’ordine costituito», ma di una presa d’atto di uno dei capisaldi su cui si fondava l’organizzazione della società antica e cioè sulla distinzione tra schiavi e liberi (vedi Ef. 6,5-8 e Tit 2,9-10). La stessa splendida lettera a Filemone non manifesta nessuna induzione di sovvertire l’ordine fondato su tale distinzione.
Quello che è certo è che l’esperienza della frateità ecclesiale fatta dai discepoli di Gesù (schiavi e liberi; uomini e donne…) li condurrà progressivamente a rifiutare l’iniquità che soggiace a tale divisione.
Mi pare che un analogo discorso potrebbe essere fatto anche per il testo fondatore dell’islam in cui non mancano i semi teologici che sono in grado di condurre al superamento di questa orribile piaga storica.
2) L’articolo di p. Bellesi, non sufficientemente contestualizzato nell’insieme delle altre grandi tradizioni religiose, sembra indicare nell’islam il principale responsabile e attore del fenomeno della schiavitù.
Pino Arlacchi in un suo libro: «Fino alla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, la Cina deteneva uno dei più vasti mercati di esseri umani nel Mondo» (P. Arlacchi, Schiavi, Rizzoli p. 40).
Il richiamo alle pratiche in uso nella Roma antica, nelle società tribali pre-islamiche e pre-cristiane in Africa, nella Cina confuciana e buddista, non serve certo a scaricare le responsabilità storiche dei paesi musulmani, ma le contestualizza e, soprattutto, ci aiuta a situare l’origine della schiavitù non propriamente nel terreno religioso, ma in altre circostanze storiche che l’hanno prodotto. La schiavitù non nasce dalla religione, anche se la religione per lungo tempo non è stata accorta a scoprie l’incompatibilità con i suoi principi. Io non possiedo nessuna competenza storica, ma mi pare che queste osservazioni non siano prive di senso.
3) Se poi, si vuole fare un discorso sull’islam, bisognerà, anche qui, fare delle opportune distinzioni. Mauritania, Niger, Sudan, Arabia Saudita e qualche altro paese a maggioranza musulmana, soprattutto arabo, sono paesi certamente indiziati di esercitare più o meno di nascosto, l’orrenda pratica della schiavitù.
Ma i paesi a maggioranza musulmana nel mondo sono 56. Ora se una buona maggioranza di essi trova incompatibile questa pratica, qualche ragione ci sarà!
Il cammino storico della loro civiltà, nato anche dalla loro tradizione religiosa, li ha portati a escludere la schiavitù. Se vogliamo fare un servizio all’opinione pubblica e all’islam parliamo anche di questo!
4) Una riflessione merita la citazione dello sceicco Ibn Taimiya. Riconosco che questo interprete-esegeta è, purtroppo, ritornato in auge e che molti movimenti islamisti più radicali si rifanno alle sue interpretazioni del Corano e della summa.
Ma, grazie a Dio, non c’è solo lui! Denunciae l’improponibilità non farebbe altro che bene all’islam e a noi, ma fae il portavoce più autentico e l’esegeta da citare è fare il gioco degli islamisti.
5) Non sono uno storico, ma ho qualche dubbio sui «soli» 3 secoli di schiavitù per quanto riguarda il cristianesimo e su «tutti» i 14 secoli per quanto riguarda l’islam.
Comunque trovo terribile pensare che 3 secoli di papi, vescovi, santi, pensatori non siano riusciti a costituire un argine a quelle spietate pratiche così incompatibili con l’essenza stessa del cristianesimo e sono chiamato a fare memoria e a chiedere perdono di questo lungo e terribile oscuramento.
Ma, se è così qualche ragione ce l’ho per tentare di perdonare e capire anche




TANTI ELOGI…

Cari amici di M. C.,
faccio i complimenti per l’ultimo numero di ottobre-novembre 2005 sulle schiavitù: è ottimo sotto ogni aspetto, grazie ancora per il vostro impegno e la vostra competenza.
Partecipo a una associazione di volontariato (MAMRE) che si occupa di donne in difficoltà e ragazze madri e ci capita spesso di accogliere nelle nostre case le vittime di quelle schiavitù che avete così ben descritto sulla rivista.
Ho pensato che sarebbe bello dare una copia di tale numero alle volontarie che prestano servizio nelle nostre case di accoglienza. Sarebbe possibile avee circa 20 copie da distribuire entro natale?

Borgomanero (NO)

Stefano Zanetta




TANTI ELOGI…

Carissimi amici,
abbiamo ricevuto il numero monografico di novembre con tante preziose informazioni sulle varie situazioni di schiavitù che pur essendo già note, raccolte tutte così in successione, creano un impatto particolare.
Volendo utilizzare per la scuola alcuni contenuti, (un’allieva farà approfondimenti per la tesina dell’esame di stato) ci sarebbe gradito ricevere almeno altri due numeri monografici…
Ringraziamo e chiediamo benedizioni dall’Alto per il vostro prezioso lavoro.

Pinerolo (TO

Suor Carmela Casetta




TANTI ELOGI…

Spettabile Redazione,
ringrazio per le copie del numero speciale della rivista che mi avete mandato. Ho provveduto in data odiea al relativo versamento…
Nella scuola dove lavoro è stato notevole l’interesse verso questi numeri monografici. Spero di poterli diffondere anche in altre scuole.
Se avete altri materiali adatti a sensibilizzare educatori e studenti sui problemi del terzo mondo vi prego di informarmi.
S. Giorgio a C. (NA)

Giuseppina Iacono




TANTI ELOGI…

Ho ricevuto la rivista: complimenti! È molto ben fatta e le foto ben scelte.
Io sto portando in giro la mia mostra fotografica e il documentario sui ragazzi di strada di Kenya, Congo, India, Perù e Brasile. Magari riuscirò a portarla anche a Torino, chissà…
Un saluto!

Roma

Massimiliano Troiani