«Essere cristiani è una cosa buona, importante, perché è Dio che ti dà la forza per risolvere i problemi» dice Mary. «Ogni mattina alle 6 vado a messa; se parto senza essere andata prima a messa è come se mi mancasse qualcosa» dice Sherry.
FEDE VIVA ED ENTUSIASTA
Mary e Sherry: due persone molto diverse. La prima è una povera donna che vende pomodori al mercato; la seconda, una ricca banchiera. Sono accomunate dalla fede intensa.
Questo è abbastanza consueto nello Zambia, «dove la fede è una cosa viva, capace di fare sacrifici, una fede che si entusiasma – spiega Olinto Ballarini, prete fidei donum della diocesi di Milano, nel paese da 14 anni e da cinque procuratore dell’arcidiocesi di Lusaka -. Qui, quando si celebra l’eucaristia, si celebra la vita».
«Questa gente vive la fede come qualcosa che riempie loro la vita – incalza don Antonio Novazzi, responsabile della parrocchia di Kafue, a pochi chilometri da Lusaka -. Gli zambiani pregano assieme con grande profondità ed entusiasmo. Quando assistono a una celebrazione eucaristica lo fanno con forte coinvolgimento interiore, ma anche in maniera attiva: ballano e cantano a gran voce».
La gente crede sinceramente, ma a volte le omelie non bastano. D’altra parte, una chiesa giovane come quella zambiana ha bisogno di diffondere il più possibile il proprio messaggio. Ha bisogno di visibilità, anche per manifestare la propria vitalità alle altre religioni che stanno prendendo piede. Servono immagini, segni, simboli. E che cosa c’è di più significativo di una chiesa?
PUNTO DI RIFERIMENTO
Per questo, nell’arcidiocesi di Lusaka, in Pope Square, proprio nel centro della città, sta sorgendo una cattedrale dedicata al Bambin Gesù. Ce ne parla don Olinto. «La cattedrale celebrerà la gloria di Dio, sarà il luogo del dialogo tra Dio e l’uomo, il centro della comunione di tutti i cristiani con il vescovo. Sarà un punto di riferimento per la comunità, che giornisce con gli sposi che si apprestano a celebrare il matrimonio e piange con i familiari che stanno vivendo un lutto. Per me la chiesa è un luogo di consolazione per gente che ha bisogno di essere rincuorata, motivata. Sarà la casa di tutti; il povero e il bisognoso troveranno in questo luogo supporto e consolazione. Qui ci si potrà donare agli altri, dare la vita per i fratelli. L’edificio sarà bello, fatto per aprire il cuore».
Con 22 metri di altezza, una superficie coperta di 2.400 metri quadrati, un’arcata di 15 metri e 2.000 posti a sedere, sarà anche maestosa. «Certo – riprende don Olinto -. Si dovrà vedere da lontano, come un faro che indica la direzione. Per questo, sulla sommità della facciata, è stata issata una croce in ferro alta sette metri e mezzo. La chiesa sarà anche molto luminosa, con la luce che entrerà dall’alto e si espanderà in tutto l’edificio. La forma ricorda due mani in posizione orante».
I lavori procedono abbastanza speditamente. Al momento della nostra visita (novembre 2004) sono al 60% dell’intera opera: fondamenta e sovrastruttura sono complete; travature in acciaio e tetto quasi sistemati; sono iniziati i lavori in muratura e sta per essere installato l’impianto elettrico; poi toccherà alle rifiniture. Buona parte del materiale in metallo, comprese le lamiere per la copertura, provengono dal Sudafrica. I portali e lavori in legno, invece, vengono dalla falegnameria della Saint Ambrose training center, una scuola di formazione professionale di Kafue gestita da volontari italiani.
L’altare fu realizzato in occasione della venuta di Giovanni Paolo ii nel 1989. Al santo padre l’arcivescovo di Lusaka J. Medardo Mazombwe chiese di benedire la prima pietra della cattedrale, la cui costruzione è iniziata poi ufficialmente nel 2000, su disegno dell’architetto Ron Kirby.
Simbolo nel simbolo è il crocifisso in legno di rose, che sarà situato dietro l’altare. Vi sta lavorando un giovane scultore locale, Charles Chambata. Il corpo del Cristo, nero, è deposto su una croce alta quasi due metri. Sul capo del Salvatore la corona di spine è in metallo.
La conclusione dei lavori della cattedrale è attesa per l’estate 2005. Il tempio sacro costerà un milione e mezzo di dollari. Contributi sono arrivati da organizzazioni inteazionali inglesi, italiane, tedesche, olandesi e dalla Conferenza episcopale italiana. Anche le chiese sorelle, le organizzazioni cattoliche, le parrocchie della diocesi, la gente zambiana hanno collaborato molto.
SPERANZA NEI GIOVANI
Nell’area circostante la cattedrale, saranno realizzati la curia, un teatro, un centro giovanile per 400 ragazzi, alcuni alloggi per studenti e gli uffici pastorali. Ci saranno anche una casa per i preti e una per i volontari. In questo complesso si svilupperanno attività sociali e culturali.
La diocesi di Lusaka, 62 mila kmq e 2,6 milioni di abitanti, conta oltre 850 mila cattolici, 4 vescovi (titolare e ausiliare e due emeriti), 800 tra preti e religiosi, 2 mila laici e 3,5 mila volontari locali, distribuiti in 55 parrocchie.
A queste, presto se ne aggiungerà un’altra. «Si chiamerà Saint Moritz, in ricordo di Maurizio, un giovane geometra di Como – racconta don Olinto -. In occasione di un suo viaggio in Zambia, un padre missionario gli aveva chiesto di disegnargli una chiesa e lui aveva abbozzato un primo progetto. Qualche tempo dopo la tragedia: si è inaspettatamente tolto la vita. Ho incontrato la mamma, qualche tempo fa, mi ha espresso il desiderio di quella chiesa. La stiamo realizzando».
La collaborazione tra la mamma di Maurizio e don Olinto rispecchia, sul piano privato, quella assolutamente vitale per lo sviluppo del paese subsahariano tra istituzioni locali e inteazionali. «Tutte le iniziative di solidarietà sono buone – continua il sacerdote -, non solo la cancellazione del debito, ma anche gli scambi commerciali».
Don Olinto, come vede il futuro? «La vera speranza di questo paese sono i giovani. Anche per quanto riguarda la salute della popolazione. A partire dai giovani che sopravviveranno all’Aids, verrà fuori una nuova generazione, più forte. Questa è la vitalità dello Zambia. Un fervore di cui la nuova cattedrale vuole essere segno evidente».
ARTEFICI DEL PROPRIO FUTURO
Dal centro di Lusaka ci spostiamo a Lilanda compound, un polmone della capitale che vive e respira indipendentemente dalla città. Quanti bambini corrono, sorridono, quanta vita per le strade sterrate, le piccole abitazioni, i baracchini dove si vende di tutto! Nel bel mezzo di questo mondo una scuola, un’aula colorata e accogliente, allegra, banchi e sedie nuovi, quadei, penne, stoffe, pennelli e pittura.
All’interno di Lilanda abbiamo conosciuto suor Rita Serao: è tra questi bambini che lei, suora comboniana, ha iniziato il suo progetto di scuola professionale per ragazze orfane tra i 15 e i 18 anni. «Creare la possibilità di un lavoro è ciò che può dargli la spinta per continuare a lottare e ad andare avanti anche in mezzo a molte difficoltà» comincia suor Rita a spiegarci lo scopo del suo lavoro nel compound.
«Sono le ragazze che educheranno i figli: introdurle nella società significa educare un’intera famiglia – continua la suora -. Dobbiamo dare loro un’educazione di base e insegnare un mestiere con il quale, uscite dalla scuola, potranno vivere; cercheremo di rendere le ragazze capaci di gestire una piccola attività, in modo da diventare indipendenti economicamente».
Il progetto è partito nel mese di novembre 2004; le ragazze sono circa 50 e l’obiettivo è formarle a livello umano, spirituale e accademico, cercando di far emergere i talenti artistici e le proprie predisposizioni, inoltre si propongono di creare borse di studio per ragazze orfane che non hanno ancora l’età per frequentare la scuola secondaria.
«La situazione di queste ragazze è spesso drammatica, troppo spesso sono vittime di abusi sessuali – spiega suor Rita -. Noi cerchiamo di dare loro anche un’assistenza psicologica e conduciamo una formazione di prevenzione contro l’Hiv, inoltre provvediamo a fornire loro un pasto giornaliero. Alla fine del corso, che durerà due anni, le ragazze riceveranno un’assistenza di micro credito per poter iniziare concretamente un’attività commerciale».
Tale progetto nasce proprio all’interno del compound, a stretto contatto con la vita quotidiana delle ragazze, del loro mondo; non vengono sradicate dalla comunità, ma hanno la possibilità di crescere e di essere educate proprio all’interno, là dove porteranno i frutti del loro studio e successivamente del loro lavoro.
A qualche chilometro dalla capitale, a Kafue, ce n’è un altro molto simile, gestito anch’esso da italiani: il Saint Ambrose training center (scuola professionale). La prima cosa che colpisce arrivando al centro è il laboratorio di falegnameria, i lavori dei ragazzi sono eccezionali, mobili di altissima qualità, creati con legname pregiato di cui lo Zambia è ricco: teck, ebano, rosewood.
Pietro Radaelli, volontario del Celim (Centro laici italiani per le Missioni, Milano), ci racconta il progetto di scuola creato a Kafue, in cui ragazzi e ragazze sono avviati al lavoro attraverso corsi di cucito, informatica, falegnameria, elettricità e meccanica.
«Quello che cerchiamo di fare – racconta Pietro – è insegnare loro un mestiere per avere uno sbocco nel mondo del lavoro; tutti gli insegnanti sono zambiani, molti dei quali usciti proprio da questa scuola. Il nostro obiettivo è quello di consegnare loro la gestione dell’istituto, entro il 2007, perché diventino essi stessi gli artefici del proprio futuro».
SCUOLA COMUNITARIA
A Kafue e Mazabuka i preti fidei donum di Milano gestiscono due Community School. Con questo nome si intendono scuole gratuite per bambini e ragazzi che non hanno la possibilità di pagarsi l’istruzione e che spesso provengono da situazioni difficili, nella metà dei casi sono orfani di entrambi i genitori. Benché non siano sovvenzionate dallo stato, le Community School sono riconosciute a livello nazionale: alla fine della terza media gli alunni affrontano l’esame statale, ricevono il diploma e possono accedere alle classi superiori.
Il problema dell’istruzione sta diventando sempre più grave in Zambia. Durante la presidenza di Kaunda, cioè fino alla metà degli anni ‘90 l’istruzione era gratuita e garantita a tutti; ora, invece, le scuole statali sono diventate a pagamento; inoltre gli studenti devono pagarsi la divisa e il materiale scolastico. Molti in questi ultimi anni hanno abbandonato gli studi e sempre meno famiglie riescono a mandare i loro bambini a scuola.
Nella scuola di Mazabuka abbiamo incontrato Brian, un ragazzo che, accompagnandosi con la chitarra, ci fa ascoltare la canzone che ha scritto per la sua patria nel 40° anniversario dell’indipendenza. Nelle sue parole traspare il senso di tanti suoi sacrifici e sofferenze.
Brian ha 18 anni; è orfano e, come racconta padre Maurizio Canclini, è determinato e testardo nel pretendere per sé un futuro migliore. Lo sta cercando e ottenendo proprio a Mazabuka dove riceve un’istruzione e affina le sue grandi doti di artista. Infatti, oltre a comporre canzoni, Brian ha dipinto i murales che abbelliscono le aule della sua scuola.
La scuola comunitaria di Mazabuka, piccola città a circa 200 km a sud di Lusaka, è un progetto per ragazzi orfani, con abitazioni ed edifici scolastici, gestito dal Coe (Centro orientamento educativo), un’associazione milanese di laici volontari cristiani impegnati nella formazione integrale degli adolescenti.
«È proprio in questo periodo – spiega padre Maurizio – che i ragazzi devono essere educati, non solo nelle materie scolastiche, ma soprattutto sui problemi della vita; per questo abbiamo deciso di fare campagne per la prevenzione del virus Hiv e sensibilizzare i giovani su questa piaga che ha lasciato senza entrambi i genitori la metà di loro».
La scuola va dall’asilo alle nostre medie; poi i ragazzi hanno la possibilità di proseguire con corsi di pittura, scultura o informatica, a cui possono accedere anche gli estei con il pagamento di 50 mila kwacha a livello (circa 10 euro). «Questo ci permette di raccogliere un po’ di fondi per la scuola – spiega padre Maurizio – e pagare i 22 insegnanti, tutti zambiani. La vendita delle opere prodotte nei corsi di arte ci consentono di pagare gli artisti».
La scuola comunitaria di Kafue, dove vive da tanti anni padre Antonio Novazzi, è un’altra storia. Nata negli anni ‘70 come città industriale modello, ma soffocata dai problemi causati dal crollo economico e dalle nuove leggi di mercato, Kafue rimane solo un sogno del passato; tante persone non hanno più speranza in un futuro migliore.
Molti giovani gravitano intorno alla parrocchia di padre Antonio e tanti hanno la possibilità di studiare grazie proprio alla Community School. «Le liste di attesa per entrare in questa scuola sono lunghissime: quasi 400 ragazzi studiano da noi – racconta padre Antonio -. Ma ci vogliono fondi per mandare avanti un progetto come questo. Scuole come queste nascono soprattutto dall’esigenza di dare un’istruzione ai ragazzi orfani, quindi l’insegnamento è gratuito; chiediamo solo una collaborazione nella realizzazione e nel mantenimento degli edifici scolastici sia da parte dei genitori, quando ci sono, che dei ragazzi. Inoltre, è nata l’idea di fornire un servizio a pagamento di mulino, per macinare il grano e il mais: oltre ad aiutare la scuola rende la comunità partecipe e responsabile delle attività».
La Community School di Kafue è nata nel 1999, quando padre Antonio chiese ai ragazzi che avevano terminato la scuola superiore di aiutarlo nell’insegnamento, coniugando così il loro lavoro con la solidarietà nei riguardi della comunità e dei propri figli. «Abbiamo cominciato a riunire gli alunni sotto una pianta – racconta padre Antonio -, poi sotto le verande e, dopo due anni, abbiamo deciso di raccogliere fondi per costruire una vera scuola: così è partito il progetto».
Benché la vita sia difficile per tutti in Zambia, per bambini e adolescenti essa non è affatto spensierata. Anzi, proprio alla loro età vivono i drammi più grandi, come la morte dei genitori, la malattia, la fame. È qui che entrano in gioco persone come padre Maurizio e padre Antonio, persone che spendono la loro vita per aiutare questi giovani a emergere dalla situazione in cui si trovano, a crearsi un futuro che, grazie anche a loro, potrà essere migliore.
BOX 1
NON PIÙ ORFANI
Ha 48 anni e un sorriso che lascia il segno: è Theresa Chilesh. Quando ha saputo che la comunità di Kafue cercava persone disposte ad adottare bambini rimasti orfani a causa dell’Aids, si è subito offerta e, a ottobre 2004, è diventata la prima «abitante» del Children’s home village a Kafue: un villaggio destinato a ospitare coppie o vedove che scelgono di accogliere bambini rimasti senza famiglia e senza tetto. Altre coppie si preparano a occupare le altre case del villaggio in costruzione. Quando il progetto del villaggio sarà completato, ospiterà 50 bambini, distribuiti in 10 famiglie.
Nella sua casa, semplice, ma dignitosa, Theresa è la nuova mamma di Clifford, 11 anni, figlio di un suo fratello, e Maxwel, 9 anni, vissuto per un mese da solo nella foresta, rifiutato dai suoi nonni. A novembre è arrivato Gift, il più piccolo. È malato e la nuova mamma ne è molto preoccupata.
Theresa ci racconta pure la sua storia personale: sposata nel 1972, rimasta vedova nel 1992, si trasferì con i due figli a casa dei genitori. Quando il «pane» cominciò a scarseggiare, tentò la fortuna a Kafue. Qui è riuscita a sopravvivere raccogliendo il pesce che i pescatori spesso abbandonano lungo il fiume, per noncuranza o perché ubriachi. Non sempre la fortuna era benigna: a volte doveva pagare il pesce, soddisfacendo le voglie dei pescatori. Una brutta storia che Theresa ha lasciato alle spalle.
Ora la comunità parrocchiale si è stretta attorno alla sua nuova famiglia. Per sostenere i tre bambini, le viene garantito un piccolo assegno mensile.
A Mazabuka, 55 km a sud di Kafue, la comunità parrocchiale locale, affidata al fidei donum milanese don Maurizio Canclini, sta sperimentando da due anni un altro progetto a favore degli orfani, soprattutto adolescenti. Sono 5 casette, chiamate «Arche»; formano un piccolo villaggio su una proprietà della parrocchia; ogni Arca ospita una decina di ragazzi orfani. Nelle Arche i ragazzi imparano a convivere, gestire le piccole faccende domestiche, rispettare ciascuno i tempi degli altri. A volersi bene. Su di loro veglia lo «zio»: un ragazzo di qualche anno più grande degli altri, cui viene affidata dalla parrocchia la responsabilità di ogni casa.
La vita nelle Arche cerca a fatica di assumere colori e contorni della quotidianità. Durante il giorno i ragazzi vanno a scuola o al lavoro; alla sera si ritrovano tutti insieme. A volte la serata scorre serena, altre volte nascono attriti e piccoli litigi. Nell’Arca n. 3 è spesso la chitarra dell’energico Brian, che ha un grande talento di pittore e coltiva ambizioni di successo, ad accompagnare le serate degli altri ragazzi.
I giovani delle Arche sono ormai 52. Fra di loro, 13 ragazze, che condividono una delle cinque case. Fra gli «zii» che vegliano sui ragazzi ce n’è uno del tutto speciale: si chiama Celeste. Quando è arrivato dall’Italia, un anno fa, doveva fermarsi solo un mese. Invece «zio» Celeste è ancora lì, a fare da angelo custode ai «suoi» ragazzi. Mangia, dorme, vive con loro, in una delle cinque Arche. Condivide con loro le ristrettezze e la fatica del vivere insieme. Organizza la coltivazione dell’orto, la cura del pollaio e la gestione del barbershop, tre attività che la parrocchia ha affidato alle Arche con l’obiettivo di responsabilizzare i ragazzi.
Mentre parla della vita nelle Arche, arriva un ragazzo che gli racconta concitato di una piccola rissa in cui è stato coinvolto. Celeste lo ascolta, poi lo rimprovera. La scommessa di recuperare i ragazzi a una vita normale è un sentirnero in salita, ma lungo la strada già i primi fiori stanno sbocciando.
Roberta Voltan