DOSSIER CINEMA AFRICANO L’Africa va in scena
«Il dialogo tra l’Africa e il resto del mondo è un dovere. Dobbiamo riconciliarci. Siamo in grado di parlarci e avere ognuno il proprio posto». Queste parole del principe Kouma N’Dumbe, professore camerunese alle università di Berlino e Yaoundé, riassumono la forza del messaggio del 19° Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco).
Il «principe» è uno dei protagonisti del film Il malinteso coloniale di Jean Marie Teno. Un messaggio che sembra dire: ci siamo anche noi come popoli, come culture, sappiamo esprimerci, comunicare. Abbiamo il dovere di dialogare con gli altri continenti. Il cinema e l’audiovisivo sono eccellenti mezzi per farlo e noi li sappiamo usare. Guardateci.
Ogni due anni, dal 1973, Ouagadougou, capitale di uno dei paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso, accoglie per una settimana l’evento cinematografico più importante del continente. Per questa edizione sono state circa 170 le opere proiettate, di cui 20 lungometraggi e 20 cortometraggi nelle competizioni ufficiali, 6 nella categoria dedicata alla diaspora africana e 22 film nella sezione Tv e video (18 fiction/documentari e 4 serie televisive). Fuori competizione corto e lungometraggi di Africa, Caraibi, Pacifico, ma anche una sezione dedicata ai film del mondo, con lo Sguardo sul cinema tedesco, che ha riproposto alcune pellicole di Margarethe Von Trotta.
Il 2005 è, secondo molti, il 50° anniversario del cinema africano, che avrebbe origine con Afrique sur seine (1955) del senegalese Paulin Soumanou Vieyra. Proprio per questo, gli organizzatori del Fespaco hanno presentato una «Retrospettiva sui 50 anni del cinema dell’Africa nera». I fortunati festivalieri hanno avuto a disposizione una selezione di 22 titoli storici, come lo stesso film di Vieyra, alcune opere di Sembène Ousmane (l’ultra ottuagenario senegalese, presente al festival, sempre impassibile con la sua pipa), Oumarou Ganda, Ababacar Samb Makharam, Gaston Kaboré, solo per citae alcuni.
Nell’insieme, un cartello non solo di quantità, ma di particolare qualità, assicurano i critici. «Abbiamo trovato un livello molto alto di qualità e una ricchezza eccezionale in questi film» dichiara Souheil Benbarka (vincitore del Fespaco 1973), presidente della giuria lungometraggi.
Ma il Fespaco è anche uno straordinario momento di incontro per tutti coloro che lavorano o si interessano al settore. Registi, attori, produttori, critici e semplici fans hanno la possibilità di incontrarsi, scambiare, prendere contatti per progetti futuri. È in qualche modo il termometro del cinema africano: cosa c’è sul mercato, cosa si è fatto in questi due anni, dove stiamo andando, quale crescita? Ma anche occasione di rilancio, costruzione e progettazione.
Atmosfera da Cinema
Il salone dello storico Hotel Independence di Ouagadougou è gremito di gente: cineasti, produttori, attori e cinefili, venuti dall’Africa e dall’Europa. A guardarli bene hanno tutti qualcosa di particolare. Neri, bianchi, mulatti, vestiti in modo stravagante o appariscente, con elaborate acconciature. Un gigante con la barba bianca indossa il costume tradizionale dei dogon, popolo del Mali di antiche origini.
Si parlano, si ritrovano, si filmano. Qualcuno riesce a incontrare il suo attore preferito, a fotografarlo, a ottenere un’intervista. Sullo sfondo di decine di cartelloni di film, africani e non, grandi o piccoli appiccicati sulle pareti in ogni spazio libero.
Fuori, il caldo del Sahel è ormai arrivato e supera i 40 gradi all’ombra nelle ore di punta (il salone ha l’aria condizionata). Ma i festivalieri si incontrano un po’ ovunque in città: si spostano, spesso a piedi, da un cinema all’altro, da una sala quasi climatizzata alla successiva. Accaldati, sudati, con i volti arrossati (gli europei), ma impavidi del sole battente, si difendono ingurgitando acqua da bottiglie di plastica.
La capitale del Burkina Faso si colora e si anima nella settimana della festa del cinema, e anche quest’anno si sono stimate dalle 4 alle 5 mila presenze.
Anche al Centro culturale francese si incontrano attori e registi e si può visitare il Mica (Mercato internazionale del cinema e televisione africani), un’esposizione di operatori nel settore video e cinema, giunta alla sua 12a edizione.
Ma sono le sale cinematografiche il cuore pulsante della manifestazione. Due grandi sale con aria condizionata (che fatica, vista la quantità di pubblico), due cinema all’aperto e due allestimenti temporanei, anch’essi estei, per godersi i 35 gradi serali. La partecipazione è alta, sia di burkinabé che di stranieri e i cinema sono spesso stracolmi.
Alla sua 19a edizione, il Fespaco è stato, per la prima volta, segnato dal lutto: due ragazze sono morte nella ressa allo stadio per assistere alla cerimonia di apertura. Oltre una decina sono stati i feriti: schiacciati, soffocati. Il caldo ha fatto la sua parte. Un fatto drammatico che dà la dimensione della partecipazione popolare, ma anche della difficoltà o talvolta della leggerezza delle autorità, sorprese a gestire un evento dall’eccezionale afflusso.
I protagonisti
Ma quali sono i film che i festivalieri si raccontano e si consigliano l’un l’altro di andare a vedere in un tour de force cinematografico? L’edizione ha mostrato una forte partecipazione, in quantità e qualità, del cinema anglofono, in particolare sudafricano.
«Questo premio è un enorme onore per il cinema sudafricano, e per il suo popolo, per la sua bellezza, forza, resistenza nella lotta e vittoria di uno dei più brutali regimi del xx secolo» afferma commosso Zola Maseko, regista di Drum e vincitore assoluto del Fespaco 2005, pochi istanti dopo aver ritirato lo Stallone d’oro di Yennenga in uno stadio stracolmo.
Ex militante del braccio armato dell’African National Congress (Anc), Maseko è riuscito a fare un film forte ed emotivo, sulla storia vera del giornale Drum e del giornalista Henry Nxumalo. Ambientato nel Sudafrica degli anni ’50, quando il regime di apartheid si inaspriva, il film racconta una società stratificata e la presa di coscienza di alcune persone contro l’ingiustizia.
I film sudafricani, presenti con quattro titoli nella sezione lungometraggi, hanno anche fatto il pieno di premi. «È un giusto riconoscimento per un cinema che è molto avanzato – dice Idrissa Ouedraogo, il più noto regista e produttore burkinabé -. Noi, in Africa dell’Ovest, dobbiamo metterci al passo e migliorare il nostro livello se vogliamo competere con loro».
Drum conquista anche il premio della migliore scenografia, mentre Zulu love letter di Ramadan Souleman ottiene il premio speciale Unione europea, perché «ben rappresenta i valori dell’Ue» e la miglior interpretazione femminile, con la brava Pamela Monvete Marimbe.
Il film di Souleman presenta un Sudafrica dopo apartheid, alle prese con il suo passato che ritorna, la voglia di riconciliazione, ma anche di verità sui crimini commessi e la difficile convivenza tra vittime e carnefici di un tempo. Ma è anche la storia del rapporto, difficile, tra madre e figlia. «Questo film è un ringraziamento alle donne, che in Sudafrica hanno sempre continuato a tenere in piedi le famiglie. A loro dobbiamo un contributo notevole nella lotta di liberazione» dichiara il regista.
Lo scanzonato Max and Mona di Teddy Mattera (vedi riquadro) si aggiudica il premio Oumarou Ganda, con un film allegro, tecnicamente ben fatto, che mostra in modo grottesco le differenze tra la campagna e la città, e come la tradizione trovi il posto nella modeità. Mattera, con un’aria di giovinetto ribelle, urla al pubblico: «Respect Africa! Il miglior premio è essere qui».
Beat the Drum, sul tema dell’Aids, di David Hickson, da qualcuno dato per favorito, si è dovuto accontentare di un paio di premi speciali (erano in tutto 22 assegnati da istituzioni di ogni genere) tra cui quello dell’Associazione cattolica mondiale per la comunicazione (Signis).
Il Maghreb in forze
Ma sui grandi schermi di questa settimana fantastica di Ouagadougou si sono rincorse senza sosta, come di consueto, immagini di realizzatori dell’Africa dell’Ovest (Burkina Faso in testa) e del Centro, senza dimenticare il grande contributo del cinema maghrebino (film tunisini, algerini e marocchini sono in cartellone).
Di questi ultimi, ben rappresentati nelle competizioni ufficiali, con 6 lungometraggi e 8 cortometraggi, è Hassan Benjelloum, marocchino, con La camera nera, che si piazza meglio, aggiudicandosi il secondo posto assoluto: Stallone d’argento di Yennenga. Anche in questo caso, il tema è quello del dovere della memoria e della riconciliazione.
Il contesto sono le repressioni del regime marocchino degli anni ’70, sulle quali, oggi, c’è molto dibattito politico nello stesso Marocco. «Abbiamo svolto un’inchiesta, intervistando ex detenuti, ex torturatori, famiglie di detenuti e responsabili del regime dell’epoca. Poi abbiamo fatto un adattamento libero per il film – spiega il regista -. La reazione del pubblico in Marocco è stata positiva. La nuova generazione è rimasta sorpresa. Ignoravano tutto ciò. Non fa ancora parte della storia ufficiale del paese».
E continua: «Queste cose sono successe anche in Algeria, Europa, Africa. E succedono oggi a detenuti in prigioni segrete del mondo». È un film scottante quello di Benjelloum, ma attuale, «universale», sottolinea il regista.
La guerra, e dopo?
Il conflitto e postconflitto sono altri due temi principali del cinema africano di oggi. Un ottimo esempio è il film dell’angolano Zezé Gamboa, con Un eroe, unica opera lusofona nella competizione ufficiale, che si aggiudica il premio della migliore immagine (vedi riquadro).
Nella Luanda del dopo guerra, Vitorio è un militare smobilitato; dopo 15 anni sotto le armi, senza una gamba persa su una mina, si ritrova a dormire in strada e nell’infruttuosa ricerca della famiglia dispersa e di un lavoro. Si muove in una Luanda di bambini di strada, di gente disperata alla ricerca dei parenti.
«Il mio è un cinema sociale – dice Gamboa -, non necessariamente di denuncia, ma che vuole presentare situazioni reali». Egli vuole suggerire ai politici del suo paese che bisogna fare di più: «La guerra è finita da due anni e il potere deve arrivare a dare alla gente l’accesso all’acqua e altri servizi di base».
E deve fare di tutto per reintegrare i reduci portatori di handicap. «Vitorio è doppiamente eroe: è stato eroe di guerra; ora è eroica la lotta quotidiana per sopravvivere e reinserirsi nella società. La sua storia rappresenta quella di tantissimi angolani di oggi». Gamboa non solo fa riflettere sul malessere che ha portato la guerra nel suo paese, e le guerre in generale, ma cerca di fornire delle piste di soluzioni.
La regista burkinabé, Fanta Regina Nacro, in La notte della verità mette in scena la propria idea sulla risoluzione dei conflitti (vedi riquadro). In un paese qualsiasi, due etnie dai nomi di fantasia si combattono. Da una parte il presidente, dall’altra il colonnello capo delle forze ribelli. La guerra è stata dura, le atrocità molte. La gente è stanca. I due capi organizzano, allora, un incontro per suggellare la pace. Incontro che avviene in un’unica notte, nella quale il passato recente riaffiora, con storie personali e vendette: la pace sembra compromessa a più riprese. Anche qui è forte il tema della riconciliazione nazionale.
Una storia che è un suggerimento perfetto alla vicina Costa d’Avorio, ma calza a pennello anche per il Burundi, l’Uganda e ogni conflitto che devasta il continente. La giuria è sensibile al tema della pace e La notte della verità vince il premio per la miglior sceneggiatura (oltre a un paio di premi speciali).
Africa-Europa
Il tema del rapporto tra Africa ed Europa, o l’incontro-scontro tra culture, è una costante nella cinematografia africana: anche quest’anno è ben rappresentato al Fespaco.
La nigeriana Branwen Okpako lo presenta in Valle degli innocenti, mettendo in scena africani immigrati in Europa o afro-europei.
Zéka Laplaine, della Repubblica democratica del Congo, con il suo Il giardino di papà preferisce raccontare gli stereotipi delle paure che gli europei hanno dell’Africa e degli africani, attraverso un film opprimente, ma talvolta comico, interamente girato di notte: una coppia di sposi francesi va in viaggio di nozze in Congo, dove lui è cresciuto, ma con il quale ha ormai perso il contatto. Lui si comporta goffamente, mettendo in luce un atteggiamento quasi razzista. Lei, a contatto per la prima volta con la realtà africana, alla fine di innumerevoli disavventure arriverà a capirla meglio.
Jean Marie Teno, documentarista affermato, ma anche regista di fiction, vuole approfondire questo tema in chiave storica con il suo Il malinteso coloniale (vedi intervista). Documentario di 87 minuti, girato tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun, è quasi un’inchiesta volta a dimostrare la storica influenza negativa delle missioni cristiane (in questo caso i protestanti tedeschi in Namibia) nello sviluppo dell’Africa di oggi. Una serie interminabile di interviste a professori e ricercatori, ma anche a uomini di chiesa, come il vescovo anglicano di Swakopmund, il vecchissimo archivista della diocesi, memoria vivente di quasi un secolo di missione.
Interviste in tedesco, inglese, francese, il film è impegnativo e vuole condurre lo spettatore all’assunzione della tesi del regista. Mancano di fatto argomenti contraddittori e resta debole la voce della chiesa africana. «È un lavoro di memoria sul continente – spiega il regista – e la gente vuole questo. Penso che il cinema sia un buon mezzo per raggiungere il grande pubblico, anche su tematiche difficili».
Il più amato
Ma qual è il film che più è piaciuto al popolo del Fespaco? Il Premio del pubblico se l’è aggiudicato Tasuma (il fuoco) del burkinabé Daniel Kollo Sanou, che si aggiudica anche il terzo premio assoluto, lo Stallone di bronzo di Yennenga, oltre a due premi speciali (Onu e Cedeao).
Tasuma è la storia di Sogo Sanon, 65enne, ex combattente nell’esercito francese in Indocina e Algeria. Tornato in patria, lotta per ottenere la pensione militare dall’amministrazione francese; ma si scontra con una burocrazia pesante e una lunghissima attesa. Il tema è molto sentito tra gli anziani combattenti dell’Africa Occidentale, che dopo aver servito la Francia in epoca coloniale sui fronti del mondo (spesso contro patrioti che cercavano l’indipendenza, ma anche per liberare paesi occupati durante la prima e seconda guerra mondiale), si vedono discriminati rispetto ai loro colleghi francesi.
Tasuma, che aveva già ricevuto l’apprezzamento del pubblico burkinabé, ha così conosciuto una consacrazione internazionale. Farcito di humor tipico dei registi del Burkina, presenta uno spaccato di vita di questo paese.
«Gli ex combattenti sono dei pionieri delle indipendenze. Sono i primi che sono usciti dal sistema coloniale e hanno visto altre realtà. Sul campo non erano discriminati. C’è stata una certa presa di coscienza da parte loro. Hanno contribuito allo sviluppo economico del paese. Sono molto considerati nei loro villaggi» spiega il regista, lui stesso figlio di un ex combattente. Il film sembra chiedere giustizia per questi vecchietti, che a volte si incontrano nei villaggi più sperduti, fieri delle loro medaglie sempre attaccate alla casacca.
«Non è stato mio obiettivo fare del cinema di rivendicazione o di contestazione. Ho voluto, innanzitutto, rendere omaggio a questi eroi dell’Africa che, anche se sono stati al servizio di un’amministrazione coloniale, hanno pure servito cause nobili, come la liberazione della Francia dal nazismo».
Kollo Sanou ci ha messo 15 anni a fare questo film; un mese per girarlo. Si è scontrato con il maggior problema del cinema africano: i finanziamenti: «Non è facile trovare i fondi per fare un film. Il Burkina è un po’ un’eccezione: abbiamo il Fespaco, le autorità sono disponibili ad appoggiare i nostri progetti. Abbiamo attrezzature professionali, ma i soldi mancano sempre. Negli anni ’70 fino al ‘90, esisteva un fondo di promozione all’attività cinematografica, finanziato con una tassa presa su ogni biglietto venduto. Ora non esiste più.
Cerchiamo i soldi al Nord: Unione europea, Goveo francese, Agenzia della francofonia, e altre istituzioni. Ma è necessario avere un produttore basato al Nord. Dieci anni fa il produttore gestiva il finanziamento accordato. Talvolta questi fondi subiscono malversazioni: ho conosciuto due casi in cui i soldi sono stati utilizzati in altro modo. Il fatto è che non c’è troppa fiducia nei registi africani. Purtroppo a ragione, talvolta».
Adesso le cose stanno un po’ cambiando: «Ora c’è più fiducia. I finanziatori inviano i soldi direttamente nei nostri paesi. Si sono resi conto che è bene incoraggiare i cineasti in Africa, non solo quelli immigrati».
Ma chi li vede?
Un’altra grossa difficoltà che incontrano i film africani è la distribuzione. «Sì, questo è un vero problema – spiega Zezé Gamboa -. Arriviamo alla fine del film e non abbiamo i soldi per la promozione. Essa è cara; ma un film esiste grazie anche a essa. Altrimenti restiamo in un ghetto: veniamo nei festival, ma ci si ferma qui. A mio avviso, il film deve avere una vita molto più larga: deve circolare in Africa e poi nel resto del mondo. Ma questo è oggi molto difficile».
Anche Teddy Mattera è di questa opinione, sebbene la situazione del Sudafrica sia differente: «Abbiamo lo stesso problema nei paesi anglofoni, non ci sono i distributori presenti in Europa. Nel nostro paese solo la South African Broadcasting Corporation (Sabc) fa distribuzione. Dobbiamo trovare agenti di vendita per entrare nel mercato britannico o nord americano. E questo è possibile».
I l tema del Fespaco di quest’anno è stato «Formazione e questione della professionalizzazione». Molti cineasti africani impiegano nei loro film parenti e amici. Questo non fa bene al cinema dice Gamboa: «Il cinema è una questione tecnica; bisogna saperlo fare, non si può improvvisare. Servono persone competenti. Si può essere formati a scuola o sul campo. In Angola, dato che non abbiamo abbastanza cinema, è difficile imparare sul campo. Servono le scuole. La formazione è fondamentale. In Africa i professionisti ci sono, attori e tecnici, lavorano bene, occorre impiegarli. È molto difficile fare del cinema in Africa: se i nostri professionisti non hanno possibilità, di cosa potrebbero vivere? In Burkina è stata fondata una scuola, ma in Africa lusofona non l’abbiamo ancora. È con iniziative del genere che possiamo dare voglia ai giovani di fare cinema».
Allude a Imagine, centro polivalente fondato a Ouagadougou dal cineasta burkinabé Gaston Kaboré, che offre la possibilità di formazione e perfezionamento nei mestieri legati al cinema, televisione e multimediale.
Lo storico cinema Oubri nel centro di Ouagadougou non si può dire che abbia un’acustica ultra modea. Talvolta si fa fatica a seguire i dialoghi. Qualche zanzara può infastidire durante la proiezione sotto il cielo saheliano.
Una scala ripidissima ci porta nella cabina di proiezione. Qui, due proiettori un po’ antiquati, accuditi da due simpatici tecnici, fanno girare grosse bobine di pellicola. «È Drum, è stato premiato poche ore fa» dice uno di loro.
È l’ultima proiezione del Fespaco 2005, quella dei film che hanno vinto. In questa cabina, con queste persone e queste macchine, ci sentiamo un po’ dentro la storia del cinema.
BOX 1
L’uomo che faceva piangere
Cresciuto in uno sperduto villaggio sudafricano Max Bua è mandato dalla famiglia a Johannesburg, per studiare e diventare un «dottore bianco». Arriva nella megalopoli con una capra, Mona, e i soldi faticosamente raccolti per iscriversi all’università. Ingenuo e impreparato alle regole di quella società, è fagocitato dalla città multiforme.
Max, però, ha una dote magica particolare: sa far piangere la gente a comando. Lo zio, un poco di buono, sempre alle prese con i gangsters, fiuta l’affare e lo fa diventare un «piangitore professionista»; diventa suo manager e ne vende i servizi ai più svariati funerali della città. Dopo una serie di successi, Max fallisce il funerale più importante: quello del fratello del gangster. Una fuga rocambolesca porterà al lieto fine: Max non solo si salva, ma riesce a recuperare i soldi per l’università, che si erano volatilizzati dopo il suo primo incontro con lo zio.
Con una buona dose di autornironia, il regista presenta uno spaccato di Sudafrica di oggi e delle sue contraddizioni: «Ho scelto di mostrare tre ambienti molto diversi: campagna, città e township, per far capire allo spettatore la psicologia di Max, che attraversa questa società, ma alla fine si integra nella nuova realtà». Ci racconta Mattera.
Il film mescola modeità e tradizione, spiritualità e materialismo. «Penso siano i migliori strumenti per creare contraddizione. C’è pure il fatto che vivo in una città con molto materialismo, ma che resta profondamente spirituale e caratterizzata da molteplici sfaccettature. Per esempio, i gangsters a Johannesburg sono vegetariani».
Ma perché questa idea dei funerali? «Penso che ci sia ancora un po’ di speranza per l’umanità. Con la morte di qualcuno abbiamo la possibilità di riscoprire la nostra propria mortalità».
Teddy Mattera sembra lui stesso uscito da un suo film. Giovanile e trasgressivo, ma non più giovane, è quasi timido di fronte al microfono. Dopo gli studi di cinema in Usa ed Europa, ha esordito con il film Hoop Dreams, che ha ricevuto una nomination agli Oscar del ’93. Lavora molto su documentari e cortometraggi. Sul cinema sudafricano, a confronto con le altre produzioni del continente, dice: «Spero che il nostro ruolo non sia quello di diventare imperialisti culturali, perché il pericolo c’è, ma piuttosto catalizzatori importanti, per rigenerare questo settore. Abbiamo la possibilità di offrire formazione e strutture ben organizzate. Abbiamo più mezzi degli altri paesi dell’Africa e siamo arrivati al livello commerciale con i nostri film».
Max and Mona, di Teddy Mattera – Sudafrica 2004 – 98 minuti.
BOX 2
Cos’è FESPACO
Il Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) nasce nel 1969 nella capitale del Burkina Faso, per iniziativa di un gruppo di cinefili. È poi istituzionalizzato il 7 gennaio 1972 come struttura pubblica nell’ambito del ministero burkinabé della Cultura.
A partire dalla 6a edizione diventa biennale: un appuntamento fisso dell’ultima settimana di febbraio degli anni dispari. È il più importante evento del suo genere sul continente africano.
Gli obiettivi principali del Festival sono favorire la diffusione delle opere del cinema africano, permettere contatti e scambi tra i professionisti del settore e contribuire al progresso e alla salvaguardia del cinema in quanto mezzo di espressione, educazione e coscientizzazione.
Oltre al festival biennale le altre attività principali sono la cinemateca africana (archivio di film, base dati e cinema mobile) e varie pubblicazioni sul tema. Il Fespaco organizza anche il Mica (Mercato internazionale del Cinema e della televisione africani), una borsa di programmi audiovisivi africani e sull’Africa, in concomitanza con il festival.
Le altre attività sono proiezioni a scopo non lucrativo nelle zone rurali, in partenariato con ng (organizzazioni non governative), associazioni, scuole. Il Fespaco promuove il cinema africano nelle manifestazioni e sedi inteazionali.
BOX 3
DOPPIO EROISMO
Il regista angolano Zezé Gamboa presenta uno spaccato di quello che è il suo paese, in particolare la capitale Luanda, a due anni dalla fine di una guerra lunghissima e fratricida. Un eroe è un film «sociale», spiega, «perché si interessa di problemi sociali» e non «di denuncia»; vuole inviare un messaggio forte, soprattutto ai politici dell’Angola: «Il potere in carica deve riuscire a dare l’accesso all’acqua e altri servizi di base a tutta la popolazione. Inoltre la reinserzione dei combattenti è un dovere dei politici».
Vitorio ha passato 15 anni in guerra e ora si ritrova senza una gamba (persa su una mina), senza famiglia né lavoro. Vivacchia nella Luanda dei disperati, bambini di strada, mutilati, uomini e donne in cerca dei parenti dispersi. Lui è un uomo integro e cerca di reinserirsi nella società. Una notte gli rubano addirittura la protesi. Nel tentativo di ritrovarla, dopo una serie di incontri sfortunati, approda in una trasmissione della radio nazionale, a colloquio con il ministro, a rappresentare le altre migliaia di ex combattenti. È con questo mezzo che il regista manda il suo messaggio.
Secondo Gamboa, Vitorio è doppiamente eroe: è stato decorato in guerra, e poi «rappresenta i molti angolani che si battono tutti i giorni per sopravvivere. In Angola c’è gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Riuscire a vivere così è già talmente difficile, che trovo eroico qualcuno che torna dalla guerra, cerca lavoro, dorme nella strada e nonostante questo conserva una certa integrità: questo è eroismo».
Il tema del dopo guerra riguarda la ricostruzione, non solo delle case, ma delle vite umane. «Quello di Vitorio – continua il regista – non è solo un caso angolano, ma ha una dimensione universale, può succedere ovunque e a chiunque dopo la guerra: la gente è distrutta psicologicamente. È ciò che capita in Cecenia e che capiterà in Iraq, dopo quello che sta succedendo».
Gamboa è particolarmente attento alla problematica dei mutilati di guerra: «Bisogna fare scuole di mestieri, impiegarli nei lavori. Anche se sono portatori di handicap possono fare molto per la società. Ci sono molti lavori adatti. Ma il problema è che la maggioranza di questa gente è partita molto giovane per la guerra e quando ritornano sono già uomini, ma non sanno fare nulla. Bisogna quindi insegnare loro, dare loro degli strumenti affinché si possano sentire integrati nella società». E il primo responsabile di tutto ciò è il governo, non gli aiuti inteazionali.
E a Vitorio capita proprio questo. Dopo la sua trasmissione radiofonica in cui chiede giustizia e la sua gamba di plastica, il ministro si muove e gli trova un lavoro: diventa addirittura autista. «Questo è un film, una fiction – dice Gamboa -. In realtà, se avessi fatto un documentario, il protagonista continuerebbe a dormire in strada e non avrebbe la possibilità di lavorare. Con il cinema possiamo anche sognare».
O Heroi, di Zezé Gamboa – Angola 2004 – 97 minuti.
BOX 3
La pace viene da dentro
Un film forte, sulla risoluzione dei conflitti, quello della regista burkinabé Fanta Regina Nacro. In un paese africano senza nome, due etnie si sono combattute in una guerra atroce, finché la stanchezza sembra prevalere. I due capi, il presidente della repubblica e il colonnello ribelle, decidono di finirla con la guerra fratricida e d’incontrarsi, con le loro truppe, per discutere della pace. Ma non è facile: nell’arco della notte la pace viene messa più volte in pericolo da odi e vendette personali, che hanno origine nello stesso conflitto.
«La notte della verità è l’istante in cui ci si guarda allo specchio e si vede la profondità di se stessi. Nella quotidianità questo si perde». Eccolo, secondo la regista, il senso del film e il motivo per l’impostazione. «Tutto si svolge in un luogo chiuso, la caserma, con una storia lenta, volutamente, perché è così che si preparano le cose più atroci».
E di scene truculente se ne vedono, come l’assassinio, alla fine del film, del colonnello, che diventa uno dei tanti montoni rosolati su un gigantesco spiedo. Uccisione tramata e voluta dalla moglie del presidente, che ha perso il figlio a causa della guerra. Ma la saggezza del capo di stato e della consorte del colonnello prevale. Una raffica di mitra liberatoria abbatte la prima donna e afferma la pace.
Primo lungometraggio fiction di Fanta Regina Nacro, il film è un’opera impegnata e presenta un personale modello di risoluzione dei conflitti: «Non ho voluto situare il film in un paese reale, affinché fosse una storia universale, specchio di altre situazioni. Vorrei che ogni individuo faccia uno sforzo personale e si preoccupi della pace. Se siamo arrivati a certe atrocità, in Africa come in Europa, è ora di riflettere su come non caderci più».
Nel film, i militari, compreso il colonnello, sono veri soldati burkinabé, non attori professionisti. Questo mostra una volontà politica oltre che un esempio quasi unico nel suo genere. «Il colonnello Teo è nella realtà il comandante Moussa Cissé, che ha servito come volontario delle Nazioni Unite in Burundi. In quel paese ha visto cose orribili e quando gli raccontai la storia mi disse: “Ho bisogno di fare questo film”. Era un po’ preoccupato per la sua performance e anche per la scena finale della morte. Ma il desiderio di recitare e portare qualcosa di suo gli ha fatto vincere la paura».
L e donne hanno un ruolo determinante nella storia. La moglie del presidente rischia seriamente di compromettere la pace, mentre quella del colonnello lo appoggia nella sua scelta. «La donna ha grande responsabilità – spiega la regista -. Deve essere cosciente del potere che ha nelle sue mani e della possibilità di orientare e far cambiare le cose. La moglie del colonnello suggerisce cosa bisogna fare affinché le atrocità cessino. È un ruolo forte, che simbolizza quello delle donne del mondo. Danno la vita, ma sono le prime vittime del conflitto, nel quale perdono i figli. Ma la donna è forte: sa quello che vuole ottenere e come ottenerlo».
In quanto a geopolitica, Fanta Regina ha deciso di non considerare le complesse influenze inteazionali che spesso caratterizzano i conflitti: «Ogni volta che c’è una guerra è sempre la geopolitica che prende il sopravvento. Io vorrei portare il popolo ad appropriarsi del conflitto, per prendere esso stesso la decisione di mettervi fine, senza dover sempre aspettare che la politica prenda la decisione».
Per questo tutti noi siamo come le pecore di un gregge, manipolati dall’alto; e il film finisce quando il matto del villaggio Tamoto, «che rappresenta la nostra coscienza», libera le pecore, che scappano in tutte le direzioni. È un altro invito dell’autrice alla società civile a essere più presente e incisiva in materia di risoluzione di conflitti e promozione della pace.
A proposito del Fespaco, Fanta Regina Nacro afferma che, per il pubblico è un’opportunità di vedere immagini che vengono d’altrove, per i registi è l’occasione di incontrare altri professionisti del settore, ma, soprattutto, «offre la possibilità di far passare idee forti, che abbiamo da comunicare. Oggi, malgrado le difficoltà di produzione e di distribuzione, noi africani riusciamo a far nostro questo mestiere. Sono più ottimista che in passato, perché vedo che anche con pochi mezzi, abbiamo colto la sfida di fare cinema e ci riusciamo».
Sulla risoluzione dei conflitti? «Non ho delle risposte. Abbiamo voluto dare qualche pista di speranza, ma non abbiamo la verità dentro di noi. Io e il mio sceneggiatore siamo entrambi cristiani: da qui l’idea di un sacrificio forte (quello del colonnello, ndr) per trovare la strada dell’ottimismo e di una nuova speranza per gli esseri umani».
BOX 4
Drammatico metissage
Un giovane cornoperante francese, Patrik, torna in un villaggio sperduto del Burkina Faso. È accompagnato da sua figlia Martine, bimba meticcia di 7 anni. La scusa del ritorno è la riparazione di un pozzo artesiano, installato da Patrik proprio 7 anni prima. La gente del villaggio lo accoglie freddamente. Ma c’è qualcosa in più: mentre è al lavoro, una giovane sordomuta, Kaya, rapisce la bimba e fugge nella savana.
Il film diventa la storia di questa fuga disperata e dell’inseguimento da parte di Patrik, aiutato da un gruppo di uomini del villaggio. Il rapporto tra Kaya, che rappresenta la tradizione e i costumi africani, e Martine, con la sua educazione e abitudini europee, che lo spettatore scoprirà essere la figlia della donna. Patrik aveva avuto una relazione con Kaya, decidendo poi unilateralmente di strappare la figlia appena nata alla madre per portarla in Francia. Dal trauma la donna aveva perso la parola. Un bellissimo dialogo madre-figlia (anche se Kaya è muta), che si crea poco a poco, così come Martine si spoglia del suo essere europea per africanizzarsi.
Nel frattempo Patrik è costretto a vivere nella boscaglia con il gruppo di africani, con l’obiettivo comune di trovare le fuggitive.
L’epilogo, in una notte di luna piena, è drammatico. Martine, affetta da un male incurabile dalla nascita, muore tra le braccia di Kaya incredula.
Per riparare alla sua azione del passato, Patrik è convinto dal vecchio saggio Tonkolo a compiere un rito che assicurerà a Kaya nuovamente un posto al villaggio. In caso contrario sarà cacciata. Patrik riesce, e il film termina con la sua partenza, in un’atmosfera rilassata, come se un vecchio problema avesse trovato soluzione.
«Non ho utilizzato la morte per risolvere la storia: ho giocato sul fatto che la piccola era malata fin dall’inizio, ma sua madre non lo sapeva. Volevo mostrare come le conseguenze degli atti degli adulti si possono ripercuotere su degli innocenti – specifica la regista Apolline Traoré -. Il padre e la madre hanno fatto i loro sbagli, e poi chi paga è la bambina. Anche negli altri miei film gli attori principali muoiono, io ho una certa sensibilità verso la morte stessa, legata alla spiritualità. Dopo una morte resta qualcosa di presente, non lo si può vedere né toccare, ma influenza il nostro mondo materiale nel quale ci battiamo ogni giorno. Abbiamo tutti paura della morte e cosa viene dopo. È un sentimento che può essere una cosa molto importante che noi esseri umani di oggi abbiamo tendenza a dimenticare».
Nel film è continuo il tema del rapporto tra europei e africani. Abbiamo chiesto alla regista se pensa a un incontro o a uno scontro tra culture. «Le due cose: incontro di due culture che finalmente si capiscono, madre e figlia, hanno conflitti, ma poi si ritrovano. Rispetto a padre e madre, sono due culture che cercano di capirsi, ma non ci sono riuscite, si sono separate e c’è stato un dramma. I due casi sono possibili».
Anche nel gruppo degli inseguitori, gli africani parlano tra loro criticando i bianchi. «È una caricatura di qualcosa di reale, rispetto a come pensano certi africani degli europei. Volevo mostrare questi pensieri. Anche se alcuni pensano così e certi europei, come lo stesso Patrik, hanno preconcetti sugli africani, ci può essere una unione d’intenti: di fronte a qualsiasi problema si possano trovare, i personaggi riescono a lavorare insieme».
Allora la bambina può essere vista come anello di congiungimento tra le due culture? «Martine si africanizza con la madre, perché non ha scelta, è obbligata, è un adattamento. La cosa importante è che la piccola non aveva mai avuto l’influenza di una donna: è cresciuta con il padre. Se una donna le dà attenzione, lei la accoglie, perché ha bisogno di presenza femminile».
Perché Sotto il chiaro di luna? «Dalle mie parti esiste un mito: è nelle notti di luna piena che escono e si manifestano i geni, gli spiriti. Così solo in una notte di luna piena sono rivelati i segreti di questa storia».
Sous la clarté de la lune, di Apolline Traoré – Burkina Faso 2004, 90 minuti.
Marco Bello