DOSSIER CINEMA AFRICANO L’Africa va in scena

«Il dialogo tra l’Africa e il resto del mondo è un dovere. Dobbiamo riconciliarci. Siamo in grado di parlarci e avere ognuno il proprio posto». Queste parole del principe Kouma N’Dumbe, professore camerunese alle università di Berlino e Yaoundé, riassumono la forza del messaggio del 19° Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco).
Il «principe» è uno dei protagonisti del film Il malinteso coloniale di Jean Marie Teno. Un messaggio che sembra dire: ci siamo anche noi come popoli, come culture, sappiamo esprimerci, comunicare. Abbiamo il dovere di dialogare con gli altri continenti. Il cinema e l’audiovisivo sono eccellenti mezzi per farlo e noi li sappiamo usare. Guardateci.
Ogni due anni, dal 1973, Ouagadougou, capitale di uno dei paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso, accoglie per una settimana l’evento cinematografico più importante del continente. Per questa edizione sono state circa 170 le opere proiettate, di cui 20 lungometraggi e 20 cortometraggi nelle competizioni ufficiali, 6 nella categoria dedicata alla diaspora africana e 22 film nella sezione Tv e video (18 fiction/documentari e 4 serie televisive). Fuori competizione corto e lungometraggi di Africa, Caraibi, Pacifico, ma anche una sezione dedicata ai film del mondo, con lo Sguardo sul cinema tedesco, che ha riproposto alcune pellicole di Margarethe Von Trotta.
Il 2005 è, secondo molti, il 50° anniversario del cinema africano, che avrebbe origine con Afrique sur seine (1955) del senegalese Paulin Soumanou Vieyra. Proprio per questo, gli organizzatori del Fespaco hanno presentato una «Retrospettiva sui 50 anni del cinema dell’Africa nera». I fortunati festivalieri hanno avuto a disposizione una selezione di 22 titoli storici, come lo stesso film di Vieyra, alcune opere di Sembène Ousmane (l’ultra ottuagenario senegalese, presente al festival, sempre impassibile con la sua pipa), Oumarou Ganda, Ababacar Samb Makharam, Gaston Kaboré, solo per citae alcuni.
Nell’insieme, un cartello non solo di quantità, ma di particolare qualità, assicurano i critici. «Abbiamo trovato un livello molto alto di qualità e una ricchezza eccezionale in questi film» dichiara Souheil Benbarka (vincitore del Fespaco 1973), presidente della giuria lungometraggi.
Ma il Fespaco è anche uno straordinario momento di incontro per tutti coloro che lavorano o si interessano al settore. Registi, attori, produttori, critici e semplici fans hanno la possibilità di incontrarsi, scambiare, prendere contatti per progetti futuri. È in qualche modo il termometro del cinema africano: cosa c’è sul mercato, cosa si è fatto in questi due anni, dove stiamo andando, quale crescita? Ma anche occasione di rilancio, costruzione e progettazione.

Atmosfera da Cinema

Il salone dello storico Hotel Independence di Ouagadougou è gremito di gente: cineasti, produttori, attori e cinefili, venuti dall’Africa e dall’Europa. A guardarli bene hanno tutti qualcosa di particolare. Neri, bianchi, mulatti, vestiti in modo stravagante o appariscente, con elaborate acconciature. Un gigante con la barba bianca indossa il costume tradizionale dei dogon, popolo del Mali di antiche origini.
Si parlano, si ritrovano, si filmano. Qualcuno riesce a incontrare il suo attore preferito, a fotografarlo, a ottenere un’intervista. Sullo sfondo di decine di cartelloni di film, africani e non, grandi o piccoli appiccicati sulle pareti in ogni spazio libero.
Fuori, il caldo del Sahel è ormai arrivato e supera i 40 gradi all’ombra nelle ore di punta (il salone ha l’aria condizionata). Ma i festivalieri si incontrano un po’ ovunque in città: si spostano, spesso a piedi, da un cinema all’altro, da una sala quasi climatizzata alla successiva. Accaldati, sudati, con i volti arrossati (gli europei), ma impavidi del sole battente, si difendono ingurgitando acqua da bottiglie di plastica.
La capitale del Burkina Faso si colora e si anima nella settimana della festa del cinema, e anche quest’anno si sono stimate dalle 4 alle 5 mila presenze.
Anche al Centro culturale francese si incontrano attori e registi e si può visitare il Mica (Mercato internazionale del cinema e televisione africani), un’esposizione di operatori nel settore video e cinema, giunta alla sua 12a edizione.
Ma sono le sale cinematografiche il cuore pulsante della manifestazione. Due grandi sale con aria condizionata (che fatica, vista la quantità di pubblico), due cinema all’aperto e due allestimenti temporanei, anch’essi estei, per godersi i 35 gradi serali. La partecipazione è alta, sia di burkinabé che di stranieri e i cinema sono spesso stracolmi.
Alla sua 19a edizione, il Fespaco è stato, per la prima volta, segnato dal lutto: due ragazze sono morte nella ressa allo stadio per assistere alla cerimonia di apertura. Oltre una decina sono stati i feriti: schiacciati, soffocati. Il caldo ha fatto la sua parte. Un fatto drammatico che dà la dimensione della partecipazione popolare, ma anche della difficoltà o talvolta della leggerezza delle autorità, sorprese a gestire un evento dall’eccezionale afflusso.

I protagonisti

Ma quali sono i film che i festivalieri si raccontano e si consigliano l’un l’altro di andare a vedere in un tour de force cinematografico? L’edizione ha mostrato una forte partecipazione, in quantità e qualità, del cinema anglofono, in particolare sudafricano.
«Questo premio è un enorme onore per il cinema sudafricano, e per il suo popolo, per la sua bellezza, forza, resistenza nella lotta e vittoria di uno dei più brutali regimi del xx secolo» afferma commosso Zola Maseko, regista di Drum e vincitore assoluto del Fespaco 2005, pochi istanti dopo aver ritirato lo Stallone d’oro di Yennenga in uno stadio stracolmo.
Ex militante del braccio armato dell’African National Congress (Anc), Maseko è riuscito a fare un film forte ed emotivo, sulla storia vera del giornale Drum e del giornalista Henry Nxumalo. Ambientato nel Sudafrica degli anni ’50, quando il regime di apartheid si inaspriva, il film racconta una società stratificata e la presa di coscienza di alcune persone contro l’ingiustizia.
I film sudafricani, presenti con quattro titoli nella sezione lungometraggi, hanno anche fatto il pieno di premi. «È un giusto riconoscimento per un cinema che è molto avanzato – dice Idrissa Ouedraogo, il più noto regista e produttore burkinabé -. Noi, in Africa dell’Ovest, dobbiamo metterci al passo e migliorare il nostro livello se vogliamo competere con loro».
Drum conquista anche il premio della migliore scenografia, mentre Zulu love letter di Ramadan Souleman ottiene il premio speciale Unione europea, perché «ben rappresenta i valori dell’Ue» e la miglior interpretazione femminile, con la brava Pamela Monvete Marimbe.
Il film di Souleman presenta un Sudafrica dopo apartheid, alle prese con il suo passato che ritorna, la voglia di riconciliazione, ma anche di verità sui crimini commessi e la difficile convivenza tra vittime e carnefici di un tempo. Ma è anche la storia del rapporto, difficile, tra madre e figlia. «Questo film è un ringraziamento alle donne, che in Sudafrica hanno sempre continuato a tenere in piedi le famiglie. A loro dobbiamo un contributo notevole nella lotta di liberazione» dichiara il regista.
Lo scanzonato Max and Mona di Teddy Mattera (vedi riquadro) si aggiudica il premio Oumarou Ganda, con un film allegro, tecnicamente ben fatto, che mostra in modo grottesco le differenze tra la campagna e la città, e come la tradizione trovi il posto nella modeità. Mattera, con un’aria di giovinetto ribelle, urla al pubblico: «Respect Africa! Il miglior premio è essere qui».
Beat the Drum, sul tema dell’Aids, di David Hickson, da qualcuno dato per favorito, si è dovuto accontentare di un paio di premi speciali (erano in tutto 22 assegnati da istituzioni di ogni genere) tra cui quello dell’Associazione cattolica mondiale per la comunicazione (Signis).

Il Maghreb in forze

Ma sui grandi schermi di questa settimana fantastica di Ouagadougou si sono rincorse senza sosta, come di consueto, immagini di realizzatori dell’Africa dell’Ovest (Burkina Faso in testa) e del Centro, senza dimenticare il grande contributo del cinema maghrebino (film tunisini, algerini e marocchini sono in cartellone).
Di questi ultimi, ben rappresentati nelle competizioni ufficiali, con 6 lungometraggi e 8 cortometraggi, è Hassan Benjelloum, marocchino, con La camera nera, che si piazza meglio, aggiudicandosi il secondo posto assoluto: Stallone d’argento di Yennenga. Anche in questo caso, il tema è quello del dovere della memoria e della riconciliazione.
Il contesto sono le repressioni del regime marocchino degli anni ’70, sulle quali, oggi, c’è molto dibattito politico nello stesso Marocco. «Abbiamo svolto un’inchiesta, intervistando ex detenuti, ex torturatori, famiglie di detenuti e responsabili del regime dell’epoca. Poi abbiamo fatto un adattamento libero per il film – spiega il regista -. La reazione del pubblico in Marocco è stata positiva. La nuova generazione è rimasta sorpresa. Ignoravano tutto ciò. Non fa ancora parte della storia ufficiale del paese».
E continua: «Queste cose sono successe anche in Algeria, Europa, Africa. E succedono oggi a detenuti in prigioni segrete del mondo». È un film scottante quello di Benjelloum, ma attuale, «universale», sottolinea il regista.

La guerra, e dopo?

Il conflitto e postconflitto sono altri due temi principali del cinema africano di oggi. Un ottimo esempio è il film dell’angolano Zezé Gamboa, con Un eroe, unica opera lusofona nella competizione ufficiale, che si aggiudica il premio della migliore immagine (vedi riquadro).
Nella Luanda del dopo guerra, Vitorio è un militare smobilitato; dopo 15 anni sotto le armi, senza una gamba persa su una mina, si ritrova a dormire in strada e nell’infruttuosa ricerca della famiglia dispersa e di un lavoro. Si muove in una Luanda di bambini di strada, di gente disperata alla ricerca dei parenti.
«Il mio è un cinema sociale – dice Gamboa -, non necessariamente di denuncia, ma che vuole presentare situazioni reali». Egli vuole suggerire ai politici del suo paese che bisogna fare di più: «La guerra è finita da due anni e il potere deve arrivare a dare alla gente l’accesso all’acqua e altri servizi di base».
E deve fare di tutto per reintegrare i reduci portatori di handicap. «Vitorio è doppiamente eroe: è stato eroe di guerra; ora è eroica la lotta quotidiana per sopravvivere e reinserirsi nella società. La sua storia rappresenta quella di tantissimi angolani di oggi». Gamboa non solo fa riflettere sul malessere che ha portato la guerra nel suo paese, e le guerre in generale, ma cerca di fornire delle piste di soluzioni.
La regista burkinabé, Fanta Regina Nacro, in La notte della verità mette in scena la propria idea sulla risoluzione dei conflitti (vedi riquadro). In un paese qualsiasi, due etnie dai nomi di fantasia si combattono. Da una parte il presidente, dall’altra il colonnello capo delle forze ribelli. La guerra è stata dura, le atrocità molte. La gente è stanca. I due capi organizzano, allora, un incontro per suggellare la pace. Incontro che avviene in un’unica notte, nella quale il passato recente riaffiora, con storie personali e vendette: la pace sembra compromessa a più riprese. Anche qui è forte il tema della riconciliazione nazionale.
Una storia che è un suggerimento perfetto alla vicina Costa d’Avorio, ma calza a pennello anche per il Burundi, l’Uganda e ogni conflitto che devasta il continente. La giuria è sensibile al tema della pace e La notte della verità vince il premio per la miglior sceneggiatura (oltre a un paio di premi speciali).

Africa-Europa

Il tema del rapporto tra Africa ed Europa, o l’incontro-scontro tra culture, è una costante nella cinematografia africana: anche quest’anno è ben rappresentato al Fespaco.
La nigeriana Branwen Okpako lo presenta in Valle degli innocenti, mettendo in scena africani immigrati in Europa o afro-europei.
Zéka Laplaine, della Repubblica democratica del Congo, con il suo Il giardino di papà preferisce raccontare gli stereotipi delle paure che gli europei hanno dell’Africa e degli africani, attraverso un film opprimente, ma talvolta comico, interamente girato di notte: una coppia di sposi francesi va in viaggio di nozze in Congo, dove lui è cresciuto, ma con il quale ha ormai perso il contatto. Lui si comporta goffamente, mettendo in luce un atteggiamento quasi razzista. Lei, a contatto per la prima volta con la realtà africana, alla fine di innumerevoli disavventure arriverà a capirla meglio.
Jean Marie Teno, documentarista affermato, ma anche regista di fiction, vuole approfondire questo tema in chiave storica con il suo Il malinteso coloniale (vedi intervista). Documentario di 87 minuti, girato tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun, è quasi un’inchiesta volta a dimostrare la storica influenza negativa delle missioni cristiane (in questo caso i protestanti tedeschi in Namibia) nello sviluppo dell’Africa di oggi. Una serie interminabile di interviste a professori e ricercatori, ma anche a uomini di chiesa, come il vescovo anglicano di Swakopmund, il vecchissimo archivista della diocesi, memoria vivente di quasi un secolo di missione.
Interviste in tedesco, inglese, francese, il film è impegnativo e vuole condurre lo spettatore all’assunzione della tesi del regista. Mancano di fatto argomenti contraddittori e resta debole la voce della chiesa africana. «È un lavoro di memoria sul continente – spiega il regista – e la gente vuole questo. Penso che il cinema sia un buon mezzo per raggiungere il grande pubblico, anche su tematiche difficili».

Il più amato

Ma qual è il film che più è piaciuto al popolo del Fespaco? Il Premio del pubblico se l’è aggiudicato Tasuma (il fuoco) del burkinabé Daniel Kollo Sanou, che si aggiudica anche il terzo premio assoluto, lo Stallone di bronzo di Yennenga, oltre a due premi speciali (Onu e Cedeao).
Tasuma è la storia di Sogo Sanon, 65enne, ex combattente nell’esercito francese in Indocina e Algeria. Tornato in patria, lotta per ottenere la pensione militare dall’amministrazione francese; ma si scontra con una burocrazia pesante e una lunghissima attesa. Il tema è molto sentito tra gli anziani combattenti dell’Africa Occidentale, che dopo aver servito la Francia in epoca coloniale sui fronti del mondo (spesso contro patrioti che cercavano l’indipendenza, ma anche per liberare paesi occupati durante la prima e seconda guerra mondiale), si vedono discriminati rispetto ai loro colleghi francesi.
Tasuma, che aveva già ricevuto l’apprezzamento del pubblico burkinabé, ha così conosciuto una consacrazione internazionale. Farcito di humor tipico dei registi del Burkina, presenta uno spaccato di vita di questo paese.
«Gli ex combattenti sono dei pionieri delle indipendenze. Sono i primi che sono usciti dal sistema coloniale e hanno visto altre realtà. Sul campo non erano discriminati. C’è stata una certa presa di coscienza da parte loro. Hanno contribuito allo sviluppo economico del paese. Sono molto considerati nei loro villaggi» spiega il regista, lui stesso figlio di un ex combattente. Il film sembra chiedere giustizia per questi vecchietti, che a volte si incontrano nei villaggi più sperduti, fieri delle loro medaglie sempre attaccate alla casacca.
«Non è stato mio obiettivo fare del cinema di rivendicazione o di contestazione. Ho voluto, innanzitutto, rendere omaggio a questi eroi dell’Africa che, anche se sono stati al servizio di un’amministrazione coloniale, hanno pure servito cause nobili, come la liberazione della Francia dal nazismo».
Kollo Sanou ci ha messo 15 anni a fare questo film; un mese per girarlo. Si è scontrato con il maggior problema del cinema africano: i finanziamenti: «Non è facile trovare i fondi per fare un film. Il Burkina è un po’ un’eccezione: abbiamo il Fespaco, le autorità sono disponibili ad appoggiare i nostri progetti. Abbiamo attrezzature professionali, ma i soldi mancano sempre. Negli anni ’70 fino al ‘90, esisteva un fondo di promozione all’attività cinematografica, finanziato con una tassa presa su ogni biglietto venduto. Ora non esiste più.
Cerchiamo i soldi al Nord: Unione europea, Goveo francese, Agenzia della francofonia, e altre istituzioni. Ma è necessario avere un produttore basato al Nord. Dieci anni fa il produttore gestiva il finanziamento accordato. Talvolta questi fondi subiscono malversazioni: ho conosciuto due casi in cui i soldi sono stati utilizzati in altro modo. Il fatto è che non c’è troppa fiducia nei registi africani. Purtroppo a ragione, talvolta».
Adesso le cose stanno un po’ cambiando: «Ora c’è più fiducia. I finanziatori inviano i soldi direttamente nei nostri paesi. Si sono resi conto che è bene incoraggiare i cineasti in Africa, non solo quelli immigrati».

Ma chi li vede?

Un’altra grossa difficoltà che incontrano i film africani è la distribuzione. «Sì, questo è un vero problema – spiega Zezé Gamboa -. Arriviamo alla fine del film e non abbiamo i soldi per la promozione. Essa è cara; ma un film esiste grazie anche a essa. Altrimenti restiamo in un ghetto: veniamo nei festival, ma ci si ferma qui. A mio avviso, il film deve avere una vita molto più larga: deve circolare in Africa e poi nel resto del mondo. Ma questo è oggi molto difficile».
Anche Teddy Mattera è di questa opinione, sebbene la situazione del Sudafrica sia differente: «Abbiamo lo stesso problema nei paesi anglofoni, non ci sono i distributori presenti in Europa. Nel nostro paese solo la South African Broadcasting Corporation (Sabc) fa distribuzione. Dobbiamo trovare agenti di vendita per entrare nel mercato britannico o nord americano. E questo è possibile».

I l tema del Fespaco di quest’anno è stato «Formazione e questione della professionalizzazione». Molti cineasti africani impiegano nei loro film parenti e amici. Questo non fa bene al cinema dice Gamboa: «Il cinema è una questione tecnica; bisogna saperlo fare, non si può improvvisare. Servono persone competenti. Si può essere formati a scuola o sul campo. In Angola, dato che non abbiamo abbastanza cinema, è difficile imparare sul campo. Servono le scuole. La formazione è fondamentale. In Africa i professionisti ci sono, attori e tecnici, lavorano bene, occorre impiegarli. È molto difficile fare del cinema in Africa: se i nostri professionisti non hanno possibilità, di cosa potrebbero vivere? In Burkina è stata fondata una scuola, ma in Africa lusofona non l’abbiamo ancora. È con iniziative del genere che possiamo dare voglia ai giovani di fare cinema».
Allude a Imagine, centro polivalente fondato a Ouagadougou dal cineasta burkinabé Gaston Kaboré, che offre la possibilità di formazione e perfezionamento nei mestieri legati al cinema, televisione e multimediale.
Lo storico cinema Oubri nel centro di Ouagadougou non si può dire che abbia un’acustica ultra modea. Talvolta si fa fatica a seguire i dialoghi. Qualche zanzara può infastidire durante la proiezione sotto il cielo saheliano.
Una scala ripidissima ci porta nella cabina di proiezione. Qui, due proiettori un po’ antiquati, accuditi da due simpatici tecnici, fanno girare grosse bobine di pellicola. «È Drum, è stato premiato poche ore fa» dice uno di loro.
È l’ultima proiezione del Fespaco 2005, quella dei film che hanno vinto. In questa cabina, con queste persone e queste macchine, ci sentiamo un po’ dentro la storia del cinema.

BOX 1

L’uomo che faceva piangere

Cresciuto in uno sperduto villaggio sudafricano Max Bua è mandato dalla famiglia a Johannesburg, per studiare e diventare un «dottore bianco». Arriva nella megalopoli con una capra, Mona, e i soldi faticosamente raccolti per iscriversi all’università. Ingenuo e impreparato alle regole di quella società, è fagocitato dalla città multiforme.
Max, però, ha una dote magica particolare: sa far piangere la gente a comando. Lo zio, un poco di buono, sempre alle prese con i gangsters, fiuta l’affare e lo fa diventare un «piangitore professionista»; diventa suo manager e ne vende i servizi ai più svariati funerali della città. Dopo una serie di successi, Max fallisce il funerale più importante: quello del fratello del gangster. Una fuga rocambolesca porterà al lieto fine: Max non solo si salva, ma riesce a recuperare i soldi per l’università, che si erano volatilizzati dopo il suo primo incontro con lo zio.
Con una buona dose di autornironia, il regista presenta uno spaccato di Sudafrica di oggi e delle sue contraddizioni: «Ho scelto di mostrare tre ambienti molto diversi: campagna, città e township, per far capire allo spettatore la psicologia di Max, che attraversa questa società, ma alla fine si integra nella nuova realtà». Ci racconta Mattera.
Il film mescola modeità e tradizione, spiritualità e materialismo. «Penso siano i migliori strumenti per creare contraddizione. C’è pure il fatto che vivo in una città con molto materialismo, ma che resta profondamente spirituale e caratterizzata da molteplici sfaccettature. Per esempio, i gangsters a Johannesburg sono vegetariani».
Ma perché questa idea dei funerali? «Penso che ci sia ancora un po’ di speranza per l’umanità. Con la morte di qualcuno abbiamo la possibilità di riscoprire la nostra propria mortalità».
Teddy Mattera sembra lui stesso uscito da un suo film. Giovanile e trasgressivo, ma non più giovane, è quasi timido di fronte al microfono. Dopo gli studi di cinema in Usa ed Europa, ha esordito con il film Hoop Dreams, che ha ricevuto una nomination agli Oscar del ’93. Lavora molto su documentari e cortometraggi. Sul cinema sudafricano, a confronto con le altre produzioni del continente, dice: «Spero che il nostro ruolo non sia quello di diventare imperialisti culturali, perché il pericolo c’è, ma piuttosto catalizzatori importanti, per rigenerare questo settore. Abbiamo la possibilità di offrire formazione e strutture ben organizzate. Abbiamo più mezzi degli altri paesi dell’Africa e siamo arrivati al livello commerciale con i nostri film».

Max and Mona, di Teddy Mattera – Sudafrica 2004 – 98 minuti.

BOX 2

Cos’è FESPACO

Il Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) nasce nel 1969 nella capitale del Burkina Faso, per iniziativa di un gruppo di cinefili. È poi istituzionalizzato il 7 gennaio 1972 come struttura pubblica nell’ambito del ministero burkinabé della Cultura.
A partire dalla 6a edizione diventa biennale: un appuntamento fisso dell’ultima settimana di febbraio degli anni dispari. È il più importante evento del suo genere sul continente africano.
Gli obiettivi principali del Festival sono favorire la diffusione delle opere del cinema africano, permettere contatti e scambi tra i professionisti del settore e contribuire al progresso e alla salvaguardia del cinema in quanto mezzo di espressione, educazione e coscientizzazione.
Oltre al festival biennale le altre attività principali sono la cinemateca africana (archivio di film, base dati e cinema mobile) e varie pubblicazioni sul tema. Il Fespaco organizza anche il Mica (Mercato internazionale del Cinema e della televisione africani), una borsa di programmi audiovisivi africani e sull’Africa, in concomitanza con il festival.
Le altre attività sono proiezioni a scopo non lucrativo nelle zone rurali, in partenariato con ng (organizzazioni non governative), associazioni, scuole. Il Fespaco promuove il cinema africano nelle manifestazioni e sedi inteazionali.

BOX 3

DOPPIO EROISMO

Il regista angolano Zezé Gamboa presenta uno spaccato di quello che è il suo paese, in particolare la capitale Luanda, a due anni dalla fine di una guerra lunghissima e fratricida. Un eroe è un film «sociale», spiega, «perché si interessa di problemi sociali» e non «di denuncia»; vuole inviare un messaggio forte, soprattutto ai politici dell’Angola: «Il potere in carica deve riuscire a dare l’accesso all’acqua e altri servizi di base a tutta la popolazione. Inoltre la reinserzione dei combattenti è un dovere dei politici».
Vitorio ha passato 15 anni in guerra e ora si ritrova senza una gamba (persa su una mina), senza famiglia né lavoro. Vivacchia nella Luanda dei disperati, bambini di strada, mutilati, uomini e donne in cerca dei parenti dispersi. Lui è un uomo integro e cerca di reinserirsi nella società. Una notte gli rubano addirittura la protesi. Nel tentativo di ritrovarla, dopo una serie di incontri sfortunati, approda in una trasmissione della radio nazionale, a colloquio con il ministro, a rappresentare le altre migliaia di ex combattenti. È con questo mezzo che il regista manda il suo messaggio.
Secondo Gamboa, Vitorio è doppiamente eroe: è stato decorato in guerra, e poi «rappresenta i molti angolani che si battono tutti i giorni per sopravvivere. In Angola c’è gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Riuscire a vivere così è già talmente difficile, che trovo eroico qualcuno che torna dalla guerra, cerca lavoro, dorme nella strada e nonostante questo conserva una certa integrità: questo è eroismo».

Il tema del dopo guerra riguarda la ricostruzione, non solo delle case, ma delle vite umane. «Quello di Vitorio – continua il regista – non è solo un caso angolano, ma ha una dimensione universale, può succedere ovunque e a chiunque dopo la guerra: la gente è distrutta psicologicamente. È ciò che capita in Cecenia e che capiterà in Iraq, dopo quello che sta succedendo».
Gamboa è particolarmente attento alla problematica dei mutilati di guerra: «Bisogna fare scuole di mestieri, impiegarli nei lavori. Anche se sono portatori di handicap possono fare molto per la società. Ci sono molti lavori adatti. Ma il problema è che la maggioranza di questa gente è partita molto giovane per la guerra e quando ritornano sono già uomini, ma non sanno fare nulla. Bisogna quindi insegnare loro, dare loro degli strumenti affinché si possano sentire integrati nella società». E il primo responsabile di tutto ciò è il governo, non gli aiuti inteazionali.
E a Vitorio capita proprio questo. Dopo la sua trasmissione radiofonica in cui chiede giustizia e la sua gamba di plastica, il ministro si muove e gli trova un lavoro: diventa addirittura autista. «Questo è un film, una fiction – dice Gamboa -. In realtà, se avessi fatto un documentario, il protagonista continuerebbe a dormire in strada e non avrebbe la possibilità di lavorare. Con il cinema possiamo anche sognare».

O Heroi, di Zezé Gamboa – Angola 2004 – 97 minuti.

BOX 3

La pace viene da dentro

Un film forte, sulla risoluzione dei conflitti, quello della regista burkinabé Fanta Regina Nacro. In un paese africano senza nome, due etnie si sono combattute in una guerra atroce, finché la stanchezza sembra prevalere. I due capi, il presidente della repubblica e il colonnello ribelle, decidono di finirla con la guerra fratricida e d’incontrarsi, con le loro truppe, per discutere della pace. Ma non è facile: nell’arco della notte la pace viene messa più volte in pericolo da odi e vendette personali, che hanno origine nello stesso conflitto.
«La notte della verità è l’istante in cui ci si guarda allo specchio e si vede la profondità di se stessi. Nella quotidianità questo si perde». Eccolo, secondo la regista, il senso del film e il motivo per l’impostazione. «Tutto si svolge in un luogo chiuso, la caserma, con una storia lenta, volutamente, perché è così che si preparano le cose più atroci».
E di scene truculente se ne vedono, come l’assassinio, alla fine del film, del colonnello, che diventa uno dei tanti montoni rosolati su un gigantesco spiedo. Uccisione tramata e voluta dalla moglie del presidente, che ha perso il figlio a causa della guerra. Ma la saggezza del capo di stato e della consorte del colonnello prevale. Una raffica di mitra liberatoria abbatte la prima donna e afferma la pace.
Primo lungometraggio fiction di Fanta Regina Nacro, il film è un’opera impegnata e presenta un personale modello di risoluzione dei conflitti: «Non ho voluto situare il film in un paese reale, affinché fosse una storia universale, specchio di altre situazioni. Vorrei che ogni individuo faccia uno sforzo personale e si preoccupi della pace. Se siamo arrivati a certe atrocità, in Africa come in Europa, è ora di riflettere su come non caderci più».
Nel film, i militari, compreso il colonnello, sono veri soldati burkinabé, non attori professionisti. Questo mostra una volontà politica oltre che un esempio quasi unico nel suo genere. «Il colonnello Teo è nella realtà il comandante Moussa Cissé, che ha servito come volontario delle Nazioni Unite in Burundi. In quel paese ha visto cose orribili e quando gli raccontai la storia mi disse: “Ho bisogno di fare questo film”. Era un po’ preoccupato per la sua performance e anche per la scena finale della morte. Ma il desiderio di recitare e portare qualcosa di suo gli ha fatto vincere la paura».
L e donne hanno un ruolo determinante nella storia. La moglie del presidente rischia seriamente di compromettere la pace, mentre quella del colonnello lo appoggia nella sua scelta. «La donna ha grande responsabilità – spiega la regista -. Deve essere cosciente del potere che ha nelle sue mani e della possibilità di orientare e far cambiare le cose. La moglie del colonnello suggerisce cosa bisogna fare affinché le atrocità cessino. È un ruolo forte, che simbolizza quello delle donne del mondo. Danno la vita, ma sono le prime vittime del conflitto, nel quale perdono i figli. Ma la donna è forte: sa quello che vuole ottenere e come ottenerlo».
In quanto a geopolitica, Fanta Regina ha deciso di non considerare le complesse influenze inteazionali che spesso caratterizzano i conflitti: «Ogni volta che c’è una guerra è sempre la geopolitica che prende il sopravvento. Io vorrei portare il popolo ad appropriarsi del conflitto, per prendere esso stesso la decisione di mettervi fine, senza dover sempre aspettare che la politica prenda la decisione».
Per questo tutti noi siamo come le pecore di un gregge, manipolati dall’alto; e il film finisce quando il matto del villaggio Tamoto, «che rappresenta la nostra coscienza», libera le pecore, che scappano in tutte le direzioni. È un altro invito dell’autrice alla società civile a essere più presente e incisiva in materia di risoluzione di conflitti e promozione della pace.

A proposito del Fespaco, Fanta Regina Nacro afferma che, per il pubblico è un’opportunità di vedere immagini che vengono d’altrove, per i registi è l’occasione di incontrare altri professionisti del settore, ma, soprattutto, «offre la possibilità di far passare idee forti, che abbiamo da comunicare. Oggi, malgrado le difficoltà di produzione e di distribuzione, noi africani riusciamo a far nostro questo mestiere. Sono più ottimista che in passato, perché vedo che anche con pochi mezzi, abbiamo colto la sfida di fare cinema e ci riusciamo».
Sulla risoluzione dei conflitti? «Non ho delle risposte. Abbiamo voluto dare qualche pista di speranza, ma non abbiamo la verità dentro di noi. Io e il mio sceneggiatore siamo entrambi cristiani: da qui l’idea di un sacrificio forte (quello del colonnello, ndr) per trovare la strada dell’ottimismo e di una nuova speranza per gli esseri umani».

BOX 4

Drammatico metissage

Un giovane cornoperante francese, Patrik, torna in un villaggio sperduto del Burkina Faso. È accompagnato da sua figlia Martine, bimba meticcia di 7 anni. La scusa del ritorno è la riparazione di un pozzo artesiano, installato da Patrik proprio 7 anni prima. La gente del villaggio lo accoglie freddamente. Ma c’è qualcosa in più: mentre è al lavoro, una giovane sordomuta, Kaya, rapisce la bimba e fugge nella savana.
Il film diventa la storia di questa fuga disperata e dell’inseguimento da parte di Patrik, aiutato da un gruppo di uomini del villaggio. Il rapporto tra Kaya, che rappresenta la tradizione e i costumi africani, e Martine, con la sua educazione e abitudini europee, che lo spettatore scoprirà essere la figlia della donna. Patrik aveva avuto una relazione con Kaya, decidendo poi unilateralmente di strappare la figlia appena nata alla madre per portarla in Francia. Dal trauma la donna aveva perso la parola. Un bellissimo dialogo madre-figlia (anche se Kaya è muta), che si crea poco a poco, così come Martine si spoglia del suo essere europea per africanizzarsi.
Nel frattempo Patrik è costretto a vivere nella boscaglia con il gruppo di africani, con l’obiettivo comune di trovare le fuggitive.
L’epilogo, in una notte di luna piena, è drammatico. Martine, affetta da un male incurabile dalla nascita, muore tra le braccia di Kaya incredula.
Per riparare alla sua azione del passato, Patrik è convinto dal vecchio saggio Tonkolo a compiere un rito che assicurerà a Kaya nuovamente un posto al villaggio. In caso contrario sarà cacciata. Patrik riesce, e il film termina con la sua partenza, in un’atmosfera rilassata, come se un vecchio problema avesse trovato soluzione.

«Non ho utilizzato la morte per risolvere la storia: ho giocato sul fatto che la piccola era malata fin dall’inizio, ma sua madre non lo sapeva. Volevo mostrare come le conseguenze degli atti degli adulti si possono ripercuotere su degli innocenti – specifica la regista Apolline Traoré -. Il padre e la madre hanno fatto i loro sbagli, e poi chi paga è la bambina. Anche negli altri miei film gli attori principali muoiono, io ho una certa sensibilità verso la morte stessa, legata alla spiritualità. Dopo una morte resta qualcosa di presente, non lo si può vedere né toccare, ma influenza il nostro mondo materiale nel quale ci battiamo ogni giorno. Abbiamo tutti paura della morte e cosa viene dopo. È un sentimento che può essere una cosa molto importante che noi esseri umani di oggi abbiamo tendenza a dimenticare».
Nel film è continuo il tema del rapporto tra europei e africani. Abbiamo chiesto alla regista se pensa a un incontro o a uno scontro tra culture. «Le due cose: incontro di due culture che finalmente si capiscono, madre e figlia, hanno conflitti, ma poi si ritrovano. Rispetto a padre e madre, sono due culture che cercano di capirsi, ma non ci sono riuscite, si sono separate e c’è stato un dramma. I due casi sono possibili».
Anche nel gruppo degli inseguitori, gli africani parlano tra loro criticando i bianchi. «È una caricatura di qualcosa di reale, rispetto a come pensano certi africani degli europei. Volevo mostrare questi pensieri. Anche se alcuni pensano così e certi europei, come lo stesso Patrik, hanno preconcetti sugli africani, ci può essere una unione d’intenti: di fronte a qualsiasi problema si possano trovare, i personaggi riescono a lavorare insieme».
Allora la bambina può essere vista come anello di congiungimento tra le due culture? «Martine si africanizza con la madre, perché non ha scelta, è obbligata, è un adattamento. La cosa importante è che la piccola non aveva mai avuto l’influenza di una donna: è cresciuta con il padre. Se una donna le dà attenzione, lei la accoglie, perché ha bisogno di presenza femminile».
Perché Sotto il chiaro di luna? «Dalle mie parti esiste un mito: è nelle notti di luna piena che escono e si manifestano i geni, gli spiriti. Così solo in una notte di luna piena sono rivelati i segreti di questa storia».

Sous la clarté de la lune, di Apolline Traoré – Burkina Faso 2004, 90 minuti.

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO Presentazione

L’Africa c’è, è viva, anche culturalmente. E lo dimostra la straordinaria produzione cinematografica, fiction e documentari, lungo e cortometraggi, video per la tv e serie televisive.
La settima arte si confronta sul continente ai problemi di finanziamenti, scarsa presenza di centri di formazione e, soprattutto, difficile o inesistente distribuzione
(i film africani hanno difficoltà a essere presentati nelle sale africane). Ma gli addetti ai lavori vedono queste piuttosto come sfide per il futuro.
Così, ogni due anni, si incontrano al Festival panafricano del cinema
e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) per mostrare il meglio della produzione, per scambiare, per fare progetti.
Una settimana di delirio cinematografico, che ha visto quest’anno un’elevata qualità
nelle diverse competizioni.
I temi sono quelli cari a questa cinematografia, fatta di registi e attori impegnati. Un cinema spesso sociale, talvolta di denuncia. Tematiche come i conflitti e la loro risoluzione, i problemi del dopo guerra e della riconciliazione nazionale. Ma anche il dovere della memoria, la riflessione sul passato dell’Africa e sulla colonizzazione.

Spesso presente è il rapporto tra Africa ed Europa: il dialogo cercato, l’incontro e lo scontro tra le culture, inteso come il capirsi o non capirsi affatto. Il tema del potere, la famiglia (soprattutto il rapporto genitori-figli), l’infanzia e l’Aids.
Dal Maghreb al Sudafrica, passando per l’Africa dell’Ovest (che con
il Senegal e il Burkina Faso è un po’ la culla della cinematografia africana), il Congo, l’Angola.
E il Fespaco del 2005 sancisce che è giunto il grande momento del cinema anglofono, soprattutto sudafricano, che mostra una buona maturità.
È del Sudafrica il grande vincitore del Festival, Zola Maseko, con il suo Drum, sull’apartheid degli anni ’50 nel suo paese.
Per molti esperti il 2005 è anche il cinquantenario della nascita del cinema dell’Africa nera. Così organizzatori del Fespaco hanno offerto al pubblico una preziosa retrospettiva con la proiezione di opere difficilmente rintracciabili.
Un’Africa che parla di sé, si racconta. Un’Africa culturale, spesso trascurata in Europa, dove la si associa solo a sanguinosi conflitti e a genocidi. Un continente culturale che si mette in scena e potrebbe, grazie al grande schermo, smantellare almeno un po’ quegli stereotipi così forti con i quali la caratterizziamo.

Marco Bello




UCRAINA – Il travaglio dell’«ex granaio d’Europa»

I CETRIOLI DI NATASCIA

Genova e Venezia, repubbliche marinare, hanno qui alcune vestigia,
come l’esercito del Piemonte che, nel 1855, vince la battaglia sul fiume Ceaia.
Piccoli dettagli di un affresco vasto, complesso, affascinante…
«Ucraina» deriva da kraj, frontiera, forse a indicare le steppe sconfinate.
Dal 9° al 12° secolo il paese si identifica con la «Rus di Kiev».
Il popolo ucraino si consolida nel 15° secolo.
La sua sorte è legata a quella dei polacchi e, soprattutto, dei russi.
Il 1° dicembre 1991 l’Ucraina riconquista l’indipendenza, perduta nel 1654 quando diventa parte dell’impero zarista e, nel 1922, allorché abbraccia quello sovietico. Oggi gli ucraini camminano con le loro gambe. Che fatica, però!

«Comprate, comprate, signori miei! Il prezzo è piccolo, ma l’affare è grande!». È il ritornello, strillato a iosa, che ci accompagna mentre esploriamo le bancarelle di un rumoroso mercatino delle pulci. Udiamo altre parole davvero curiose, quali: Juve, Inter, Milan. Improvvisamente, da un pittore di quadri naif, scatta la domanda: «Perché voi, italiani, coprite d’oro il calciatore Andrei Shevchenko, ma lasciate che le nostre ragazze finiscano come prostitute sulle strade delle vostre città?».
Il quesito, furioso come una schioppettata, ci investe a Kiev, capitale dell’Ucraina.

DOPO CHERNOBYL
Ucraina: quasi 50 milioni di abitanti, su una superficie due volte l’Italia. Dopo la separazione-indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, la nazione sta camminando con le proprie gambe. Ma che fatica!
Le risorse economiche non mancano. Nel campo minerario il paese possiede carbone, ferro, petrolio, gas naturale. Molti impianti, però, sono obsoleti, a scapito della sicurezza. Il 19 luglio 2004, in una miniera di carbone di Donetsk, 25 operai morirono per un’esplosione di gas.
Non manca l’uranio. Ma all’erta con l’uranio! Il settore energetico si avvale (si dice) di 6 centrali nucleari «rinnovate», perché quelle vecchie sono pericolose. Gli ucraini (e non solo loro) lo sanno. Anzi, non scorderanno facilmente il 26 aprile 1986, allorché esplose un reattore della centrale nucleare di Cheobyl, a 120 chilometri da Kiev.
Complice la disinformazione voluta, all’inizio sembrò un incidente persino banale. Ma subito «bagliori mai visti» seminarono morte a ritmi incalzanti. Alla fine le vittime delle micidiali radiazioni saranno 160 mila e 3 milioni i contaminati, che sopravvivono in qualche modo. Senza contare i bambini nati deformi.
Oggi quella «zona maledetta» conta 300 individui: dopo l’evacuazione del 1986, sono ritornati a casa loro, nonostante che il territorio soffra ancora le conseguenze dell’inquinamento radioattivo. La «peste» durerà almeno 100 anni!
Invece più sicuri sarebbero i prodotti agricoli, a prescindere dagli organismi geneticamente modificati. Però, in Ucraina, soprattutto l’agricoltura è in crisi. Si importa persino frumento. Che ne è del paese «granaio d’Europa»? E dove sono finiti i potenti trattori che, sino a pochi anni fa, aravano vastissime steppe? «Sono scomparsi misteriosamente» risponde un piccolo agricoltore, con un linguaggio che ricorda quello in voga nell’Unione Sovietica.
In ogni caso la terra è proprietà dello stato. I contadini attendono con ansia dal governo ucraino la riforma agraria, per ottenere qualche ettaro in più e produrre una maggiore quantità di pannocchie o barbabietole. «Terreno comunque da acquistare» dichiara un modestissimo bracciante.
Ma con quali denari, se il salvadanaio dei risparmi si svuota continuamente?
Così l’80% degli ucraini vive sotto la soglia della povertà e 5 milioni sfidano la fortuna emigrando anche in Italia. Fra le donne, ecco le ricercate badanti per gli anziani. Però altre ucraine, adescate da raggiri mafiosi, devono adattarsi a battere i marciapiedi di Torino, insieme a qualche nigeriana.

MEGLIO IERI O OGGI?
Soggioando (anche poche settimane) nell’ex Unione Sovietica, gli interrogativi che pungolano continuamente la mente del visitatore sono sempre gli stessi. E cioè: è preferibile il regime marxista o quello capitalista, lo stile di vita di ieri o quello di oggi? Sono stati socialmente più validi «i piani quinquennali» di Nikita Kruscev o il libero mercato di Vladimir Putin? In Russia gli anziani non nutrono dubbi al riguardo: la grande maggioranza rimpiange il comunismo, in città come in campagna.
In Ucraina la musica non cambia. Dalla metropoli di Kiev al porto di Odessa i settantenni stentano, oggigiorno, a sbarcare il lunario. Le loro pensioni, per esempio, sono da «terzo mondo»: appena 24 euro mensili, al cospetto di generi alimentari, capi di abbigliamento e farmaci costosissimi.
Fino al fatidico 1989 (l’anno della caduta del muro di Berlino) l’istruzione era gratuita e garantita a tutti. Gratuita era pure l’assistenza sanitaria, anche se nelle repubbliche dell’Unione Sovietica (già prima della «glasnost-trasparenza» e della «perestrojka-ristrutturazione» di Michail Gorbacev) qualcuno mormorava con sarcasmo: «Se la salute non ti interessa, va’ a curarti in un ospedale pubblico!».
Tuttavia l’Unione offriva a tanti la possibilità di spostarsi per le ferie da un capo all’altro dell’Urss: dall’inospitale e gelida Siberia alla dolce e florida Crimea sul Mare Nero.
Però i giovani non rimpiangono il passato. «Io ho due figlie, di 20 e 30 anni – dichiara Natascia -. La ventenne non sa nulla del regime comunista, mentre la trentenne ricorda poco. Però preferisce il sistema attuale, perché offre maggiore libertà. Ma occorre fronteggiare la minaccia del terrorismo…».
Natascia, colta guida turistica di Kiev sulla cinquantina, afferma: «Oltre al russo e all’ucraino, parlo italiano, francese e inglese. Anni fa sono stata a Roma, Parigi e Londra. Ai tempi dell’impero sovietico non mi era consentito uscire dall’Urss. Confrontando lo standard di vita dell’Europa occidentale con il nostro, sono giunta alla seguente conclusione: le persone come me, che godevano di una buona cultura e di una discreta posizione statale, erano abbastanza fortunate rispetto a tante altre. Però ero chiusa in gabbia, e non me ne rendevo conto».
Conversiamo con Natascia in un piccolo ristorante, attorno a un piatto di cetrioli. Già, cetrioli! Sempre cetrioli: a colazione, pranzo e cena. Anche la guida li osserva con un pizzico di commiserazione, girandoli e rigirandoli con la forchetta. E soggiunge: «Se l’Ucraina vuole attirare i turisti europei e americani, deve rivedere la propria cucina, soprattutto se a tavola siedono italiani».

TURISTI BENVENUTI
In Ucraina il patrimonio storico, culturale e paesaggistico è favoloso. Per esempio: la penisola di Crimea, al di là delle attrazioni climatiche, offre uno spaccato di storia tormentata. Terra antichissima, abitata già nel paleolitico dal popolo iranico degli sciti e successivamente, nell’arco di secoli, dai tauri, dai tartari, ecc. Nel 13° secolo vi approdarono anche colonie di genovesi in lotta contro i veneziani.
In Crimea i turisti italiani osserveranno con interesse il fiume Ceaia, sulle cui sponde nel 1855 l’esercito del Piemonte, alleato dei francesi e degli inglesi, vinse una sanguinosa battaglia contro i russi.
Nel 1941-43 la penisola fu preda delle truppe tedesche naziste, che sterminarono gli ebrei locali. Al ritorno dei russi-sovietici, i tartari furono deportati in Siberia: 200 mila perirono di stenti.
In Crimea non si può mancare Jalta, splendida località marina e ambita sede vacanziera di tanti «vip» comunisti dell’Unione Sovietica. Inoltre a Jalta, il 4-11 febbraio 1945, Iosif Stalin, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt si spartirono una cospicua fetta del potere mondiale, dichiarandosi «guerra fredda».
Dal 1992 la Crimea è parte dell’Ucraina, ma con una larga autonomia.
Notevole è pure il richiamo turistico esercitato da Leopoli, città di 900 mila abitanti: un po’ austro-ungarica (fece parte dell’impero asburgico dal 1772 al 1917), un po’ polacca (la Polonia l’ha rivendicata per molto tempo), un po’ russa (si contano circa 140 mila russi), ma soprattutto ucraina. Da Leopoli (meglio L’viv), sotto il profilo culturale, si guarda più all’Europa occidentale che alla Russia.
A 40 chilometri dalla città, su una fonte ritenuta miracolosa sorge il monastero studita di Univ. È uno dei massimi centri della religione greco-cattolica, che risale al 1300, importante anche per capire la storia della nazione…
Ma il cuore dell’Ucraina è, certamente, Kiev: e non solo perché è la capitale. La metropoli è addirittura considerata «la madre delle città russe». Secondo le cronache antiche, il popolo di Kiev, con il principe Vladimir in testa, scese nelle acque del fiume Dneper, dove l’intera comunità sarebbe stata battezzata con il nome di Rus. Correva l’anno del Signore 988, che segna l’inizio del cristianesimo in Ucraina e nelle regioni limitrofe, Russia compresa.
Nel 13° secolo l’invasione delle orde tartare segnò per sempre il destino di Kiev, distruggendo inestimabili opere artistiche. Più a nord sorsero nuovi principati e centri politici: San Pietroburgo, Mosca…
Nel 2001 anche Giovanni Paolo ii visitò Kiev e dintorni, soffermandosi in preghiera presso due «colossei modei» o luoghi di martirio. Il primo è Babij Jar, alla periferia della città. Qui, nel 1941-43, i nazisti consumarono terribili massacri: scomparvero circa 100 mila persone, in gran parte ebrei, ma anche zingari, oppositori e prigionieri di guerra sovietici. Dal 1976 un monumento di bronzo ricorda quegli eccidi.
Il secondo «colosseo» si chiama Bykivnja, a 30 chilometri da Kiev. In una zona boschiva, nel 1937-41 Stalin seppellì in fosse comuni circa 50 mila presunti oppositori del regime (di cui 15 mila identificati), vittime delle «purghe» del dittatore. Oggi su una pietra si legge: «La cosa più cara è stata la libertà. Noi l’abbiamo pagata con la vita».

E LA SITUAZIONE RELIGIOSA?
Natascia, l’esperta guida di Kiev che si trastulla con slavati cetrioli, accenna anche alla complessa situazione religiosa dell’Ucraina. Alla domanda «lei è credente?», risponde: «Vorrei esserlo, come lo sono stati i nonni e un po’ i genitori. Invece sono agnostica. Ma, se fossi credente, non vorrei essere né ortodossa, né cattolica, né protestante, ma semplicemente cristiana».
I cattolici e gli ortodossi d’Ucraina ebbero «un sussulto» nel 2001, con la visita di Giovanni Paolo ii del 23-27 giugno. «Desidero rassicurare gli ortodossi che non sono venuto qui con intenti di proselitismo. Prostrati davanti al comune Signore, riconosciamo le nostre colpe. Assicuriamo il perdono per i torti subiti…». Sono alcune battute, con le quali il papa invitava tutti i cristiani a superare i nefasti pregiudizi del passato.
Gli ortodossi rappresentano il 55% della popolazione e i cattolici l’11%. Vi sono anche piccole minoranze di protestanti, ebrei e musulmani, mentre il 30% si dichiara ateo.
Le contese non dividono solo gli ortodossi dai cattolici, ma anche gli stessi cattolici, distinti in rito greco-cattolico (9%) e rito latino-cattolico (2%). Gli ortodossi hanno disprezzato e disprezzano i greco-cattolici, chiamandoli «uniati» (uniti al pontefice romano).
Nel 2001 papa Wojtila invitò tutti a riconoscere «l’ecumenismo dei testimoni dell’unica fede cristiana», anche se vissuta in denominazioni differenti. Inoltre sottolineò «l’ecumenismo dei martiri»: martiri ortodossi, cattolici e protestanti. Nel ’900 la sola Ucraina vide soccombere, sotto i colpi della guerra, del nazismo e del comunismo, ben 17 milioni di persone, appartenenti a diversi credo.
Le persecuzioni subite dai cattolici sono rievocate, in parte, da Iryna Kolomyec, dell’università cattolica di Leopoli, figlia del prete greco-cattolico Stephan Kolomyec (ndr: i sacerdoti greco-cattolici possono sposarsi).
Padre Stephan fu vittima del comunismo. A partire dal 1935, divenuto parroco in un villaggio, esercitò il ministero (con fatica) sino alla fine della 2a guerra mondiale, allorché venne brutalmente arrestato dalla polizia Kgb e condannato a 10 anni di lavori forzati. Morto Stalin, nel 1954 Stephan ritoò a casa. La moglie Maria non lo riconobbe più, tanto era sfigurato per gli stenti patiti. Riprese a esercitare il ministero pastorale. Ma la Kgb lo ricercava. Il sacerdote, saputolo, fuggì nell’Ucraina orientale, dove lavorò come contadino in un kolkoz. Ma nella pasqua del 1969 la polizia lo scovò e ricacciò ai lavori forzati e, poi, agli arresti domiciliari. Padre Stephan morì nel 1974 a 65 anni…
Leonid è un prete cattolico polacco di rito latino: solleva l’annoso problema della restituzione ai legittimi proprietari degli edifici di culto, requisiti dal regime comunista. Da otto anni è responsabile della comunità cattolica di Sebastopoli (Crimea). Ma la chiesa è un cinema dal 1935, allorché il parroco finì nel famigerato carcere Lubjamka di Mosca e poi fucilato. Malgrado tutto, padre Leonid è contento. Anche i rapporti con gli ortodossi sono cordiali; vi sono pure incontri interconfessionali per esaminare insieme i problemi sociali e religiosi…
Un pomeriggio concelebriamo l’eucaristia in una stanza dell’appartamento del sacerdote, in un condominio, con alcuni fedeli. L’attesa di tutti è che il cinema, all’angolo della strada, ridiventi chiesa.

Odessa. Celeberrima è la scalinata della città, immortalata dal film La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (1925). Il capolavoro racconta la rivolta dell’equipaggio della nave russa Potemkin, che raggiunge Odessa. L’ammutinamento scoppia perché il medico di bordo dichiara commestibile carne marcia. La gente è solidale con l’equipaggio. Ma la polizia dello zar affoga nel sangue la ribellione. Fra le vittime c’è una mamma, con una carrozzina, sulla sommità della scalinata di Odessa. Colpita a morte, la donna abbandona la carrozzina, che precipita lungo la gradinata. Finché si rovescia. La scena del film è apparsa anche un preludio dei tragici «kapitomboli» nei paesi dell’Unione Sovietica.

Francesco Beardi




COLOMBIA – Caracoli: tra i

IL MONDO DI PADRE JUAN

Una scuola «virtuale» per contrastare il disagio giovanile nella periferia violenta della capitale colombiana. Un’azienda agricola gestita dai
«bimbi della guerra». L’esperienza di un missionario della Consolata con il gusto della pace e tanta voglia di creare speranza.

Caracolí è un quartiere nel sud di Bogotá dove molti colombiani, specialmente del ricco nord, non si sono mai avventurati. Per raggiungerlo bisogna salire, con una camionetta o con un bus da pochi pesos, lungo strade non asfaltate che tagliano in due gli agglomerati di mattoni, laminato e legno. Attraverso le porte delle baracche, spesso aperte, si intravedono panni stesi ad asciugare, corpi scalzi e cani stanchi.
Da quasi dieci anni Caracolí è un quartiere «di invasione», cioè un quartiere che raccoglie gente di tutta la Colombia costretta ad abbandonare la terra per necessità un tempo economiche e ora soprattutto politiche. Sono specialmente i desplazados (gli sfollati a causa della guerra) a riempire il sud di Bogotá di poche cose e tante facce, che hanno i colori di tutta la nazione, dal nero della costa – retaggio dell’antica schiavitù – alla pelle dorata dei meticci, fino ai tratti olivastri e fieri degli antichi indios.
La gente è povera a Caracolí. Se tutto va bene si può permettere un pasto giornaliero: un piatto di riso e fagioli o ceci, tanto per cambiare. La sera è sufficiente una tazza di agua panela, acqua zuccherata, e poi a dormire, perché il giorno finisce presto in quelle strade polverose, dove alle 8 della sera è meglio chiudere la porta, dato che alle 10 nessuno, ma proprio nessuno, si avventura per i vicoli.
Ci sono i paramilitari a Caracolí: un esercito indipendente, un tempo finanziato dai ricchi per tutelare le terre dalla guerriglia, là dove lo stato non garantiva tutela sufficiente, e ora diventato un essere dalla vita propria e dalle cento teste. Nessuno sa chi siano, gente che vive nel quartiere, forse il vicino di casa; però tutti sanno che ci sono e non parlano. Hanno paura.
Da gennaio a metà aprile i paramilitari hanno già ucciso 88 persone nel sud di Bogotà, la maggior parte dei quali giovani al di sotto dei 25 anni. La chiamano limpieza social, pulizia sociale, volta a eliminare chi è coinvolto in giri di droga, furto o malavita in genere. La polizia entra di rado in questa parte della città e sempre in pattuglie numerose.
La gente è abituata alla morte. «Che succede là?» chiediamo a un bambino che ci corre incontro con un lecca lecca in bocca. «Un morto. Hanno trovato una mano, poi la testa. Il corpo se lo stanno mangiando i cani».
Sostiamo ai piedi della salita guardando la piccola folla radunata attorno a due uomini con le tute azzurre che raccolgono con pazienza i resti del cadavere. Da una rivendita di pane e conserve poco lontana arriva prepotente la musica un po’ malinconica di un vallenato e una donna dai fianchi marcati accenna un passo di danza.
Meraviglia e indifferenza, vita e maledizione, si può trovare di tutto e tutto nello stesso momento nella calle, che a Caracolí non è una strada come le altre, no: qui è più casa della casa. Raccoglie i bambini che, dopo la scuola primaria, non hanno la possibilità di continuare a studiare; raccoglie le donne che alle 4 del mattino si accodano pazienti in attesa di un autobus che le porti al nord, dove lavorano nelle case dei ricchi per 300.000 pesos al mese, poco meno di cento euro. Raccoglie gli uomini che vanno ai mercati generali, dove sperano di poter guadagnare la giornata e di recuperare qualche verdura di scarto per la zuppa del giorno dopo. Raccoglie gruppetti di idraulici, elettricisti e improvvisati muratori, che si aiutano l’un l’altro per costruire case veloci che sembrano fazzoletti sensibili al vento.
Gli sguardi ti seguono, quando arrivi a Caracolí, per vedere chi sei e dove vai, per provare a immaginare perché gente occidentale, che non possiede i tratti caldi dell’America Latina, si sia decisa ad andare proprio lì.

Sono ormai tre anni che un missionario della Consolata sale, spesso solo, lungo la calle di Caracolí e la gente lo riconosce, perché lui si ferma in tutte le case, una per una, e non ha fretta. Porta un messaggio, un invito per la fagiolata della domenica pomeriggio; porta un conforto o un semplice saluto e la gente sorride a quell’uomo grande, con la faccia italiana, che dopo tanti anni di America Latina non ha perso l’accento piemontese.
Padre Testa ha appena comprato una casa che due muratori stanno sistemando. Sulla porta c’è un cartello che invita ai corsi di alfabetizzazione: per informazioni rivolgersi alla Escuela amigos de la naturaleza o casa de padre Juan, perché lui si chiama Gianfranco, ma la gente qui lo chiama così: Juan.
Per il momento è agibile solo il piano terreno, dove le novizie delle suore della Consolata organizzano corsi di taglio e cucito; presto sarà possibile celebrarvi la messa. Il primo piano diventerà un laboratorio di elettronica e informatica per i ragazzi del quartiere, in collaborazione con il Sena, Centro di formazione nazionale, che metterà a disposizione alcuni insegnanti volontari.
Padre Testa ha comprato dei gerani per la sua casa di Caracolí, perché chi entra possa trovare un po’ di colore e abbia voglia di fermarsi. Sono soprattutto i bambini a invadere la casa: bussano timidamente, mettono la testa oltre la porta e appena incontrano gli occhi di padre Juan, corrono ad abbracciarlo e sanno che lui non si risparmierà: è un uomo che dà. Un sorriso, una carezza, un pezzo di pane.
– Padre Juan, oggi è il mio compleanno, gli dice un bambino.
– E allora andiamo a scegliere un regalo.
In una bottega del quartiere dove si vendono caramelle, biscotti, yogurt e telefonate, il bimbo si alza in punta di piedi: «Voglio quello», un bocadillo (dolce di frutta e zucchero) da 200 pesos che per lui è il secondo grande dono di quel giorno speciale: «Guarda cosa mi ha regalato il mio padrino» dice il bimbo, tirando fuori da una tasca un pacchetto di crackers. Perché la miseria è grande quaggiù, ma la gioia può esserlo altrettanto e con molto poco.

Aiutare un ragazzo di Caracolí a studiare costa 15 euro l’anno. Con gli aiuti che la città di Bra (CN) non fa mancare al suo concittadino, padre Testa sta progettando un centro per i bambini e i giovani del quartiere, che potrebbe essere pronto per la fine del 2006.
Capace di accogliere ben 900 ragazzi, il centro diventerà la sede di una scuola superiore «virtuale», la prima e unica del quartiere, in collaborazione con l’Università pedagogica nazionale di Bogotá, che potrà offrire formazione giornaliera tramite computer. Sono previsti anche corsi di avviamento al lavoro, con laboratori di cucito, elettronica, informatica, cucina, assemblaggio di computer, infermieristica e coltivazioni idroponiche, per educare all’autosostentamento, mantenendo la memoria della terra abbandonata a causa della guerra.
La sanità, l’istruzione e la fame sono i tre grandi nodi sociali lasciati scoperti dalla politica dell’attuale governo, che ha deciso di investire quasi esclusivamente nell’esercito, per raccogliere i consensi di gran parte dei ceti medio-alti, che invocano la sicurezza in una nazione dove la guerriglia e il paramilitarismo da decenni minano la possibilità di muoversi liberamente.
Attualmente, il sistema nazionale copre una parte delle spese sanitarie di chi non ha un lavoro, però i ceti poveri faticano a pagare persino il 10% richiesto dallo stato. Per questo, il centro contempla l’apertura di un ambulatorio di primo soccorso, un dispensario medico e una mensa gestita dai ragazzi.
Sono previsti anche corsi di musica, teatro, arti marziali, ginnastica, pittura, per dare spazio e possibilità di sfogo, divertimento e aggregazione a tutti i giovani del quartiere che decideranno di frequentare il centro, che potrà nascere e mantenersi grazie agli aiuti economici di chi vorrà impegnarsi in un piccolo gesto sociale.
Oltre alla città di Bra, l’ambasciata del Giappone potrebbe finanziare parte del progetto; e già ci si muove attivamente sul territorio colombiano per reperire un gruppo di insegnanti volontari.
L’idea della costruzione di un centro giovanile a Caracolí nasce come continuazione della bella esperienza della Fundación niños de la guerra, hombres de paz, promossa nel 2000 dai missionari della Consolata come «gesto di consolazione» per l’anno santo, con l’idea di assistere i figli degli sfollati dalla guerra.
Nel 2001, padre Testa inizió a lavorare a Carmen de Apicalá (piccolo centro nel dipartimento del Tolima, a un’ottantina di chilometri dalla capitale) con un primo gruppo di bambini, la maggior parte provenienti da Caracolí, in una finca (azienda agricola) immersa nella zona tropicale, dove il clima caliente e la vegetazione dai colori forti e dalle forme enormi, fanno dimenticare in fretta il cielo grigio della capitale.
Le urla dei ragazzi accolgono ogni martedì la camionetta che arriva carica della spesa per la settimana. Il clacson suona e chiede un poco di respiro, ma i bambini non ascoltano: continuano a urlare e invadono i vetri di mani, facce e parole: «Padre Juan, padre Juan!».
Padre Testa passa tutta la giornata con i ragazzi, ascolta i racconti della settimana, li aiuta con i compiti, controlla come vanno le coltivazioni del piccolo campo adiacente alla struttura, dà consigli e distribuisce i piccoli pacchi che i genitori mandano ai figli.
«C’è qualcosa per me?» chiede ogni settimana il piccolo Nanchito, 7 anni, pelle nera e occhi grandi. No, nessuno si ricorda di lui; però padre Juan ha comprato un pacco di biscotti e con la penna blu ha scritto in un angolo della carta rossa: «Nanchito, te lo manda papà». E non è una bugia; non è un inganno: è solo un regalo che dà la sensazione di esistere.
Originariamente la finca apparteneva a un generale dell’aeronautica; oggi i tre diciottenni ospiti della fondazione occupano la casa del generale, mentre quella dei contadini è stata abbattuta per dare spazio a un primo blocco a due piani, adibito ad aule per lo studio. Oltre a una nuova cucina, sono stati costruiti 4 dormitori con letti a castello. Per le educatrici e gli ospiti, ci sono 6 stanze con servizi.
La gestione della finca richiede un grosso impegno economico, perché, oltre alla costruzione, ampliamento e manutenzione della struttura, bisogna pensare ai vestiti, al trasporto giornaliero fino alla scuola, alla divisa, cibo, materiale scolastico e personale professionale: una psicologa, una pedagoga e una cuoca che vivono 24 ore su 24 con i ragazzi.
I 43 ospiti della finca vanno tutti i giorni a scuola e nel pomeriggio, dopo i compiti, coltivano il piccolo campo, raccolgono cacao, banane, pomodori, allevano polli e maialini.
I ragazzi fanno votazioni periodiche per eleggere il presidente, vicepresidente, segretario e i responsabili di quattro aree: studio, lavoro nel campo, spiritualità e convivenza. Ogni settimana c’è un’assemblea per discutere i problemi quotidiani e per scrivere su un foglio a quadretti, sottoscritto in calce dai partecipanti, le richieste di materiale da inoltrare a padre Juan.
Gli adulti hanno diritto a parlare ma non al voto, ed è così, attraverso l’educazione all’autoresponsabilizzazione, che bambini di strada, abituati alla violenza e portatori di ferite profonde e rabbia, si avvicinano a se stessi e agli altri con l’idea di una convivenza possibile.

Quando i ragazzi tornano alla finca, dopo un breve periodo di vacanza nei quartieri di Bogotá, ci vuole almeno un mese per riportare l’equilibrio nel gruppo, perché nei quartieri periferici, dove la prepotenza è l’arma del vincitore, è costante la tentazione della droga e il ricorso alla violenza.
Nel sud della capitale i paramilitari stanno reclutando giovani per i loro «servizi» di ordine sociale: li attirano col miraggio di qualche migliaio di pesos per impiegarli come spie o direttamente nella lotta armata.
Ecco perché è forte il bisogno di dare al più presto ai bambini e ai giovani uno spazio alternativo, dove sia possibile imparare a fidarsi di se stessi e degli altri, nella prospettiva di un impegno comune e una solidarietà che conservi la memoria del passato e apra al presente.
Sono i bambini a dare ragione a padre Testa: sono i loro sorrisi, la vitalità che hanno dentro, l’immediatezza nel togliersi i vestiti per buttarsi nel fiume e la voglia di credere che quello spazio, un po’ sospeso tra il tropico e l’inferno, sia davvero un piccolo paese dove tutto può accadere. Ci si può arrabbiare e ci si può picchiare, si può chiedere scusa e si può ricominciare. Si deve ricominciare.
Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito, che ha il colore rosso di un pacco di biscotti e un nome scritto a penna. Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito e provandone stupore.
Stupore e meraviglia per un piccolo, fondamentale passo nella costruzione di un uomo che un giorno potrà raccontare che la vita, a lui, in fondo ha dato la possibilità di scegliere come diventare. Pur venendo da Caracolí, o soprattutto per quello.

Paola Cereda




ITALIA – Viaggio tra le comunità famiglia

COMUNITARIO È BELLO

Un numero crescente di famiglie vivono insieme, felici, con sobrietà e in spirito di solidarietà e condivisione: una risposta al bisogno di «umanità» e una sfida controcorrente all’individualismo, egoismo e mode consumistiche.

Alessandro e Simona, Alberto e Sandra, Antonio e Gabriella, Manfredo e Alessandra sono seduti nella grande cucina di uno degli appartamenti della «comunità-famiglia» Ruah, a La Loggia, nella seconda cintura torinese. Tutt’intorno corrono e giocano i loro figli.
Hanno acquistato una grande cascina e l’hanno ristrutturata con gusto ricavandone alloggi, separati da porte comunicanti, per ogni nucleo familiare.
Sono tutti sui 34-35 anni, cordiali, simpatici, colti: uno è laureato in Fisica, l’altra in Lingue straniere, un’altra in Legge, una fa la grafica pubblicitaria, l’altro l’imprenditore, ecc. E si sforzano di essere coerenti con i principi evangelici e le scelte comunitarie.
Stando insieme a loro si respira creatività e frateità, uno stile di vita semplice e rivoluzionario allo stesso tempo. «Abbiamo acquistato la nostra cascina qualche anno fa – racconta Alessandro – in “proprietà indivisa”, cioè con la condivisione totale della casa, dunque anche dei debiti. Volevamo sentirci uniti nella povertà. Siamo quattro famiglie e una suora laica. Ognuno di noi lavora all’esterno, ma passiamo molta parte del tempo libero insieme: ci aiutiamo nella gestione dei figli, dell’orto e delle abitazioni, e ci ritroviamo alla sera per la preghiera. Tutti insieme partecipiamo alle spese.
Per i bambini, poi, è una ricchezza enorme. Alla base della nostra scelta c’è la fede: ci eravamo conosciuti agli incontri di Taizé e in parrocchia. È stata una “chiamata”: ci accomunava la voglia di aiutarci e di aprire la nostra vita a persone con problemi. Uno dei nostri obiettivi era quello di provare ad avvicinare gente che non sarebbe mai entrata in chiesa».
«Anche sul lavoro cerchiamo di portare concretamente la nostra testimonianza – continua Alberto – e il nostro impegno verso la famiglia e la comunità: la fedeltà al Cristo, alla propria moglie o marito e alle scelte di condivisione e solidarietà, sono aspetti fondamentali della nostra quotidianità. Importante è anche la sensibilizzazione su tematiche religiose, economiche e sociali. Cerchiamo di dimostrare concretamente che un altro modo di vivere è possibile. E rende felici».
Tra di loro hanno deciso di non farsi regali: i soldi vengono destinati a progetti di sviluppo.

«MICRO» CONTRO «MACRO»
Le comunità-famiglia sono in «contro-tendenza» rispetto all’individualismo e rappresentano un segnale di cambiamento radicale negli orientamenti esistenziali di un numero crescente di coppie e di single. È la scelta di un presente e di un futuro più umani e sostenibili, meno consumistici ed egoistici, lontani dai modelli trendy, quanto falsi e deprimenti, veicolati dalla pubblicità, dai salotti tv e dai reality show.
Elementi base dell’economia comunitaria sono la condivisione degli spazi abitativi, della terra da coltivare (dalla quale si ricavano alcuni prodotti naturali da portare in tavola), delle spese; la collaborazione nella cura e nell’educazione dei figli; la frugalità; la solidarietà; il rispetto della natura e, per molti, la preghiera. Una versione modea e non autoritaria della vecchia famiglia patriarcale.
Scrive, infatti, Sara Omacini in Le comunità di famiglie1: «Nel passaggio dalla famiglia tradizionale a quella modea e a quella postindustriale, la privatizzazione è stata caratterizzata dalla ricerca di un ambito di vita relativamente “chiuso” al mondo esterno, in cui promuovere o preservare un particolare stile di vita, prima di un ceto sociale, poi della singola famiglia… La famiglia patriarcale estesa era in grado di diffondere nel tessuto sociale capacità organizzativa, senso del dovere collettivo, abitudine alla collaborazione e alla solidarietà. Il familismo, invece, impedisce la costruzione di rapporti di fiducia trasparenti e inibisce altre forme di vita associativa… È ovvio che se la famiglia ha mantenuto pochi rapporti con il mondo esterno, nel bisogno non sa a chi rivolgersi e situazioni relativamente difficili s’ingigantiscono, perché la famiglia vive una forte solitudine».
Le «macrofamiglie», dunque, rispondono a esigenze di «unità», di ritorno al «comunitario», di accoglienza. Ma anche di sostegno concreto: i prezzi dei prodotti alimentari che sono saliti alle stelle, il potere d’acquisto degli stipendi ormai sempre più debole, la mobilità e l’instabilità del mercato del lavoro, l’ascesa senza limiti dei costi degli affitti, le bollette di gas, luce e telefono, un tempo considerati «servizi» ora diventati «beni di lusso», e così via, spesso rendono angosciante e precaria la vita dei nuclei familiari, che non hanno più ammortizzatori sociali né sponde a cui aggrapparsi.
«Insieme riusciamo ad abbattere le spese – raccontano, infatti, Michele, Vittoria e Luca della frateità del Cisv, a Reaglie, nel torinese – e possiamo garantire la disponibilità a tempo pieno di uno di noi nelle attività della comunità».
La scelta di vivere insieme offre, dunque, quella tutela che lo stato italiano non garantisce più. Si tratta di una tendenza che va di pari passo con una realtà economica, sociale e culturale sempre più problematica. Un ritorno all’economia di villaggio, di sussistenza, di scambio. Il «micro» contro il «macro» della globalizzazione neoliberista che affama e amplia il divario tra il ricchissimo e il poverissimo e annulla, depauperandoli, i ceti medi.
«Ciò che stanno tentando di fare le comunità di famiglie è analogo a quanto fecero le comunità monastiche nel periodo della fine dell’impero romano. Potevano sembrare realtà marginali; eppure hanno elaborato e diffuso una nuova cultura, che ha inciso profondamente nella formazione dell’Europa. Oggi, quasi in silenzio e senza far notizia, sorgono ovunque movimenti di comunità di famiglie. Crescono a macchia d’olio e, pur con caratteristiche diverse, rispondono al bisogno di “umanità” che tutti avvertono»2.

DOVE E COME
Se ne possono incontrare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e altre regioni: alcune sono organizzate in reti, come quelle affiliate all’Associazione comunità famiglia (Acf), che hanno alle spalle una lunga storia di volontariato e di condivisione. Altre sono esperienze di piccoli gruppi. Parallelamente, alcune hanno una forte caratterizzazione ecologica, come la comunità creata da Giannozzo Pucci a Fiesole, che pubblica la rivista italiana L’Ecologist, dedicata ai temi ambientali, oppure come gli «ecovillaggi» (il «Villaggio verde», «Comunità degli Elfi» di Sambuca Pistorniese, «Upachi», «Anande», ecc.), spirituale e/o religiosa e radicale, cioè, di rifiuto di ogni strumento tecnologico e consumistico. E altre che si contraddistinguono per la pratica della nonviolenza, come le comunità de «L’Arca di Lanza del Vasto».
Complessivamente sono diverse centinaia: il livello culturale delle persone che vi fanno parte è alto, così come la consapevolezza e la sensibilità ai piccoli e grandi problemi che affliggono l’umanità vicina e lontana. L’età degli adulti oscilla tra i 30 e gli over 50.
Le residenze sono, in genere, vecchie cascine ristrutturate, abbazie sconsacrate, ville d’epoca e castelli concessi in comodato gratuito, condomini ribattezzati «solidali». Quasi sempre in mezzo al verde e all’aria pulita.
La loro scelta di convivenza non significa assenza di privacy: nella maggior parte dei casi, infatti, ogni nucleo familiare ha un proprio spazio privato e i momenti comunitari vengono rappresentati dai pasti, momenti di preghiera, incontri, spesa, lavoro agricolo e volontariato.
Non si tratta di un revival delle «comuni» degli anni ’60 e ’70, anche se, ad esempio, le «frateità» del Cisv, un’organizzazione di volontariato di Torino, la comunità «Mambre» di Cuneo, quella di Villapizzone di Milano, il «Forteto» di Dicomano nel Mugello, sono nate proprio in quel periodo.

COLLANTE SPIRITUALE
La componente spirituale è sentita come un collante in molte esperienze comunitarie, perché ritenuta essenziale per il superamento di difficoltà e momenti di crisi: «Numerosi esperimenti di vita comune degli anni ’70 sono falliti – sottolineano le famiglie della comunità di Mambre, a Cuneo -, lasciando un senso di frustrazione e incompiutezza. Se alla base di determinate scelte c’è invece una forte fede e ideali ben radicati, anche gli ostacoli sono più facilmente superabili».
«La nostra realtà – spiegano Anna e Piero, della comunità “Nibai” di Ceusco sul Naviglio, in provincia di Milano – è nata sulla scia di un’altra esperienza: una cornoperativa di frateità con comunità residenziale, che agiva sul territorio. I primi anni sono stati di sperimentazione su principi-base, come il desiderio di creare un ambiente concreto dove maturare un cammino di fede profonda, la solidarietà e l’apertura verso gli altri, l’accoglienza sul territorio. Seguiamo le linee guida della comunità storica di Villapizzone, quella di Bruno Volpi3. Ora siamo un’associazione di comunità-famiglie. I nostri pilastri sono l’accoglienza, la condivisione dei beni e la spiritualità. Ci basiamo su un’economia frugale: stiamo attenti a ciò che compriamo».
Stili di vita e di consumo, dunque, fondati su quell’essenzialità che, nella filosofia delle comunità-famiglia, contribuisce a una trasformazione «dal basso» dei sistemi economici e sociali. Questo è pure il messaggio che, dagli anni ’90, lancia il «Centro nuovo modello di sviluppo» di Vecchiano di Pisa, creato da Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani. Esso è nato proprio dalle scelte «radicali» di un gruppetto di famiglie che, dal 1985, vivono insieme in un grande cascinale toscano.
«Per quelle strane combinazioni della vita – racconta Gesualdi -, trovammo persone che avevano la nostra stessa visione del mondo. E decidemmo di creare una comunità di accoglienza. Erano gli anni ’70, un momento particolare della storia contemporanea (c’erano i movimenti hippy, le comuni), anche se noi non ci innamorammo del comunitario fine a se stesso, ma della possibilità di mettere a frutto i nostri progetti e i nostri sogni. Volevamo coinvolgere la famiglia come istituzione, spezzando il cliché per cui essa era un intralcio al lavoro di cambiamento sociale. Decidemmo dunque di vivere insieme in una casa sufficientemente grande, perché ogni nucleo familiare potesse avere i propri spazi privati e alcuni luoghi di condivisione comuni a tutti. Insomma, doveva essere un luogo dove potenziare il nostro impegno: la nostra, infatti, era una scelta politica nel senso più ampio del termine…
Il Centro è nato per ricercare e analizzare le cause profonde che generano emarginazione e impoverimento, per definire delle strategie di difesa dei diritti degli ultimi e ricercare nuove formule economiche in grado di garantire a tutti gli esseri umani la soddisfazione dei bisogni ma nel rispetto dell’ambiente.
Studiamo le cause del sottosviluppo e le traduciamo in un linguaggio accessibile a tutti, anche a chi non ha strumenti culturali adeguati»4.

MENSA «ALLARGATA»
La comunità del Forteto5, a Dicomano nel Mugello, è un’altra di quelle che resistono tenacemente dalla fine degli anni ’70. I suoi 33 soci fondatori ne sono ancora pienamente parte da quasi 30 anni, da quando, cioè, giovanotti pieni di sogni e ideali si buttarono in quest’esperienza di condivisione e lavoro. Insieme avevano anche dato vita a una cornoperativa agricola, che ora è tra le più importanti del Mugello e distribuisce prodotti alimentari in tutta la Toscana.
Il nucleo originario, mano a mano, si è allargato, a seguito dei matrimoni, nascite, figli in adozione e affidamento: ora sono 100 persone e la loro mensa è davvero «allargata».
«Siamo rimasti in piedi fino a oggi – spiegano due dei fondatori, Luigi Goffredi e Luciano Barbagli – perché ci siamo trovati bene. Eravamo quasi tutti vecchi amici, cresciuti respirando l’aria di don Milani e di padre Balducci. Forte è stata anche l’impronta di Giorgio La Pira. Il filo conduttore che ci legava era la volontà di costruire relazioni che potessero continuare nel tempo e producessero accoglienza.
I primi 15 anni sono stati duri: i soldi erano pochi, ma il desiderio di lavorare era grande. Avevamo creato un’azienda agricola che ci permetteva di essere autosufficienti e di mantenere le nostre famiglie e i ragazzi che ci venivano affidati dai servizi sociali, e per i quali non volevamo assegni di mantenimento.
Il legame affettivo e ideale ci ha permesso di superare le difficoltà. La componente “fede” era relativa: i nostri pilastri erano l’amicizia, l’uguaglianza, gli ideali milaniani (che appassionano credenti e non credenti), e la nostra determinazione a metterli in pratica.
L’identità familiare di ogni singolo nucleo è sempre stata forte, seguita dal confronto comunitario. I nostri figli sono cresciuti insieme: la socializzazione è un’attività vitale per i ragazzi.
Ora siamo tantissimi: i nostri momenti di convivialità sono a pranzo e a cena. Alla sera ci ritroviamo per discutere, prendere insieme decisioni, proprio come facevamo agli inizi quando ci si riuniva per organizzare il lavoro dei campi o la raccolta dei prodotti. Da allora ci è rimasta questa buona abitudine».

Fondamentale, per tutte le comunità-famiglia, forse, è la convinzione che quello della condivisione sia un percorso necessario per il futuro di un’umanità solidale, interdipendente e corresponsabile.

BOX 1

Comunità Villapizzone, Milano
Fondata a Milano da Enrica e Bruno Volpi negli anni Settanta, è una grande cascina in cui vivono in «condominio solidale» una sessantina di persone e alcuni gesuiti. Tel 02-3925426 – comvillapizzone@tiscalinet.it

Frateità Cisv, Torino.
Sono attive tre comunità: a Reaglie, Sassi, Albiano. I primi nuclei comunitari risalgono agli anni ’60. Tel 011-8981477
– www.cisv.org

Il Forteto, Dicomano nel Mugello, Firenze
È nato nel 1977 da un gruppo di 30 giovani influenzati dagli ideali di don Milani. Ora sono un centinaio di persone, tra adulti e ragazzi. Si occupano dell’accoglienza di minori e hanno un’avviata azienda agricola.
Tel 055-8448376 – www.ilforteto.it

Comunità Mambre, Busca, Cuneo
Nata nel 1977, si occupa di accoglienza, fede, animazione socio-culturale e della Scuola di pace. Tel 0171-943407 – mambre@lillinet.org

Comunità Ruah, La Loggia, Torino
Sono quattro famiglie che vivono in una grande cascina in campagna e condividono momenti di preghiera, semplicità nello stile di vita, accoglienza, solidarietà e serate di discussione. Tel. 011-9627372

Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano di Pisa
La comunità di famiglie fondata nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani. Tel 050-826354
– www.cnms.it

Esiste inoltre una rete di circa 200 nuclei familiari sparsi tra Lombardia, Piemonte e Toscana in collegamento fra loro, che si riuniscono periodicamente: è l’Acf, l’associazione comunità famiglie. www.acf.org.
Rive è la rete che collega una cinquantina di villaggi ecologici presenti in Italia, tra cui la Comunità degli Elfi, Alcatraz e Damanhur.
www.sostenibile.org/rive

Angela Lano




LETTERE – Scientology risponde

Egregio direttore,
intanto la ringrazio per avermi ricevuto; come ho avuto modo di esprimere durante la mia visita, in qualità di responsabile delle relazioni estee della chiesa di Scientology di Torino, siamo davvero addolorati dall’articolo pubblicato sul numero di aprile della vostra rivista in merito alla chiesa di Scientology.
Per motivi esclusivamente dovuti allo spazio concessoci, non è possibile replicare punto per punto alle informazioni, opinioni e affermazioni riportate. Restiamo comunque a disposizione per fornire fatti e ampia documentazione.
Non intendiamo annoiare i lettori, né si intende entrare in polemica con chi ha scritto l’articolo, con lei o con l’editore. Dobbiamo però dire che non siamo stati contattati dall’autore.
Il «Viaggio-inchiesta tra i “nuovi” culti» di Maurizio Pagliassotti, non è approdato a noi; forse da qualche altra parte. Quando uno scrittore racconta di luoghi in cui non è stato, l’idea che ne risulta sarà molto probabilmente parziale se non, come in questo caso, distorta.
A questa stregua possiamo solo schematizzare come segue ciò che abbiamo da dire:
1 – A Torino siamo una comunità che conta alcune centinaia di persone.
2 – Il numero di fedeli che la chiesa cattolica sta perdendo (se ne sta perdendo) a causa della crescita della religione di Scientology nel mondo è del tutto trascurabile. Tutti gli scientologhi pagano le tasse, collaborano con le istituzioni, con altre associazioni e chiese e la maggior parte di loro, incluso il sottoscritto, non rinnegano le loro origini cristiane né l’appoggio alla chiesa cattolica. Moltissimi scientologhi, in precedenza, non avevano mai aderito a una religione in quanto praticanti.
3 – Le mete della chiesa di Scientology sono «una civiltà senza pazzia, senza criminalità e senza guerre». Il filosofo e umanitario L. Ron Hubbard ha promosso attivamente, fattivamente e quotidianamente il rispetto e la collaborazione reciproci tra persone, razze e religioni differenti, attraverso l’accrescimento della consapevolezza e del senso di responsabilità dei singoli individui. Questo impulso è stato raccolto dagli scientologhi e di fatto ciò sta avvenendo in tutto il mondo. Chiunque lo voglia potrà avere conferma diretta e personale di tali attività.
4 – Il fatto che esistano persone e siti che si oppongono non giustifica il tentativo di sminuire le nostre reali intenzioni e azioni, ponendo l’accento solo sulle controversie da questi alimentate e non significa che le nostre intenzioni e azioni siano quelle evidenziate dai nostri detrattori, forse un centinaio, dato che quelle dei sostenitori, qualche milione nel mondo, non vengono neanche presi in considerazione.
5 – Solo per fare un esempio, il fatto che il metodo laico di riabilitazione dalla droga sviluppato dallo stesso Hubbard abbia letteralmente salvato la vita a oltre 250.000 persone, quasi distrutte dalla tossicodipendenza, non ha riempito le prime pagine dei giornali, ma è un fatto facilmente riscontrabile e documentabile che meriterebbe un articolo a sé. Naturalmente non lo chiediamo, altrimenti veniamo tacciati di volerci fare pubblicità. Detto per inciso, non divulgare un qualcosa che può salvare la vita a moltissime persone è come lasciarle morire.
6 – La chiesa di Scientology offre una grande quantità di libri gratuiti alle biblioteche ed è possibile farsi una idea di cosa sia Scientology e metterla in pratica senza sborsare un euro, senza necessariamente avvicinarsi a una sede. Per chi intende venirci a trovare sono disponibili servizi e/o pubblicazioni gratuite e una biblioteca intea. Chi contribuisce economicamente, in base alle proprie possibilità, lo fa perché intende sostenere la sua chiesa che diversamente non potrebbe esistere dato che non usufruisce di alcun finanziamento pubblico di nessun genere. Le attività che vengono svolte sono caritatevoli, a carattere religioso e senza fini di lucro, secondo le leggi vigenti degli stati in cui è presente (oltre 130).
Pagliassotti conclude riferendosi a una «colluvie di studi pro e contro» il nostro movimento. Su questo punto siamo d’accordo. Si tratta di una colluvie, ossia una «quantità di cose sudicie e putride per lo più liquide» (Dizionario Garzanti della Lingua Italiana). Non converrebbe liberarsi dalla colluvie, che causa confusioni, pregiudizi, dubbi, odio ingiustificato e conoscersi meglio?
Giuseppe Cicogna
ufficio relazioni estee
chiesa di Scientology (TO)

Prendiamo atto degli aspetti positivi del movimento di Scientology. Vorrei precisare che, prima di scrivere l’articolo contestato, l’autore ha contattato la sede di Scientology di Milano.

Giuseppe Cicogna




LETTERE – Gli anziani: un valore aggiunto

Cari missionari,
nel giro di una settimana ho letto quasi interamente il fascicolo di maggio di Missioni Consolata, che considero forse la migliore tra le tante riviste missionarie oggi esistenti. La giudico completa per l’attenzione alla realtà mondiale, coraggiosa, senza scadere negli estremismi ideologici, aperta alla collaborazione di giornalisti laici.
Per cominciare, la figura profetica (e santa) di Romero mi affascina, tutte le volte che viene tratteggiata. Peccato che non abbia mai trovato chi con striscioni e voce gagliarda gridasse «santo subito». Se la chiesa non santifica Romero, chi merita di salire agli onori degli altari?
Ritengo indispensabili le due pagine dedicate alla spiegazione della sacra scrittura, tenendo conto che noi cattolici, laici soprattutto, mastichiamo a fatica il Primo e il Nuovo Testamento. Don Farinella svolge in modo egregio questo compito.
Il «dossier anziani» merita di essere riletto più volte, per la sua importanza e le riflessioni che provoca. Queste sono le mie.
– Si insiste nell’indicare il 65° anno di età come inizio dell’anzianità: sembra un’età ancora «giovanile», se è vero che in questi ultimi 30/40 anni la salute (e la longevità) è migliorata parecchio…
– Circa la chiesa, le nostre parrocchie: non mi pare che si valorizzi molto la «terza età» (non lo dico per polemica o per rivendicazione di potere). Dico che oggi una persona a 65 anni è ancora produttiva, creativa. Perché non tenee conto?
– Il costo delle badanti mi pare alto. So che qualcuno versa fino a 3 milioni (di vecchie lire) per una prestazione mensile, sia pure a giorni pieni, 24 ore su 24.
– Perché non vogliamo imitare i primi cristiani (che pare avessero tutto in comune) e non pensiamo (a una certa età) a convivenze tra fratelli e sorelle e non (vivendo come tra fratelli e sorelle, ovviamente)?
– Certo la soluzione prospettata da ricoveri tipo «Sorelle per i poveri» (pag. 32/34) è ottima, da incrementare, moltiplicare, visti gli attuali costi impervi di troppi ricoveri, ammesso che l’uomo d’oggi e di domani si trovi a suo agio in soluzioni del genere?
– Ritengo l’articolo di L. del Piatto, «Se non incontro lo specchio…», meritevole di figurare sulle antologie per i nostri studenti.
– Per finire: tutte le riviste missionarie ci portano in casa situazioni di fame, malattia, violenza, guerre… (purtroppo trascurate dalla tv). Mentre sto cenando, come posso digerire la notizia che un certo Bonolis ha firmato un accordo con Mediaset con cui intascherà 24 milioni di euro in tre anni? Mi auguro che almeno qualche briciola il fortunato presentatore la devolverà per quelle terribili condizioni.
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Grazie per le stimolanti considerazioni. Vogliamo sottolineae solo una: valorizzare di più la «terza età» non solo in parrocchia, ma anche nelle missioni. A tale proposito segnaliamo la testimonianza dei coniugi Paracchini in Rwanda: «Chiamati all’11a ora» (M.C. settembre 2004 e gennaio 2005, p.7).

Ambrogio Vismara




LETTERE – Governo e guerriglia sullo stesso piano?

Cari missionari,
ho letto con interesse il servizio sulla Colombia (M.C. maggio 2005). Credo tuttavia sia opportuno precisare un aspetto. Nell’articolo si parla di forti interessi economici per lo sfruttamento delle risorse naturali e introiti della coca, sia da parte del governo che della guerriglia, ipotizzando che queste siano le vere cause della guerra. Questo approccio tende, a mio avviso ingiustamente, a mettere sullo stesso piano governo e guerriglia.
Premesso che la lotta armata e l’uso della violenza per risolvere i problemi è sempre sbagliato, non si deve dimenticare che tale lotta nasce da una situazione di profonda ingiustizia sociale (una ristretta oligarchia ricchissima controlla economia e politica, mentre 33 su 44 milioni di abitanti sono poveri), combinata con un’assoluta mancanza di reali prospettive di soluzioni democratiche.
Il governo colombiano ha tollerato e supportato lo sviluppo di forze paramilitari che collateralmente all’esercito e ai narcotrafficanti (finché sono stati utili) hanno usato la violenza indiscriminata sulla popolazione civile (con stragi di contadini, donne, bambini, sindacalisti, difensori dei diritti umani e giornalisti), per intimidirla e tutelare gli interessi di aziende e latifondisti, agendo nella più totale e scandalosa impunità (cfr. G. Piccoli, Colombia, il paese dell’eccesso).
Quando, dopo un accordo di pace, la guerriglia costituì un partito (Union Patriotica) per partecipare alla vita democratica, sospendendo la lotta armata fu sottoposta a un massacro continuo e impunito dei suoi iscritti e rappresentanti (media di 1 politico di Up ucciso ogni 19 ore per 7 anni, compreso un candidato alla presidenza nel ’90, fino all’estinzione totale), dimostrando come la Colombia sia solo formalmente una democrazia, anche se i nostri governi la considerano tale solo perché vi sono «libere» elezioni.
P.S. Complimenti per gli interessantissimi dossiers su giovani ed anziani.
Dario Selvaggi
Trapani

La situazione della Colombia è molto complessa. Abbiamo sempre denunciato la mancanza di vera democrazia e le ingiustizie sociali, contro cui sono insorti i movimenti rivoluzionari. Oggi, però, gli ideali dei vari gruppi guerriglieri non corrispondono più a quelli delle origini.

Dario Selvaggi




Negativo anche il buon Gesù?

Eccoli ancora «in vetrina» nel castello di Gleneagles (Scozia). I G8, ossia, i capi dei paesi più industrializzati del mondo, Italia compresa, dal 5 all’8 luglio 2005 si sono ritrovati nella cittadina scozzese per discutere di petrolio, crescita economica, clima, nonché degli affanni dell’Africa. Come in altre occasioni, non sono mancati i contestatori, fra cui i black block con i loro vandalismi. Di fronte all’incivile spettacolo qualcuno ha commentato: «Speriamo che non ci scappi il morto come al G8 di Genova nel 2001».
Speranza vana. Le vittime sono quasi 60. Ma, rispetto a Genova, la strage è differente: è avveunta a Londra il 7 luglio, sui convogli della metropolitana, edè stata rivendicata dalla famigerata Al Qaeda.
Al cospetto delle vittime (innocenti) di ieri e oggi, la «simpatia» è profonda e la condanna totale per gli attentatori. I sentimenti si tramutano soprattutto in preghiera. E non scordiamo l’Africa, che svettava come priorità nell’agenda dei G8. Poi, con l’incalzare della tragedia londinese, l’attenzione è quasi svanita: destino perverso, ricorrente per il continente nero.

N el loro documento finale i G8 hanno proposto un piano di aiuti all’Africa: prevede anche l’azzeramento del debito estero di 14 paesi poveri. Il problema era stato sollevato qualche giorno prima, a Londra, dai ministri finanziari dei G8 (Russia esclusa), groriandosi di «una scelta epocale». Esagerati! La cancellazione di debiti multilaterali è un’iniziativa già in atto da tempo per opera della società civile e religiosa, chiesa cattolica in testa. Pertanto è fuori luogo ascrivere ai G8 una scelta epocale.
E poi, la scelta è largamente insufficiente: sono circa 70 le nazioni gravate dal debito estero. Spesso si va per le lunghe. Ma, se vi sono interessi occidentali in gioco, i debiti si azzerano in fretta. Nel 2004 l’Iraq beneficiò di un condono di 30 miliardi di dollari.
Insufficienti sono pure i 50 miliardi di dollari destinati dai G8, entro il 2010, allo sviluppo dell’Africa. Secondo l’Onu, tale somma dovrebbe essere stanziata ogni anno per realizzare nel 2015 gli obiettivi proclamati nel 2000. Intanto le nazioni ricche sono lontanissime dal devolvere allo sviluppo del Sud del mondo lo 0,7% del loro prodotto interno lordo, promesso da decenni, riaffermato solennemente dai G8 a Genova e sempre disatteso. Oggi l’impegno dello 0,7% viene posposto al 2015, allorché almeno i paesi dell’Unione europea dovrebbero assolverlo.
Nel 2001 i G8 avevano pure deciso di combattere l’Aids in Africa: un’altra promessa da marinaio, rilanciata a Gleneagles. La verità è che, spesso, i G8 non possono né vogliono decidere, né tanto meno agire, ma solo «raccomandare», specialmente quando sono coinvolte istituzioni inteazionali.
I meeting dei G8 sono discutibili anche per il loro regolamento e per numero e identità dei partecipanti. A Gleneagles, dove si intendeva portare alla ribalta l’Africa, i suoi veri portavoce erano pochissimi. Dal G8 si dovrebbe passare al «G-tutti»: parola di Dionigi Tettamanzi nel 2001, arcivescovo di Genova.

A llibiti dalla strage di Londra, i G8 non hanno potuto ignorare il terrorismo internazionale. Tony Blair ha dichiarato che bisogna eliminare le sue cause profonde: la repressione non basta. Il premier britannico lo ha detto anche perché, nelle ultime votazioni, ha rischiato di perdere la poltrona, dato il coinvolgimento armato della Gran Bretagna in Iraq.
La risposta militare ad azioni terroristiche annienta vite in Iraq e Afghanistan, con una instabilità che potrà durare anni. È necessaria una riflessione critica sugli atti di violenza e ingiustizia che alienano milioni di uomini e donne in tutto il mondo. «La pace si costruisce giorno per giorno nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini» Populorum progressio 76).
Noi abbiamo sempre creduto nella trattativa politica e nel dialogo. Però il dialogo non è praticabile con chi parla solo seminando morte e terrore. Ma questo non deve scoraggiare; invece deve intensificare lo sforzo per interloquire con chi, specie nel mondo arabo e islamico, persegue cammini di convivenza, di equa ripartizione delle risorse (patrimonio dell’intera umanità), di solidarietà. Una sfida gigantesca.
Pare che persino Gesù non fosse sempre solidale con gli stranieri. A una madre, sirofenicia, che gli chiese di soccorrere la figlia indemoniata, replicò con arroganza: «Non è giusto buttare ai cani il pane dei figli». «È vero, Signore – replicò la donna -. Ma i cani, sotto la tavola, non possono mangiare le briciole dei padroni?». E Gesù fu sconfitto da «un’extracomunitaria infedele» (cfr. Mt 15, 21-28).
Francesco Beardi

Francesco Beardi




COME STA FATOU? Il segreto di Lucho, il medico


«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma…».

Lucho arrivò con mezz’ora di ritardo. La bottiglia di rhum Pampero ed il mais tostato erano pronti sulla tavola. La sera stava scendendo umida sulla sabbia di Villa, qualche ragazzo giocava ancora a pallone nel campetto di fronte alla casa che era silenziosa e carica dei vent’anni di ricordi in comune e di tensioni appena nascoste.
Sapere e far finta di non sapere, non essere e far finta di essere, non era facile per noi due e la bottiglia di rhum avrebbe dovuto aiutarci e così fece.
Era arrivato in ritardo, perché i suoi pazienti, che da tempo non vedeva, lo avevano fermato varie volte nel cammino. Raccontava questo con emozione, mentre si toglieva la giacca umida della sera di Villa, si lisciava i capelli oramai lievemente brizzolati e con il pollice e l’indice si sistemava i baffi ispidi sotto il naso prominente; mentre i suoi occhi, mobili e sempre arrossati, con soddisfazione osservavano la casa vuota di gente e la bottiglia ancora chiusa appoggiata sulla tavola.
Da una tasca della giacca estrasse un pacchetto di sigarette Premiere, una scatola di fiammiferi Inti, si sedette e cominciò a vomitare la sua vita.
Per me era sempre Lucho, il migliore, il più lucido tra tutti noi medici di Villa. Per me era sempre Lucho, il rivoluzionario, il gran bevitore, l’instancabile parlatore, il giocatore alle corse di cavalli, sempre alla ricerca di quattro soldi per mandare avanti i suoi figli.

«DOTTORE, DOTTORE…»

Gli occhi lucidi, il fumo delle sigarette ed il rhum e quel vomito di affetti, ricordi e rimpianti che, come diceva lui, erano quello che contava della sua vita.
«Sai di tutto il nostro lavoro sulla tubercolosi? È stato pubblicato da altri senza neanche menzionare i nostri nomi. E sai del mio lavoro sul colera? L’hanno pubblicato a Cuba senza dirmi niente».
«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito; ne ho trovati tanti venendo a casa tua. Quanti ne ho visitati nei miei anni di lavoro a Villa; quaranta, cinquanta al giorno per 15 anni di seguito e quello che potevano darmi non bastava mai per mantenere i miei figli. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma è stato il periodo più bello della mia vita».
Toraci scheletrici, addomi globosi, gole infiammate, croste di impetigo su pelli nere, su pelli bianche; oxiuri, ascaridi, giardie, vermi di tutti i tipi; pressioni alte e pressioni basse; mormorii, fischi, gorgoglii, suoni anforidi percepiti allo stetoscopio, battiti cardiaci. Le dita che percuotono i toraci e le schiene ricavandone suoni cupi e chiari; strati di gonne per arrivare ad addomi sofferenti; magliette sporche, piedi pieni di sabbia, mani rugose e secche, morbide e umidicce, affusolate, tozze; denti radi, neri o forti e bianchissimi; capelli duri e ispidi, crespi e lisci; tagli di vetri e di lame, morsi di cane, ago ricurvo e fili di tanti spessori, pinze e forbici, vaschette, secchi di garze sporche, la piccola sterilizzatrice a secco, gli abbassalingua e l’otoscopio, bilancia per neonati e per adulti; vasettini di plastica con coperchio per raccogliere lo sputo e cercare quei maledetti bastoncini rossi colorandoli con il metodo Zield Nelseen, il microscopio, la centrifuga.
«Dottore, mio figlio la notte digrigna i denti»; «Sono i parassiti»; «No, non è una vergogna la tubercolosi; sono dei bacilli che si colorano di rosso. Dovrà prendere pastiglie e farsi delle iniezioni e specialmente mangiare e mangiare»; «Cosa ha aspettato, signora, a portarmi suo figlio: è una broncopolmonite»; «Non avevo soldi e non posso comprare le medicine, sono calde o fredde?»; «Sì, sì l’eucalipto va bene, quello canforato dalle foglie argentee, ma deve prendere anche le capsule di amoxicillina, confezioni grandi di fiale di streptomicina, di pastiglie di isoniazide, di capsule di rifampicina e di etambutolo, ampicillina in sciroppo, bactrim, bustine di mebendazolo, pastiglie di piperazina e grossi vasi di vitamine colorate che avevano sempre successo»; «Sta partorendo la figlia del panettiere?»; «Chiamate la matrona. Io verrò se ci sono problemi»; «Fate passare quel bambino che ha la febbre alta»; «Come? C’è una famiglia a rischio? Forse ci sono bambini denutriti? Più tardi andrò a vedere».
«L’atrio dell’ambulatorio è pieno di sabbia e la sera è scesa. Chiudo. Esco sulla sabbia e passo a vedere la figlia del panettiere: ha partorito normalmente, mi offrono un piatto di riso con un pezzo di pollo ed un bicchiere di acqua di mele, raccomando di allattare al seno».
«Poi la famiglia a rischio, brutta la casa, senza finestre, pavimento di sabbia bagnata, reti sfondate con luridi materassi, vestiti e stracci ammucchiati su fili tesi fra le stuoie, pentola nera su di un fornello a cherosene, yuca bollita, televisore acceso, bambini senza scarpe, uno buttato su di una stuoia».

MALEDETTA POVERTÀ

Lucho era un fiume in piena ed io lo ascoltavo senza interromperlo. «Maledetta la povertà, maledetta la povertà che toglie anche la dignità, maledetta la povertà che genera violenza, maledetta la povertà che genera altra povertà e che genera bambini che saranno poveri senza speranza. Maledetto questo lavoro che non riesce a curare la malattia di ciascuno di loro, la povertà. Maledetta l’ignoranza che genera povertà e che da questa si alimenta, maledette queste stuoie che la nascondono e maledetti gli occhi di quelli che non vogliono vederla e di quelli che, avendola vista, se ne dimenticano».
«Scaldo lo stetoscopio fra le mie mani mentre parlo dolcemente al bambino, chiamandolo per nome, ha il mio stesso nome: “Lucho, piccolo Lucho, fammi sentire i tuoi polmoni, apri la boccuccia, uuh che begli occhi hai. Dai, vediamo il tuo pancino: è bello gonfio. Vede, signora, le narici come si muovono? Fa fatica a respirare e la sua pelle è secca, non ha un filo di grasso. Sente queste fossette sulla sua piccola testa? Ha sete. Vede questi capelli così fini e rossicci? È segno che non si sta alimentando bene. Dobbiamo curarlo, perché ha smesso di allattarlo? È denutrito, forse ha i vermi e una brutta bronchite. Lo so che non può portarlo in ospedale, signora, ma perché non me l’ha portato prima in ambulatorio, perché non l’ha pesato. Ah, non l’ha registrato quando è nato? Vai piccolo Lucho, porti il mio nome, da grande farai il medico, o l’ingegnere, vero?”».
«L’ho mandato da te a curarsi, ricordi; e Francisca, la psicologa, ha curato anche sua madre, infilandola sotto la doccia, pettinandole i capelli, mettendole il rossetto, e sai che l’altro giorno ho visto il piccolo Lucho? L’ho trovato a un parcheggio che lavava automobili, ha lavato anche la mia e non ha voluto neanche una mancia; ora avrà 15 anni il piccolo Lucho».
«Ma lo sai che se faccio il medico, la colpa è tutta di mio padre? Avevo una dozzina di anni ed ero riuscito a entrare nella migliore delle scuole di Lima. Mio padre ne era orgoglioso e tutto sembrava già deciso dal destino. Quel giorno invece di andare a scuola, insieme a un gruppetto di compagni di classe decidemmo di andare a giocare a pallone nel parco vicino. Era un piacere passeggiare per Lima in quei giorni di sole tiepido e così facemmo. Non mi accorsi però che mio padre ci aveva incrociato mentre si recava ad insegnare alla scuola di “Canto Grande” dove, diceva, la vita si apprendeva a suon di botte».
«Come spesso accade nella vita, quel fatto banale si è trasformato nel trampolino verso un mondo che non conoscevo e che ora mi riempie totalmente. Mio padre, pur essendo di cultura rigidamente borghese e pur avendo desiderato il mio inserimento nella scuola che frequentavo, al mio ritorno a casa mi disse semplicemente: “Lucho, da domani cambi scuola. Vieni a Canto Grande perché devi imparare a vivere e a rispettare gli impegni che ti prendi”».
«Io capii subito che mi aveva visto col pallone in mano e senza neanche una lacrima accettai di lasciare la scuola dei ricchi per andare in quella di periferia».
«Il mio compagno di banco era figlio di un venditore ambulante, che portava in giro per i mercatini della città la sua mercanzia fatta di suole di scarpe, lacci, lucidi e spazzole. Era il genio della classe e mi batteva specialmente in matematica e scienze. Se io ero grassoccio e non tanto alto, lui era invece mingherlino. Non gli piaceva giocare a pallone ed era estremamente attento ai problemi di ognuno dei suoi compagni. Un giorno cominciò a tossire e dopo un po’ di tempo a sputare sangue. Mio padre si allarmò, lo portammo in ospedale, lo curammo; morì di tubercolosi a quattordici anni. Gli giurai che avrei fatto il medico, perché non era giusto morire così».
«Sono forse un matto o il più stupido dei medici, perché invece di fare i soldi negli Stati Uniti sono rimasto in questo piccolo ambulatorio a curare chi a ogni piccolo balzo all’insù del dollaro mangia un po’ meno?».

LUCHO ED IO

La bottiglia di rhum era a metà, il posacenere stracolmo, e oramai le lacrime ci rigavano le guance ricordando i tempi passati: la nostra giovinezza, i nostri viaggi all’inferno e i nostri ritorni, non ci trovavamo mai d’accordo e ci avevano definiti i due carissimi nemici fedeli e ora non potevamo più esserlo.
Lo accompagnai alla porta, la sua auto scassata era là ad attenderlo. Ci abbracciammo, oramai uomini dai capelli radi e brizzolati e dall’anima più ruvida, ci lasciammo senza dircelo, ma coscienti che ognuno di noi sapeva dell’altro.
Lucho aveva lasciato il suo ambulatorio, i suoi pazienti, le sue medicine e il suo stetoscopio, quel giorno che la polizia l’aveva cercato e che lui non era riuscito a spiegare perché non si era mai laureato.
E io? Avevo lasciato il mio ambulatorio, i miei pazienti, le mie medicine e il mio stetoscopio, quel giorno che avevo perso il coraggio di curare con le mie sole mani e che non ero riuscito a spiegarmi il perché.
Ci vuole coraggio per fare il medico laggiù; ci vuole forza e sensibilità; ci vuole fede e speranza. Ora i miei occhi non vedono più la povertà, le mie mani non sentono più i piccoli addomi tesi, le mie orecchie non riconoscono più i suoni delle cavee della tubercolosi, e quell’ultimo incontro con Lucho, il migliore di noi medici, è stato forse il momento in cui si è chiuso, per noi due, un capitolo della nostra vita. •


Enrico Larghero

DOLORE E SOFFERENZA NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI PAOLO II
Edizioni Camilliane 2005, pag. 160, € 14,00

Enrico Larghero è dirigente medico presso la Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore dell’Azienda sanitaria ospedaliera «San Giovanni Battista» di Torino. Nel 2001 ha conseguito la laurea in teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino, e nel 2003 la licenza in Teologia morale con indirizzo sociale e bioetica presso la stessa facoltà.
Nella prima parte l’autore mette a confronto orizzonti diversi della realtà del dolore: l’orizzonte della medicina, l’orizzonte della filosofia antica e modea e l’orizzonte cristiano (nelle scritture, nella riflessione teologica, dai padri della chiesa a oggi).
La seconda parte tratta del mistero del dolore nella vita e nel magistero di Giovanni Paolo ii, sottolineando la dimensione sociale della sofferenza.
«Karol Wojtyla ha posto al centro del suo papato principalmente l’uomo e la sua dignità. Da qui la solenne promessa che “laddove l’uomo nasce, soffre e muore, la chiesa sarà sempre presente a significare che, nel momento in cui egli fa l’esperienza della sofferenza Qualcuno lo chiama per accogliere e dare un senso alla sua fragile esistenza”… Il vangelo di Cristo, riproposto dai documenti papali, ha la capacità di trasformare il mondo, spesso troppo arido e secolarizzato, in un luogo di amore e di speranza».

Guido Sattin