DOSSIER GIOVANIDa nord a sud

Abbiamo dedicato questo primo dossier del 2005 ai giovani. Avevamo dei dubbi, perché gran parte dei nostri lettori sono di età adulta o avanzata. Poi però ci siamo accorti che i giovani sono oggi una categoria senza precisi confini anagrafici: molti vivono in famiglia oltre i 30 anni, quasi sempre perché il loro lavoro (quando c’è) è precario e mal pagato.
In questo dossier, è bene precisarlo con chiarezza, si parla di giovani occidentali, per i quali i bisogni primari sono, più o meno, quasi sempre soddisfatti. In altre parole, va sottolineato che i giovani del Nord del mondo non hanno le stesse problematiche di quelli del Sud. Per questi ultimi, il problema non è il cellulare di ultima generazione, il brano musicale appena uscito, il videogioco più recente, l’ultimo modello di pantaloni a vita bassa o di scarpe da ginnastica firmate.
Al Sud del mondo la vita colpisce più duro, molto più duro. L’istruzione, ad esempio, è per moltissimi un diritto teorico più che reale. Troppi giovani sono costretti ad iniziare a lavorare in età scolare per aiutare la famiglia a sopravvivere: è la piaga, mai rimarginata, del lavoro minorile, che si riscontra nella maggioranza dei paesi del Sud (dal Bangladesh all’Indonesia al Nicaragua). Senza dimenticare i giovanissimi che si ritrovano con un mitra o una pistola in mano: si pensi ai bambini-soldato (in Sierra Leone come in Colombia) o a quelli organizzati in bande (come le maras in Salvador). O, ancora, a quelli che vivono per le strade, sniffando colla e vivendo di espedienti: dai meninos de rua del Brasile ai gamines della Colombia.
Per le ragazze, poi, l’esistenza è ancora più segnata, siano esse africane, latinoamericane, indiane o filippine: da piccole (a partire dai 4 anni) debbono accudire i fratellini o aiutare la mamma o lavorare (rischiando la schiavitù o l’abuso sessuale: si pensi alle ragazze restavec di Haiti) nelle case dei ricchi; appena diventano donne (dai 13-14 anni), si ritrovano incinte e perdono di colpo quel po’ di spensieratezza che forse era loro rimasta. Giovani sfortunate, certo, ma meno di quelle che finiscono nei bordelli della Thailandia, della Cambogia o delle Filippine, tanto per fare qualche nome.

Ecco, se i giovani del Nord conoscessero meglio i problemi che affliggono i loro coetanei del Sud, forse il mondo sarebbe un luogo migliore e tutti starebbero meglio. Invece, ciò non avviene e non avviene per vari motivi. Ad esempio, perché la scuola non ha tempo da dedicare ad approfondire tematiche politicamente compromettenti e, di conseguenza, pericolose; perché la Tv (che è strumento degli adulti) offre programmi come Il grande fratello (programma globalizzato, in quanto diffuso in molti paesi occidentali) o L’isola dei famosi e gli stessi telegiornali dedicano un tempo francamente imbarazzante al gossip (fatti, misfatti e scempiaggini dei personaggi dello spettacolo).
A fronte di questa dequalificata offerta informativa del mondo adulto, non dobbiamo stupirci, come racconta Maurizio Pagliassotti nel suo articolo, se il professore di religione che chiede ai suoi alunni cosa sappiano del Darfur (la regione del Sudan dove è in corso una guerra di sterminio) si sente rispondere: «Dar… che? Ah! Carrefour!». Carrefour è – per chi non lo ricordasse – la multinazionale francese dei supermercati. Un’ulteriore dimostrazione di quanto il virus del consumo abbia contaminato tutto, tanto che i depliants pubblicitari sono più letti dei quotidiani, i quali – tra l’altro – sono, per più della metà dei giovani, uno strumento informativo inutilizzato. È altrettanto vero che, al giorno d’oggi, i ragazzi (occidentali) hanno a disposizione uno sterminato ventaglio di mezzi di comunicazione (da internet alle televisioni satellitari), ma ciò non ha impedito una diffusa ignoranza. Per citare Ignacio Ramonet: «Per lungo tempo rara e costosa, l’informazione, insieme all’aria e all’acqua, è ormai l’elemento più abbondante del pianeta. Sempre meno costosa via via che il suo gettito aumenta, ma – proprio come l’aria e l’acqua – sempre più inquinata e contaminata».

Nonostante i presunti effetti benefici della globalizzazione, Nord e Sud del mondo rimangono molto distanti (o, meglio, ancora più distanti), come distanti sono i problemi dei loro giovani. Eppure, nessuno può negare che anche in Occidente il cosiddetto «disagio giovanile», ancorché diverso, esista e sia importante perché va ad incidere sulla qualità della vita e sul futuro da costruire.
«Il tempo della gioventù si è dilatato, quello della società si è velocizzato, quello del lavoro si è allontanato» così ha ben sintetizzato la situazione Marco Bertone, pedagogista, il cui articolo apre il dossier. Ha ragione, infine, il nostro biblista Paolo Farinella, quando esorta i ragazzi a «conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato».

Paolo Moiola




Testimoni scomodi

Dal 12 al 17 ottobre 2004, a Bangkok (Thailandia) si è svolto
il 21° Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, organizzato dall’Ucip (Union catholique inteational de presse).
Vi ha partecipato anche il rappresentante della Fesmi (Federazione della stampa
missionaria italiana), che ne sintetizza gli interventi e le impressioni.

Nata nel 1927, in un periodo in cui il fascismo era al potere in Italia, il nazismo stava acquistando forza in Germania e il comunismo dominava in Unione Sovietica, l’Ucip (Unione cattolica internazionale della stampa), raccoglie, oggi, migliaia di operatori dell’informazione di ogni angolo del pianeta.
Tra le numerose attività, intese a promuovere la collaborazione tra giornalisti del Nord e Sud del mondo, in un’ottica cristiana e d’indipendenza da condizionamenti politici, vi è l’organizzazione del Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, che a cadenza triennale, si tiene di volta in volta in una diversa capitale mondiale. Il 21° si è svolto a Bangkok (Thailandia), dal 12 al 17 ottobre 2004. Vi hanno partecipato circa 500 professionisti dell’informazione, provenienti da Asia, Europa, Africa, Americhe, Oceania.
L’evento è stato preceduto dal Convegno mondiale dei giovani giornalisti cattolici (9-12 ottobre), occasione importante di confronto per quanti la condizione anagrafica pone come responsabili di un’informazione sempre più proiettata verso le nuove tecnologie e verso una globalizzazione delle esperienze, dei metodi e del linguaggio della comunicazione.
Il Congresso ha voluto essere insieme un punto di arrivo e un punto di partenza. Punto di arrivo, certamente, per il comitato organizzatore, una quarantina di professionisti dell’informazione thailandesi, che hanno lavorato duramente a partire dal dicembre 2001, quando il precedente Congresso di Friburgo votò per Bangkok come sede successiva.
Una scelta non casuale, visto che l’Asia aveva ospitato in precedenza un solo congresso dell’Ucip (a Delhi nel 1985) dal 1930; ma anche una scelta significativa, per dimostrare che l’Asia, e la Thailandia in particolare, hanno l’assoluta capacità in termini tecnologici, culturali, umani per confrontarsi alla pari con il resto del mondo.
In Asia, oggi e ancor più in prospettiva, si sono spostate le frontiere del dialogo, dell’inculturazione e della nuova evangelizzazione. Proprio la Thailandia, per la situazione geografica, etnica e religiosa, rappresenta una sintesi dell’intero continente, senza contare che la chiesa, assolutamente minoritaria nel paese, esprime una vivacità e vitalità sorprendenti, a confronto con un mondo buddista tradizionalista e in difficoltà di fronte alla necessità di accompagnare senza apparenti traumi lo straordinario sviluppo del paese.
L’organizzazione impeccabile in una coice di grande cordialità, la partecipazione attiva dei massimi vertici della chiesa thailandese e il saluto personale all’assemblea del primo ministro Thaksin Shinawatra, hanno introdotto i partecipanti (asiatici in maggioranza, ma con una presenza davvero internazionale) ai vari interventi e momenti di discussione attorno al tema «La sfida dei media di fronte al pluralismo culturale e religioso: per un nuovo ordine sociale, giustizia e pace».

Molti i temi affrontati nelle diverse comunicazioni e dibattiti, e tra questi: I media e la sfida del pluralismo culturale e religioso in Medio Oriente e in Iraq, proposto da mons. Casmoussa, arcivescovo siro-cattolico di Mosul; Tensione globale, pluralismo narrativo e pace, un’analisi sul potere dei media, proposta dalla professoressa thailandese Suwanna Satha-Anand; di più stretta attualità la riflessione di mons. Owen Campion su Impatto della religione nelle elezioni presidenziali del 2004 negli Stati Uniti.
Fuori dal programma degli interventi, la folta delegazione libanese ha distribuito ai partecipanti un documento in cui hanno chiesto l’impegno dei mass media cattolici nel mondo per favorire il pieno ripristino della sovranità nazionale in Libano.
Comunicazioni a parte, un ruolo di primo piano hanno avuto le tavole rotonde e i dibattiti, che hanno messo a confronto esperienze, posizioni e sensibilità di partecipanti provenienti da aree geografiche ed esperienze assai diverse.

In un continente dove l’influenza dei mass media è allo stesso tempo improntata al conformismo verso i poteri forti e alla critica di sistemi spesso iniqui, in un paese come la Thailandia, dove il primo ministro Thaksin Shinawatra controlla un’impressionante concentrazione di mezzi d’informazione e comunicazione, in un contesto dove il cattolicesimo è spesso fenomeno «esotico» o stigmatizzato come «straniero», è emerso anzitutto il ruolo del giornalista come «testimone».
Testimone scomodo, che deve unire qualità professionali e capacità di entrare in simpatia con le realtà locali. «Nel riferire la verità, i giornalisti si devono attenere ai massimi livelli di professionalità e di integrità morale», ha dichiarato l’arcivescovo John Foley nel suo discorso di saluto al Congresso.
Il presidente del Pontificio consiglio per le Comunicazioni sociali ha proseguito, sottolineando come la stessa vita dei giornalisti «dovrebbe riflettere la sovranità di Dio su tutti gli aspetti della vita umana» e che i giornalisti devono riflettere i «più alti livelli professionali e etici, sia come persone, sia come professionisti dell’informazione».
Ricordando il ruolo positivo dell’informazione cattolica in un contesto – quello asiatico – dove la chiesa è spesso assai minoritaria o in difficoltà, l’arcivescovo ha sottolineato il positivo impatto sulla società: «Voi non siete giornalisti cattolici per caso; e neppure cattolici prestati al giornalismo: siete invece giornalisti cattolici, con una sincera vocazione a comunicare la verità con amore e ad aiutare altri a fare lo stesso».
Dialogo e libertà sono state le linee-guida del Congresso, come sintetizzato dal presidente dell’Ucip, Ismar De Oliveira Soares: «Siamo venuti qui per ascoltare, per imparare, per dialogare e cercare nuove strade per essere presenti nel mondo contemporaneo come professionisti e come giornalisti cattolici, professionisti dei media e comunicatori. Noi non siamo soltanto invitati a proteggere i nostri stessi diritti, ma anche a dialogare con popoli, nazioni, organizzazioni da una prospettiva multiculturale… Per noi, la libertà personale e la libertà di espressione sono valori inscindibili. La libertà è più che il diritto professionale di parlare e scrivere. La libertà è il diritto della gente a scegliere come far progredire le proprie culture e a decidere delle modalità con cui informare sulla propria vita».

Thailandia paese buddista. È stato quindi con interesse che i congressisti hanno ascoltato e commentato gli interventi del portavoce del governo thailandese, Jakrapob Penkair, e del venerabile Somchai Kusalacitto, monaco buddista e docente all’Università Maha Chulalongko.
Il primo ha incentrato il suo intervento sul concetto di «sforzo etico individuale», finalizzato alla pace, alla condivisione e, a partire da un ambito tradizionalmente rurale come quello thailandese, all’«autosufficienza», via mediana fatta di moderazione, convivenza e uso di tecnologie sostenibili. Il secondo ha focalizzato gli aspetti morali dell’attività giornalistica e dell’uso dei modei mezzi di comunicazione di massa.
Interessante l’analisi di Somchai Kusalacitto riguardo la sfida che la comunicazione pone oggi al buddismo, religione che, come parte di una più vasta presa di distanza dai «vincoli» mondani allo sforzo di liberazione individuale, ha sempre ignorato proselitismo, missionarietà, propaganda, conoscenza che non fosse trasmessa per via diretta dai maestri o dalle scritture.
La mutata realtà dei paesi dove il buddismo è forte e strutturato, la necessità di partecipare in modo attivo alla crescita della società, l’apertura a nuove istanze religiose, sociali e culturali in un contesto globale, il crescente disinteresse religioso incentivato dal benessere sempre più diffuso, spingono, oggi, anche i seguaci della dottrina del Budda a cercare un nuovo e diverso rapporto con i mass media.

Occasione di contatto e scambio di informazioni e idee tra i singoli operatori dell’informazione, fra testate e associazioni professionali iscritti all’Ucip, il Congresso non ha sintetizzato i propri lavori in un comunicato finale. Tuttavia la sensazione è che l’evento sia davvero servito, come ha suggerito il presidente De Oliveira Soares, a «rafforzare il nostro impegno come giornalisti a essere più vicini alla gente e alla sua cultura, difendendo la libertà di espressione. Siamo venuti qui per osservare, ricevere e riportare nei nostri paesi d’origine le esperienze vitali che rendono questo luogo un orizzonte illuminato».

Stefano Vecchia




ARTICOLO Raccontami la storia

Il peggiore nemico della verità non è tanto l’errore quanto la noia. Per far sì che i contenuti dottrinali arrivino al cuore, è necessario tornare al metodo evangelicodel «raccontare» la storia della salvezza.
Un metodo raccomandato sia nel dialogo ecumenico, che nella predicazione e catechesi.

È evidente, almeno così sembra, che anche in campo ecumenico, di dialogo con le altre confessioni cristiane, o in campo religioso e pastorale, nella predicazione e nella catechesi, occorra essere chiari, cioè usare un linguaggio capito da tutti. La qual cosa, oggi come oggi, non avviene. Colpa soprattutto dei teologi e degli autori dei documenti ufficiali che ci piovono sulla testa.
Ripeto ancora una volta ciò che ebbe a dire il noto predicatore padre Raniero Cantalamessa: «Uno dei motivi per cui in molte parti del mondo si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sette è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa, da non attivare direttamente il cuore di una persona».
Purtroppo il problema non è solo quello di parlare in maniera chiara e comprensibile, ma è anche soprattutto di contenuto, di quello che si dice, se è giusto, appropriato e importante.
Il padre Y. Congar in un libro del 1987 dal titolo Conversazioni d’autunno (Entretiens d’Automne), giunto quasi al termine della sua vita, scriveva a riguardo dell’islam e del cristianesimo: «La prima qualità dell’islam è la semplicità. Non c’è che un dogma: Dio è Dio, Maometto è il suo profeta. È un’affermazione forte della pura trascendenza, in confronto alla quale è certo che la fede cristiana, soprattutto la fede cattolica, è qualcosa di abbastanza complicato; quando si aggiunge la Trinità, l’incarnazione, i sacramenti; tutto ciò diventa complesso, lo sappiamo» (pag.116).
Ma lo sappiamo? Pare proprio di no! Il padre Eesto Balducci, a sua volta, in un libro del 1985, in modo più graffiante, com’era nel suo stile, osserva: «Le prediche fanno sbadigliare».
In senso più umoristico, Alessandro Pronzato riporta una lamentela della collaboratrice domestica (mai esistita) di Casa Guareschi, che muove al suo padrone, al quale dà del «lui», un rimprovero che, tutto sommato, è un elogio: «Lui non mi piace come scrive… Intanto lui adopera delle parole che tutti conoscono per dire delle cose che tutti capiscono e allora dove va a finire la cultura?». (G. Guareschi, Vita con Gio’. La gloria di Montassù, Milano 1995).
La predica, sovente, scrive sempre don Pronzato, come è stato da più parti denunciato, rappresenta «un vero tormento dei fedeli. Personalmente resto convinto che il grosso e più temibile nemico della verità non sia tanto l’errore, quanto la noia» (prefazione in Don Camillo. Il Vangelo dei semplici, 2001, p.11). Al punto, e la cosa pare sia sufficientemente documentata, che Giovanni xxiii avrebbe voluto affidare la stesura di un catechismo a uno «scrittore popolare», accettando la proposta che fosse Giovannino Guareschi, magari affiancato da un bravo teologo.
Comunque le presentazioni dottrinali e persino le letture evangeliche sono in genere «esasperatamente intellettualistiche, fredde, aride, in un linguaggio impervio, precluso alla gente comune». Questo lo dice il card. Giacomo Biffi.

L’eresia degli eunomiani

Non c’è forse sotto sotto un rigurgito di un errore antico, già condannato nei primi secoli (eunomiani), che consisteva nell’affermare che Dio lo si può conoscere con la ragione e definire perfettamente. Dio invece è ineffabile. Per cui ogni discorso su Dio non è mai adeguato alla realtà descritta; si tratta sempre di un discorso analogico: Dio è chiamato luce perché ha verso le intelligenze un ruolo analogo, cioè simile, a quello della luce per gli occhi; è chiamato spirito perché conserva la vera vita, come l’alito conserva la vita del corpo. Così la pensava Origene, nato nel 185.
San Tommaso a sua volta scrive: «Poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamente, quasi balbettando… Imperfecte nominamus, quasi balbutiendo» (I Sent. 22,1,1,1 sol.).
Mentre per secoli su Dio si è pensato di poter dire tutto e con estrema sicurezza, con definizioni su definizioni, i fedeli di oggi forse non sopportano più un atteggiamento del genere.
Nell’Apocalisse (14,6) si legge: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra». Un vangelo eterno: cosa potrebbe essere? Senza lettere, senza figure, senza immagini, cioè pura buona notizia?

«Sono cristiano
secondo il vangelo,
non secondo i parroci»

Affermazioni del genere esprimono la crisi in cui si trova il cristianesimo e il cattolicesimo ai giorni nostri. È come piangere sul latte versato. Anche se le motivazioni di tali affermazioni non sono del tutto disinteressate o appaiono dettate, a volte, per motivi di comodo.
Ignazio Silone, e con lui moltissimi altri, si definiva «un cristiano senza chiesa». Anche la moglie, Elisabeth Darina, irlandese e cattolica, morta nel luglio 2003, scriveva di sé: «Io, povera cristiana. Resto una credente, ma al di fuori di ogni chiesa. I motivi? Troppa rigidità e anche grettezza nel cattolicesimo irlandese. Dopo la guerra, a Roma, mi trovai seduta a pranzo accanto a Jacques Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, e colsi l’occasione per chiedergli cosa pensasse del cattolicesimo irlandese. “Le catholicisme irlandais? – rispose senza esitare – C’est du jansénisme obscurantiste”. Pronunciata da Maritain, mi confermava tutto».
Oggi forse il cattolicesimo, specie in Europa, non pecca per oscurantismo, ma per complessità, oscurità, per troppe parole, per troppo raziocinio. Eesto Balducci in L’uomo planetario (1985) riporta una canzone dello Zaire, dove si canta: «Cristiani, come siete infelici! La mattina alla messa, la sera dallo stregone, l’amuleto in tasca, lo scapolare al collo».
Anche il filosofo Norberto Bobbio, deceduto il 9 gennaio dello scorso anno, nel suo testamento spirituale scriveva: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì! Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornare di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico, come uomo di ragione e non di fede. So di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e che le religioni interpretano in vario modo».
Nel 2001 uscì, tradotto dall’inglese, un piccolo best seller di una donna statunitense, Joan Brady, dal titolo: Dio su una Harley. La trama fa sorridere. Si tratta di un’infermiera sulla quarantina, in crisi anche religiosa, quando una sera scorge sulla spiaggia, baciato da un raggio di luna, un uomo a cavalcioni di una potente moto, una Harley Davidson. Incominciano a chiacchierare, ma quando lei gli chiede il suo nome, lui risponde: «Dio».
Dapprima la donna crede che sia scappato da un manicomio, poi, a poco a poco deve arrendersi. Il misterioso motociclista conosce tutto della sua vita, comprese le sue difficoltà religiose: «Una religione che non funziona. Una religione dove tutto è scritto in maiuscolo… e poi dieci comandamenti, non sono forse troppi?».
E questo Dio «in moto» le insegna come ridurre quei dieci comandamenti a sei. Ma anche così sono impegnativi, ma hanno il vantaggio di essere su sua misura. Sono molti coloro che hanno bisogno di comandamenti personali. Per concludere, le dice il Dio della moto, «vorrei che tu la smettessi di pensare a me come Dio… È un termine così antiquato! La tua concezione di Dio è piuttosto imprecisa ed è mia intenzione modificare questa immagine… Voglio essere importante per te, Christine, e non un tizio grande e grosso che dall’alto dei cieli prende nota dei tuoi errori».
Abbiamo un cristianesimo con molte «mediazioni» e molti simboli. Tutti validi o alcuni inflazionati? Oppure è da molto tempo che abbiamo dimenticato qualcosa di molto importante?
Piccoli segnali ci giungono da molte parti, per dirci che c’è bisogno di qualcos’altro, anche senza ridurre i dieci comandamenti a sei.
Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».
Così quando nel 1925 uscì l’enciclica di Pio xi su Cristo Re, Teilhard de Chardin ebbe un moto di ribellione e scrisse: «Lo voglio gridare: il vostro Cristo è troppo piccolo! Lasciatemelo fare più grande; grande come il mondo!».

«Fin dalla mia infanzia,
mio padre mi raccontava»
(Ester 4,17)

Un noto biblista, il gesuita Jean-Noël Aletti, già da qualche anno, si sta chiedendo quale fosse la teologia delle prime comunità cristiane. È del parere che il messaggio cristiano non poteva essere espresso in concetti, ma come racconto. Scrisse infatti L’arte di raccontare di Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Brescia 1991 e anche Il racconto come teologia, Roma 1996.
Per cui i nostri contemporanei, a tutti i livelli, ne dovrebbero tener conto, perché troppo spesso dimenticano la natura propriamente narrativa, non solo del vangelo di Luca, ma di tutta la scrittura. Di fatto se dai vangeli, specie da quello di Luca, si eliminassero i racconti, in mano ci resterebbe ben poco.
Anche se non è sufficiente fermarsi al racconto o alla composizione scenica, perché il racconto e ogni racconto occorre renderlo stimolante, esemplare, compararlo con l’insieme, per rendere evidente il suo insegnamento. Gesù, ad esempio, parla del regno dei cieli solo in parabole; non dice «il regno dei cieli è…», ma «il regno dei cieli è come…».
D’altra parte il Concilio ha dato corpo a tutta la rivelazione cristiana come «storia della salvezza», e la storia è composta in massima parte di fatti e di eventi significativi.
Il noto teologo E. Schillebeeckx nella prima pagina del suo volume dal titolo Gesù, storia di un vivente, del 1973, scrive: «Ho cercato di colmare l’abisso tra la teologia accademica e i bisogni concreti dei fedeli».
E alla fine del volume (p. 714) commenta: «Negli Atti (4,10-12) si racconta che Pietro guarì lo storpio del villaggio quando gli raccontò la “storia di Gesù”».
Per dimostrare l’efficacia della narrazione o della «fede narrativa», riporta quanto scrisse M. Buber, in relazione al racconto dello storpio degli Atti: «Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora mio nonno raccontò come il santo Baal Shem avesse l’abitudine di saltare e danzare mentre pregava. Mio nonno, dimenticando di essere paralitico, si alzò e raccontò; la storia lo eccitò al punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie».
E se noi cristiani di oggi fossimo tutti un po’ paralitici?

Igino Tubaldo




ARTICOLO Lebbra & lebbre

Da mezzo secolo, l’ultima domenica di gennaio è dedicata alla lotta contro la lebbra: un’occasione per sensibilizzare la coscienza umana e cristiana su altre lebbre modee: ingiustizia e indifferenza.

Fu celebrata per la prima volta nel 1954, l’ultima domenica di gennaio. Dieci anni dopo, 116 nazioni avevano aderito all’iniziativa; oggi la Giornata mondiale per malati di lebbra (Gml) è celebrata in tutti i paesi del globo.
Ispiratore di tale iniziativa fu il giornalista e scrittore francese Raoul Follereau (1903-1977), il quale ha dedicato tutta la vita a combattere la lebbra, una malattia antichissima e molto temuta, che costringeva chi ne era affetto a una emarginazione tale che causava una morte sociale prima ancora di quella fisica.
Aveva capito che la lebbra era una delle tante conseguenze del sottosviluppo e che le sue radici sono nell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta e nell’indifferenza di chi è stato privilegiato dalla sorte. Follereau si è, quindi, impegnato contro la lebbra e contro quelle che ha definito «tutte le lebbre: indifferenza, egoismo e altre forme di ingiustizia».
Ancora oggi, la Gml vuole dare voce a coloro che più di ogni altro al mondo soffrono non solo le conseguenze di una terribile malattia, ma quelle più atroci dell’emarginazione, abbandono, riduzione a una condizione subumana.

Lebbra: stigma sociale

È una malattia contagiosa, causata dal mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita hanseniasi o morbo di Hansen e i malati hanseniani.
Anche se la malattia è perfettamente curabile, ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale: le persone che ne sono affette, anche se completamente guarite, sono considerate «diverse» e socialmente emarginate.
Tale stigma è dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell’incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca, devastanti e inconfondibili.
CIFRE E CURE
Il bacillo distrugge i nervi periferici, provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata con una cura precoce e tempestiva, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Sono circa 514 mila i nuovi casi registrati nel 2003 (vedi riquadro). Tra i nuovi casi molti sono bambini e 250 mila hanno già danni permanenti che li renderanno disabili per tutta la vita.
In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio?
Di fatto, quando si avviano i piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita e aveva il solo effetto di rallentare l’avanzata della malattia. A partire dai primi anni ’80, con l’introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), finalmente dalla lebbra si può guarire.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d’incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a 2 anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Miele della solidarietà

In Italia, la Giornata mondiale dei malati di lebbra è uno dei principali eventi legati all’impegno dell’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo).
Nata nel 1961, l’Aifo ha esteso la sua presenza in tutta Italia: centinaia di volontari, ispirandosi al messaggio di giustizia e pace di Follereau, continuano a dare voce agli ultimi, lottando contro la lebbra e contro tutte le lebbre, cioè contro le forme più estreme di ingiustizia ed emarginazione.
Riconosciuta come Organismo non governativo (Ong) di cooperazione sanitaria internazionale, l’Associazione è attualmente presente in 24 paesi dell’Africa, Asia e America Latina e collabora attivamente con alcune agenzie delle Nazioni Unite, in particolar modo con l’Oms, di cui è partner ufficiale.
Per sensibilizzare la gente nei confronti del problema della lebbra e dei temi legati allo sviluppo sociale e sanitario nei paesi più poveri del mondo, i volontari dell’Aifo animano la Giornata mondiale dei malati di lebbra con diverse iniziative, tra le quali la vendita del «miele della solidarietà» e altri prodotti del commercio equo e solidale. In centinaia di piazze italiane allestiscono banchetti, coinvolgendo le comunità locali, per raccogliere fondi a favore dei progetti dell’Associazione.
Lo scorso anno la distribuzione del «miele della solidarietà» ha coinvolto ben 447 piazze italiane, nelle quali sono stati offerti oltre 30 mila vasetti di miele.
Tra le varie iniziative di sensibilizzazione, grande importanza è data agli incontri con scuole, parrocchie e altre istituzioni, svolti in tutta Italia dai «testimoni della solidarietà». Si tratta di persone direttamente impegnate nella cura dei lebbrosi in vari paesi del mondo.
Per l’edizione 2005 giungeranno in Italia cinque testimoni che operano nei progetti contro la lebbra in Africa (vedi riquadro). Inoltre, per celebrare la 52a Giornata mondiale, è stata organizzata una touée della compagnia teatrale African Footprint Inteational del Ghana, un gruppo di fama mondiale, composto prevalentemente da artisti con disabilità, che si esibiranno in numerose città italiane per testimoniare la ricchezza di valori e di cultura di cui il continente africano è portatore e anche la ricchezza di doti umane e artistiche che le persone diversamente abili sanno esprimere.

Box 1

Stato globale della lebbra nel 2004*

Regione Nuovi casi trattamento rilevati 2003

Africa 50.691 46.205
America 86.652 52.435
Mediterraneo orientale 5.798 3.940
Asia sud-est 304.292 405.150
Pacifico occidentale 10.359 6.068
Mondo 457.792 513.798

* Come riportato da 110 stati – fonte Oms

Box 2

TESTIMONI 2005

Chiara Castellani. Nata a Parma nel 1956, laureata in medicina all’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, ha lavorato per 7 anni in Nicaragua, come medico volontario e chirurgo in zona di guerra.
Dal 1991 è responsabile di un progetto sanitario nella Repubblica democratica del Congo. L’anno seguente perde il braccio destro in un incidente stradale: impara a scrivere e operare con la sinistra e, ancora oggi, continua la sua attività presso l’ospedale di Kimbau. (Della sua incredibile storia abbiamo parlato in Missioni Consolata ottobre-novembre 2004, pp. 87-89).

Padre Emidio Demeneghi. Nato a Mussolene (VI) nel 1939, sacerdote nel 1964 è missionario in Angola dal 1968.
Dal 1994 opera a Kangola, nord del paese, e si occupa dei lebbrosi. Grazie a un progetto Aifo, sono stati diagnosticati 1.064 casi di lebbra su una popolazione di circa 80 mila abitanti; 850 le guarigioni; 96 abbandoni causati dalla guerra; 20 i decessi registrati. Attualmente la lebbra è in regresso.

Saverio Grillone. Nato a Reggio Calabria nel 1940, laureato in giurisprudenza, specializzato in psicologia, diplomato in leprologia e chirurgia ausiliaria in Spagna, dal 1969 al 1976 si è occupato di cura e riabilitazione dei lebbrosi in un programma di cooperazione del nostro Ministero affari esteri in vari centri dell’Eritrea.
Dal 1978 al 1980 è stato esperto del Ministero in qualità di responsabile della campagna di lotta contro la lebbra nella Repubblica delle Comore. Dal 1980 è rappresentante dell’Aifo alle Comore per la realizzazione di vari programmi: lotta contro la lebbra e la tubercolosi, sanità di base di 15 villaggi nella regione di Pomoni; attività a favore dell’infanzia con la creazione di 7 scuole elementari e di una scuola media, con 1.200 bambini scolarizzati.

Suor María Marcela López. Di origine argentina, appartiene alla congregazione religiosa Figlie della Carità, Canossiane. Infermiera professionale, da alcuni anni lavora presso il progetto di lotta alla lebbra nell’Ituri (R.D. del Congo).

Suor Esther Athieno. Di nazionalità kenyana, è infermiera, ostetrica e fa parte della congregazione delle suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ha svolto la sua attività in differenti campi medici. Da due anni lavora con i pazienti affetti da lebbra e tubercolosi nell’unità sanitaria di Kadem. Oltre ai malati di lebbra-tubercolosi ricoverati in ospedale, segue quelli che vivono nelle loro comunità, attraverso le cliniche mobili, foendo loro medicine, beni di prima necessità.

Benedetto Bellesi




Hanno fame e… si nascondono

Salvador de Bahia: dalle palafitte a Nuova Primavera

Si respira la vera miseria tra le palafitte di Novos Alagados, alla periferia di Salvador de Bahia, nella parrocchia di São Blás, dove dal 1991 lavorano i missionari della Consolata.
Da generazioni, i ricchi latifondisti si sono preoccupati di occupare tutta la terra disponibile, senza lasciae neppure un centimetro alla povera gente. Così, l’impossibilità di occupare uno spazio sulla terraferma ha indotto i più poveri a piantare qualche palo sulla riva del mare e a sistemarsi in misere capanne, formando il popolo delle palafitte. «Il mare non è di nessuno – dicono da queste parti -. Anzi, è di Dio».
Qui la fame è di casa. Questa, assieme a tante altre calamità, è la malattia più brutta. Di fronte a realtà simili, Teresa di Calcutta aveva detto che «non è stato Dio a creare la miseria: l’abbiamo creata noi!».
La globalizzazione, nel suo aspetto più deteriore e devastante, continua a rendere i ricchi sempre più ricchi, mentre la «massa sobrante», come dicono in Brasile, quella parte di umanità senza diritti e né difese è destinata a scomparire dall’avanzata del cosiddetto «progresso», che premia i forti e schiaccia come un rullo compressore i deboli. Fra questi, i bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La povertà-miseria non attrae, non piace a nessuno, non ha alcuna popolarità. I poveri sono un incubo per tanta gente. Anche per alcuni che leggono spesso: «Beati i poveri…».
E ppure, un gruppo di giovani, accompagnati da padre Francesco Giuliani, che li aveva preparati per un anno intero, sono venuti fin qua, tra i più poveri, dove senti puzza di fogna, perché è tutta a cielo aperto, per vivere un’esperienza di frateità.
Era l’agosto del 2001: quando mari e monti invitavano alle vacanze, 17 giovani, provenienti da varie regioni d’Italia, hanno vissuto un mese tra i Novos Alagados. La gente delle palafitte ha sentito il calore umano di questi giovani, la loro presenza ristoratrice, come una bibita in piena calura estiva.
Erano partiti da Cesena portando con loro una parola d’ordine: inserirsi con occhi d’amore e di fede in mezzo ai poveri. Ho visto nascere tante amicizie. Ho visto giovani dottoresse curare ferite e diagnosticare malattie, fra i calcinacci di un salone in rovina e nelle palafitte, a cui arrivavano per mezzo di traballanti passerelle di legno.
Alcuni di loro, in seguito, sono tornati per incontrarsi di nuovo con le famiglie amiche. Altri sognano di tornare. Quasi tutti si stanno dando da fare in Italia, per raccogliere aiuti e dare una mano alle mamme che soffrono la fame.

È davvero brutta la fame! A Napoli dicono: «Chi è sazio non crede a chi è digiuno».
Ho sempre presente un episodio sintomatico: un’animatrice del «Progetto Famiglie di Novos Alagados» mi dice:
– Padre, Luciana picchia sempre le sue bambine: va a vedere cosa succede.
Vado e chiedo a Luciana:
– Perché picchi le tue bambine?
– Piangono sempre e mi scoccia sentirle.
– Ma perché piangono?
– Hanno fame e io non ho nulla da dare loro.
– Ma perché non me l’hai detto? Tu sei animatrice, perché non parli?
– Ho vergogna…
Ancora una volta ho capito che i poveri si nascondono e preferiscono soffrire in silenzio.
N el 2003 è venuto un altro gruppo di giovani. Erano partiti da Torino, accompagnati da padre Antonio Rovelli. Hanno svolto un lavoro di presenza amica, visitando le famiglie più povere e costruendo una biblioteca per i giovani che vogliono entrare all’università, ma non hanno i mezzi per comprare i libri su cui studiare.
Poi, con l’aiuto di tanti benefattori, abbiamo creato un centro di accoglienza: Kilombo do Kioió. I kilombo erano piccole repubbliche di schiavi che fuggivano e si mettevano insieme per creare spazi di libertà. Kioió è una pianta medicinale che abbiamo trovato nel giardino della casa che abbiamo comprato per tale iniziativa.
In questa sede si svolgono le attività del «Progetto famiglie Novos Alagados». Il nostro Kilombo aiuta 450 famiglie a fare un cammino di liberazione, attraverso il lavoro e la preghiera. È un’esperienza di crescita sociale e religiosa per uscire dalla morsa della fame e dell’abbandono.

L a caratteristica dei poveri è di nascondersi. Sanno di non aver diritto a nulla e non poter esigere. Sanno che nessuno li vuole, di non essere ben visti neppure in chiesa, per cui non ci vanno. Parlano adagio e a voce bassa per non farsi sentire. Quando li avvicini, ti guardano con sospetto, perché hanno paura che tolga loro anche quel poco che hanno e fuggono.
Il nostro lavoro è di «andare a caccia» di queste famiglie che fuggono e scompaiono tra i meandri della favela.
Purtroppo, ci sono tanti altri che, senza avee bisogno, vengono a chiedere, o meglio, a esigere aiuto.
È difficile stare in mezzo a loro. Bisogna avere una forte carica interiore, che viene solo dall’alto. Tante le scuse per fuggire: non ho tempo, non ce la faccio, mi stancano, c’è pericolo di assalti, bisogna essere prudenti…

S ono tanti i volti della povertà: dalla mancanza di cibo e di socializzazione, alla paura di vaccinare i figli, per timore che vengano avvelenati, dalla difficoltà di trovare un lavoro, alla fila chilometrica per una visita medica…
Qualcosa tuttavia sta cambiando: da due anni a questa parte si costruiscono delle casette sulla terra ferma, che vengono consegnate a chi vive sulle palafitte.
Il progetto è finanziato anche dal Ministero degli esteri italiano. Il settore dove sorgono queste casette si chiama «Nuova Primavera» e fa ben sperare per il futuro. Brutto, però, è anche vedere gente che riceve la casa e la vende per tornare alle palafitte. Questa è ancora una forma di povertà che si chiama «ignoranza».
Le famiglie che ora abitano nella Nuova Primavera hanno cambiato aspetto. Anche se continua la disoccupazione, la paura degli assalti e manca ancora il necessario per vivere.
Una signora, mamma di tre bambini, diceva: «Adesso non ho più paura di vedere i miei figli cadere nell’acqua inquinata e morire avvelenati. Ora mi sento più sicura quando metto i piedi a terra».
Pietro Parcelli

Pietro Parcelli




Salvador de Bahia… e la fame continua

Nella capitale dello stato di Bahia si scontrano il lusso più sfacciato e la miseria
dei bassifondi; in periferia i complessi petrolchimici sfruttano i poveri indifesi; nell’interno della regione, i latifondisti sono in lotta con i senza terra… In mezzo la solidarietà di laici
e missionari, impegnati accanto agli emarginati, per aiutarli a difendere la propria dignità.

In un viaggio nello stato brasiliano di Bahia, alla ricerca di progetti sociali e di persone impegnate nella solidarietà, mi sono fermato a Salvador, la capitale di Bahia, poi a Monte Gordo, un piccolo centro situato sul litorale, a 50 km dalla capitale, e infine a Esplanada, una cittadina che dista circa 100 km dalla costa, praticamente alle porte del grande Sertão.
Mentre nei quartieri degradati di Salvador operano insieme laici e religiosi, negli altri due luoghi lavorano due missionari marchigiani, padre Luis (don Luigi Carrescia) e frei Chico (frate Francesco Carloni). Il primo, dopo 10 anni di servizio in un’altra città, Camaçari, si è definitivamente stanziato a Monte Gordo; l’altro, ormai da 30 anni in Brasile, porta avanti la presenza dei cappuccini, giunti in questo pezzo di Bahia all’inizio del secolo scorso.

SALVADOR BRILLA

Rita lavora come assistente sociale nella casa di donna Conceição, zia Conça per gli amici, una simpatica bahiana che 12 anni fa si è messa in testa di fondare un’associazione controcorrente. All’ingresso c’è un’insegna sulla quale si legge: «Preconcetti no. Solidarietà sì». La casa accoglie bambini orfani, a rischio di emarginazione, perché almeno uno dei loro genitori è morto di Aids e per tale motivo gli altri asili non li accettano.
Zia Conça invece se li prende tranquillamente con sé. Qui i bambini possono giocare, iniziare a esercitarsi con l’alfabeto portoghese e con la matematica, mangiano tre volte al giorno, fanno il bagno e sono seguiti quotidianamente da un’infermiera.
Alla porta di zia Conça bussano anche altri abitanti del quartiere, per chiedere un pasto, un consiglio, un aiuto scolastico per il figlio o per un controllo medico. I sieropositivi sono molti, condannati dall’indifferenza a un triste destino.
Ciononostante, oggi è un giorno speciale: c’è da festeggiare il compleanno di un gruppo di persone. Potrebbe essere l’ultimo e per questo diventa importante stare insieme.
Rita e le altre ragazze della casa di zia Conça hanno preparato un dolce enorme al cioccolato con le fragole e tante caraffe di succhi di frutta. Poi verso le quattro del pomeriggio gli adulti arrivano all’asilo a riprendersi i bambini. Nessuno di loro ha un lavoro fisso, sono tutti specializzati nell’arte dell’arrangiarsi. Vivono di piccoli traffici, di prostituzione, di lavoretti per rimanere a galla nel mare dell’esclusione sociale che taglia in due la città: da un lato i centri commerciali e finanziari e dall’altro le catapecchie.
Se si percorre l’Avenida Antonio Carlos Magalhães, il boss di Bahia, ci si specchia davanti alle porte scorrevoli delle banche, degli alberghi inteazionali o degli specchietti delle auto di lusso, parcheggiate davanti ai palazzi, con il custode che annaffia le piantine della reception; poi all’improvviso, superato un terrapieno, giù nello sprofondo che non si vede mai, pulsa una favela, un altro mondo.
Qui la sanità non arriva; la polizia ci entra solo per dare la caccia a qualche ladro di polli; la scuola non funziona, l’amministrazione pubblica si dimentica volentieri di registrare i nuovi nati: può capitare che un bimbo cresca senza che nessuno lo sappia, vivendo per strada, al di fuori di qualsiasi regola civile.
I meninos de rua, con la velocità di un proiettile, diventano grandi, bruciano tutto e sono consapevoli di andare incontro a una parabola drammatica, fatta di malattie e di violenza: te lo raccontano con il sorriso.
Una volta alla settimana zia Conça li carica su due pulmini e li porta a fare una gita al mare o in qualche parco dove mangiano una grossa salsiccia in umido, fanno la doccia e si divertono in pace, senza masticare il grigio del marciapiede.
I fondi per aiutarli ad abbandonare la strada sono scarsissimi, così si fa quel che si può. In questa lotta contro le ingiustizie, in mancanza di un appoggio governativo, a tappare i buchi sono impegnate sia le suore terziarie francescane, un gruppetto di religiose indiane che, con i finanziamenti del progetto di adozione a distanza Agata-Smeralda, offrono istruzione ai tanti semianalfabeti e un po’ di medicine, sia le parrocchie di periferia che attraverso la pastorale denunciano e poi tentano di risolvere i casi di denutrizione, di droga e alcolismo, di sfruttamento sessuale e di emarginazione.
A ridosso delle elezioni si fa vivo qualche politico, che regala caramelle e distribuisce scarpe e protesi dentarie in cambio del voto.
E non solo: ovviamente fa anche molte promesse. Per esempio, di concedere i regolari documenti catastali a tutte le famiglie che hanno una specie di abitazione ma non sono ancora registrati. Poi succede che, una volta eletto, ci mette un minuto a dimenticare tutto.
Intanto però la favela aumenta con nuovi arrivi dalle campagne di sbandati in cerca di miglior sorte e un’altra ragazzina partorisce il primo di una lunga serie di bocche da sfamare. E come la fame anche la notte continua.
Quando scende il buio da lontano la favela arroccata su una collinetta sembra un presepe di cartapesta, avvolto in un vestito rigato di polvere dorata. Ma la distanza inganna. Fuori da quel tremolio di lampadine, intorno ai semafori, sotto i grattacieli, i fari delle macchine illuminano il numero da giocoliere di un ragazzino che, con il viso dipinto di bianco, fa ruotare tre bastoni infuocati, dando vita a un malabaris e al tintinnio di due spiccioli di elemosina sotto gli uffici delle multinazionali.
Davanti al porto, si accendono le luci sulla Bahia de todos los santos e la mano di un turista dirige i riflettori sul lungomare, dove i viados aspettano chi li porti via. Una signora frigge una manciata di fagioli nell’olio di dendê e l’odore dolciastro che ne viene fuori si spalma sulla città, come una crema su un corpo addormentato e infilzato da aghi, le cui capocchie emettono flebili luccichii.
Rita va a letto sorridente; domani lo sciopero degli autobus è stato cancellato.

I PESCI DI MONTE GORDO

Qui a Monte Gordo, periferia estrema di Camaçari, centro industriale famoso per il petrolchimico, padre Luis si è trasferito un anno e mezzo fa, assumendo la guida della giovane parrocchia di São Bento (San Benedetto) che conta circa 18 piccole chiese, molto distanti tra loro e per questo c’è sempre da correre, con la valigetta delle ostie e del vino sempre a portata di mano.
In una chiesa ricavata in un garage, con l’acqua piovana che inonda la grondaia malconcia, attorno a un povero altare circondato dai bambini seduti sull’erba o su fragili panche, dentro una casa consacrata, con le pareti celesti, in mezzo alla foresta… si trova sempre il calore di un abbraccio e di un sorriso.
Manca però per tutti un lavoro stabile, ben retribuito e protetto dai sindacati, e soprattutto un’istruzione adeguata. La scuola sta chiudendo: il tuo di notte è terminato e una scia di scolari si riversa nelle stradine verso casa.
Anche la ragazza della lotteria popolare chiude i battenti. Ogni giorno i brasiliani tentano la fortuna giocandosi i numeri che potrebbero cambiare la vita. Lei per oggi ha finito, riporta nello sgabuzzino di un negoziante amico il banchetto e la sedia. Prima però condivide con un viaggiatore di passaggio un po’ di pastel, spuntini di pasta ripieni di carne, aspettando i numeri che usciranno domani.
E nel domani di questa giovane missione c’è anche il progetto di padre Luis di finanziare una scuola matea attraverso una fondazione, denominata Emaus, che si occupi di produrre e commercializzare pesci e farina di funghi, ottima per rafforzare le magre merende degli studenti.
Le vasche per la pescicultura sono già in funzione; il borbottio dei motori si confonde con l’aria ovattata di Monte Gordo, interrotta, ogni tanto, dal verso di un uccello o da qualche canzone per una festa che sta per iniziare.

FAGIOLI MAGICI A ESPLANADA

Il soggetto più attivo nella lotta per la giustizia sociale nelle campagne e per una più equa redistribuzione delle risorse è il Movimento Sem Terra, sorto negli anni ’70.
Nel 1989, quando alcune grandi aziende s’impossessarono senza permesso dei terreni del convento dei cappuccini, frei Chico si rivolse al Movimento per pianificare la riconquista del maltolto. Innanzitutto raccolse in gruppi organizzati tutte quelle famiglie avvezze a vivere ai margini della città o in condizioni di semischiavitù come manodopera dei signori della terra; dopodiché li convinse che era giusto esercitare un’azione di forza, guidando così l’invasione dei terreni illegalmente sottratti alla parrocchia.
I latifondisti reagirono con violenza. Fu chiamata la polizia, che disperse le famiglie: donne, uomini e bambini trovarono rifugio nelle case dei cappuccini e delle suore francescane. Nonostante quell’intimidazione frei Chico non si scoraggiò nella missione di unire e coscientizzare gli sfruttati, e, attraverso il metodo dell’invasione e della trattativa con le grandi aziende, è riuscito negli anni a creare 12 insediamenti e 2 accampamenti.
Gli insediamenti sono comunità agricole ben strutturate: le case sono di mattoni, le scuole primarie funzionano, i giovani hanno a disposizione piccoli spazi per danzare la capoeira; mentre negli accampamenti, di più recente costituzione, le case sono ancora a livello di baracche e le persone aspettano di vedere la loro situazione regolarizzata.
Come a Nova Esplanada dove ancora mancano luce e acqua, tuttavia asilo e scuola elementare sono aperti, una piccola struttura celeste in mezzo all’assolata spianata e alle buste nere che svolazzano incastrate tra i pezzi di legno che formano le casupole.
Qui una volta comandava un’azienda spagnola, che approfittò degli incentivi di un governo assai sprecone per prendere possesso del terreno e poi tenerlo inutilizzato, preda del bestiame di allevatori furbastri. Invece ora chi ci abita coltiva verdura, legumi, miglio, frutta e soprattutto vive una vita degna e non più brutale come prima, in mezzo alla strada o alle dipendenze di latifondisti senza scrupoli.
Certo la tanto sospirata riforma agraria che metterebbe fine a secolari ingiustizie non è stata ancora approvata; nel frattempo molte famiglie possono comunque dirsi felici.
L’attuale governo Lula afferma di volerla realizzare; ma l’ufficio preposto alla sua attuazione è sempre in sciopero, perché privato di molti mezzi; in più, i ben noti poteri forti stanno nell’ombra a sabotare e fare pressioni: insomma la consueta palude della politica.
A frei Chico poco importa, lui va avanti lo stesso. Ormai conosce a memoria tutte le buche che deve schivare sulle strade che collegano il convento alle varie chiesette sparse per tutto il territorio della parrocchia e che possono stare anche a 120 chilometri di distanza.
È quasi l’ora del tramonto. Nel cielo si liquefà un colore misto di arancione, viola e blu scuro. Ai lati del cammino accidentato scorre un oleodotto che sembra un serpente e, immobili, come se spuntassero da sotto terra, le perforatrici, figure fredde intagliate nell’oscurità.
La zona di Esplanada è ricca di petrolio e, a causa della presenza dell’oro nero, arrivano nei forzieri del comune fiumi di banconote. Per questo davanti alla casa del sindaco staziona una guardia armata e diventa così importante vincere le elezioni, nelle quali votano persino i morti. Frei Chico, durante la messa in un piccolo insediamento, scende dall’altare e si avvicina all’assemblea, ricordando che vendere il proprio voto è sbagliato.
Qui è facile venire a fare proselitismi in cerca di consensi elettorali. La gente è sempre vissuta nell’ignoranza dei propri diritti e ha sofferto molto, quindi è abituata a chinare la testa. Sono persone il cui mondo termina alla fine della vanga e poi ritorna su per l’impugnatura di legno, perché c’è da pensare al lavoro nei campi del giorno dopo: uomini e donne che hanno lottato per quel poco che possiedono e che devono mantenere quotidianamente con il sudore della fronte.
Finita la messa, i fedeli offrono a frei Chico delle pannocchie di mais abbrustolite e delle cosce di pollo. Poi egli saluta tutti e, lentamente, dentro il suo corpo esile, toglie il disturbo.
Sulla via del ritorno fa un colpo di clackson a una contadina con il bambino in braccio, vestita di bianco e gli orecchini della bisnonna, viso che sa di Africa e di magia, la regina nera dei fagiolini del sertão.

Paolo Brunacci




LETTEREPannelli solari in Africa

Caro direttore,
mi consenta un commento alla lettera di Isa Monaca (M.C., giugno 2004) circa i pannelli solari da un «addetto ai lavori».
Questi apparati sono conosciuti in Africa da decenni, usati principalmente per scaldare e pompare acqua o provvedere minuscole quantità d’energia elettrica; ma sono solo alla portata dei ricchi.
I pannelli scalda-acqua non sono molto costosi. L’impiego è limitato alle case dei ricchi (o istituzioni), perché, per funzionare, richiedono in casa un impianto fisso. Per tantissimi africani «l’impianto idraulico» è… la donna, che attinge acqua al fiume o al rubinetto comunale (dove esiste), portando sulle spalle o sulla testa un bidone di lamiera.
Il pompaggio d’acqua dai pozzi, tramite energia solare, ha avuto poco successo, se non per chi ha «la villa in campagna». Per i pastori delle lande semidesertiche sono state prodotte efficienti pompe a mano, in ferro, quasi indistruttibili, ovvero a «prova d’Africa».
I pannelli fotovoltaici servono solo a migliorare la vita di chi c’è l’ha già buona, ossia fabbricanti e rivenditori…
Recentemente in Kenya sono in «offerta speciale» pannelli solari della potenza di 20 watts, sufficienti per quattro lampadine speciali, una radio e una piccola televisione: costano «solo» 105 euro; ma bisogna aggiungere una batteria (50 euro), un invertitore di corrente (40 euro) e circa 20 euro per lampade, fili, scatola di controllo, impianto. Totale 215 euro.
Con una popolazione il cui reddito medio giornaliero è inferiore a 1 euro, è difficile capire come «questi (pannelli) potrebbero migliorare le condizioni di vita degli abitanti». Certamente sarebbero utili nelle immense baraccopoli. Ma un pannello solare e un’antenna tivù su un tetto di lamiera servirebbero ottimamente a… far pubblicità ai ladri.

Giorgio Ferro




LETTEREUna nuova rubrica

Caro direttore,
leggo Missioni Consolata da oltre mezzo secolo, da quando un carissimo amico (padre Franco Cravero) partì per l’Africa. Ne ho seguito con vivo interesse e apprezzamento l’evoluzione, da modesto (ma suggestivo) «bollettino» d’informazione sulla vita delle missioni dell’Istituto, fino a preziosa «rivista» missionaria di respiro planetario, valida sia sotto il profilo tipografico che sotto quello dell’informazione e della sensibilizzazione dei lettori. Da ultimo ho notato la comparsa – più che giustificata – di una rubrica attenta a quella nuova «terra di missione» che è la presenza tra noi di extracomunitari…
Non c’è un ulteriore spazio di interesse cui sarebbe bene estendere l’attenzione? Nelle nostre terre la chiesa, che tanto impegno missionario seppe profondere, appare ora in grave crisi: calo di frequenza alle messe, crisi di vocazioni, scomparsa di un clima sociale influenzato, almeno parzialmente, dai cristiani. La chiesa missionaria sta acquistando peso (e vocazioni) nel terzo mondo; ma perde qui la base e la spinta che la resero feconda.
Non è allora opportuno che una nuova rubrica si occupi di questa crisi di fede e dia alla nostra «vecchia» chiesa il contributo di riflessione e di proposta che il mondo missionario potrebbe esprimere da una prospettiva forse per noi perduta? Gli argomenti potrebbero essere non pochi e non secondari, ma ora è almeno prematuro indicarli.
Grato della cortese attenzione e con l’augurio di ottimo proseguimento.
Giuseppe Nebiolo
Torino

Grazie del suggerimento. Sappia che, da febbraio, partirà la nostra nuova rubrica biblica. Allora, continui a seguirci…

Giuseppe Nebiolo




LETTEREKossovo: perché i serbi non hanno votato

Caro direttore,
quando si parla del Kossovo, si vede anche una cartina geografica dalla quale risulta già uno stato indipendente, che confina con Serbia e Montenegro, Albania e Macedonia. A chi non conosce bene quella parte dell’Europa, può sembrare che in Kossovo ci sia una crisi perché i serbi hanno occupato quella regione. Lo scenario assomiglia a quello della Croazia e Bosnia, in cui la Serbia e i serbi furono presentati come conquistatori delle terre altrui. Inoltre i termini Kossovo e kosovari, non indicano una nazione, ma una regione multietnica.
Ultimamente si parla del fatto che i serbi non sono andati a votare e si accusa la chiesa serba di «ostacolare» la normalizzazione di quella regione. Le forze inteazionali, presenti da 5 anni in Kossovo, vorrebbero dimostrare al mondo che stanno creando un Kossovo «democratico» e «multietnico» e sono arrabbiate con i serbi, perché quella gente stremata, che vive in un campo di concentramento custodito (malissimo) dalle forze inteazionali hanno ancora la forza di opporsi a quella «democrazia» carica di interessi politici personali o unilaterali.
Perché i serbi non hanno votato?
Perché negli ultimi 5 anni, in presenza delle forze inteazionali, è continuato il genocidio da parte degli estremisti albanesi.
Perché è stato distrutto gran parte del ricchissimo patrimonio spirituale e culturale: monasteri e chiese cristiane, davanti agli occhi dei soldati delle forze inteazionali; e la distruzione continua.
Perché la maggioranza (che è albanese) deciderà di strappare quel territorio dallo stato Serbia e Montenegro.
Perché i serbi che non scapperanno saranno uccisi; altre chiese, monasteri e cimiteri dei serbi saranno rasi al suolo e al loro posto saranno costruite le moschee.
Non hanno niente contro le moschee, i serbi; ma perché devono venire costruite al posto delle chiese cristiane? C’è posto per tutti in quella terra, per i serbi e per gli albanesi, e per tutti gli uomini e donne di buona volontà. Hanno imparato e vissuto per secoli insieme in quella terra; non servono le lezioni europee. Serve che si difendano per davvero i diritti umani, fra i quali sono il diritto alla vita, alla pace e al lavoro. Creare condizioni, prima di tutto economiche, perché quella gente non dipenda dal commercio illegale o dall’elemosina dei ricchi, ma cominci a lavorare nei campi, fabbriche, miniere, e inizi una vita dignitosa per tutti. Il Kossovo è importante per la gente che ci ha sempre vissuto, ma è anche per tutti i serbi del mondo, per il patrimonio spirituale che abbiamo lì. Per l’Europa dovrebbe essere importante almeno come inestimabile valore culturale e perciò dovrebbe fermare la distruzione delle chiese e dei monasteri cristiani.
Ormai mi chiedo quanto ci tiene veramente a quel patrimonio l’Europa visto che non riconosce più le sue radici cristiane.

Snezana Petrovic
Rovereto (Tn)

Snezana Petrovic




LETTERE”Taglio cristiano che piace”

Cari missionari,
da qualche anno leggo la vostra rivista Missioni Consolata, perché mio padre è abbonato, e la trovo interessantissima, ricca di notizie altrimenti irraggiungibili con i normali organi d’informazione; molto apprezzo il taglio cristiano, capace di affrontare ogni genere di problema del mondo odierno. Ho deciso di abbonarmi anch’io…
Sono felice ogni volta che leggo la vostra rivista, perché, nonostante le notizie drammatiche che spesso riportate, mi fa piacere che voi agiate con amore in ogni parte del mondo. Io non posso fare quasi nulla, se non mandare ogni tanto un po’ di soldi e pregare; ma mi fa piacere che voi facciate un’opera così preziosa, al posto di molti di noi.
Vi saluto con molto affetto e stima.
Non mi sono presentata: ho 36 anni; sono un’insegnante di lettere, sposata, con due bambini e un altro in arrivo per febbraio.
Susanna Pedrazzini
Carpi (MO)

L’interesse per le missioni è passato dal padre alla figlia. Siamo certi che passerà anche dalla madre ai figli. Auguri per quello in arrivo! E continui a pregare per i missionari: è l’aiuto più importante!

Susanna Pedrazzini