Il peggiore nemico della verità non è tanto l’errore quanto la noia. Per far sì che i contenuti dottrinali arrivino al cuore, è necessario tornare al metodo evangelicodel «raccontare» la storia della salvezza.
Un metodo raccomandato sia nel dialogo ecumenico, che nella predicazione e catechesi.
È evidente, almeno così sembra, che anche in campo ecumenico, di dialogo con le altre confessioni cristiane, o in campo religioso e pastorale, nella predicazione e nella catechesi, occorra essere chiari, cioè usare un linguaggio capito da tutti. La qual cosa, oggi come oggi, non avviene. Colpa soprattutto dei teologi e degli autori dei documenti ufficiali che ci piovono sulla testa.
Ripeto ancora una volta ciò che ebbe a dire il noto predicatore padre Raniero Cantalamessa: «Uno dei motivi per cui in molte parti del mondo si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sette è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa, da non attivare direttamente il cuore di una persona».
Purtroppo il problema non è solo quello di parlare in maniera chiara e comprensibile, ma è anche soprattutto di contenuto, di quello che si dice, se è giusto, appropriato e importante.
Il padre Y. Congar in un libro del 1987 dal titolo Conversazioni d’autunno (Entretiens d’Automne), giunto quasi al termine della sua vita, scriveva a riguardo dell’islam e del cristianesimo: «La prima qualità dell’islam è la semplicità. Non c’è che un dogma: Dio è Dio, Maometto è il suo profeta. È un’affermazione forte della pura trascendenza, in confronto alla quale è certo che la fede cristiana, soprattutto la fede cattolica, è qualcosa di abbastanza complicato; quando si aggiunge la Trinità, l’incarnazione, i sacramenti; tutto ciò diventa complesso, lo sappiamo» (pag.116).
Ma lo sappiamo? Pare proprio di no! Il padre Eesto Balducci, a sua volta, in un libro del 1985, in modo più graffiante, com’era nel suo stile, osserva: «Le prediche fanno sbadigliare».
In senso più umoristico, Alessandro Pronzato riporta una lamentela della collaboratrice domestica (mai esistita) di Casa Guareschi, che muove al suo padrone, al quale dà del «lui», un rimprovero che, tutto sommato, è un elogio: «Lui non mi piace come scrive… Intanto lui adopera delle parole che tutti conoscono per dire delle cose che tutti capiscono e allora dove va a finire la cultura?». (G. Guareschi, Vita con Gio’. La gloria di Montassù, Milano 1995).
La predica, sovente, scrive sempre don Pronzato, come è stato da più parti denunciato, rappresenta «un vero tormento dei fedeli. Personalmente resto convinto che il grosso e più temibile nemico della verità non sia tanto l’errore, quanto la noia» (prefazione in Don Camillo. Il Vangelo dei semplici, 2001, p.11). Al punto, e la cosa pare sia sufficientemente documentata, che Giovanni xxiii avrebbe voluto affidare la stesura di un catechismo a uno «scrittore popolare», accettando la proposta che fosse Giovannino Guareschi, magari affiancato da un bravo teologo.
Comunque le presentazioni dottrinali e persino le letture evangeliche sono in genere «esasperatamente intellettualistiche, fredde, aride, in un linguaggio impervio, precluso alla gente comune». Questo lo dice il card. Giacomo Biffi.
L’eresia degli eunomiani
Non c’è forse sotto sotto un rigurgito di un errore antico, già condannato nei primi secoli (eunomiani), che consisteva nell’affermare che Dio lo si può conoscere con la ragione e definire perfettamente. Dio invece è ineffabile. Per cui ogni discorso su Dio non è mai adeguato alla realtà descritta; si tratta sempre di un discorso analogico: Dio è chiamato luce perché ha verso le intelligenze un ruolo analogo, cioè simile, a quello della luce per gli occhi; è chiamato spirito perché conserva la vera vita, come l’alito conserva la vita del corpo. Così la pensava Origene, nato nel 185.
San Tommaso a sua volta scrive: «Poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamente, quasi balbettando… Imperfecte nominamus, quasi balbutiendo» (I Sent. 22,1,1,1 sol.).
Mentre per secoli su Dio si è pensato di poter dire tutto e con estrema sicurezza, con definizioni su definizioni, i fedeli di oggi forse non sopportano più un atteggiamento del genere.
Nell’Apocalisse (14,6) si legge: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra». Un vangelo eterno: cosa potrebbe essere? Senza lettere, senza figure, senza immagini, cioè pura buona notizia?
«Sono cristiano
secondo il vangelo,
non secondo i parroci»
Affermazioni del genere esprimono la crisi in cui si trova il cristianesimo e il cattolicesimo ai giorni nostri. È come piangere sul latte versato. Anche se le motivazioni di tali affermazioni non sono del tutto disinteressate o appaiono dettate, a volte, per motivi di comodo.
Ignazio Silone, e con lui moltissimi altri, si definiva «un cristiano senza chiesa». Anche la moglie, Elisabeth Darina, irlandese e cattolica, morta nel luglio 2003, scriveva di sé: «Io, povera cristiana. Resto una credente, ma al di fuori di ogni chiesa. I motivi? Troppa rigidità e anche grettezza nel cattolicesimo irlandese. Dopo la guerra, a Roma, mi trovai seduta a pranzo accanto a Jacques Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, e colsi l’occasione per chiedergli cosa pensasse del cattolicesimo irlandese. “Le catholicisme irlandais? – rispose senza esitare – C’est du jansénisme obscurantiste”. Pronunciata da Maritain, mi confermava tutto».
Oggi forse il cattolicesimo, specie in Europa, non pecca per oscurantismo, ma per complessità, oscurità, per troppe parole, per troppo raziocinio. Eesto Balducci in L’uomo planetario (1985) riporta una canzone dello Zaire, dove si canta: «Cristiani, come siete infelici! La mattina alla messa, la sera dallo stregone, l’amuleto in tasca, lo scapolare al collo».
Anche il filosofo Norberto Bobbio, deceduto il 9 gennaio dello scorso anno, nel suo testamento spirituale scriveva: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì! Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornare di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico, come uomo di ragione e non di fede. So di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e che le religioni interpretano in vario modo».
Nel 2001 uscì, tradotto dall’inglese, un piccolo best seller di una donna statunitense, Joan Brady, dal titolo: Dio su una Harley. La trama fa sorridere. Si tratta di un’infermiera sulla quarantina, in crisi anche religiosa, quando una sera scorge sulla spiaggia, baciato da un raggio di luna, un uomo a cavalcioni di una potente moto, una Harley Davidson. Incominciano a chiacchierare, ma quando lei gli chiede il suo nome, lui risponde: «Dio».
Dapprima la donna crede che sia scappato da un manicomio, poi, a poco a poco deve arrendersi. Il misterioso motociclista conosce tutto della sua vita, comprese le sue difficoltà religiose: «Una religione che non funziona. Una religione dove tutto è scritto in maiuscolo… e poi dieci comandamenti, non sono forse troppi?».
E questo Dio «in moto» le insegna come ridurre quei dieci comandamenti a sei. Ma anche così sono impegnativi, ma hanno il vantaggio di essere su sua misura. Sono molti coloro che hanno bisogno di comandamenti personali. Per concludere, le dice il Dio della moto, «vorrei che tu la smettessi di pensare a me come Dio… È un termine così antiquato! La tua concezione di Dio è piuttosto imprecisa ed è mia intenzione modificare questa immagine… Voglio essere importante per te, Christine, e non un tizio grande e grosso che dall’alto dei cieli prende nota dei tuoi errori».
Abbiamo un cristianesimo con molte «mediazioni» e molti simboli. Tutti validi o alcuni inflazionati? Oppure è da molto tempo che abbiamo dimenticato qualcosa di molto importante?
Piccoli segnali ci giungono da molte parti, per dirci che c’è bisogno di qualcos’altro, anche senza ridurre i dieci comandamenti a sei.
Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».
Così quando nel 1925 uscì l’enciclica di Pio xi su Cristo Re, Teilhard de Chardin ebbe un moto di ribellione e scrisse: «Lo voglio gridare: il vostro Cristo è troppo piccolo! Lasciatemelo fare più grande; grande come il mondo!».
«Fin dalla mia infanzia,
mio padre mi raccontava»
(Ester 4,17)
Un noto biblista, il gesuita Jean-Noël Aletti, già da qualche anno, si sta chiedendo quale fosse la teologia delle prime comunità cristiane. È del parere che il messaggio cristiano non poteva essere espresso in concetti, ma come racconto. Scrisse infatti L’arte di raccontare di Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Brescia 1991 e anche Il racconto come teologia, Roma 1996.
Per cui i nostri contemporanei, a tutti i livelli, ne dovrebbero tener conto, perché troppo spesso dimenticano la natura propriamente narrativa, non solo del vangelo di Luca, ma di tutta la scrittura. Di fatto se dai vangeli, specie da quello di Luca, si eliminassero i racconti, in mano ci resterebbe ben poco.
Anche se non è sufficiente fermarsi al racconto o alla composizione scenica, perché il racconto e ogni racconto occorre renderlo stimolante, esemplare, compararlo con l’insieme, per rendere evidente il suo insegnamento. Gesù, ad esempio, parla del regno dei cieli solo in parabole; non dice «il regno dei cieli è…», ma «il regno dei cieli è come…».
D’altra parte il Concilio ha dato corpo a tutta la rivelazione cristiana come «storia della salvezza», e la storia è composta in massima parte di fatti e di eventi significativi.
Il noto teologo E. Schillebeeckx nella prima pagina del suo volume dal titolo Gesù, storia di un vivente, del 1973, scrive: «Ho cercato di colmare l’abisso tra la teologia accademica e i bisogni concreti dei fedeli».
E alla fine del volume (p. 714) commenta: «Negli Atti (4,10-12) si racconta che Pietro guarì lo storpio del villaggio quando gli raccontò la “storia di Gesù”».
Per dimostrare l’efficacia della narrazione o della «fede narrativa», riporta quanto scrisse M. Buber, in relazione al racconto dello storpio degli Atti: «Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora mio nonno raccontò come il santo Baal Shem avesse l’abitudine di saltare e danzare mentre pregava. Mio nonno, dimenticando di essere paralitico, si alzò e raccontò; la storia lo eccitò al punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie».
E se noi cristiani di oggi fossimo tutti un po’ paralitici?
Igino Tubaldo