I giovani, questi sconosciuti
GENERAZIONE X + N
I
giovani di oggi si trovano a vivere in una società sconvolta e
sconvolgente. Con la tecnologia che avanza velocissima, uno stile di
vita consumistico fino al patologico, una scuola inadeguata (ed ora
anche riformata dai «pof»), un futuro lavorativo sempre più precario.
Il «disagio» è loro o di altri?
di Marco Bertone, pedagogista
I GIOVANI DELLE STATISTICHE
Ogni
volta che qualcuno si accinge a parlare dei «giovani» corre il rischio
della generalizzazione. La difficoltà del tema è insita anche nella
banalità delle nostre indagini da «adulti»: il linguaggio, le mode, i
valori sono i ritoelli delle ricerche, le quali cercano, come sempre,
una validazione statistica e numerica ai comportamenti.
Recentemente,
sulle pagine di un importante quotidiano nazionale (1), Elena
Loewenthal denunciava la discrepanza tra la realtà che si evince dalle
ricerche e dalle interviste ai giovani e i comportamenti agiti. Esiste,
in altre parole, uno scarto fra le ricerche fatte dai sociologi e dagli
psicologi e la realtà. Il problema sembra essere nell’incasellamento in
una categoria. Eppure, malgrado tutto, alcuni comportamenti sono sotto
gli occhi di tutti: i ragazzi elaborano una cultura loro, sfaccettata,
interessante, a tratti incomprensibile.
Già alcuni anni orsono,
Franco Floris (2), parlando di animazione con una particolare fascia di
età (gli adolescenti), ci imponeva di riflettere sul fatto che i
comportamenti dei ragazzi sono leggibili in diverse ottiche:
• un’ottica basata sugli effetti (i comportamenti agiti)
• un’ottica basata sulle caratteristiche «etee» degli adolescenti, da sempre individuate da psicologi e studiosi.
Ad
esse, Floris contrapponeva la possibilità di interpretare i
comportamenti dei ragazzi come se fossero esploratori della società e
della cultura. In fondo, non è così? I ragazzi sono sempre stati i
primi a costruire un senso, o più sensi, rispetto alle sollecitazioni
del mondo.
Facciamo degli esempi: la situazione di insicurezza
sociale post-11 settembre e derivante anche da situazioni sociali nuove
(come la precarizzazione del lavoro) sembrano condurre molti giovani a
desiderare più il «posto fisso» che non la carriera, come si evince
dalle ricerche. Ma potremmo prendere anche altri esempi: il linguaggio,
l’uso della tecnologia, le relazioni con gli adulti ed i pari, le
differenze fra maschi e femmine, l’influenza dei mass-media…
Le questioni sulle quali ci siamo interrogati sono:
•
Cosa accadrà, nella società, dopo la frantumazione del secolo breve,
(che invece non è mai sembrato così lungo), nella sua fase di
transizione?
• Come si costruiscono le identità individuali dopo la fine del lavoro fisso?
• Come si rapportano le persone con il tempo, con il presente più che con il futuro?
• La tecnologia è più libertà o più spettacolo?
• Quale è il percorso che pensiamo per le aggregazioni comunitarie e sociali?
IL CONTESTO DELLA SOCIETÀ ITALIANA
Cambia
la conoscenza e come la allestiamo, così come cambia il nostro modo di
vedere le relazioni umane. Siamo sempre più a contatto con altri modi
di pensare, con altre persone e con altri modelli culturali.
Cambia
il nostro rapporto con la tecnologia, sempre più presente al punto che
le nostre conoscenze psicologiche, sociologiche, lavorative non hanno
ancora la possibilità di indagare quanto essa incida sulla nostra vita
profonda.
La comunicazione non è solo informazione, ma costruzione di reti di rapporti complessi (3).
Tutte
queste domande si legano all’eterno e in parte sterile chiedersi: «Chi
sono i giovani?» e di solito questa domanda non viene mai posta ai
giovani stessi, come se essi fossero tutti uguali o tutti diversi, mai
se stessi, sempre oggetto di elucubrazioni «adulte» e quindi lontane.
LINGUAGGI E STRUMENTI DELL’«EPOCA VELOCE»
Vediamo
questi aspetti, se possibile, come indicatori di uno stato di
concentrazione di atteggiamenti, di ambiguità, anche di disagio
giovanile ma, soprattutto, di vitalità.
I linguaggi sono continuamente rimescolati e cambiati, travalicano la capacità di fissae grammatiche.
Non
sono forse l’espressione di un mondo che propone ai giovani e agli
adulti di essere sempre più veloci, di affrontare una massa di stimoli
culturali non omogenei?
In fondo, i linguaggi gergali giovanili
sono sempre esistiti, si dirà, perché sono sempre stati un modo di
appropriarsi del mondo in modo che gli «adulti» non capissero. Ma
questo è essenzialmente un segnale della grande capacità dei ragazzi di
essere reattivi, e di costruire significati, in quanto un linguaggio
nuovo o trasformato è sintomo di vitalità creatrice (4). Ma che
caratteristiche assume il linguaggio che sentiamo parlare nelle scuole
o che vediamo rappresentato da quei canali (la Tv o, la radio, o meglio
Mtv) che riproducono socialmente il linguaggio stesso, e lo riplasmano
in un circolo continuo?
È un linguaggio eterogeneo, misto e
differenziato per zona geografica, estrazione sociale, genere e
preferenze sessuali. Stiamo affrontando la nascita e la crescita di
linguaggi derivanti:
• dall’identificazione in gruppi sociali legati
alle mode ed ai consumi di musica o di vestiti, che sono espressioni di
modi di vita nelle cosiddette «tribù» giovanili;
• dall’identificazione politica e dall’incarnazione di modelli familiari;
•
dalla reazione ad una realtà in cui sono più visibili le guerre, il
terrorismo, le richieste del mondo degli adulti di schierarsi;
• dall’insieme di tutte queste cose.
«HOMO TECNOLOGICUS»: UNA GENERAZIONE IN PUNTA DI DITA?
Oltre
a queste categorie, per cui da sempre dobbiamo pensare che le persone,
soprattutto i ragazzi e le ragazze hanno creato dei gerghi, dobbiamo
introdurre l’elemento tecnologico.
Una ricerca effettuata con i
giovani di diversi paesi, intendendo per giovani persone di età fra 0 e
25 anni, ha rivelato che ci sono anche dei cambiamenti nel modo di
comunicare e di muoversi rispetto alle generazioni precedenti.
L’uso
dei telefoni cellulari, dei videogiochi, dei tasti della PlayStation
stanno forse modificando il corpo delle persone. I ragazzi di oggi
usano molto di più il dito pollice rispetto a quelli che li hanno
preceduti. Poiché il pollice opponibile non serve più solo ad afferrare
oggetti o a costruire attrezzi, ma a comunicare, a usare il computer,
qualche scienziato parla già di una evoluzione dell’homo tecnologicus,
arrivando a coniare il termine Thumb generation («generazione del
pollice»).
È comunque un fatto che, ad ogni generazione di scoperte
ed usi tecnologici, cambia il modo di rapportarsi al mondo e a se
stessi.
L’uso dei messaggi cellulari comporta un rimodellamento
parziale dei comportamenti sociali nel gruppo dei pari età, perché
permette di comunicare evitando di esprimere (se non con i simboli) i
propri sentimenti, proteggendosi un po’ di più. La stessa cosa era
avvenuta qualche anno fa con l’avvento della posta elettronica, per cui
le persone potevano comunicare inventandosi personalità fittizie o
nascondendosi. L’uso dei cellulari ha imposto la nascita di linguaggi
concretamente sintetici ed essenziali («xké» significa «perché»). Il
guaio non sta nel fatto che alcuni ragazzi disimparino l’italiano
classico ma che usino un linguaggio che va bene per gli Sms in un tema,
o viceversa; che non sappiano leggere il contesto in cui usare le
parole e le forme sintattiche appropriate.
Queste neolingue sono
molte e i termini di derivazione informatica ancor di più, per cui si
italianizzano vocaboli inglesi (dai comuni chattare e downloadare
all’utilizzo metaforico di termini informatici). La velocità del
ricambio della tecnologia, la capacità dei ragazzi di ricevere e
ritrasmettere stimoli, di apprendere (in quanto le menti giovani sono
più flessibili, permeabili e delicate) fa di loro degli esploratori più
ricettivi della civiltà tecnologica del nuovo millennio.
IL DISAGIO GIOVANILE E’ LA FORESTA. E GLI ALBERI?
Da
ogni parte siamo subissati da ricerche, servizi giornalistici e
discorsi sul «disagio giovanile». Per fortuna, esso passerà come i
brufoli per il singolo o si trasformerà nel disagio dei trentenni
precarizzati o nelle ansie esistenziali dei quarantenni e della mezza
età, mentre i giovani continueranno ad essere un argomento di
discussione.
Il disagio è quella condizione per cui persone
normalmente dotate si collocano nel mondo in modo tale che l’ambiente,
le relazioni con le persone, le cose e se stessi non li aiutano, e loro
non riescono ad aiutare se stessi.
La premessa da cui partiamo è
in parte anche l’arrivo: esiste un disagio psicofisico manifesto nelle
persone di età giovane nel nostro Paese, ma in fondo dobbiamo
considerare i ragazzi, gli adolescenti, i bambini come delle cartine di
tornasole del Paese stesso. Se l’Italia è un luogo difficile da vivere
per i ragazzi (ma potremmo prendere i malati cronici o gli anziani,
comunque) lo è per tutti, sia per i soggetti ipocritamente definiti
deboli che per una supposta normalità statistica.
Lo stile di vita consumistico e la tecnologia sembrano essere i principali imputati.
I
modelli di vita delle generazioni precedenti erano migliori, diversi?
L’infanzia propone la drammaticità della nostra esistenza: i cibi che
ingurgitiamo in gravidanza, lo smog, ma anche la troppa Tv, la presenza
di diossine nei cibi, e tutto il resto…
Oltre il 15% dei bambini si
addormenta davanti alla Tv accesa circa 2 volte a settimana, e ciò
dovrebbe portare ad una autoregolamentazione, che invece non c’è.
Perché?
ADOLESCENZE
La
letteratura specialistica sugli adolescenti è vasta, forse troppo. C’è
un interesse da cui non siamo alieni neanche noi verso i ragazzi di
oggi, quelli che non sembrano essere come i loro padri, che non
vogliono crescere o che sono dovuti crescere pensando di fare una vita
differente. Magari essi hanno capito che la generazione dei 30-40enni
di oggi cui appartengono i loro fratelli e genitori deve fare i conti
con la crudele realtà, di essere i primi nel dopoguerra che non hanno
più la speranza di un tenore di vita economicamente pari a quello di
partenza («la festa è finita», disse Giovanni Agnelli nel 1992) (5).
E allora queste madri e padri magari iniziano a pensare con nostalgia al
fatto che le promesse di quando erano ragazzi (i favolosi anni ‘80) non
sono state mantenute, forse cercano di essere davvero madri e padri ma
sono anche loro smarriti. E se sono smarriti loro, la generazione X+n
(6) costituita dai loro figli, come può non essere altrettanto smarrita?
Cinquanta
anni fa l’adolescenza non esisteva, poiché si passava in modo repentino
dall’infanzia dei frugali giochi all’età adulta delle responsabilità e
del lavoro. Ora c’è e dura anche 2-3 lustri. E allora se ne parla
molto.
Non esiste una sola adolescenza, quindi, se non altro
perché le esigenze e le caratteristiche psicologiche e le richieste di
un quindicenne non sono quelle di un venticinquenne, ma una seconda
differenziazione, fra le molte, dovrebbe avvenire sulla base del genere
sessuale.
Nelle famiglie, dopo decenni di trasformazioni sociali
complessive, si assiste veramente ad una certa uguaglianza di pari
opportunità fra i ragazzi e le ragazze, che in parte collide col fatto
che le esigenze delle adolescenti e dei loro coetanei maschi non sono
le stesse. Quando ragazzi e ragazze si incontrano, da che mondo è
mondo, i comportamenti sono differenti, e così anche le loro azioni e
rappresentazioni di sé.
Questi due fatti portano da un lato ad una
omogeneità e, dall’altro, ad una progressiva divaricazione fra ragazzi
e ragazze. Così, mentre a casa i ragazzi fanno lavori domestici e le
ragazze possono finalmente rivendicare una maggiore libertà di uscita,
fuori si ritrovano le dinamiche tipiche di separazione fra i sessi.
LA SCUOLA HA FATTO «POF»
La
scuola cosa rappresenta? La scuola superiore è la seconda casa dei
ragazzi, il luogo dove nascono i primi amori, dove si vive il gruppo
dei pari più facilmente (facilmente?) ma non è il luogo dello studio e
dell’apprendimento privilegiato. Si assiste ad una prevalenza degli
aspetti relazionali rispetto al dovere dello studio.
Gli adulti che
parlano coi ragazzi, come gli insegnanti a scuola, da sempre riescono a
suscitare un’ambiguità di sentimenti: conoscenza, autorità, ammirazione
se si riesce. Il linguaggio dei ragazzi oscilla dall’esasperazione
giovanilistica per affermare una sfida, simile a quella
tradizionalmente portata a casa, al conformismo al contesto scolastico
e a quello che sembra che gli insegnanti vogliano.
Ad esempio,
anni ed anni di sensibilizzazione ecologica hanno purtroppo portato i
ragazzi ad essere ipocriti, affermando a parole un impegno contraddetto
dai gesti quotidiani.
Per metter insieme il «portfolio» morattiano,
è necessaria la presenza dei genitori. Essi si trovano di fronte a
questionari che arrivano a casa e che pongono domande circa la vita
della famiglia (a che ora il bambino va a letto, se mangia e cosa, se
collabora ai lavori domestici). Nondimeno, i genitori si ritrovano a
poter/dover decidere in quale scuola mandare i figli, perché l’offerta
formativa delle scuole si è diversificata. Ma tali Piani di offerta
formativa (i Pof) sono molte volte infarciti di attività
extrascolastiche e il livello dell’insegnamento non è illustrabile.
Quindi si rischia di scegliere le scuole che hanno dei buoni Pof, anche
se – purtroppo, malgrado la buona volontà di tutti – non esistono, in
regime di autonomia scolastica, né i soldi né le risorse umane. E così
le famiglie e i ragazzi si trovano pizzicati in mezzo ad un ginepraio
di offerte, talvolta anche incomprensibili, contraddittorie.
Un’insegnante
di italiano di Torino, Paola Mastrocola, autrice di un romanzo dal
titolo emblematico La scuola raccontata al mio cane, racconta di una
società senza più armi, pateticamente arresasi a tutto: nessuno riesce
più a leggere un libro, i ragazzi devono essere animati più che
istruiti, anche perché i genitori sono divenuti utenti, a nessuno
importa sapere se un insegnante è bravo.
I termini stessi dei
testi editi dal ministero dell’Istruzione lo provano. In essi si usano
le «parole di una scuola che cresce», per cui l’utente viene accolto, i
ragazzi sono stimolati, la famiglia è privilegiata ed i processi di
conoscenza devono essere consapevoli, nella tradizione più noiosa della
più noiosa tradizione pedagogica. Non c’è un cenno a cosa succederà
nelle aule, mentre si susseguono notizie interessanti sull’efficacia e
l’efficienza di quello che era uno dei migliori servizi pubblici di
istruzione del mondo. Una di queste notizie viene da fonte autorevole
(7) e vede regolarmente l’Italia in coda ad un gruppo di 27 paesi più
industrializzati circa alcuni indicatori riguardo alla preparazione dei
docenti, al punto che la scuola media è una specie di buco nero,
compreso tra una buona (una volta era ottima) scuola elementare e le
superiori.
I ragazzi vanno a scuola per imparare? Sì, in una
situazione che le riforme scolastiche (promesse, paventate, irrisolte o
in via di gestazione) hanno reso e rendono difficile ma soprattutto,
poiché glielo abbiamo chiesto.
Poiché la scuola sembra così assente
nelle discussioni fra adolescenti, mentre si assiste alla
proliferazione di consumi in parte legati all’esposizione alla
pubblicità, dobbiamo pensare che sia un luogo in cui si scambia
qualcosa, si intrecciano relazioni, un luogo in cui c’è anche una noia
necessaria (dover studiare) e dove ci si aspetta di venir interessati.
Ma l’elemento di vero interesse è costituito, ora sempre di più, dalle
occasioni di socializzazione con i propri compagni e coetanei. Questo
porta anche ad un rifiuto, in alcuni casi, del proprio ruolo di
«studenti».
I diritti (allo studio) sono di fatto negati da una
scuola sempre più confusa e scioccata dalle proto-riforme e dalle
pseudo-riforme demagogiche, che mettono in difficoltà famiglie,
insegnanti e, in primis, i ragazzi.
I doveri sono difficili da
accettare, per cui non si concepisce l’istruzione, fatta di libri di
testo sempre più generici, insegnanti in parte preoccupati o disillusi,
scarse risorse e burocrazia eccessiva, se non in termini di fastidio.
Questo
vuol dire che la scuola può e deve capire che è un luogo di incontro
fra persone e bisogni, un luogo di socializzazione ma non deve ridursi
a quello e basta.
Le corresponsabilità di adulti e ragazzi,
istituzioni e singoli sono molte e la strada è lunga; intanto, sulla
base dei preoccupanti dati sul sistema scolastico nazionale, non è
detto che si riesca a fornire ai ragazzi di oggi quegli strumenti
necessari alla loro compiuta trasformazione in adulti liberi e
acculturati. Saranno capaci di resistere all’impatto veloce col mondo
adulto e del lavoro, malgrado la demagogia sull’impresa, sulla
tecnologia e sulle lingue straniere (che la riforma in teoria promuove,
in realtà riduce in numero di ore erogate)?
BULIMIA CONSUMISTICA, ANORESSIA CULTURALE
La
scuola è solo una delle agenzie formative per le persone. I ragazzi di
oggi apprendono moltissimo anche da altre fonti che non i loro
insegnanti e le materie di studio. I modelli culturali prodotti e
riprodotti socialmente dalla Tv e dalla pubblicità portano ad acquisire
modelli e riti, mitologie estemporanee e velocemente dimenticate e
digerite.
A cosa conduce questa situazione? Forse ad un
incanalamento della fantasia, che invece dovrebbe essere l’opposto: una
non-omologazione, una presa di coscienza critica. Ecco, allora, che
possiamo parlare di una bulimia consumistica, che è contrapposta
metaforicamente ad una anoressia di stimoli culturalmente eterogenei.
Esiste
un fenomeno di adultizzazione dei ragazzi come consumatori e questo
vuol dire tante cose. La pubblicità in fondo obbliga a pensare che
siamo tutti macchine celibi, desideranti, infantilizzando l’adulto e
adultizzando il ragazzo, spinti a comprare, vittime di frustrazione.
Ma la magia della gioventù è proprio il sogno, il desiderio, non la possibilità che il sogno sia preconfezionato.
QUANDO IL GIOCO SI FA TROPPO DURO… È ANCORA UN GIOCO?
Malgrado
questo, ora che le guerre appaiono in Tv (dal Vietnam all’Iraq dei
giorni nostri) forse l’immagine televisiva o internet esorcizzano
l’orrore, o forse (11 settembre) lo amplificano. Molti dei ragazzi
d’oggi sembrano cinici. Lo sono? O il cinismo è la risposta omeopatica
a altro, ben più profondo, cinismo? È una durezza esistenziale l’unica
via per non farsi toccare duro?
La tensione verso il gruppo dei pari
e l’autonomia amplificata dalla tecnologia porta a concepirci come in
un altrove parzialmente reale, cioè in un mondo virtuale. Il mondo
diventa regno dell’autorappresentazione, occasionalmente svegliato dal
tormento e dalla paura.
Ma la cultura della società di oggi, fatta
di puzzle di concetti, di mode, di design, di luoghi e non-luoghi
affascinanti è imprendibile, non è più (se mai lo è stata) monolitica.
Vivendo
in un mondo al limite, le regole sono trasgredite e la trasgressione è
la regola. Il modello protofascista e totalitarizzante, pur in una
dimensione che fa della democrazia e della rappresentanza un feticcio,
schiaccia la voce dei ragazzi (ma non solo la loro).
I luoghi ed i
tempi sono quelli dell’entertainment, perché quelli della scuola o
della casa sono tempi morti, noia esistenziale, momento che non
corrisponde al modello.
Le ricerche attuali sulla percezione del
rischio e la ricerca dei comportamenti estremi sembra essere un filone
interessante e recente.
Da alcuni studi, si evidenzia che i
ragazzi di oggi cercano di reagire ad un mondo sempre più ostile (o
percepito come tale) comportandosi in modo da esorcizzarlo. Si
comportano, ad esempio, in modo irresponsabile, mettendo a repentaglio
la propria incolumità. Ovviamente, questi sono comportamenti ed
atteggiamenti definiti come «estremi» ed, in quanto tali, marginali, i
cui effetti sono così eclatanti da riempire le pagine dei giornali
quando si verificano casi tragici.
Anche se statisticamente questi
casi stanno aumentando, Studio Aperto (tanto per fare un nome preciso)
non è forse un megafono continuo di notizie sui disastri del sabato
sera dopo la serata in discoteca o cronaca di disperazione e di
delinquenza minorile?
NEL TRANSITO
Alcuni
concetti devono essere esplorati per forza: la cultura che produce
salti fra desiderio ed azione, fra desiderio e realtà, fra realtà e
frustrazione, che rende vero in quanto percepibile ciò cui si ambisce.
Fino a qualche generazione fa, il desiderio era legato
all’immaginazione, privata o politica, dei giovani, alla lettura del
limite dato dalle generazioni dei repressi e repressivi genitori.
Da
qualche tempo, da noi, il desiderio vince. Speriamo che i videogames
(che possono essere molto meglio della Tv) si diffondano, permettendo
una ricerca della multisensorialità e di una corporeità nuova,
interattiva e non solo passiva.
Sappiamo, però, di doverci
confrontare coi frutti di una civiltà nomade, ovvero instabile e
temporanea. Siamo sull’orlo della proliferazione di concetti fondanti
che si mischiano a pratiche: pratiche della moda, del gusto, della
politica, ed anche smarrimento; la connotazione negativa è un esorcismo
da parte dei vecchi che vogliono parlare di qualcosa che pretendono di
sapere. Per un educatore, parlare dei ragazzi, sarebbe quasi come per
un antropologo parlare di una tribù di cui non fa parte.
E non dico «non fa più parte», ma proprio «non fa parte», perché i cicli generazionali sono così veloci che esiste un ricambio.
Quando
sei giovane, puoi gestire il tempo, mentre da vecchio ti conviene
occupare uno spazio. Esiste uno scarto tra il tempo veloce dei ritmi di
un mondo e di una cultura così modellati sulla città, e la capacità
percettivo-cognitiva umana che ha ben altri ritmi.
Infatti la
percezione umana, non è prodotta solo da una acquisizione adattiva di
dati provenienti dall’ esterno, ma da una elaborazione di informazione
creativa attuata dal cervello inclusiva dell’immaginario mentale
proprio della nostra specie.
Dobbiamo studiare le relazioni
sussistenti tra realtà e virtualità che si attuano nel mondo
delocalizzato della informazione globale. Dobbiamo uscire dalla vecchia
interpretazione degli eventi come se fossero semplici estensioni
localizzate e simultanee.
I ragazzi di oggi, che in queste pagine
abbiamo trattato come esploratori loro malgrado fra i meandri della
nostra società complessa ed ultra-tecnologica, come dei wild boys alla
William Burroughs (8), possono permetterci di capire come stiamo
cambiando.
Questo è il mondo in cui stiamo vivendo e cambiando,
pieno di problemi irrisolti come di soluzioni che non riusciamo ad
intravedere, ma anche di soluzioni praticabili a partire dal
riconoscimento che siamo nel transito.
Pensiamo alla parola inglese
translation, che sta sia per «transito, passaggio» che «traduzione» ed
al bel film di Sophia Coppola, Lost In Translation.
In esso,
assistiamo all’incontro nel transito (un Giappone postmoderno,
delocalizzato) tra una giovane sposa ed un vecchio disilluso, entrambi
sperduti in un mondo dove la tecnologia è dentro e fuori di noi,
assieme ai sentimenti del rimpianto, della malinconia e dell’amore, che
accomunano giovani e meno giovani, al di là della fugacità e velocità
del nostro stesso transitare.
Box 1
Giovani tra i 12 e i 19 anni:
«Sei favorevole a…»
sì no non so
Divorzio 54,9 34,6 10,5
Aborto 38,0 49,0 13,0
Eutanasia 41,2 34,8 24,0
Pena
di morte 25,0 63,7 11,3
(Eurispes / Telefono Azzurro, 2004)
Box 2
Tassi di povertà minorile
in alcuni paesi europei
Regno Unito 28,5
Portogallo 26,3
Spagna 25,2
Italia 23,3
Irlanda 20,4
Francia 17,2
Grecia 16,3
Paesi Bassi 16,1
Germania 12,9
Belgio 10,9
(Elaborazione Eurispes sui dati Eurostat 2002)
Box 3
Disordini alimentari giovanili: bulimia e anoressia
I
disordini alimentari degli adolescenti sono spesso accompagnati da
problemi di carattere psicologico che potrebbero durare sino all’età
adulta.
«L’incidenza totale dei problemi di alimentazione durante
l’adolescenza è bassa, ma coloro che sviluppano tali disturbi sono ad
alto rischio per quanto riguarda le turbe emozionali che possono durare
sino alla prima età adulta». Questa è la conclusione di un nuovo studio
dell’Istituto di ricerca dell’Oregon ad Eugene e pubblicato nel Joual
of American Academy of Adolescent Psychiatry (fonte:
www.farmasalute.it).
Vari studi in merito hanno dimostrato che in
una percentuale più alta rispetto al resto della popolazione
adolescenziale, nei pazienti affetti da bulimia, anoressia e versioni
parziali di queste malattie, si riscontrano anche dei problemi di
depressione, ansia e abuso di sostanze stupefacenti.
«Penso che i
problemi alimentari vadano prima di tutto capiti in un contesto di
molti altri problemi – dice il dottor Peter M. Lewinsohn -. Nulla
sembra nascere così dal nulla. Avremmo voluto osservare persone con
puri problemi alimentari, ma ve ne erano molto pochi tra di loro».
«Dipende
da ogni singolo paziente, ma sappiamo che i problemi dell’alimentazione
hanno poco a che fare con il mangiare e il cibo» dice Mae Sokol,
psichiatra dei bambini e degli adolescenti all’interno del programma
per i disordini alimentari alla Clinica Menninger a Topeka, Kansas.
«Non è un caso che queste situazioni iniziano durante l’adolescenza,
quando si è alla ricerca di una identità».
(Ma.Be)
Box 4
Lavoro: sempre più lontano
Fino
a qualche anno fa, in Italia, esisteva una percezione più diffusa della
povertà e della scarsità di occasioni di svago, mentre ai giorni nostri
le richieste e i desideri delle persone sono cambiate. Con l’avvento di
un certo benessere generale (ma in una società che ora sta cambiando di
nuovo) ci si concentra sui problemi esistenziali. La solitudine dei
ragazzi che vorrebbero avere un rapporto migliore con i propri affetti,
o che si rifugiano nella scuola, come luogo di aggregazione e non
solamente di apprendimento, si lega alla ricerca di libertà e
autonomia.
Ogni ragazzo ha davanti a se innumerevoli esempi che
può seguire e spesso si genera confusione su quale prediligere. Spesso,
inoltre, le scelte fondamentali che un giovane deve fare e che
riguardano il suo futuro, devono essere compiute in un’età ancora poco
matura. Un ragazzo comincia a scegliere cosa diventerà sin dalla scuola
superiore, quando potrebbe non avere ancora le idee chiare.
I
giovani vengono spinti a crescere in fretta, ma si devono poi
districare in una società che sta diventando vecchia, e che è veloce
per alcune sue caratteristiche ma inerziale per altre. La costruzione
di un’identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e
senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo
portatrice di modelli e valori ben definiti. Ma la contraddizione fra i
valori permissivi e consumistici e la naturale repressione della
libertà che avviene in un’età di scarsa o nulla indipendenza economica
ed affettiva è micidiale.
La strutturazione del lavoro
contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la
concomitante crisi nell’offerta d’impiego stabile per i giovani,
favorisce una dilatazione del «tempo» dell’adolescenza, per cui è
frequente considerare giovani persone di 30 anni che continuano a
vivere nella famiglia di origine. (Ma.Be)
Marco Bertone