001-Così sta scritto – Dalla Bibbia le parole della vita (introduzione e 1a. puntata)

INTRODUZIONE a «Così sta scritto» (Lc 24,46)

Auguriamo un buon anno ai nostri lettori, aprendo una nuova rubrica. Essa avrà una caratteristica particolare: sarà ancorata alla Scrittura e non deborderà fuori di essa. Forse qualcuno penserà che moltiplicare parole e scritti aumenta la confusione. Forse è così, ma noi pensiamo e crediamo di non cadere in questo tranello di vacue parole. Abbiamo rispetto di ogni singola «parola», perché riteniamo che abbia un’anima e un corpo, come le persone, ed è per questo che la nostra rivista non vuole essere una testata d’opinioni o di cultura fine a se stessa.

Ogni mese proponiamo un viaggio, un cammino, oseremmo dire, un «esodo» per le vie del mondo per cogliere, senza fingimenti e senza secondi fini, gli sprazzi di quella Parola che è disseminata nella storia e nella geografia dei popoli della terra. Ogni mese visitiamo il mondo per rendere testimonianza a Dio che il mondo è oggetto del suo regno e al mondo che Dio è possibile, attraverso la nostra credibilità, che rende accessibile e vicina la credibilità di Dio.

Siamo operatori missionari e non intendiamo smarrire il carisma del nostro Fondatore che, aprendoci al mondo, ci sprona a seguire le orme originarie e originali dei padri della chiesa, Giustino, Clemente di Alessandria, Origene, i quali osavano parlare di semina verbi (lógoi spermatikói). Guardiamo ai popoli e alle condizioni dei loro figli con fede, ma anche con verità, senza coltivare interessi di alcun genere, che non siano quelli della fedeltà alla nostra coscienza e al vangelo. Nel linguaggio biblico, «coscienza» è equivalente di «cuore»; «vangelo» è la parola che si fa annuncio di una Persona, che a sua volta si comunica a noi con una Parola di senso e di plenitudine.

La nostra rivista è fatta di «parole» che commentano la «Parola» che si è fatta cioè carne vivente e vita palpitante nella carne e nella vita delle singole persone, dei singoli popoli, nell’insieme delle nazioni, nell’umanità. Specialmente l’umanità che geme e soffre le doglie dell’abbandono e povertà, sfruttamento e guerre sempre ingiuste e tracotanza dei popoli sazi e gaudenti in mezzo a un oceano di miseria; umanità che grida al cielo la realizzazione del «beati i poveri…» e il dono necessario del «pane di ogni giorno».

Con questo nuovo appuntamento, di mese in mese, in qualsiasi parte del mondo faremo il nostro «esodo/viaggio», sosteremo un poco all’ombra della Scrittura e mediteremo una parola, una frase o un detto, come se centellinassimo un bicchiere d’acqua fresca nella calura di un giorno afoso.

Questa rubrica è aperta e interattiva: i nostri lettori possono suggerire loro stessi eventuali piste di riflessione, purché siano di natura biblica, perché vogliamo rispettare l’impegno assunto nel titolo stesso: «Così sta scritto…», (in greco Lc 24,46: hoútõs gégraptai), che nella bibbia ricorre 94 volte circa e sempre riferito alla legge/parola di Dio.

Ecco il nostro obiettivo: essere in ascolto di Dio per essere in ascolto degli uomini e donne del nostro tempo. Credenti strabici, con un occhio al cielo e un occhio alla terra: la messa a fuoco di questi due estremi è l’armonia perfetta, il natale cristiano che celebra il Bambino, Uomo-Dio. Non l’uno senza l’altro. Auguri di buon anno 2005!

 

(*) Nota sull’autore:

Paolo FARINELLA, prete di Genova, biblista ed esperto di Medio Oriente (dove ha lungamente vissuto), da un anno combattivo collaboratore della nostra rivista, inizia con questo numero una nuova rubrica che cercherà di collegare le parole della Bibbia con i fatti della vita quotidiana.

«Così sta scritto…» verrà pubblicata con cadenza mensile o bimensile. L’autore è disponibile anche ad un dialogo con i nostri lettori. Buona lettura, dunque.

Paolo Farinella

 

 

«In principio era il Lògos»

«In principio… Dio disse…  

In principio era il Lògos/Verbo/Discorso-Parola»

 

L a bibbia ebraico-cristiana si apre con queste parole: «Nel principio… Dio disse… – Bereshìt… wayyiòmer Elohim (ebraico) – En archê… eîpen ho theòs (greco). Nella prima pagina della Genesi, nel racconto della creazione, scritto dopo l’esilio di Babilonia (v-iv sec a.C.), per ben 10 volte ricorre l’espressione «E Dio disse»; tale ripetizione corrisponde alle 10 generazioni patriarcali annotate nello stesso libro della Genesi, alle 10 piaghe inflitte al faraone, emblema del potere schiavista di tutti i tempi, e infine alle 10 parole di libertà, i comandamenti, che Dio offre a Israele ai piedi del Sinai.

Alle 10 parole della creazione corrispondono 10 risultati, perché il testo biblico conclude sempre con: «E così fu». Il «principio», il fondamento di ciò che esiste è una parola che comunica ciò che esprime, fino al punto di suscitarlo come realtà vivente (il sole, la luna, le stelle, gli alberi, i pesci, gli animali, l’uomo e la donna). La Parola non è vuota, ma creativa, genera relazioni viventi e proficue, perché ogni realtà che nasce dalla parola di verità produce frutto «secondo la propria specie».

 

A lla prima pagina della Genesi, risponde come una eco la prima pagina del vangelo di Giovanni: «In principio era il Lògos», parola ebraica e greca insieme, che non si può pienamente tradurre in italiano senza perdee un pezzo per strada. Questo Lògos che è «in principio», al v. 14 «carne fu fatto». Il cielo e la terra, l’eterno e il temporale, l’immutabile e il mortale: «Lògos-sarx», cioè Parola-carne. Consistenza divina e fragilità coesistono senza annullarsi, ma l’uno alimenta e illumina l’altra.

Se il «principio/fondamento» della creazione è la parola soltanto pronunciata, che crea in forza della sua potenza, senza bisogno di manipolare materia, nel Nuovo Testamento, il «principio/fondamento» è da ricercare nella fragilità della condizione umana, che svela e identifica la persona stessa di Dio, perché «il Lògos è Dio».

Queste espressioni nella loro sintetica pregnanza ci inducono a riflettere oltre il chiasso delle morte parole che coprono i giorni degli uomini e donne, che spesso con i loro cicalecci si smarriscono dietro un telefonico dell’ultima generazione, uccidendo nella banalità e nel nulla l’anima intima delle parole e quindi della comunicazione.

Oggi tutti parlano, ma pochi comunicano e per strada vedi gente che parla da sola, mentre sta parlando con altri del più e del meno. Le parole si sprecano all’indefinito, ma hanno cessato di danzare la vita che portano dentro di sé. L’inflazione delle parole vacue stanno uccidendo la parola parlante e il silenzio d’ascolto.

A ogni parola di Dio corrisponde un fatto. In ebraico «parola» si dice «dabar» e «fatto/evento» si dice «dabar». Lo stesso termine «dabar» significa contemporaneamente «parola e fatto», due cose che nella nostra cultura occidentale sono considerate opposte. Quando Dio parla, crea; e quando crea, parla. In Lui la parola corrisponde alla sua identità e, quando è pronunciata, manifesta la sua consistenza e la sua identità. La Parola di Dio è un macigno di verità e coerenza.

Non è un caso che il massimo della rivelazione, operata dalla Parola, si realizza nell’incarnazione della stessa Parola/Lògos nel corpo fisico di una persona, che è Gesù di Nazaret, figlio di Maria e figlio dell’Uomo. In altri termini, la Parola vera non viene mai meno alla sua natura, che è quella di generare una relazione generativa, un rapporto d’amore, una comunicazione di vita.

 

V iviamo in un tempo in cui le parole si sprecano, le promesse si moltiplicano, le menzogne lastricano le vie; e il frutto sono la delusione, la paura del futuro, l’amarezza e la sfiducia negli altri e nelle istituzioni, alimentate scientificamente dalla menzogna istituzionalizzata a strumento di persuasione e di coercizione: è la parola tradita, il vuoto e l’inganno camuffato da parola. È l’omicidio della comunicazione.

Dall’altro lato, in un tempo in cui la parola non ha più la dignità che le compete, «tacere» di fronte all’emergenza della vita e allo sfacelo dei singoli e dei gruppi, è una colpa grave che pesa sulla «coscienza-cuore» di quanti hanno la responsabilità di annunciare, «opportune, importune» (come insegna san Paolo: 2Ti 4,2), non parole di convenienza o di circostanza o, peggio ancora, di opportunismo, ma la «parola» di consolazione e di verità, per sostenere la speranza delusa dei piccoli e dei poveri e il desiderio di quanti fanno fatica a camminare sulla via del bene e della verità. La parola del credente, oggi, deve assumere in sé il peso dello scoraggiamento collettivo, la croce che schiaccia chi non ha voce e diventare «urlo» che sale dal profondo per scalare le vie del cielo: «Dall’abisso grido a te, o Signore» geme il salmista (Sal 130/129,1). Solo così la parola è profezia e la profezia è annuncio che accade «oggi», per leggere alla luce di Dio l’«oggi» dell’uomo. I credenti che rinunciano alla profezia della testimonianza della «Parola divenuta carne» sono un impedimento al cammino della storia e un ostacolo al regno di Dio. 

Toi la parola, maturata nel silenzio e frutto di ascolto, a risuonare sulle vie del nostro mondo, a scuotere le coscienze intorpidite e morfinate da chi impedisce con ogni mezzo che singoli e popolo riprendano possesso del proprio pensiero e capacità di scelta. Toi la parola di chi ha responsabilità di autorità, a indicare la via della Genesi e di Giovanni. Così sta scritto… «In principio Dio disse…», sperando che qualcuno «oggi» risponda come rispose «In principio il Lògos» che «carne fu fatto». Spetta a ciascuno di noi, «oggi», decidere di essere «dabar», parola/fatto che resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità.

Paolo Farinella




ECONOMIA / Quale economia? (2) I rapporti 2005 .

I RAPPORTI 2005 DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Sono tutte drammatiche le cifre di Ilo, Unicef e Fao.

Nel 1996 i principali paesi del mondo lanciarono, da Roma, una campagna per dimezzare gli affamati del pianeta entro il 2015. Nel 2004, leggendo l’ultimo rapporto della Fao, scopriamo che le persone sottornalimentate sono addirittura aumentate, arrivando alla cifra di 852 milioni, la maggior parte nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia del Sud. Ma, come dice il detto popolare, le disgrazie non vengono mai da sole: dove c’è povertà il più delle volte non mancano la guerra e la malattia. L’Aids, ad esempio. Nel 2003 l’infezione ha ucciso 500 mila bambini sotto i 15 anni, i sieropositivi sono arrivati a più di 2 milioni e gli orfani a 11,5. Secondo l’ultimo rapporto Unicef, sono 180 milioni i bambini costretti a lavorare e 140 quelli che non sanno cosa sia una scuola. E senza un’istruzione di base non è possibile una crescita normale ed anzi aumenta la possibilità che i minori vengano «reclutati» dall’industria militare (i bambini-soldato) o da quella, in costante espansione, del sesso.

Le statistiche riportate nei tre rapporti delle organizzazioni inteazionali Ilo, Fao ed Unicef (tutte emanazione delle Nazioni Unite) illustrano situazioni drammatiche o almeno gravi, mentre i dati positivi sono una minoranza. «Così va il mondo», potrebbe dire qualche lettore, magari contrario alle nostre campagne contro le guerre di qualsiasi tipo e con qualsiasi aggettivo (guerra «preventiva», guerra «giusta», eccetera). A quel lettore si potrebbe rispondere con un dato come il seguente: il 5% (cinque per cento!) della spesa militare globale annua (pari, nel 2003, a 956 miliardi di dollari) basterebbe per ridurre di due terzi la mortalità infantile tra 0 e 5 anni e garantire a tutti l’accesso all’istruzione primaria. Se questo dato non fosse sufficientemente esplicativo, ne proponiamo un altro: ogni anno migliaia di bambini (si parla di 40.000) muoiono sulle mine anti-uomo, molto economiche da acquistare (3 dollari), assai meno da disinnescare (1.000 dollari).

LE ORGANIZZAZIONI:
• www.ilo.org
Inteational Labour Organization
• www.fao.org
• www.unicef.org
United Nations Children’s Found


La povertà infantile nei paesi OCSE (2000)

Paesi (cifre percentuali)

Finlandia 2,8
Norvegia 3,4
Svezia 4,2
Belgio 7,7
Ungheria 7,8
Germania 9,0
Lussemburgo 9,1
Olanda 9,8
Austria 10,2
Polonia 12,7
Canada 14,9
Regno Unito 15,4
Italia 16,6
Stati Uniti 21,9
Messico 27,0

Fonte: Unicef
Food and Agriculture Organization of the United Nations

Condizione dei bambini nel mondo (2003)

• bambini lavoratori 180,0 milioni
• bambini sfruttati sessualmente 2,0 milioni
• bambini oggetto di traffici 1,2 milioni

• morti sotto i 5 anni
ogni giorno per malattie curabili 29.158

• morti sotto i 18 anni
per guerre dal 1990 1,62 milioni (1)

• bambini uccisi
dalle mine ogni anno 40.000 (2)

• bambini privi di un tetto 640,0 milioni
• bambini senza acqua potabile 400,0 milioni
• bambini privi di assistenza sanitaria 270,0 milioni
• bambini che non frequentano alcuna scuola 140,0 milioni

Fonte: Unicef

(1) Corrispondenti al 45% del totale, che è di 3,6 milioni di morti in 59 guerre.
(2) Una mina costa 3 dollari; per disattivarla ne occorrono 1.000.


Tassi di disoccupazione (2003)

Paesi industrializzati 6,8 %

America latina e Caribi 8,0 %
M.Oriente ed Africa del Nord 12,2 %
Africa Sub-sahariana 10,9 %
Asia dell’Est 3,3 %
Asia del Sud 4,8 %
Asia del Sud-Est e Pacifico 6,3 %

• Media mondiale 6,3 %

Fonte: Ilo

La fame nel mondo (2000-2002):
persone sottornalimentate (in milioni)

Zone Cifre assolute

Africa Sub-sahariana 203,5
Africa del Nord 6,1
Medio Oriente 33,1
Russia ed Europa dell’Est 28,3
Asia dell’Est 151,7
Asia del Sud 301,1
Asia del Sud-Est 65,5
America Centrale e Caraibi 14,1
America del Sud 33,6

• Mondo 852 milioni

Fonte: Fao

Lavoratori poveri nel mondo (2003)

Tipologia Numeri assoluti

• disoccupati 185,9 milioni

• lavoratori con meno di 1 dollaro/die 550,0 milioni
• lavoratori con meno di 2 dollari/die 1.4 00,0 milioni

Fonte: Ilo

Emissioni di carbonio
(gas serra) in alcuni paesi

Paesi Emissioni
di carbonio (1)
Stati Uniti 23,4
Cina 13,6
Russia 6,2
Giappone 4,8
India 4,2
Germania 3,4
Canada 2,4
Gran Bretagna 2,3
Sud Corea 1,8
Italia 1,8

tutti gli altri paesi 36,0

Fonte: Earth Policy Institute, Washington 2004
(1) Percentuali sulle emissioni globali

Impronta ecologica
(Ecological footprint)

Paesi Impronta
pro-capite (1)

Stati Uniti 9,5
Canada 6,4
Gran Bretagna 5,4
Germania 4,8
Russia 4,4
Giappone 4,3
Italia 3,8
Sud Corea 3,4
Cina 1,5
India 0,8

• Media mondiale 2,2
• Impronta
compatibile (2) 1,8
• Deficit ecologico 0,4

Fonte: Living Planet Report 2004

Note:
(1) Misura in ettari pro-capite riferita
al 2001; tutti i dati sono reperibili su: www.panda.org
(2) Definita come «biocapacità».

Paolo Moiola




ECONOMIA / Quale economia? (2) Protocollo di Kyoto: 16 Febbraio 2005

Economia e ambiente

KYOTO BUSSA ALLE PORTE.
(PER UN MISERO 5,2 PER CENTO)

Gli Stati Uniti, il paese più inquinante del mondo, non aderisce al trattato di Kyoto.
L’Italia, firmataria ma inadempiente, ha annunciato
che, anche in questo, presto seguirà Washington.
Quando l’interesse particolare schiaccia quello universale…

Nel 1997, in Giappone, i principali paesi occidentali firmarono quello che è conosciuto come il «protocollo di Kyoto», dal nome della località che ospitò il convegno. In quell’occasione, si stabilì di ridurre complessivamente (rispetto ai valori del 1990) del 5,2 per cento le emissioni di anidride carbonica e di altri cinque gas serra entro il 2012. Finalmente, a 7 anni dalla firma, il 16 febbraio 2005 il protocollo di Kyoto entra in vigore.
Intanto, nel 2003 le emissioni di carbonio dovute ai combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale) hanno segnato un nuovo record, aumentando quasi del 4% rispetto all’anno precedente. Ha detto Lester Brown, fondatore del World Watch Institute di Washington: «Il protocollo di Kyoto è un passo politico importante, ma nasce già vecchio. Non ha un’influenza reale sulla stabilizzazione del clima: per raggiungere l’obiettivo bisognerebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica non del 5, ma del 50% in 10 anni».
Di questo si è discusso nella decima Conferenza sui cambiamenti climatici (Cop10), tenutasi a Buenos Aires lo scorso dicembre. La conferenza è stata pesantemente condizionata dagli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato il protocollo di Kyoto (pur essendo, di gran lunga, i maggiori inquinatori mondiali).
La posizione statunitense ha fatto infuriare tutti, anche organizzazioni di norma moderate ed apartitiche come il Wwf Internazionale. L’amministrazione Bush ha messo in atto una tattica aggressiva, fatta di ostruzionismo e disinformazione; ha difeso la propria industria dei combustibili fossili e l’Arabia Saudita. Gli Usa si sono inoltre opposti fino all’ultimo all’avvio di nuovi negoziati sul dopo Kyoto. Alla fine, è stato raggiunto un compromesso al ribasso che prevede un semplice incontro a Bonn nel maggio 2005.

E l’Italia? Il nostro paese aderisce al protocollo, ma continua ad aumentare le sue emissioni di gas serra, come confermato anche dal fatto che nel 2003 le emissioni di Co2 sono state di oltre il 9% superiori (qualcuno dice il 12%) a quelle del 1990, allontanandosi di molto dall’obiettivo fissato dal protocollo di Kyoto di una riduzione del 6,5% (1).
Anche a Buenos Aires l’Italia non ha fatto una bella figura, come amaramente hanno confermato i rappresentanti del Wwf italiano. I rappresentanti del governo di Roma hanno enfatizzato gli accordi bilaterali e gli impegni volontari, contrapposti agli accordi multilaterali e agli impegni collettivi, creando confusione e discredito ed indebolendo la posizione comune dei partners europei, principali sostenitori del protocollo di Kyoto.
Ma essere «più realisti del re» (il re sono gli Stati Uniti, ovviamente) è spesso foriero di conseguenze negative. Come ha chiosato il quotidiano francese Libération: «Bisogna convincere gli Stati Uniti che quel che è bene per il pianeta è bene anche per loro. E non viceversa». Appunto.

Pa.Mo.

IL MONDO MINACCIATO DAL TERRORISMO?
NO, DALLA CATASTROFE ECOLOGICA

Un solo dato è sufficiente: dal 1968 ad oggi il terrorismo ha ucciso
24 mila persone, le catastrofi ambientali 240 mila. Ogni anno…

Si calcola che, entro la metà del secolo, ci potranno essere 150 milioni di persone in fuga dal proprio paese sconvolto dai cambiamenti climatici. Negli ultimi 30 anni nella zona artica è andato perso l’1,8% della superficie ghiacciata, circa un milione di chilometri quadrati, l’equivalente della superficie di Norvegia, Svezia e Danimarca. Le piogge in Africa diminuiscono da 30 anni: nel Sahel sono scese del 25%. Il crollo minaccia il settore agricolo che fornisce il 70% dei posti di lavoro. Due terzi delle barriere coralline sono stati seriamente danneggiati e sono a rischio di degrado per colpa dell’innalzamento della temperatura dei mari. Il Bangladesh rischia di perdere un quinto del proprio territorio: sarà inghiottito dalla crescita del mare provocata dall’aumento dell’effetto serra.
Questi sono soltanto alcuni degli scenari prodotti dalla catastrofe ecologica. Ma ognuno di noi può (volendo vedere) rendersene facilmente conto ogni giorno: gli invei hanno temperature sempre più miti, la neve è sempre di meno e cade soltanto in quota, i ghiacciai alpini si ritirano anno dopo anno.

«I disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici minacciano il futuro dell’umanità in misura enormemente più grave rispetto al terrorismo» ha scritto lo scienziato statunitense Gregory D. Foster sul World Watch Institute Magazine. «Dal 1968 ad oggi il terrorismo ha ucciso 24 mila persone, contro le 240 mila sterminate ogni anno dalle catastrofi ambientali». In futuro, ci saranno sempre più guerre per l’acqua, l’energia e le derrate alimentari.
Inquietante, infine, un altro dato: secondo un sondaggio Gallup, la stragrande maggioranza degli statunitensi omette l’ambiente persino dalla «top 11» delle «possibili minacce agli interessi vitali degli Stati Uniti». Probabilmente, un altro «merito» da ascrivere all’amministrazione di George Bush.  

Paolo Moiola




ECONOMIA – Quale economia? (2) Né giustizia né pace senza ecologia. Incontro con Wolfgang Sachs


QUALE ECONOMIA? (seconda puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
Incontro con il professor Wolfgang Sachs
NÉ GIUSTIZIA NÉ PACE SENZA ECOLOGIA

Le fonti energetiche fossili (petrolio, gas, carbone) debbono essere protette militarmente. Al contrario, le energie rinnovabili, oltre a non distruggere l’ambiente, si trovano ovunque e pertanto sono di per sé «pacifiste».
A parte la questione energetica, per gli stati e per i singoli vale lo stesso consiglio: «Realizzare la giustizia non vuole dire dare di più, ma soprattutto imparare a prendere di meno». A cominciare dalle risorse naturali.

Tedesco, ricercatore presso il Wuppertal Institut per il clima, l’ambiente e l’energia, professore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Wolfgang Sachs ha studiato sociologia, teologia e scienze sociali.

Professore, come le è nata la passione per le tematiche ambientali?
«C’è una storiella al riguardo. Io avevo 15-17 anni ed ero a Monaco. Un giorno scoprii che in un giardino della birra (ce ne sono molti nella città bavarese) stavano lavorando per costruire un parcheggio. Questo fatto mi fece arrabbiare. Ero infastidito ed offeso: questo non può essere il progresso, pensai. Io non lo accetto.
Da allora i miei studi si sono mossi in quella direzione. Il mio scetticismo nei confronti di questa modeità e di questo progresso è stato poi rafforzato dai miei studi di teologia».

Nell’attuale società il dogma intangibile è quello del Prodotto interno lordo (Pil). Secondo lei, il nuovo indicatore dell’«impronta ecologica» può essere utile per descrivere il collegamento esistente tra ambiente e giustizia?
«L’impronta ecologica ha il merito di considerare la dimensione ambientale, completamente dimenticata nell’indicatore del Pil.
Un indicatore come l’impronta ecologica ha il vantaggio di aggregare consumi diversi in un unico dato – la quantità di terra necessaria per produrre i beni consumati da ognuno – e rendere così possibile i paragoni tra nazione e nazione, ma anche tra città e città. Quindi, è un’ottima base concettuale per parlare di giustizia».

Secondo la teoria economica i mezzi di produzione sono il lavoro, il capitale e la terra-natura. Tuttavia, politici ed economisti quasi sempre sottovalutano quest’ultimo fattore…
«Ho due osservazioni: la prima è che il capitalismo di oggi è un capitalismo poco serio, in quanto da una parte esalta il capitale economico, dall’altra permette la rovina del capitale sociale e naturale.
La seconda osservazione è un’osservazione critica verso la nozione di capitale naturale. Nel momento in cui si parla di capitale, si implica che esso sia conosciuto per intero e possa essere quantificato. La natura, però, non può rientrare in questa definizione. Di essa non è possibile tracciae i confini, misurae il volume, in una parola quantificarla. Il contrario di ciò che avviene: l’attuale visione è estremamente miope».

Gli Stati Uniti sono i più grandi inquinatori del mondo. Lei proviene dalla Germania, uno dei maggiori paesi industrializzati del mondo. Il suo paese si sta comportando meglio degli Usa?
«In questo momento la legislazione tedesca per le energie rinnovabili è abbastanza innovativa, perché garantisce un prezzo per la rivendita dell’energia prodotta indipendentemente. C’è motivo di soddisfazione per l’eolico, meno per i trasporti.
Mi piace ricordare che al mondo c’è un piccolo paese, il Costa Rica, che ha diminuito le sue emissioni di Co2 in modo sensibile, che ha fermato la deforestazione, che non ha un esercito… Quello che voglio dire è che ci sono stati meno importanti, che fanno una politica più interessante di altri più noti. Certo, a livello globale, non siamo in una situazione brillante».

Alluvioni, uragani, siccità ed incendi sono sempre di più, sempre più frequenti, sempre più virulenti. Le catastrofi naturali sono un segno della gravità della situazione?
«C’è un pericolo in questa visione. Perché quando la tua immaginazione viene dominata dall’immagine della singola catastrofe, non vedi più le catastrofi in scala più piccola. Pensiamo al cambiamento del tempo. Oggi non c’è più evento meternorologico o climatico che non sia influenzato dalle attività economiche dell’uomo. Però non lo vedi, non è misurabile, non è identificabile. È un po’ come con il cancro. Si sa che tante forme della malattia dipendono dall’impatto ambientale. Però, quando un signore X muore di cancro, tu non puoi dire con precisione che la causa o concausa è stata questo o quell’aspetto dell’inquinamento ambientale. E così sarà sempre di più per i fenomeni meternorologici. Le conseguenze serie del cambiamento climatico avvengono in modo silenzioso. È una nuova melodia nell’evoluzione umana».

Lei è ottimista, se parla di melodia…
«È una melodia tragica…».

Cosa le suggerisce il protocollo di Kyoto? Cos’è e cosa sarà?
«A parte vedere quanti paesi applicheranno concretamente il protocollo di Kyoto, il problema vero è un altro.
Il problema è che i suoi obiettivi sono ridicoli rispetto alla magnitudine del problema. C’è un consenso da parte di tutti gli esperti del mondo scientifico secondo il quale ci vorrebbe una riduzione globale del 50-60% di Co2 nei prossimi 50 anni. Se uno mette nel conto anche la crescita della popolazione, siamo lontani anni luce da questo traguardo…
Poi c’è il problema dell’inclusione dei paesi in via di sviluppo… Infine, Kyoto è pieno di scappatornie: è come un formaggio svizzero con un sacco di buchi. Il motivo per il quale ci sono i buchi è molto chiaro. Perché gli americani, a suo tempo (era il 1997), hanno cercato di avere un trattato che alla fine non avrebbe prodotto alcun cambiamento per la propria economia, il proprio modo di consumo e produzione. Ecco, perché la cosa migliore per leggere Kyoto è la famosa battuta di Bush padre: “Si può discutere di tutto, ma non del cambiamento dello stile di vita americano”».

Che tristezza…
«Sì, e questo non è tutto… Occorre sapere che gli Stati Uniti hanno una tattica ben precisa, che è sempre la stessa: loro partecipano ai vari negoziati, li portano al minimo e poi ne escono o ne rifiutano la ratificazione. Kyoto è solo un esempio. La stessa cosa hanno fatto per la convenzione sulla bio-diversità. È una tattica di arroganza sistematica…
I delegati statunitensi arrivano alle trattative inteazionali e le uccidono con carte ed avvocati. E spesso gli altri paesi si debbono adeguare. Sembra primitivo e banale ma purtroppo è così».

Lei collega la scelta energetica del mondo con la guerra e la pace. Ci spieghi meglio questo collegamento…
«Gas, petrolio e carbone sono presenti sulla terra solamente in alcuni luoghi, mentre i consumatori di energia si trovano dappertutto. Il risultato è che l’energia fossile si basa sempre su lunghe catene di produzione e di approvvigionamento. Queste catene hanno fianchi deboli e vulnerabili, quindi devono essere protette.
Per questo un’economia fossile sarà sempre un’economia che richiede una maggiore sicurezza militare. Mentre la situazione è molto diversa per quanto riguarda le energie rinnovabili: il vento, la biomassa, il sole, l’acqua.
Le fonti delle energie rinnovabili sono dappertutto e soprattutto si trovano negli stessi luoghi dove vi sono i consumatori. Ne consegue che con le energie rinnovabili le distanze fra le fonti ed i consumatori possono essere molto più brevi. Quindi parliamo di catene di approvvigionamento corte che pertanto non richiedono una protezione militare. In conclusione: le energie rinnovabili sono energie pacifiste e non ci sarà pace senza ecologia».

Per l’ambiente è più importante la sensibilità individuale o la responsabilità pubblica?
«C’è una dimensione pubblica ed una personale. Sono due cose che dovrebbero completarsi e mai escludersi».

Le città sono invase dalle auto, che – lo ammettono ormai tutti – producono inquinamento, diminuzione della qualità della vita, malattie, effetto serra, eccetera.
«Oggi le auto sono più ecoefficienti di 20 anni fa, ma questo non ha risolto il problema in quanto, nel frattempo, abbiamo messo sulla strada macchine più potenti, più veloci o addirittura i fuoristrada. Cosa c’è di più irrazionale che mettere un fuoristrada nel traffico cittadino dove si va piano e non ci sono ostacoli da superare? È uno spreco ingiustificato».

Ciononostante sembra che dell’auto la gente non possa fare a meno…
«Io comincerei con l’evitare una domanda: cosa faccio con l’auto? posso fae a meno? Secondo me, questo è l’approccio sbagliato. Si dovrebbe partire dicendo che non si vuole la macchina e proprio in base a questa scelta si conforma la vita di conseguenza…
In tal modo, le scelte di abitazione e lavoro, il modo di muoversi in città, le abitudini, tutto si formerebbe in funzione di non avere una macchina… Purtroppo, nella società d’oggi tutto è basato sulla macchina. E diventa difficile convincere una persona a fae a meno…
Personalmente, ho sempre scelto casa con il presupposto che non voglio essere costretto a comprarmi una macchina».

Ha fatto una scelta ecologica…
« Non solo. A volte l’auto può essere interessante ed utile, ma è anche un oggetto che comporta una spesa continua, un fastidio quando devi fare delle acrobazie per andare da un posto all’altro… Io non trovo piacere ad avere una macchina.
Nella città dove abito ci sono quartieri, ristoranti, luoghi che non conosco, perché sono fuori del mio raggio di azione, mentre lo sono in quello di un automobilista. Non conosco questi posti e non li ho mai cercati, perché non fanno parte del mio orizzonte quotidiano. E la cosa strana è che non mi sento sottoprivilegiato per questo».

Lei parla di una «soddisfazione materiale» e di una «soddisfazione immateriale»…
«È semplice. Ci possiamo permettere più cose, ma abbiamo meno tempo a disposizione. Ad esempio, possiamo comprarci più Cd di musica, ma ci manca il tempo per ascoltarli…».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




ISRAELE-PALESTINA: Fotogrammi di sofferenza

Due israeliani e un palestinese, tutti registi
con un unico pensiero:
documentare le sofferenze di due popoli divisi
da una guerra, un muro, un odio che pare infinito.

Yoav Shamir, Eyal Sivan e Michel Khleifi sono tre film-maker, tre uomini che hanno in comune una grande e bella terra: l’antica Palestina, ora divisa tra i Territori palestinesi e Israele. I primi due sono israeliani, il terzo palestinese.
Condividono anche un’altra passione: quella per il cinema di denuncia sociale e politica.
Le loro opere – «Checkpoint» di Shamir e «Route 181» di Khleifi e Sivan – sono due capolavori del cinema-documentario, vincitori di numerosi premi inteazionali.

Yoav Shamir, regista isrealiano
Inquieto, un po’ timido, sempre attratto da nuovi stimoli suggeriti dall’ambiente e dall’epoca in cui viviamo, inglese fluente, Yoav Shamir, 33 anni, racconta la sua vita e il suo grande amore per il cinema, che, con Checkpoint, è diventato di «impegno politico e sociale».
Laurea in storia e filosofia all’Università di Tel Aviv, e master in cinematografia, il giovane cineasta entra con profondità emotiva nelle questioni esistenziali, sociali e politiche che costituiscono i temi dei suoi documentari.

Yoav, su cosa concentra maggiormente la sua attenzione?
«Mi interessano i sentimenti, le emozioni della gente di cui parlo, israeliani, palestinesi o cubani (Cuba è stato il soggetto del mio primo documentario). Cerco di capire come certe situazioni condizionino i rapporti umani e l’esistenza di intere popolazioni, come nel caso del conflitto israelo-palestinese».
In un’intervista pubblicata l’anno scorso su Dox lei aveva dichiarato di non essere una persona politicamente impegnata, di non andare alle manifestazioni. È ancora vero?
«Ora che Checkpoint è uscito mi sono ritrovato, senza volerlo, politicamente coinvolto. Non ne posso fare a meno: è un film politico».
Il suo è un documentario completamente girato tra i 200 posti di blocco israeliani nei territori palestinesi. Denuncia la dura condizione di oppressione in cui vive la popolazione araba, ma anche il degrado umano e sociale dei giovani militari israeliani, costretti a obbedire a ordini di cui non comprendono la portata. È un’opera di notevole durezza, che non concede sconti. Perché, come israeliano, ha deciso di realizzarla?
«Volevo rendere visibile agli israeliani ciò che sta quotidianamente accadendo nei Territori palestinesi occupati, cosa ciò significhi per loro e per noi. Mi interessava far emergere le implicazioni psicologiche dell’occupazione.
Tra le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo film c’è stata anche l’iniziale incomprensione dei miei genitori: provenendo da famiglie di militari, non riuscivano a comprenderlo, ad accettarlo. Ora è diverso: hanno finalmente imparato ad apprezzarlo».
Che cosa significa per gli israeliani far vivere un popolo sotto occupazione?
«È ciò che sta accadendo dal 1967: la nostra società è diventata più aggressiva, più brutale, al suo interno prima di tutto. In questi ultimi anni è stata pubblicata una ricerca che denuncia un aumento della violenza tra la popolazione israeliana. Violenza “civile”, dunque. C’è infatti una interconnessione tra la politica di occupazione e il peggioramento dei rapporti interpersonali nella nostra società: il primo aspetto inevitabilmente sta influenzando il secondo. Una società sana non può far finta che la violenza estea non condizioni, in negativo, i comportamenti all’interno della società stessa. Questo vale anche per la popolazione palestinese, che è diventata molto militarizzata; anche i giochi tra bambini imitano situazioni di aggressività. Siamo di fronte a due popoli che si stanno auto-distruggendo».
In Checkpoint lo spettatore non assiste a scene di violenza fisica, ma è molto presente la violenza psicologica. Perché ha scelto di cogliere questo aspetto piuttosto che l’altro?
«È vero, c’è molta violenza mentale, psicologica. Ho focalizzato le mie riprese solo nei microcosmi dei checkpoint, e non su ciò che accade per le strade. Ho sostato per ore, per mesi, tra il 2001 e il 2003 ai posti di blocco, e ho registrato ciò che vedevo: al 99 per cento si è trattato di violenza psicologica. La violenza fisica è minima, nella maggior parte dei casi assistiamo a scene come quella del soldato che proibisce alla mamma di portare il figlio dal medico, dall’altra parte del checkpoint».
Lo spettatore non può non provare empatia nei confronti dei palestinesi: avverte il loro dolore, la rabbia per le ingiustizie subite. Il suo, dunque, è un film di parte?
«Ho cercato di cogliere differenti punti di vista: talvolta quello dei palestinesi, talvolta quello dei soldati israeliani. Ho cercato di fare un film in cui venisse ritratto come vittima non solo il palestinese, ma anche il giovane militare. E la complessità di una situazione in cui tutti soffrono».
Ma la sofferenza dei palestinesi emerge in modo più evidente…
«Certo, perché loro sono le vittime. Anche se la verità non è solo bianca o nera: anche i soldati ai posti di blocco possono essere considerati delle vittime a causa della difficile situazione in cui si trovano. Talvolta possono sembrare delle “marionette” che eseguono ordini provenienti dall’alto. Sono molto giovani e spesso con poca consapevolezza del proprio ruolo. Forse per questo il film viene proiettato anche nelle caserme israeliane…».
Qual è il suo obiettivo: farli riflettere e cambiare atteggiamento nei confronti della popolazione palestinese?
«Non so in realtà perché l’esercito abbia deciso di proiettare il mio documentario. Forse perché, quando fai il soldato ad un posto di blocco non hai la possibilità di vedere la situazione con obiettività, dall’esterno. Ecco, allora, che questo film può aiutare a fare un passo indietro e a guardare in modo più oggettivo.
Molti fra gli alti livelli dell’esercito non sanno ciò che avviene ai checkpoint: qualcuno l’ha scoperto recandovisi in incognita ed è rimasto attonito».
Come vede il futuro?
«Qualche volta sono ottimista, qualche altra pessimista. Dipende. Penso che la soluzione è così semplice. Il grande problema è la de-umanizzazione dell’altro, del nemico, che non viene più percepito come essere umano. La società palestinese è molto scolarizzata, evoluta. Credo ci possano essere tanti punti di contatto, di dialogo. Le ferite possono rimarginarsi anche se profonde.
Un’altra questione è: due stati per due popoli, o uno stato per due popoli? Personalmente preferirei la seconda ipotesi. Altrimenti sarebbe come creare un ghetto ebraico in territorio arabo. Israele potrebbe invece assimilarsi nell’area: il 60 per cento degli israeliani ha radici arabe, viene, cioè, dal Marocco, dall’Iraq, dallo Yemen, ecc. La maggior parte è cresciuta in questi ambienti misti, parla l’arabo. Gli altri, quelli che arrivano dall’Europa o dall’America, in maggioranza sono di sinistra. Dunque, la soluzione potrebbe essere molto più semplice di quanto si pensi».
Se è così semplice, perché non è stata ancora trovata?
«Molti ci provano. È che tanti israeliani vedono i paesi arabi come un’unica entità: l’idea del panarabismo è ancora molto presente in Israele e anche quella di essere una piccola nazione circondata da nemici. La gente non sa che tra uno stato arabo e l’altro ci possono essere differenze e addirittura conflittualità. L’altro problema è la mancanza di democrazia nelle società arabe. Gli israeliani dicono: “Noi siamo democratici, secolarizzati, non vogliamo trovarci a convivere con situazioni dove manca la libertà”. Un altro ostacolo è la crescente islamizzazione della società palestinese».
Se i palestinesi potessero lavorare e i ragazzi andare a scuola, forse la situazione cambierebbe.
«Certo. Ma siamo dentro un circolo vizioso. Basterebbe, tuttavia, risalire alla storia degli anni ’50 e ’60 per capire quante e quali responsabilità, e interessi, l’Occidente ha nei confronti del Medio Oriente, della cui situazione ora sembra essersi lavato le mani. Ha manipolato, colonizzato, creato strategie e alleanze. E ora parla di pace: ma chi ha acceso per primo il fiammifero in questa polveriera?».
Yoav ha un sogno: far in modo che non esistano più i checkpoint, che l’esercito israeliano lasci i territori palestinesi, che occupazione e guerra abbiano termine e che palestinesi e israeliani possano vivere in pace in un unico Stato.
«Ciò che mi dà più gioia è quando i sostenitori della destra israeliana raccontano che il mio film ha cambiato il loro modo di vedere il conflitto con i palestinesi. Questo è già un grande risultato».

MICHEL KHLEIFI, REGISTA PALESTINESE
Michel Khleifi è nato nel 1950 a Nazareth e nel 1971 si è trasferito a Bruxelles, dove ha studiato teatro all’Institut national supérieur des arts du spectacle (Insas). Attualmente insegna cinema all’Insas. I suoi film più famosi sono «Memorie fertili» (1980); «Nozze in Galilea» (1987), che ha ottenuto il premio della Critica internazionale al Festival di Cannes nel 1987; «L’Ordre du jour» (1993); «Conte de troi diamants» (1995); «Mariages mixtes en Terre sainte» (1996).
Capelli bianchi, faccia simpatica, è seduto al tavolino di un bar nei pressi di un cinema torinese ad osservare il via vai di giovani e adulti che entrano ed escono dalle sale dove è in corso una no-stop di film israeliani e palestinesi.

Signor Khleifi, come vede il futuro dei popoli israeliano e palestinese?
«Non posso dire come lo vedo, ma come lo sogno. La scelta migliore, ora, è tentare di umanizzare le due società in conflitto e creare le condizioni per la convivenza di due diverse “cittadinanze”. L’ideologia sionista purtroppo non riconosce questa possibilità. Solo se si cambia questa mentalità, si potrà trovare una soluzione avvicinando l’uno all’altro i due popoli.
È mai possibile essere trattati come delle bestie quando si viene fermati da un militare israeliano? Capita anche a me: sono invitato in tutte le università del mondo e quando arrivo in Israele, solo perché sono palestinese, vengo umiliato anche dal giovane soldatino israeliano appena arrivato dalla Russia. È una follia: fanno fatica a considerarci come delle persone. Siamo nullità.
Israele è una società automatizzata: hanno bisogno di parlare, di tirar fuori ciò che hanno dentro, di rielaborare».
Nei media occidentali quando si parla della Palestina la si associa spesso a Hamas.
«Hamas è lo specchio in cui si riflette il sionismo: il comportamento di quest’ultimo è causa di quello del primo. Se infatti io le rubo ciò che lei possiede, come reagirà? Mi ringrazierà o cercherà di riprendersi indietro ciò che le è stato tolto?
Il problema è che i sionisti sono arrivati in Palestina non con il desiderio di vivere in pace, ma con quello di imitare il colonialismo. Non hanno tenuto conto della popolazione palestinese. Hamas esiste, dunque, in quanto reazione a questa mentalità e a questa prassi distruttiva, lesiva dei diritti del popolo palestinese. Il problema, però, è come viene prodotta la violenza».
Route 181 è il frutto della collaborazione tra lei e l’israeliano Sivan. Come descrive questa relazione professionale e umana?
«Siamo amici e colleghi. Il nostro obiettivo era andare fino in fondo, nonostante gli ostacoli o le divergenze, e realizzare una grande opera. Non è stato facile lavorare in due e con esperienze diverse alle spalle. Abbiamo dovuto affrontare problemi durante le riprese, il montaggio, l’editing. Ma ce l’abbiamo fatta.
Il nostro film vuole essere uno strumento per parlare con le persone e per farle parlare. In genere, si sente solo la voce dei politici, mentre quella dei due popoli non viene mai ascoltata. Ma è proprio da loro che possono giungere soluzioni per una pacifica convivenza: è quello che abbiamo raccolto e registrato nel nostro viaggio-film».
Quali sono i suoi progetti cinematografici futuri?
«Tradurre ancora una volta in film la vita dei palestinesi».
Khleifi risponde velocemente a quest’ultima domanda e poi entra nel cinema, dove è atteso da un folto pubblico che ha appena assistito alla proiezione del suo film.

Box 1

La via della pace tra Palestina e Israele può passare anche dal cinema (documentari, film, cortometraggi politically committed). Dal lavoro corale, dall’amicizia e collaborazione di registi palestinesi e israeliani, da produzioni coraggiose che denunciano a un mondo occidentale sempre più sordo e cieco, imbonito dalle manipolazioni dei media, dei politici e dei grandi gruppi industriali, la tragedia di un popolo oppresso e quella del suo oppressore.
Raccontare le umiliazioni quotidiane subite dai palestinesi, la violenza che colpisce i bambini dei villaggi e dei campi profughi fin dentro le loro case – minando per sempre quel flebile accenno di fiducia e di protezione a cui ancora potevano auspicare – non è argomento che interessi i grandi giornali o le tv. Illustrare fin nei minimi dettagli l’effetto catastrofico di chi, fra i giovani palestinesi, si fa esplodere annientato da folle disperazione, quello sì, è tema che stuzzica e coinvolge.
Anche la critica nei confronti del governo israeliano per la sua politica nei confronti del popolo di Palestina, per noi occidentali è diventata un tabù: si è subito accusati di antisemitismo (come se semiti fossero solo gli ebrei e non anche tutti gli arabi!). Seppur una gran parte dei cittadini europei ritenga che il governo israeliano rappresenti la maggior minaccia per la sicurezza dell’umanità, governanti e leader di partito fanno fatica a raccogliere gli stimoli della gente comune e a prendere chiare posizioni di condanna nei confronti della disumana politica anti-palestinese di Tel Aviv. Perché, contrariamente a quanto sostiene certa propaganda e il recente libro della giornalista Fiamma Nirenstein (Gli antisemiti progressisti, Rizzoli 2004), denunciare Sharon e i suoi accoliti non significa essere antisemiti, bensì avere a cuore l’antica e ricca cultura ebraica.
Infatti, paradossalmente, i giudizi più duri contro la strategia di Sharon arrivano proprio dall’interno di Israele. Quasi a spiegare che malattia e cura sono compresenti in ogni realtà e che si può guarire dal dolore, ma attraverso il riconoscimento della dignità umana del proprio nemico, israeliano o palestinese che sia.

Box 2

ROUTE 181
Una strada di uomini e donne

Eyal Sivan, israeliano, e Michel Khleifi, palestinese, hanno dedicato oltre un anno alla realizzazione di un progetto cinematografico arduo e complesso che li ha portati a rivolgere uno «sguardo comune» sugli abitanti di Palestina-Israele. Nell’estate del 2002, di fronte a un quadro di violenza dilagante, i due vecchi amici si sono chiesti quale poteva essere il loro contributo di artisti impegnati per un cambiamento radicale della prospettiva del conflitto israelo-palestinese: «fare un cinema che faccia riflettere», si sono risposti, «e farlo insieme». Ecco, dunque, «Route 181 – Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele».
Scrive Nadia Nadotti nella presentazione del cofanetto di 4 Dvd: «L’espediente narrativo è semplice: sovrapponendo all’attuale carta geografica di Palestina-Israele, la mappa tracciata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947, con la linea di partizione che avrebbe dovuto dar vita a due Stati sovrani e indipendenti, Israele e Palestina, e che invece fece da detonatore a un conflitto che dura ancora oggi, i due autori individuano un itinerario obbligato. Percorreranno il paese da sud a nord, seguendo chilometro per chilometro quella virtuale linea di spartizione, affidando alla natura dei luoghi e al caso gli incontri di cui daranno conto nel film.
Mettendosi in strada con una troupe composta solo di un cameraman, un tecnico del suono e un autista, i due cineasti, per oltre due mesi, nella tarda primavera del 2002, si immergono in quello straordinario laboratorio umano, sociale, culturale, etnico, linguistico che è oggi Palestina-Israele. (…) Non vanno alla ricerca di amici e nemici, ma di uomini e donni comuni, con le loro storie e le loro piccole, parziali verità, i loro ricordi, le loro rimozioni, la loro – a volte miserabile, a volte luminosa – umanità. (…) Ciò che Khleifi e Sivan vogliono è liberare la parola, permettere a chi il caso mette loro davanti di ripercorrere senza sentirsi minacciato una storia che è insieme privata e pubblica, personale e collettiva. Convinti che all’origine di ogni guasto storico e politico ci sia l’incapacità di riconoscere all’Altro la sua complessa umanità e dunque i suoi traumi, le sue paure, persino i suoi fragili e talora aggressivi discorsi di copertura – per l’appunto, il diritto al racconto -, i due cineasti formano una sorta di collettivo e informale setting analitico in grado di contenere, attraverso un fiducioso atto di nominazione, l’odio, la paura, le proiezioni reciproche, i sensi di colpa, la coazione a ripetere, la speranza, il desiderio».
A.La.
Fonti:
• I 4 Dvd sono pubblicati dalle Edizioni Bollati Boringhieri, corso Vittorio Emanuele II, 86, Torino; tel. 011-5591711; info@bollatiboringhieri.it
Inoltre:
• Associazione Documè, via San Pio V 14/c – 10125 Torino; tel. 011.66.94.833;
docume@tin.it

Angela Lano




SINKIANGGrattacieli nel deserto

La Cina «modea» avanza nel Sinkiang, l’estrema provincia del nord-ovest, a spese della cultura millenaria degli uiguri, emarginati e repressi nelle proprie aspirazioni di libertà. Anche i turisti sono mal sopportati dai cinesi.

La strada asfaltata era ormai alle spalle. Il taxi ci stava portando verso il deserto. Il grigio ocra della terra e del cielo s’imponeva più che in città, dove la sabbia sospesa nell’aria, che ricopriva ogni cosa di un velo uniforme, lasciava almeno intravedere i colori, sebbene sbiaditi, delle insegne e delle macchine. Tutto era uniformemente grigio, le case di argilla come il cielo, il fiume, gli animali e la ghiaia del deserto. Solo i fazzoletti delle donne suggerivano il ricordo di un mondo colorato, rimasto al di là del velo di sabbia.

CONVERSAZIONE… RISCHIOSA
Il deserto intorno a Hotan è pieno dei resti di antiche città. Avevo scelto il sito archeologico più vicino: a soli 10 chilometri si trovano le rovine di Yotkan, la capitale di un regno esistito tra i secoli iii e viii. Incerta su come raggiungere il posto, soprattutto su come comunicare col taxista, avevo incontrato fuori dell’albergo un signore che parlava inglese. Una fortuna insperata: era la prima volta che mi capitava, da quando avevo attraversato la frontiera cinese, una settimana prima.
Di lì a poco avevo saputo che il mio nuovo conoscente era venuto dal nord del Sinkiang per partecipare a un convegno del partito comunista regionale. Era un uiguro. Più che gli occhi, anch’essi a mandorla, lo tradiva il colore olivastro della pelle, che si distingueva da quello latteo dei cinesi. Era stato allettato dall’idea di ravvivare, con una gita fuori porta, la monotonia di quel convegno, il cui unico motivo d’interesse era il buffet offerto a mezzogiorno e sera. Io gli avrei offerto un passaggio sul taxi e lui ci avrebbe messo la favella.
Il sito era appena ai bordi del deserto e consisteva in alcuni cumuli di macerie grigie. Salendovi, si capiva che quei detriti erano stati edifici, perché sotto i piedi si aprivano di tanto in tanto spazi vuoti, un lontano ricordo delle stanze di un tempo.
Non c’era molto che potesse attirare l’interesse del profano, ma, nella sua irrealtà e assoluta desolazione, il luogo soggiogava. Veniva voglia di andare verso l’orizzonte di quel mondo di sabbia, dove il sole non bruciava, né si vedeva, seminascosto dal pulviscolo sospeso nell’aria.
C’incamminammo. Quando intorno era scomparso anche l’ultimo segno di vita, eccetto le lucertole albine che ci sfrecciavano davanti a coda levata, il mio conoscente intavolò una conversazione rischiosa.
Ce l’aveva coi cinesi, razzisti, che trattano gli uiguri come gente di seconda categoria, li discriminano, si riservano i lavori migliori, fanno una politica demografica spietata. Gli uiguri che vivono in campagna possono, sì, avere fino a tre figli, ma a distanza di tre anni uno dall’altro. Le donne che rimangono incinte portano avanti la loro gravidanza di nascosto; ma se vengono scoperte, sono costrette ad abortire.
Mi confidò che le stazioni radio più seguite sono la Bbc e la Voice of America. Sperava che l’America sarebbe arrivata anche lì a sistemare un po’ di cose.
Ascoltavo senza fare troppi commenti. Non volevo togliergli quell’illusione. Sul conto dell’America, intendo. Anche una speranza vana, finché rimane viva, scalda il cuore. E poi, potevo fidarmi di lui? Non lavorava, forse, per il partito?
ALLA LARGA DAI TURISTI
Eppure, quelle parole non dovevano sorprendere sulla bocca di un uiguro. Solo pochi giorni prima, a Kashgar, avevo misurato l’ampiezza dell’opera di ricostruzione che il governo di Pechino sta compiendo a spese della cultura locale.
Non era la mia prima visita in città; vi ero stata 10 anni prima; tuttavia, appena arrivata mi sembrò che la memoria mi tradisse fortemente. Mi ero fatta portare all’albergo dove avevo alloggiato la prima volta; ma il percorso mi era parso molto diverso da come me lo ricordavo; giunta a destinazione, non avevo riconosciuto né il quartiere, né la via.
Ricordavo case basse, filari di pioppi, carretti trainati da muli e risciò a motore. Adesso c’erano ampi marciapiedi, larghi edifici squadrati, automobili e taxi rossi. Non mi ricordavo i due aceri finti nell’aiuola accanto alla porta dell’albergo, uno dalle foglie di plastica verde smeraldo e l’altro rosso cardinale, né l’ascensore panoramico nell’atrio.
Non volevo stare lì. Avevo letto che c’era una pensione uigura nel cuore della città, nel groviglio di vicoli intorno alla grande moschea Id Kah. Ne avevo un ricordo vivido, perché 10 anni prima quello era il quartiere più interessante per il visitatore: vi pulsava la vita, piazza e strade erano un susseguirsi di botteghe e locali dove gli uiguri si ritrovavano a mangiare kebab, a fumare e bere innumerevoli bicchieri di tè. Ora camminavo nella via affollata, tra la polvere e il rombo di macchine al lavoro. A un certo punto mi apparve il vuoto: case sventrate, macerie, voragini, ruspe.
In un moncone di strada trovai finalmente la pensione uigura, ma il proprietario non volle accettarmi. Al vedere la mia sorpresa per un rifiuto che contraddiceva le millenarie leggi d’ospitalità, cercò la parola inglese, evidentemente detta ad altri prima di me, che spiegava tutto: polizia. Le autorità non vedono di buon occhio la presenza di stranieri in quel luogo.

DUE MONDI A PARTE
Difficile descrivere il senso di perdita che si percepisce nell’osservare un mondo che scompare. Kashgar, uno dei più grandi mercati dell’Asia Centrale, millenario centro sulla via della seta e cuore della cultura uigura, si sta trasformando a ritmo serrato in una modea città cinese.
Nella piazza-cantiere, davanti alla moschea, un cartellone illustra il progetto di ricostruzione dell’intera area. Accanto alla moschea, che non verrà abbattuta, sorgeranno modei edifici, un centro commerciale. Il pavimento verrà ben lastricato e in questo ambiente, finalmente nuovo, pulito e asettico, la popolazione potrà ritrovarsi per fare compere o godersi il fresco della sera.
Si può obiettare che Kashgar non è l’unica città soggetta a tali rivoluzioni urbanistiche. Ciò accade in molti altri centri della Repubblica Popolare, per ragioni che non sono sempre quelle di dare agli abitanti condizioni di vita migliori.
Spesso interi quartieri centrali sono spazzati via per far posto a uffici, grandi magazzini o edilizia di lusso; ma a Kashgar c’è un motivo in più per stravolgere lo spazio urbano: cancellae il volto centroasiatico, privare delle sue radici la popolazione di etnia turca, che non ha mai accettato di buon grado il dominio del governo cinese.
La nuova Kashgar è pacchiana e posticcia. Me ne sono resa conto meglio il giorno dopo il mio arrivo, alla luce del mattino. L’architettura è a effetto, con trovate di dubbio gusto e pretese di originalità, ma realizzata in economia; invecchierà in fretta.
La città uigura continua a vivere nelle stradine a sud della moschea, dove per il momento non sono arrivati i piani di ricostruzione. Lì ci sono gli artigiani con le loro botteghe, ci sono le rudimentali chaikhane, con pochi tavolini intorno a specie di enormi samovar alimentati a legna; lì si possono ancora vedere le insegne dei dentisti: uno spaccato di bocca che mette a nudo muscoli, cavità, orifizi, il tutto in colori diversi. Sotto, in vetrina, ci sono protesi e sacchetti di denti. Anche i sarti hanno le loro insegne: vestiti da donna, uomo o bambino, disegnati con poche ingenue pennellate.
Nelle giornate calde è un sollievo fermarsi a mangiare un dogh, sorta di granita fatta con ghiaccio, sciroppo e yogurt, in una gelateria improvvisata con due panche e un carrettino. Ricevuta l’ordinazione, il gelataio si affretta a preparare il miscuglio, rimestandolo a larghi gesti con un cucchiaione di legno; poi lancia il tutto a mezz’aria, proprio come si fa con le frittate, e lo riacchiappa con grande destrezza, senza versare neanche una goccia.
Kashgar è famosa per il mercato domenicale, la cui sezione più pittoresca è quella degli animali. Pastori e allevatori fanno chilometri per venire a portare qui le loro bestie. Adesso questa attività è stata relegata in un campo a qualche chilometro dalla città. Lì ritrovo l’animazione che ricordavo.
Quando arrivo nel grande recinto dove sono raccolti gli animali, le trattative sono in pieno corso, nelle varie sezioni in cui sono suddivisi gli animali: quella delle pecore e montoni, la più rappresentata, quella degli asini e delle mucche. C’è anche qualche cavallo, ma nessun maiale, naturalmente.
Terminate le trattative, non guasta un po’ di svago: ci si può far dare una ripulita dai barbieri, che hanno messo le loro sedie proprio davanti all’entrata del recinto, per poi concedersi un piatto di langhman, spaghetti serviti con un sugo alle verdure, e un bicchiere di tè nella trattoria accanto; da ultimo, giocare una partita a biliardo attorno ai tavoli piazzati in strada.

INCOMUNICABILITÀ
A Yarkant, un’oasi ai margini del Taklamakan, a quattro ore di autobus da Kashgar, l’aria del rinnovamento non soffia ancora. Qui la città cinese è cresciuta accanto a quella uigura, inizia esattamente dove l’altra finisce; le due comunità vivono gomito a gomito, ma è come se fossero a mille miglia di distanza, tanta è l’estraneità tra i due mondi.
La città cinese è attraversata da un ampio viale, che è anche l’arteria di collegamento con la parte uigura. Non appena vi si arriva, però, il viale si scioglie in un reticolo di stradine non asfaltate e polverose, gli autobus fanno dietro front e se ne tornano in fretta nella civiltà.
All’imbrunire la strada principale a ridosso della moschea si riempie di gente e, finalmente, appaiono i venditori ambulanti di specialità uigure, con un campionario di mercanzie, la cui varietà offusca quella di Kashgar: teste di montone bollite, polpettoni di riso, frattaglie cotte, pesce affumicato, specie di patate ovali bollite, di un rosso intenso.
I pastai tirano gli spaghetti per il langhman, mentre alcuni clienti hanno già affondato le loro bacchette nelle ciotole con le porzioni già pronte. I bambini fanno girare le trottole a suon di frustate, mentre i grandi si raccolgono attorno a un televisore, che un venditore intraprendente ha portato in strada per attirare i clienti e che alimenta con un rumoroso generatore.
Mi dispiace di non potere comunicare con la gente. In Cina le barriere linguistiche sono insormontabili; ma qui, nella città uigura, sento che c’è curiosità nei miei confronti: non abbiamo una lingua in comune, però me lo dicono i gesti e gli sguardi. Una donna mi fa cenno di sedermi accanto a lei; le sorrido, le faccio capire che apprezzo il suo invito, ma che non riuscirei a parlarle. Lei è contenta così, le basta aver attirato la mia attenzione.
È già scuro, too nella città cinese, al mio albergo cinese.
La vera incomunicabilità la sperimento qui. La mattina ho faticato a trovare un hotel. Uscita dalla stazione degli autobus ho girato a lungo col mio bagaglio avanti e indietro per il viale prima di infilarmi nel portone giusto. Non è solamente un problema di lingua e di alfabeto: non un gesto, non un cenno, non il minimo tentativo di cercare un contatto. Per fortuna non è sempre così, ogni tanto trovi chi tenta di aiutarti; ma spesso agli occhi dei cinesi mi sono sentita alla stregua dei muri delle case, materia inerte, priva d’interesse.

TRA GRATTACIELI E MUMMIE
A qualche ora di strada a sudest di Hotan parte una camionabile di recente costruzione, che consente di attraversare l’immensa distesa del deserto del Taklamakan, invece di girarci intorno. Così si può arrivare a Urumchi, la capitale del Sinkiang, in meno di 30 ore di autobus.
Urumchi è una modea città cinese; la presenza uigura è molto ridotta. Anche qui faccio fatica a orientarmi; i ricordi di 10 anni prima non mi sono di molto aiuto. Ho cercato di nuovo l’albergo dove ero stata in precedenza; ma al suo posto vi ho trovato un palazzo di 30 piani, bassettino, tutto sommato, rispetto a quelli che gli stavano crescendo intorno.
Urumchi ha una skyline da fare invidia a Manatthan e continua ad arricchirsi di nuovi grattacieli, sempre più alti e avveniristici. Anche case di media altezza non sono al sicuro dalla smania costruttrice degli amministratori locali.
«Se in questa remota provincia la corsa alla modeità ha raggiunto simili livelli di frenesia, cosa sta accadendo a Pechino?» mi chiedo; ma la mia fantasia non riesce a immaginare niente di plausibile. Molto meglio usare l’energia rimasta per andare a rivedere le mummie custodite nel museo locale: uomini, donne, bambini di tremila anni fa, perfettamente conservati dal clima asciutto del Taklamakan.
Il deserto li ha preservati con tale cura, che nulla è andato perduto: capelli, ciglia, sopracciglia, denti, occhi, abiti, monili. Nell’osservare le fattezze di quei volti provo un senso di vertigine: mi sento diventata d’un tratto testimone diretta di quella vita lontana, come se il tempo fosse stato d’improvviso risucchiato.
Così, viaggiando tra il xxi secolo e il 1000 a.C., sono arrivata all’aeroporto di Urumchi. L’edificio per i voli inteazionali è assai male in aese: niente a che vedere con il modeissimo terminal dei voli nazionali, che ho potuto ammirare da lontano.
Noi passeggeri del volo per Mosca ci accalchiamo davanti al check in senza quasi lo spazio di rigirarci con i nostri bagagli. Le operazioni d’imbarco, già lente, s’interrompono, perché tutti i computer sono andati in tilt. Nell’attesa che riprendano, do una sbirciata alla copia del China Daily, il giornale in inglese, che ho preso in albergo. Devo sfogliarlo tutto per trovare finalmente quello che sto cercando: le notizie dal mondo sono alle ultime due pagine.

Bianca Maria Balestra




DOSSIER GIAPPONE

INTERVISTA

Parla Akihiro Takahashi: vittima della bomba atomica di Hiroshima

Il più famoso dei 290 mila hibakusha (vittime sopravvissute alla bomba atomica), Takahashi è un punto di riferimento per i movimenti che lottano per la pace e chiedono il bando delle armi atomiche. Mentre gli riesce facile allacciare relazioni amichevoli, a livello personale, con i cittadini dei paesi una volta nemici, incontra orecchi da mercante a livello di governi, compreso quello del proprio paese.

Classe 1931, Akihiro Takahashi aveva 14 anni quando fu colpito dalla bomba atomica di Hiroshima. Ne porta ancora le conseguenze, fisiche e psicologiche, tanto da aver dedicato l’intera vita a testimoniare la terribile esperienza.
Direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima dal 1979 al 1983, autore di diversi libri, vice Presidente della sezione dell’Unesco a Hiroshima, Takahashi è il più famoso hibakusha (vittima della bomba atomica) vivente e un faro per il movimento che chiede il bando delle armi atomiche. Lo abbiamo incontrato a Hiroshima, al Museo della bomba atomica.

Perché ricordare Hiroshima e Nagasaki?
Dentro di noi, vittime della bomba atomica, c’è questa forte speranza di non ripetere mai più un’esperienza di questo genere.

Lei è stato diretto testimone e al tempo stesso vittima del bombardamento del 6 agosto 1945. Cosa ha sentito quando, a 14 anni, ha subito questa esperienza? Cosa ha sentito nei confronti di chi ha voluto lanciare la bomba atomica e cosa sente oggi nei confronti del governo degli Stati Uniti, che ha già annunciato a più riprese di essere pronto a far esplodere «mini» bombe nucleari?
Quando ho subito il bombardamento ero nel cortile della scuola media, ma non sapevo cosa stesse accadendo; ho sentito un potente rumore, poi il buio più completo. Dopo essermi ripreso dallo stato di incoscienza, ho visto che i miei vestiti erano bruciati e il mio corpo era ferito e ustionato. Tutti i circa 150 studenti della mia stessa scuola erano nelle stesse condizioni, mentre gli edifici erano distrutti. Per 5 o 6 giorni dopo il bombardamento, ho perso conoscenza, ma la mia famiglia mi ha riferito che continuavo a ripetere di odiare gli Stati Uniti e gli americani. Per diversi anni non ho trasmesso la mia esperienza a nessuno e il mio odio verso gli Stati Uniti è rimasto intatto.
Adesso il sindaco di Hiroshima sta cercando il modo per intavolare un discorso di pace con i paesi che possiedono armi nucleari, ma personalmente, come vittima della bomba atomica, non penso ci sia alcun modo di intavolare un discorso di pace con questo tipo di stati. Come individui possiamo fare amicizia con i loro cittadini, ma a livello di entità statali, di governo, non c’è alcun modo di fare la pace.
Tutti abbiamo dei problemi, quindi come singoli possiamo dichiararci amici con tutti, farci amici di tutti, ma quando pensiamo alla politica del paese e dello stato, dobbiamo fortemente e chiaramente affermare che non si può parlare di pace con chi possiede armi nucleari.

Eppure il Giappone è in stretta alleanza con paesi che possiedono bombe atomiche, in special modo con gli Stati Uniti, di cui ospita anche sul proprio territorio basi militari. Infine non mi sembra che la politica di Koizumi stia mettendo in discussione questo tipo di amicizia e la stessa alleanza militare con gli Usa.
Lo stato giapponese deve essere chiaro con gli Stati Uniti. Quando dobbiamo dire no, che no sia! Ora non lo sta facendo e da quando Koizumi è divenuto primo ministro, la situazione è peggiorata.
Inoltre, dopo l’11 settembre 2001, gli Usa hanno ripreso la loro politica nucleare, costruendo anche le cosiddette mini-bombe atomiche. Koizumi deve chiaramente dire no a questa politica.

Dopo l’11 settembre, molti hanno richiamato i fantasmi del nazismo, dei campi di concentramento e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Secondo lei esiste una connessione storica o solo emotiva con questi eventi?
Molti hanno paragonato l’attacco al World Trade Center con quello di Pearl Harbour. In parte è vero, ma personalmente ho visto delle similitudini con il 6 agosto 1945, anche se la bomba atomica di Hiroshima era molto più devastante.

Lei è stato direttore dell’Associazione di amicizia Giappone-Cina. A Hiroshima, quel 6 agosto del 1945 non c’erano solo giapponesi, ma anche cinesi, coreani, stranieri portati in Giappone per lavorare sotto il regime colonialista. Cosa si è fatto per questi non giapponesi, ugualmente colpiti dalla bomba atomica?
La guerra giapponese verso i paesi asiatici è stata una guerra di colonizzazione. Non possiamo dimenticare questo e quando racconto la mia esperienza di hibakusha, racconto anche la mia vergogna di giapponese per la politica del mio governo verso questi paesi.

In che modo l’attuale generazione di giapponesi vede il vostro passato, la vostra esperienza di vittime della bomba atomica?
In questi ultimi anni arrivano a Hiroshima circa 3-400 mila studenti ogni anno per visitare il museo. Poi spediscono alcuni pensieri, in cui molti affermano di essere scioccati di quello che hanno sentito e di non voler dimenticare. Io spero che la nuova generazione assimili questa esperienza e la trasmetta ad altri.

Lei ha incontrato più volte il papa. Cosa pensa della sua persona e di cosa avete parlato?
Nel febbraio 1980 l’ho incontrato per la prima volta, quando il papa, per sua volontà ha voluto visitare Hiroshima e il museo di cui, in quel periodo ero direttore. Di fronte al diorama ho spiegato al papa che l’effetto della bomba atomica sull’uomo è 4 mila volte superiore rispetto alle bombe tradizionali lanciate dai B-29. Al che il papa mi ha chiesto di ripetere, per essere sicuro che non mi fossi confuso e che, anziché 4 mila non avessi voluto dire 400 o 40. Confermai la potenza 4 mila volte superiore; e ricordo l’espressione del papa, molto stupita e affranta.
Ho inoltre spiegato la mia personale esperienza. Il tempo previsto per la sosta al museo era di 20 minuti, ma il papa ha voluto trattenersi per ben 40 minuti, chiedendo continuamente della mia esperienza. Alla fine, ciò che più mi ha commosso è stato il ringraziamento ricevuto dal santo padre che, ha voluto sottolineare, non era diretto solo al direttore del museo, ma soprattutto al testimone e vittima della bomba atomica.
Dopo dieci anni sono stato ricevuto in Vaticano. Quando l’ho incontrato, Giovanni Paolo II mi ha subito detto di ricordarsi di Hiroshima, mi ha preso la mano bruciata dalla bomba e l’ha tenuta stretta a lungo.

Il Giappone, il mondo intero, ha tratto una lezione dall’esperienza di Hiroshima e Nagasaki? Voglio dire, ci potrà essere un’altra Hiroshima e Nagasaki nel futuro dell’uomo, o pensa che oggi esistano le condizioni per eliminare tutte le armi nucleari?
Quello che temo di più è la possibilità da parte dei terroristi di utilizzare le armi nucleari. Non possiamo capire che utilizzo vogliano fae. Ma anche da parte di alcuni stati temo la possibilità di utilizzo nucleare. Quindi devo purtroppo affermare che la situazione mondiale è molto critica e noi siamo tutti a rischio.

Anche se sono passati 60 anni, come mai l’umanità non riesce a trarre frutto dell’esperienza e migliorare i propri rapporti con le culture, religioni, stati?
L’esperienza non scompare, ma non viene ricordata bene. Noi vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, diciamo ai leaders delle nazioni, che possiedono armi nucleari, che se vogliono utilizzarle, facciano loro stessi l’esperienza di essere bombardati.

Lei ha detto che non si è assimilata l’esperienza, ed è vero. Ma nelle scuole, in Italia come in Giappone, c’è una forte tendenza al revisionismo storico, vale a dire rivalutare esperienze negative del passato. Ha paura che questo revisionismo influisca sulla conoscenza della vostra esperienza di sopravvissuti alla bomba atomica?
I revisionisti affermano che in quel determinato periodo storico era giusto fare la guerra. Io invece non lo penso e lo dobbiamo dire chiaramente. Non possiamo distorcere i fatti storici.

Il governo degli Stati Uniti vi ha mai chiesto scusa? Non parlo di scuse dirette al governo giapponese, ma a voi vittime.
No.

E voi pretendete delle scuse, immagino.
Sono state richieste, ma non ci è pervenuta alcuna risposta. Gli statunitensi dicono che bombardare Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche era l’unica soluzione fattibile a quel tempo. Chiedere scusa significherebbe ammettere i propri torti.

Non parlo di scuse al governo, ma a voi; quindi non scuse politiche, ma umanitarie.
Neppure per motivi umanitari sono state mai fatte scuse. Gli Stati Uniti continuano ad affermare che con le bombe atomiche hanno salvato milioni di altri giapponesi che sarebbero morti con il prolungamento della guerra.

Box 1

Residuato bellico, le isole Curilli

I l governo Koizumi si sta preparando per convincere Putin a riaprire qualche spiraglio di trattativa per discutere il problema delle Curili.
Si tratta di una manciata di isolette all’estremo nord dell’arcipelago, al largo di Hokkaido, che l’allora Unione Sovietica aveva occupato nel 1945, all’indomani dell’entrata in guerra di Stalin contro il Giappone, nella speranza di contrastare l’influenza statunitense del dopoguerra in Estremo Oriente. Per quasi cinque decenni le isole hanno rappresentato una spina nel fianco del Giappone, le cui coste si trovavano a pochi chilometri da postazioni militari sovietiche.
Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento dell’Urss, Tokyo ha ripreso con più vigore le richieste di riottenere il desolato e scarsamente abitato arcipelago. In particolare, sono quattro le isole contese: Etorofu, Kunashiri, Shikotan e Habomai. In gioco non c’è solo il diritto di pesca nelle ricche acque del nord, ma anche il ristabilimento dell’onore imperiale.
Le Curili, infatti, sono abitate da popolazioni ainu, autoctoni di Hokkaido e da discendenti dei giapponesi che nel xviii secolo completarono la colonizzazione dell’arcipelago. Dopo la Dichiarazione congiunta russo-giapponese del 1956, che prevedeva la restituzione di Shikotan e Habomai al Giappone dopo la firma del trattato di pace, Mosca e Tokyo permisero alle famiglie separate di effettuare visite tra le due nazioni per onorare la memoria dei loro congiunti defunti.

M a 60 anni di presenza sovietica e russa, hanno modificato, forse per sempre, la fisionomia etnica e sociale di questi isolotti. Oggi, accanto agli ainu e ai nipponici, vivono migliaia di russi e siberiani che si sono stabiliti qui con le loro famiglie, allettati dagli alti stipendi che lo stato garantiva loro e che non vedono di buon grado l’eventuale cambio di bandiera sulle loro case.
Neppure sul nome topografico Mosca e Tokyo hanno trovato un accordo, riferendosi all’arcipelago rispettivamente come Curili e come Territori del Nord. Pochi mesi fa, Putin ha raggelato le speranze del governo Koizumi affermando che la Dichiarazione congiunta del 1956 non costituisce un impegno per il nuovo gabinetto russo.
Il problema è che le due capitali interpretano il documento secondo due diversi punti di vista: mentre al Cremlino i punti sottoscritti si intendono conclusivi per una definitiva soluzione del contenzioso, a Tokyo l’intesa viene tradotta come una prima tappa per la restituzione di tutte le quattro isole contese.

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONEPer non dimenticare

Nel Museo della bomba atomica di Hiroshima

Ci sarà una seconda Hiroshima e Nagasaki?
Nonostante i sopravvissuti all’immane tragedia di 60 anni fa continuino a tenee viva la memoria, nella società giapponese la tensione emotiva è in costante calo; varie nazioni asiatiche accumulano armi nucleari; gli Usa perfezionano mini-bombe, pronte per eventuali genocidi… più circoscritti.

Ride Minoru Hataguchi, quando gli chiedo dove era il 6 agosto 1945, al momento dello scoppio della bomba atomica. «Ero dentro mia madre» risponde.
Già, Minoru Hataguchi, attuale direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima, quel terribile giorno non era ancora nato: sarebbe uscito dalla pancia di sua madre qualche settimana dopo, ma non avrebbe mai conosciuto suo padre, disintegrato dalla forza distruttiva della bomba. «Le uniche cose che trovarono di lui sono un paio di occhiali e un orologio».
Mi accompagna tra le sale del museo fermandosi proprio di fronte agli unici due oggetti, parzialmente fusi, recuperati dai resti di suo padre. Accanto a loro le lettere scambiate con la moglie nei due anni di matrimonio, da lei conservate con cura fino alla morte e poi donate al museo.
Il dolore subìto dalla madre quel 6 agosto di 60 anni fa, spiega la sorprendente franchezza di Hataguchi che, a differenza della maggioranza dei giapponesi che occupano posti di vertice nell’amministrazione pubblica, è schietto e diretto nelle risposte. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio del Museo della bomba atomica di Hiroshima.

La generazione testimone degli eventi del 6 e 9 agosto 1945, si sta assottigliando sempre più e ci si pone giustamente il problema di come mantenere viva la memoria di tragedie che hanno toccato l’umanità intera. Anche in Europa, mano a mano che il tempo passa, sembra che i crimini del fascismo e del nazismo possano essere dimenticati. Come fare, quindi, per non perdere la memoria anche di Hiroshima e Nagasaki?
Ci sono ancora 290 mila hibakusha (vittime e testimoni diretti della bomba atomica) a Hiroshima; e il primo obiettivo che si prefigge questo museo è quello di non far dimenticare l’esperienza tanto dolorosa vissuta da queste persone.
Ogni anno organizziamo mostre di Hiroshima e Nagasaki in tutto il mondo, tra cui l’Italia. Ma è comunque vero quello che afferma: queste persone stanno invecchiando, per cui stiamo creando una videoteca con le loro testimonianze. Fino ad oggi ne abbiamo fatte più di 800. Oltre agli hibakusha abbiamo anche 160 volontari di pace, studenti, casalinghe, impiegati, ecc. che collaborano attivamente con il museo. Anche se non hanno una diretta esperienza della bomba atomica, cercano comunque di passare le loro emozioni ad altre persone.

Nonostante i volontari e i 290 mila hibakusha attualmente in vita, esiste in Giappone, come del resto anche in Italia, una sorta di movimento revisionista, che vorrebbe cancellare, o per lo meno, rivedere, tutta la storia dell’anteguerra. Cosa sanno oggi i giapponesi della bomba atomica e cosa si insegna a proposito di questi fatti storici?
Nel museo vengono quasi 1 milione e 100 mila visitatori all’anno da tutto il Giappone e di questi 430 mila sono studenti. Per quasi tutti cerchiamo di creare l’occasione perché essi possano ascoltare, per almeno un’ora, l’esperienza di uno o più hibakusha.
Purtroppo, oggi, la gita scolastica ha cambiato finalità: gli studenti preferiscono andare all’estero, a Disneyland o in un parco di divertimento. Noi cerchiamo di convincere gli insegnanti e gli educatori scolastici quanto sia importante l’educazione alla pace, invitandoli a visitare i musei di Hiroshima o Nagasaki.

Significativo questo accostamento tra Disneyland e Hiroshima e Nagasaki. La storia quindi insegna che ha bisogno di tempo per digerire, assimilare e giudicare i fatti. Pensa che oggi sia possibile giudicare Hiroshima e Nagasaki?
In Giappone abbiamo un lasso di tempo che si può stabilire in circa 50 anni per assimilare gli eventi. Fino al cinquantesimo anniversario abbiamo quindi assorbito l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki e anche il numero dei visitatori al museo è andato aumentando. Poi, per un certo periodo, abbiamo avuto un assestamento nelle visite, mentre oggi riscontriamo una diminuzione.
Occorre anche dire che il Giappone è un arcipelago e fortunatamente, dopo la seconda guerra mondiale, non ha mai avuto attacchi bellici; di conseguenza, purtroppo e allo stesso tempo fortunatamente, l’interesse diretto della guerra è diminuito. Anche gli ultimi eventi dell’Afghanistan, Palestina, Israele, sono visti da noi giapponesi come avvenimenti che si dipanano in luoghi lontani e per molti, specie per le nuove generazioni, vengono visti come se stessero assistendo a dei videogiochi.
Ma le nazioni direttamente coinvolte in questi conflitti (Stati Uniti, India, Pakistan) posseggono bombe atomiche e per noi questo fatto è molto importante: è una cosa da valutare attentamente. Purtroppo, per la gente comune in Giappone non è così importante.

Ci può essere una seconda Hiroshima e Nagasaki? Mi riferisco alle tensioni tra India e Pakistan o ai ripetuti ammonimenti e minacce da parte degli Stati Uniti verso l’Afghanistan, Iraq, Corea del Nord, di lanciare una bomba atomica, anche se di limitate proporzioni.
Durante la guerra fredda, la teoria di usare solo come minaccia la bomba atomica ha funzionato. Grazie a Hiroshima e Nagasaki, i leaders dei paesi che posseggono armi nucleari conoscono gli effetti che subiranno le popolazioni, quindi c’è sempre la speranza che il buonsenso abbia la meglio. Ma gli Stati Uniti non sembrano seguire questo buonsenso: stanno studiando le cosiddette mini-bombe atomiche, che ridurrebbero gli effetti a una zona limitata ed esploderebbero sotto la superficie del terreno; ma l’etica di devastazione e genocidio che sta alla base di ogni bomba atomica non cambia.

Quindi, secondo lei, il mondo ha capito solo in parte la lezione che è giunta da Hiroshima e Nagasaki.
Gli Stati Uniti sono oramai rimasti l’unica grande potenza mondiale e l’idea di onnipotenza che permea la politica di Bush, sta diventando una minaccia per la pace nel mondo. Se gli Usa decidessero di usare queste armi contro uno stato o un’area, penso che avranno una ritorsione, come quella dell’11 settembre.
Inoltre, se gli Usa usassero le armi nucleari potrebbero essere criticati dai loro stessi alleati. Non sto parlando del Giappone, che è troppo «amico» degli Usa, ma mi riferisco soprattutto all’Europa.

«Il Giappone è troppo amico degli USA» ha appena detto. Voglio soffermarmi su questo punto: Koizumi, l’attuale primo ministro, è giunto a Hiroshima, ma si è rifiutato di incontrare il sindaco della città, che è notoriamente uno dei principali accusatori dei paesi che minacciano l’uso della bomba atomica. Successivamente, Koizumi si è recato nel tempio di Yasukuni, dove si onora la memoria dei caduti giapponesi morti combattendo per l’Impero giapponese, tra cui anche 14 criminali di guerra di classe «A». Non le sembra un controsenso? Cosa significa l’incontro con Hiroshima e subito dopo l’incontro con Yasukuni?
Nel tempio di Yasukuni sono onorate tutte le persone morte durante la guerra. Questo, per me, non sarebbe un problema; purtroppo tra queste persone vengono onorati anche i leaders ideologi del colonialismo. Questo è il vero problema.
Noi giapponesi, possiamo tranquillamente onorare questi morti, ma dalla parte dei cinesi e dei coreani c’è un reale problema etico e morale, oltre che storico, che sorge nel momento in cui noi onoriamo i leaders del colonialismo.
Possiamo prendere anche l’esempio dell’Italia, dove a causa del fascismo sono morte molte persone civili e militari. Se l’Italia costruisse un monumento commemorativo per i leaders del fascismo e per Mussolini, sicuramente anche i paesi che hanno subito danni dal fascismo avrebbero ragione di ribellarsi. Penso comunque sia vero quello che ha detto all’inizio, cioè che Yasukuni è stato utilizzato politicamente dal governo per dei fini ben precisi.

Lei, come uomo di pace, cosa pensa delle basi Usa in Giappone, in Corea e in Asia in generale?
La spiegazione ufficiale che ci viene data consiste nella difesa da Cina e Russia. Ma adesso non posso giudicare se sono utili o meno, dato che la Russia e la Cina sono profondamente cambiate.

Beh, c’è sempre come spiegazione la Corea del Nord…
Sì, questa è la spiegazione sul perché ci sono basi militari Usa in Corea del Sud. Poi, circa tre anni fa, c’è stato il lancio di un missile nordcoreano verso il Giappone; ma in questi ultimi tempi la politica della Corea del Nord sta cambiando e questo può essere un segno positivo per la pace.

Dall’11 settembre 2001, data dell’attacco alle Twin Towers di New York, il numero di visitatori al Museo della bomba atomica di Hiroshima, che era in calo, si è di nuovo alzato e in questi giorni avete avuto il 50 milionesimo visitatore. Che nesso c’è tra l’11 settembre 2001 e il 6 e 9 agosto 1945?
Prima dell’11 settembre, le gite scolastiche tendevano ad andare a Okinawa o all’estero, utilizzando l’aereo. Da quel giorno, dato che le scuole non possono utilizzare questo mezzo per i loro spostamenti, sono ritornate a Hiroshima. Ecco perché abbiamo avuto un aumento dei visitatori.

Quindi la tendenza del dopo 11 settembre non è collegata al momento emotivo?
Non è una causa diretta, ma è sicuramente una delle cause. Speriamo comunque che le scuole che sono venute lo scorso anno, continuino a mandare studenti.

In definitiva, cosa è stato Hiroshima e Nagasaki? Sono stati bombardamenti effettivamente fatti per porre fine alla guerra? In questo caso, però, mi chiedo cosa sia servito Nagasaki. O piuttosto sono stati dei cinici esperimenti militari e scientifici sull’uomo?
La prima spiegazione sul lancio della bomba atomica è stata quella di terminare il più presto possibile la seconda guerra mondiale, dato che anche gli Stati Uniti erano allo stremo. La seconda spiegazione è quella che gli Stati Uniti, dopo aver speso parecchi milioni di dollari per il Progetto Manhattan, volevano confermae i risultati scientifici.
Una terza spiegazione: gli Usa sapevano che il Giappone avrebbe dovuto arrendersi, quindi hanno accelerato i preparativi per il lancio per non perdere questa unica occasione giustificabile agli occhi del mondo.

Infatti, tramite l’ambasciata giapponese a Mosca, Tokyo aveva chiesto informalmente al Cremlino di intercedere verso gli Usa per trattare un piano di pace.
Washington sapeva comunque che il Giappone si voleva arrendere ed era disposto a firmare la pace anche subito. Per i militari statunitensi, era comunque più importante dare una dimostrazione di forza militare all’Urss e gli eventi bellici davano loro questa unica possibilità che non volevano farsi sfuggire.
La questione interessante è: perché Hiroshima? Nel 1945 tutte le maggiori città del Giappone erano già state bombardate, ma Hiroshima era ancora integra. Per loro era quindi più facile osservare gli effetti. Prima candidata era Kyoto; ma dato che questa, oltre a essere una città ricca di templi antichi, era anche l’antica capitale, hanno scelto Hiroshima.
Ora chiediamoci perché Nagasaki? Hiroshima è stata bombardata il 6 agosto; l’8 agosto successivo l’Urss ha dichiarato guerra contro il Giappone. Gli Stati Uniti avevano a disposizione due bombe differenti per potenza e concezione. La meno potente, all’uranio, era stata lanciata su Hiroshima, per cui si cercava la scusa per sperimentare gli effetti della seconda bomba, quella al plutonio. Questa scusa è stata trovata con la dichiarazione di guerra dell’Urss. La bomba al plutonio su Nagasaki è stata la vera, reale tragedia umana, perché sarebbe stato veramente possibile evitae il lancio.
La città è stata scelta solo un giorno prima; c’erano altre città candidate oltre a Nagasaki: Kokura, Niigata. Ma il 9 agosto a Kokura il tempo era nuvoloso, hanno quindi cambiato obiettivo, scegliendo Nagasaki. E fu la seconda tragedia. •

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONE… E la chiamarono

Richieste di pace del Giappone prima del lancio delle bombe

Recenti documenti rivelano che l’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki poteva essere evitata: il delirio di onnipotenza degli scienziati, il cinismo degli Alleati, la corsa al bottino tra Usa e Urss resero vani i tentativi diplomatici.

Alamogordo, New Mexico: 16 luglio 1945, ore 5, 29 minuti e 45 secondi del mattino.
La terra sussulta in un ultimo spasmo. Poi un bagliore accecante si sprigiona dalle sue viscere, come se un nuovo sole dovesse essere partorito. Pochi secondi dopo, tornato il silenzio, una voce riprende a parlare:
«Ora sono diventato morte, il distruttore dei mondi».
Versi della Bhagavad Gita, ma chi li pronuncia non è Vishnu, bensì J. Robert Oppenheimer, lo scienziato direttore di Los Alamos, nei cui laboratori è stata progettata e costruita la prima bomba atomica.
La citazione sacra non era solo il frutto dell’emozione del momento. La manipolazione e l’«addomesticamento» dell’atomo, avevano creato nelle menti della società scientifica, militare e politica statunitense, un senso di onnipotenza che portava ad innalzare l’uomo al pari di Dio. Non è certo un caso che, nella storia della più terribile arma di distruzione di massa ideata dalla «bestia umana», i riferimenti religiosi trabocchino.
«Come sono uno Oriente e Occidente
Nella piattezza delle carte e mia
Così la morte e la resurrezione».
Questa poesia di John Donne, intitolata Inno al Signore mio Dio nella mia infermità, aveva convinto Oppenheimer a dare al test di Alamogordo il nome di «Trinità».
La bomba, agli occhi di molti, tra cui lo stesso Oppenheimer, sarebbe stata così potente da mietere talmente tante vittime, che i giapponesi avrebbero chiesto la resa e posto finalmente fine alla guerra del Pacifico. L’uomo era colui che aveva creato la morte e la resurrezione. Il nuovo Dio in terra.
E il 16 luglio 1945, l’era nucleare ebbe inizio. Un’era lastricata di vite umane, ma che, come dimostrano i documenti recentemente resi noti dal Dipartimento di Stato americano, avrebbe potuto essere ben diversa, se solo si fosse voluto aprire uno spiraglio di dialogo.

IL CONTO ALLA ROVESCIA
Il 9 marzo 1945, gli Stati Uniti avevano lanciato su Tokyo un raid con 325 bombardieri, radendo al suolo 267 mila edifici e uccidendo in poche ore 89 mila persone, con la speranza che questo inducesse il governo imperiale alla resa immediata.
L’obiettivo di Roosevelt era quello di evitare una Yalta asiatica, così da impedire la spartizione delle sfere d’influenza con l’Urss di Stalin.
Il 12 maggio, quattro giorni dopo la fine della guerra in Europa, il rappresentante giapponese in Svizzera, Shunichi Kase, fece sapere a William Donovan, direttore dell’Ufficio servizi strategici, che il suo governo sperava di «trovare un accordo che permettesse di cessare le ostilità». Era il primo dei numerosi segnali di trattativa lanciati dai nipponici agli Alleati.
Ma a quel tempo, il comitato atto a scegliere gli obiettivi dei lanci atomici (si parlava già al plurale), si era riunito indicando una serie di città su cui scatenare la furia atomica: Kyoto, Hiroshima, Kokura e Niigata. Di queste se ne sarebbero scelte due. Il conto alla rovescia era partito e il punto di non ritorno superato.
Già il 1 giugno 1945 il Comitato ad interim affermava che la «selezione finale degli obiettivi è una decisione essenzialmente militare. L’opinione del Comitato è che le bombe devono essere usate contro il Giappone il più presto possibile; devono essere usate contro una fabbrica di guerra, circondata dalle case dei lavoratori e devono essere usate senza avvertimenti».
Il 31 maggio, l’Ufficio dei servizi strategici, ricevette da un diplomatico giapponese in Portogallo una proposta di pace in cui, come unica condizione richiesta, non apparisse il termine «resa incondizionata».
Sulla base di questi nuovi sviluppi, lo stesso giorno, John McCloy, assistente al segretario della guerra Henry Stimson, suggeriva al suo diretto superiore di iniziare a intavolare negoziati con il Giappone, eliminando, appunto, l’espressione avversata da Tokyo: «Resa incondizionata – affermava McCloy -, è una frase che implica la perdita della faccia e io mi chiedo se non potremo rivolgerci al Giappone senza l’uso di tale termine».
Lo stesso Joseph Grew, vice segretario di Stato, confidò a Truman, succeduto alla Casa Bianca il 12 aprile subito dopo la morte di Roosevelt, che «il più grande ostacolo alla resa incondizionata del Giappone è la convinzione che una resa in questi termini porterebbe alla distruzione e alla rimozione permanente dell’imperatore e dell’istituzione imperiale. Se riuscissimo a dare qualche indicazione ai giapponesi che essi, una volta arresi e resi impotenti militarmente, potranno da soli determinare il futuro della loro struttura politica, affronteranno la possibilità di arrendersi salvando la faccia».
EVITARE L’UMILIAZIONE
Sul fronte scientifico, Leo Szilard, assieme a Walter Bartky e Harold Grey, tutti scienziati che avevano lavorato al «Progetto Manhattan», chiesero al segretario di Stato Jimmy Byes di mostrare a una delegazione giapponese il potenziale distruttivo della bomba atomica, in modo da facilitare eventuali trattative di pace.
La stessa richiesta, questa volta diretta a Stimson, venne ripetuta il 27 giugno 1945 dal sottosegretario della Marina Ralph Bard.
All’inizio di luglio, la volontà di Tokyo a porre la parola fine alla guerra si fece più concreta. Una serie di dispacci tra il ministro degli Esteri Shigenoria Togo e l’ambasciatore imperiale a Mosca, Sato, furono intercettati dai servizi statunitensi. In queste missive, Togo chiedeva a Sato di conferire urgentemente con il ministro degli Esteri sovietico, Molotov, per avviare una serie di colloqui:
«Dato che stiamo segretamente prendendo in considerazione la fine della guerra – scriveva Togo -, deve estendere la nostra volontà alla Russia, perché si faccia portavoce (presso gli Alleati) della nostra volontà.
Sua Maestà l’Imperatore, preoccupato del fatto che la presente guerra porta gioalmente grandi sacrifici ai popoli di tutte le potenze belligeranti, desidera dal suo cuore che essa termini velocemente. Ma dato che l’Inghilterra e gli Stati Uniti insistono sulla resa incondizionata, (…) l’Impero giapponese non ha altra alternativa se non quella di combattere con tutte le sue forze per l’onore e l’esistenza della madrepatria. Sua Maestà è profondamente recalcitrante a versare altro sangue tra i popoli di entrambi i fronti; per questa ragione, ed è questo il suo desiderio, chiede di restaurare la pace il più presto possibile per il bene dell’umanità».
I messaggi tra i due diplomatici continuarono per tutto il mese, captati dagli statunitensi.
Vista la riluttanza di Mosca nell’incontrare l’inviato imperiale, il 13 luglio Togo spronò Sato a perorare la causa di pace presso il Cremlino:
«Chiarisca che l’incontro con l’inviato speciale permetterà a Stalin di conquistare la reputazione di paladino della pace mondiale e, inoltre, siamo pronti ad accettare tutte le richieste dei russi in Estremo Oriente».
Ci furono delle aperture anche verso gli Stati Uniti, sulla base di intercettazioni giapponesi di messaggi tra ufficiali della marina americana:
«Il 19 (luglio), il capitano della Marina, Zacharias, ha detto che il Giappone ha due sole alternative:
1. essere sottomesso a una pace imposta dopo essere stato distrutto;
2. arrendersi senza condizioni e ricevere i benefici della Carta Atlantica.
Il fatto che gli americani abbiano alluso alla Carta Atlantica, è particolarmente degno di attenzione in questo periodo. È impossibile per noi accettare la resa incondizionata (…) ma è nostra intenzione informarli (…) che non vi sono obiezioni alla restaurazione della pace sulla base della Carta Atlantica. Il vero punto critico è l’insistenza del nemico di imporre la resa incondizionata. Se l’America e l’Inghilterra si fossilizzano su questo punto, l’intero progetto si infrangerà inevitabilmente su questo scoglio».
L’ambasciatore Sato rispose a Togo che era impossibile chiedere ai sovietici di rompere l’intendimento con gli Alleati circa la resa incondizionata.
TRIONFA LA LINEA DURA
Ma anche nel fronte alleato continuarono a esserci delle obiezioni sulla linea dura mantenuta da Washington e Londra. Il 9 giugno George Marshall, capo dello staff militare, scrisse un memorandum a Stimson, in cui si chiedeva di «cessare di parlare di resa incondizionata del Giappone e cominciare a definire i nostri veri obiettivi in termini di difesa e di disarmo»; mentre il 18 giugno l’ammiraglio William Leahy, sul suo diario personale annotava che «una resa del Giappone può essere discussa entro i termini che possono essere accettati dal Giappone e che soddisfino pienamente il desiderio di difesa dell’America contro una futura aggressione trans-pacifica».
Infine, il 20 giugno 1945 anche l’US Strategic Bomb Survey notava che «l’Imperatore, appoggiato dal premier, dal ministro degli Esteri e da quello della Marina, è favorevole alla pace; il ministro dell’Esercito e i due capi dello Staff Militare, invece, non concordano».
Ma l’evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra giunse il 7 luglio. Quel giorno Byes ricevette dal vice segretario di Stato, Joseph Grew, un telegramma che lo informava di un’apertura formulata dall’addetto militare giapponese a Stoccolma, generale Onodera, il quale offriva un negoziato di pace con gli Alleati, nel caso gli Stati Uniti avessero garantito il mantenimento dell’istituzione imperiale.
Ma oramai Truman e il suo staff avevano preso una decisione da cui non volevano recedere. A nulla valse l’estremo tentativo di Leo Szilard e altri 155 scienziati del Progetto Manhattan, che, il giorno dopo il Trinity Test, scrissero una petizione al presidente in cui lo si invitava a «esercitare il suo potere di comandante in capo per far sì che:
1. gli Stati Uniti non ricorreranno all’uso delle bombe atomiche in guerra, a meno che, una volta che i termini imposti siano stati resi pubblici nel dettaglio e portati a conoscenza del Giappone, questi rifiuti di arrendersi;
2. che la decisione di usare o meno le bombe atomiche sia presa da lei in persona, in base alle considerazioni presentate in questa petizione, così come le responsabilità morali involte».
Il 18 luglio, all’apertura della Conferenza di Potsdam, Truman e James F. Byes sondarono l’atteggiamento di Stalin nei confronti di Tokyo. Nel diario di Walter Brown, assistente speciale di Byes, si legge: «Stalin ha rivelato che il Giappone ha chiesto di mandare una missione a Mosca per un colloquio di pace. Ha inoltre detto che l’Imperatore non vuole continuare lo spargimento di sangue, ma esclude ogni termine che indichi una resa incondizionata. JFB (James F. Byes) ha chiesto a Stalin se c’era qualche mutamento nella politica russa verso la resa incondizionata. Stalin ha replicato: “Nessun cambiamento”; inoltre ha riferito che, a meno che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano altri suggerimenti, risponderà che non c’è nulla di specifico nella proposta giapponese e non c’è bisogno di una conferenza. Stalin ha affermato di credere che il Giappone pensi che la Russia stia entrando in guerra perché ha visto troppi movimenti di truppe russe al confine. Infine Stalin ha informato che non saranno pronti ad attaccare il Giappone prima del 15 agosto».
PER NON SPARTIRE IL BOTTINO
Il 15 agosto! Occorreva quindi stringere i tempi per evitare di dividere il bottino con Mosca.
Il 21 luglio, infatti, Truman autorizzò l’uso delle bombe atomiche. Quattro giorni dopo lo stesso Presidente ricordò nel suo diario: «Ho riferito al segretario della Guerra Stimson di usarle (le bombe atomiche) in modo che gli obiettivi siano militari e non le donne e i bambini. Anche se i giapponesi sono selvaggi, rudi, crudeli e fanatici, noi, in quanto leaders del mondo, per il bene comune non possiamo lanciare queste terribili bombe sulla vecchia capitale o sulla nuova».
Il 26 luglio la Dichiarazione di Potsdam intimava di «proclamare la resa incondizionata immediatamente di tutte le Forze Armate giapponesi».
Il capitolo era ormai chiuso.
Il 6 agosto 1945, 9 giorni prima del termine predetto da Stalin dell’entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone, «Little Boy» venne sganciata su Hiroshima.
L’8 agosto Mosca dichiarò guerra a Tokyo e il giorno successivo, il 9 agosto 1945, il B-29 Bockscar, alle 9 e 44 del mattino sorvolò Kokura per sganciare «Fat Man».
Ironia della sorte: la città era avvolta dal fumo dei bombardamenti scatenati dai raids americani in una città limitrofa. Fu così che venne ridisegnato l’obiettivo: non più Kokura, ma Nagasaki.
L’ecatombe era compiuta. •

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONEIntroduzione

 

HIROSHIMA E NAGASAKI

I loro nomi saranno uniti per sempre, memoriale e monito di come l’uomo sia capace di una incredibile distruzione e autodistruzione: Hiroshima e Nagasaki.
Ricordare i nomi delle due città giapponesi, le sole al mondo ad aver subito il bombardamento atomico, significa «aborrire la guerra nucleare e impegnarsi per il futuro e per la pace», rifiutare la «potenza nucleare come mezzo per mantenere l’equilibrio del potere attraverso l’equilibrio del terrore» affermava Giovanni Paolo ii il 25 febbraio 1981, davanti al Peace Memorial di Hiroshima.
Lo sanno tutti cosa è capitato in quelle due città; ma conviene sempre rinfrescare la memoria.

I l 25 luglio 1945, una gelida nota del comando militare Usa dirama il seguente comunicato: «La 20a unità delle forze aeree sgancerà la sua prima bomba speciale, appena le condizioni atmosferiche lo permetteranno, all’incirca dopo il 3 agosto 1945, su uno di questi obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Per permettere agli scienziati militari e civili di registrare gli effetti dell’esplosione, un ulteriore velivolo accompagnerà l’aeroplano che trasporterà la bomba».
Il lunedì 6 agosto mattino, un quadrimotore B29, battezzato Enola Gay, si leva in volo da Tinian, con a bordo 12 uomini di equipaggio e il Little Boy (bambino, ragazzino): si tratta di una bomba lunga tre metri e 5 tonnellate di peso, caricata con 10 kg di uranio 235, la cui potenza distruttiva è valutata in 13 mila tonnellate di Tnt (trinitrotoluolo-toluene).
L’obiettivo non è precisato nel piano di volo; lo sceglierà uno degli aerei meteorologici che lo precedono, a seconda delle condizioni atmosferiche. All’altezza di Iwo Jima, arriva l’atteso bollettino: «Nagasaki coperto totalmente, Hiroshima visibilità dieci miglia».
Alle 7.59 l’aereo raggiunge l’obiettivo; alle 8,15 il pilota Thomas Wilson Ferebee apre il portellone e lascia cadere nel vuoto il Little Boy. La bomba scende in picchiata. L’aereo ha 45 secondi per allontanarsi. Gli uomini sottovoce contano i secondi, poi un lampo accecante: si eleva una sfera di fuoco del diametro di 600 metri, il cui centro ha una temperatura di 100 milioni di gradi.
Dopo 7 secondi un rimbombo assordante rompe l’innaturale silenzio. Dal punto dello scoppio si sprigiona una colonna di fumo, vapore e polvere, che s’innalza verso il cielo e dilata la sua cima fino ad assumere la forma di un fungo. L’esplosione demolisce gli edifici nel raggio di tre chilometri; la devastazione si allarga su una superficie di dodici chilometri quadrati: saltano le condutture, scompaiono intere strade, dal cielo cadono goccioloni enormi e viscidi; le acque dei canali straripano invadendo il deserto di macerie.
In pochi istanti 71 mila giapponesi sono vaporizzati; 20 mila moriranno nella notte; altri 60 mila nel corso dell’anno; oltre 100 mila i feriti, su una popolazione di circa 245.000 abitanti.
In quella «fine del mondo», come è ribattezzato quel 6 agosto 1945, si vedono i sopravvissuti vagare come fantasmi, pelli bruciate che si staccano dai corpi, madri che stringono al petto i figli carbonizzati, disperati che si suicidano.
Oltre 4.800 reperti, conservati nel Museo della bomba atomica di Hiroshima, parlano ancora degli effetti devastanti di quell’inferno.
Il 9 agosto, alle ore 12.00, Bock’s Car, un altro B29, sgancia la seconda bomba atomica, al plutonio, detta Fat Man (grassone, ciccione), questa volta su Nagasaki. Gli effetti sono identici: la città interamente distrutta, 41 mila morti e 70 mila ustionati gravi, anch’essi destinati a una lunga agonia.
Ai morti e feriti delle due bombe vanno aggiunte le devastanti conseguenze genetiche su migliaia di migliaia di altre persone, su animali e piante dei territori circostanti prodotte dalle esplosioni nucleari.

I l 14 agosto 1945 l’imperatore giapponese firma la resa. Gli americani continuano l’occupazione fino al 1948. Il trattato di San Francisco del 1951 restituisce formalmente la sovranità ai nipponici e la possibilità di ricostituire una forza militare di polizia, ma la politica giapponese rimane subalterna alle direttive di Washington, nonostante le proteste di piazza degli anni ‘70.
Anzi, il filo che lega il Giappone agli Usa diventa sempre più solido, fino ad appoggiare la guerra in Afghanistan e inviare truppe in Iraq.
Dal 3 novembre 1946, data di nascita della Costituzione giapponese, nessun soldato delle Forze di difesa interna ha messo piede fuori dall’isola. L’articolo 9 sancisce: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sull’ordine e la giustizia, la popolazione giapponese rinuncia per sempre alla guerra come un diritto sovrano della nazione e all’uso della forza per sedare le dispute internazionali».
Il premier Koizumi, però, si è creato una legge di durata biennale che prevede la possibilità d’inviare truppe per «speciali misure di intervento umanitario e di ricostruzione» nelle zone devastate dalla guerra. Così un contingente di 1.000 soldati è atterrato a Balad, in Iraq, a fianco degli americani.
Il tabù è rotto. Ma cosa pensano i cittadini giapponesi del fatto di trovarsi a combattere a fianco della stessa potenza che ha fatto vedere loro la «fine del mondo» e che sta sperimentando nuove armi nucleari miniaturizzate, ma altrettanto devastanti di quelle di 60 anni fa?
B.B.

B.B.