Resistenza alla barbarie

È accaduto tra il 21 e il 22 febbraio scorso, a San José de Apartadó Urabá, dipartimento di Antioquia, nord-ovest della Colombia: 7 civili della Comunità di pace, tra cui il leader Eduardo Guerra e tre bambini, sono stati massacrati a colpi di machete, fatti a pezzi e gettati in un fossato.
«Una vergogna per l’umanità» ha esclamato Amerigo Incalcaterra, direttore aggiunto dell’Ufficio colombiano dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. La vergogna non sta solo nella barbarie dimostrata in tale eccidio, ma che a compierlo sia stato l’esercito, cui è affidato il compito di proteggere tali Comunità. Quello di San José è solo l’ultimo di una lunga serie di crimini, con cui si vuole uccidere ogni speranza di pace in un paese martoriato da 40 anni di guerra civile.

P assaggio obbligato verso i dipartimenti circostanti, il territorio di San José e le sue 32 frazioni è un punto strategico per gli attori del conflitto armato: esercito, guerriglia e paramilitari. Inoltre, questa zona, essendo molto fertile e ricca di carbone, ha attirato l’attenzione di imprese nazionali e transnazionali, per le quali è utile lo sfollamento messo in atto dai paramilitari, che terrorizzano la gente e la costringe ad abbandonare le loro terre.
Di fronte a tale situazione e al problema dello sfollamento forzato a livello nazionale, il vescovo della diocesi di Apartadó, mons. Isaías Duarte Cancino (assassinato nella città di Cali nel 2002), propose la costituzione di spazi neutrali, dove fosse garantito il rispetto alla vita e all’integrità della popolazione civile. Il 23 marzo 1997, 500 contadini di 17 frazioni di San José decisero di organizzarsi per allontanare la guerra dal territorio, di non collaborare con nessun gruppo armato, di sviluppare un processo di neutralità, in un paese dove questa è severamente combattuta da tutti gli attori armati.
Con l’accompagnamento formativo e l’assistenza giuridica della Commissione intercongregazionale di Giustizia e Pace, la Comunità di pace di San José si è organizzata in modo tale da diventare un interlocutore per il governo, per istituzioni nazionali e inteazionali.
Con la strategia di vivere in Comunità e lavorare in gruppo, i contadini hanno riconquistato poco a poco il territorio perso, hanno creato le condizioni per il ritorno di tutte le famiglie nelle proprie terre e dato vita a strutture di organizzazione sociale, formazione culturale, produzione e commercializzazione dei frutti del loro lavoro.
Tale processo non è stato indolore: oltre un centinaio di persone della Comunità di pace sono state uccise da formazioni guerrigliere, esercito e paramilitari. Senza contare le distruzioni, furti, attacchi e minacce.

L a determinazione della Comunità di San José di continuare il processo di resistenza non violenta, le ha attirato l’attenzione di numerosi organismi inteazionali: la rivista statunitense Fellowship of Reconcillation le ha assegnato il premio Pfeffer della pace.
Su raccomandazione della Corte interamericana dei diritti umani, la Corte costituzionale della Colombia, lo scorso anno, ha dichiarato che la Comunità di pace ha diritto a una protezione speciale da parte delle forze armate, perché regolarmente esposta alle vessazioni della guerriglia e dei paramilitari.
La continuazione di questo processo di resistenza civile e nonviolenta dipende in larga misura dal coinvolgimento di ampi settori dell’opinione pubblica e dall’azione di diverse organizzazioni nazionali ed inteazionali. Amnesty Inteational ha avviato una campagna di pressione sul governo colombiano, in difesa di questa comunità (www.amnesty.it/primopiano/colombia).
Tenendo conto della degradazione e ferocità del conflitto colombiano, la sola esistenza della Comunità di pace di San José di Apartadó (e di altre esperienze simili) è già un successo e prova che è possibile resistere collettivamente alla guerra e alla barbarie.
Tale esperienza, poi, va oltre la semplice neutralità. La Comunità di pace, con i suoi processi economici di tipo comunitario, le relazioni democratiche di autogoverno, la convivenza civile che risolve le tensioni pacificamente, testimonia che è possibile un’alternativa al modello dominante di sviluppo economico e convivenza sociale sia in Colombia che in altre parti del mondo.
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il mondo visto dal Palazzo di vetro (1)L’ultima sfida delle Nazioni Unite:sopravvivere

Nel corso dell’ultimo decennio l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) ha subito un intenso processo di critica e di destabilizzazione intea. La credibilità e la stessa esistenza dell’Organizzazione sono state messe in seria discussione, soprattutto dal governo degli Stati Uniti. Due fondamentali eventi storici hanno aiutato i detrattori ad esaltae l’inefficienza e l’inutilità: nel 1990 il disgregamento dell’Unione Sovietica, nel marzo 2003 l’occupazione illegale dell’Iraq da parte delle forze americane e della loro opportunistica coalizione. Questi due eventi sono noti al grande pubblico e certamente non richiedono ulteriori approfondimenti. È però importante ricordare che, mentre il primo ruppe quell’accordo (non scritto) sulla divisione del mondo nelle sfere di influenza Usa-Urss che esisteva dal 1945, il secondo ha, forse definitivamente, affossato la legalità ed il ruolo di «mediatore» internazionale svolto dalle Nazioni Unite.

L’Onu vive oggi un momento di grave crisi ed aspetta un progetto di ristrutturazione che non si è ancora concretizzato. A questo proposito, vorrei ricordare che ai primi di dicembre del 2004 è stato rilasciato un documento ufficiale preparato da una «Commissione di 16 saggi», precedentemente nominati dal Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan (il documento è consultabile sul sito) (1). Questo documento studia e sintetizza quali sono le principali sfide e minacce a livello mondiale, e contemporaneamente presenta una serie di raccomandazioni per affrontare questi problemi. I principali temi affrontati dalla Commissione di saggi sono: povertà e degrado ambientale, conflitti tra stati e conflitti interni, minacce rappresentate da armi di distruzione di massa, terrorismo e prevenzione, crimine organizzato, peacekeeping e ristrutturazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu (approfondiremo questi temi nelle prossime puntate).

Con riferimento a quest’ultimo tema, l’Onu è giunta ad un bivio storico: continuare ad esistere e rimodearsi oppure estinguersi, come già capitò alla sfortunata «Società delle Nazioni». La ristrutturazione è necessaria per non minae la sopravvivenza e per preservare i principali obiettivi per i quali era stata originariamente fondata durante la conferenza di San Francisco del 1945. Infatti la sua sopravvivenza è stata recentemente e ripetutamente minacciata dal suo più grande contributore (ma sempre moroso nei pagamenti) ovvero gli Stati Uniti d’America.

Non solo. Il disfacimento dell’Unione Sovietica ha rotto quell’equilibrio mondiale che spartiva le sfere geopolitiche di influenza tra Urss e Usa. L’Onu fungeva spesso da mediatore (anche se volentieri di parte) di questo processo di equilibrio. L’equilibrio si è ufficialmente e definitivamente rotto con l’invasione dell’Iraq, e gli Stati Uniti, ora più che mai, hanno dimostrato di poter liberamente spadroneggiare nella loro politica economica di espansione e di dominio (anche militare), infischiandosene delle risoluzioni dell’Onu e delle proteste degli altri stati membri.

Quello che riscontriamo oggigiorno – almeno per chi se ne vuole accorgere o per chi ha l’opportunità di viaggiare e confrontarsi con diversi paesi e culture – è un profondo squilibrio. Il commercio mondiale è indiscutibilmente influenzato dalle «regole» economiche imposte dalle multinazionali americane – prevalentemente dell’industria petrolifera – sulle quali lo stesso governo statunitense ha progressivamente perso controllo istituzionale e regolamentare.

È una grande sfida quella che aspetta l’Onu alle soglie del nuovo millennio e che non si può limitare alla sua sola sopravvivenza e credibilità, ma deve dedicarsi anche all’opera di vigilanza internazionale per la costruzione di un mondo con meno ingiustizie.

Per continuare ad esistere e funzionare efficacemente e credibilmente, l’Onu deve poter contare sull’appoggio democratico di tutti i suoi stati membri. Occorre ristrutturare l’organizzazione ed i suoi principali organi (come, ad esempio, il Consiglio di sicurezza) rifacendosi alla presente realtà geo-politica, che è decisamente differente da quella del secondo dopoguerra.

La rielezione di George W. Bush certamente non faciliterà questo progetto di ristrutturazione, poiché un’importante parte dei repubblicani al governo Usa vuole la chiusura dell’Onu. Non a caso, una martellante campagna di diffamazione su fatti, finora mai provati, bombarda quotidianamente gli americani attraverso quotidiani e mass media. Un evidente esempio di diffamazione si riferisce al programma Oil for Food (petrolio contro cibo), al quale anche la stampa italiana ha dato ampio spazio (2). Vorrei ricordare però che i risultati della commissione d’inchiesta (scaricabili da internet) presieduta da Paul Volcker (ex presidente della Federal Reserve Bank statunitense), rilasciati ai primi di febbraio, per indagare su questo programma non hanno evidenziato alcunché di compromettente nei confronti dei dirigenti Onu accusati di corruzione. Anzi, hanno portato alla luce la negligenza di alcuni stati membri, tra cui gli stessi Usa, a vigilare sul corretto funzionamento del programma.

Ci auguriamo che, per la costruzione di un futuro più sicuro e con meno ingiustizie, si arrivi ad una comune volontà di rimodeare l’Onu. È essenziale che l’organizzazione sopravviva per poter efficacemente e rapidamente affrontare quelle importanti problematiche individuate dalla Commissione di saggi nominata da Kofi Annan. 

 

 

Note:

(1) www.un.org

(2) Gli articoli migliori: Iraq, l’affare Oil for food, su «Le Monde diplomatique», febbraio 2005; un pro e contro è stato pubblicato da «Internazionale», n. 577, febbraio 2005.

 

(*) Nota sull’autore:

Barbara MINA, funzionario dell’Onu a New York, è disponibile a rispondere ai lettori di Missioni Consolata sulle tematiche inerenti le Nazioni Unite.

Barbara Mina




DOSSIER NUOVI ITALIANIAlcuni dati dall’annuario della Caritas e bibliografia generale

Le religioni

• Gli immigrati sono:
– di fede cristiana per il 49,5%
– islamici per il 33%.

Le nazionalità

• Le nazionalità più rappresentate: Romania, Marocco, Albania, ciascuno con circa 230 /240 mila soggioanti registrati.

• Al quarto posto balza l’Ucraina (113.000) e quinta è la Cina (100.000).

• Tra le 70 mila e 60 mila presenze oscillano Filippine, Polonia e Tunisia.

• Con 40 mila presenze: Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka.

• In tutto, le nazionalità presenti in Italia sono 191.

Quanti sono

• Sono 2,6 milioni gli stranieri in Italia.

• La Lombardia è prima per numero di immigrati; Emilia Romagna la regione con più bambini stranieri.

• Sono 400 mila i minori, in aumento al ritmo di 60 mila l’anno: 35 mila nuovi nati e 25 mila ingressi.

• Ha connotati euro-mediterranei l’immigrazione in Italia.
Infatti, è europea quasi la metà degli immigrati in Italia:
– 47,9%, ma solo il 7% è costituito da cittadini comunitari,
– presenza africana: 23,5%
– presenza asiatica: 16,8%
– presenza americana: 11,5%.

Le rimesse

• L’immigrazione resta «la banca dei poveri»: nel 2003 le rimesse nei paesi di origine sono ammontate a 93 miliardi di dollari, cifra superiore agli investimenti delle aziende e agli aiuti governativi per lo sviluppo.

(fonte: Banca San Paolo)

Le scuole

• Nel 2003-2004 sono stati 282.683 gli alunni immigrati presenti nelle scuole italiane.

• Sono 50 mila in più rispetto all’anno precedente. Nel 2011-12 si pensa saranno circa 600 mila.

• Le città con il maggior numero di studenti immigrati sono Milano, Roma e Torino.

• Presenze di alunni stranieri nelle scuole:
Albania: 49.965
Marocco: 42.126
Romania: 27.627
Cina: 15.610
Ecuador: 10.674

• Scuole frequentate
(in percentuale):
– infanzia: 19,4
– primaria: 40,8
– medie: 23,9
– superiori: 15,9.
La percentuale di minori che frequentano le scuole superiori è ancora ridotta. Gli africani scelgono le scuole professionali; gli americani e gli europei non comunitari, le scuole tecniche.

• Nel 2003 si sono laureati 2.794 studenti stranieri.

Bibliografia
"Una scuola in comune", a cura di Graziella Giovannini e Luca Queirolo Palmas, edizioni Fondazione Agnelli, Torino 2002;
"La pelle giusta", Paola Tabet, edizioni Einaudi, Torino 1997;
"Seconde generazioni", a cura di Maurizio Ambrosini e Stefano Molina, edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 2004;
Dossier statistico Caritas, Roma 2004;
"La fatica di integrarsi", Maurizio Ambrosini, edizioni Il Mulino, Bologna 2001;
"Verso un’educazione interculturale", a cura di Laura Operti e Laura Cometti, edizioni Bollati Boringhieri, Torino 1992;
"Cultura araba e società multietnica", a cura di Laura Operti, Irrsae Piemonte-Bollati Boringhieri, Torino, 1998;
"Il sistema scolastico in prospettiva interculturale", Angelo Negrini, Emi editrice, Bologna 1998;
"Animo da guerriero", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Khaleb, piccolo amico arabo", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Lexico minimo – vocabolario interculturale illustrato", Emi editrice, Bologna;
"Voci di donna in un hammam", Angela Lano, Emi editrice, Bologna 2002;
"Dall’integrazione all’intercultura", Davide Rigallo e Simonetta Sulis, editrice L’Harmattan Italia, Torino 2003;
"Gli immigrati in Italia", Roberto Magni, Edizioni Lavoro, Roma 1995;
"La dignità dell’emigrare", a cura di Lucia Bianco e Carmine Lanni, Ega editrice, Torino 2000;
"Pantanella. Un canto lungo la strada", Mohsen Melliti, edizioni Lavoro, Roma, 1992;
"Islam e stato italiano", a cura di Elvio Arancio, Gabriele Mandel, Roberto Hamza Piccardo, edizioni Cerriglio, Torino 2003;
"I diritti di chi non ha diritti. Migrazioni di ieri e di oggi", a cura di Ada Lonni, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1995;
"Sogni di realtà: Alma Lavoro. Percorsi di pari opportunità. Esperienze di inserimento lavorativo qualificato di donne immigrate", a cura dell’Associazione Alma Terra, Torino 2004;
"Neanche nei nostri sogni più folli: storia di un percorso di pari opportunità. Migranti impiegate in banca", a cura di Maria Viarengo e Ferzaneh Gavahi, Associazione Alma Terra, Torino 2004.

Fotografie
Tutte le fotografie di questo dossier sono di Michele D’Ottavio, eccetto quelle delle pagine 28 (archivio), 37 (Pagliassotti) e 40-41 (Pagliassotti).

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Mi fermano… solo perché sono nero…”

L’Italia è il suo paese. Fin dalla nascita.
Tutto bene, quindi? Quasi…

John è un adolescente italo-africano. Non vuole raccontare esattamente da che paese proviene. Anzi, diciamo che gli dà fastidio che gli si domandi l’origine, quasi si mettesse in dubbio la sua attuale «italianità».
Parla in fretta, in un italiano perfetto e senza particolari inflessioni. Ha i capelli legati in una cascata di piccole treccine tenute ferme da elastici colorati, e un bel viso scuro con grandi occhi neri.
Orecchini piccoli al naso e ai lobi delle orecchie, jeans, maglietta e scarpe all’ultima moda, cammina in mezzo a un gruppetto di compagne di scuola, in un istituto per il turismo di Torino. Più che delle amiche sembrano le sue fan: per tutta la chiacchierata non smettono di girargli attorno.

Sei nato in Italia o ci sei arrivato da bambino?
«Qui, sono nato qui».
Quando?
«Sedici anni fa».
I tuoi di dove sono?
«Africa».
È un continente…
«Già, e grande anche… I miei fratelli, no».
No, cosa?
«Non sono nati qui: sono più grandi. Ma è la stessa cosa: quando cresci, vai a scuola in un paese, vai in oratorio, hai gli amici, esci, sei come tutti gli altri».
Uguale.
«Eh sì, è un nonsense parlarne, perché non mi sono mai nemmeno posto il problema, a dir il vero».
Mai avuto questioni con i compagni?
«Perché avrei dovuto? Sono nato in Italia e non riesco a immaginarmi, per il momento, in un altro posto. Magari un giorno mi piacerebbe andare all’estero a fare nuove esperienze, a lavorare. I miei studi sono rivolti a quello: a viaggiare. Almeno spero. Però l’Italia è il mio paese».
Quindi, tutto ok?
«Sì… il casino è quando mi fermano per i controlli».
Ti fermano?
«La polizia, per routine… magari bazzico ai Murazzi (lungo Po torinese, dove, oltre ai tanti locali alla moda e di divertimento giovanile, circolano droghe, ndr), ma non per farmi, no, quello non mi garba, ma per incontrare amici, andare a ballare… Insomma, mi fermano solo perché sono nero e dò l’impressione dell’immigrato».
Ti dà noia?
Si rabbuia un po’. «E come no? Certo. Mi sento mortificato. È come se mi si dicesse che non faccio parte di questo paese, che invece è il mio».
I tuoi che lavoro fanno?
«Papà è laureato in ingegneria ma ha messo su una ditta di import-export, ed è spesso giù».
Giù…
«In Africa».
Già, il continente senza stati…
Ride e prosegue. «La mamma una volta era maestra, ma ha aperto un negozio».
Vai d’accordo con loro?
«Li amo e li rispetto, ma litighiamo spesso: non vogliono che esca la sera, che vada in giro in certi quartieri. Hanno paura della droga, della delinquenza. Dicono che al loro paese non ce n’è come qua. Ma che ci posso fare? Rimanere bloccato in casa?».
Musulmani?
«Cristiani e praticanti, i miei. Beh, io sono andato in oratorio e negli scout fino alle medie».
Sei bravo a scuola?
«Media del sette e mezzo – otto. Mi piace studiare, leggere di tutto. E guardare Mtv».
Quali sono i tuoi sogni futuri? Viaggiare?
«Sì. Mettere su un’agenzia di viaggi, magari».
La propensione familiare per il business c’è, non dovrebbe esserti difficile. Mi sembri molto in gamba e simpatico.
«Grazie. I giornalisti invece fanno un sacco di domande…».
È una carriera che ti attira?
«Uhm, leggendo cosa scrivono degli immigrati in Italia, preferirei evitare». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Sì, potrei sposare un’italiana”

Difficoltà linguistiche e culturali, lavori soltanto con connazionali: quella cinese è una comunità molto chiusa. Eppure i cinesi di seconda generazione stanno smarcandosi dalla tradizione. Lizao ne è un esempio.

Lizao lavora in un ristorante cinese di Avigliana, in provincia di Torino: serve ai tavoli e prende le ordinazioni dei clienti. Ciuffo colorato di biondo su un caschetto castano, faccia simpatica e italiano fluente, accetta volentieri di rispondere a qualche domanda sulla sua vita di immigrato di «seconda generazione». Mentre i suoi colleghi-parenti lo osservano con un’espressione di curiosità mista a perplessità, il ventunenne cinese di Zhejiang (regione tra Shanghai e Pechino) racconta di quanto gli piaccia vivere in Italia e di come abbia imparato una lingua «così difficile» come la nostra, a scuola, dieci anni fa.
«Sono arrivato in Italia con la mia famiglia, nel ’93. Avevo undici anni e sono stato inserito in quarta elementare. Non capivo nulla: i suoni dell’italiano erano così diversi da quelli del cinese! Alla fine qualcosa è scattato e ho iniziato a comunicare. Ricordo le insegnanti, bravissime e accoglienti. Hanno messo tutto il loro impegno nell’aiutarmi ad inserirmi bene in classe. Era una scuola di San Salvario (un quartiere multietnico di Torino, ndr)».

Dopo le scuole dell’obbligo ha continuato gli studi?
«Mi sono iscritto in prima superiore: istituto professionale di costume e moda. Andavo bene e mi piaceva studiare, ma ho dovuto smettere per iniziare a lavorare: avevo già un posto che mi aspettava. Un ristorante. Ma non mi sono fermato lì: ho cambiato sia locale sia città. Questo ristorante è di altri miei parenti».

Lavorate sempre tra di voi. Ma questo non vi aiuta ad integrarvi con la società italiana…
«È vero. Ma ci sono varie motivazioni alla base della nostra scelta. Prima di tutto, le difficoltà linguistiche. Lavorare tra di noi permette di comunicare senza problemi. Poi, non è facile che un imprenditore italiano ci offra un posto di lavoro: c’è ancora molta diffidenza nei nostri confronti, anche se siamo grandi lavoratori. Mio zio, ad esempio, è stato assunto in un’azienda italiana e il suo titolare è molto soddisfatto di lui».

Terzo?
«Appena qualcuno di noi riesce a mettere del denaro da parte, apre un nuovo ristorante e crea opportunità di lavoro per parenti e conoscenti. Dunque, è più facile trovare un’occupazione all’interno della nostra comunità di quanto non lo sia all’esterno. E così rimaniamo tutti “in famiglia”. In questo modo, ovviamente, non siamo stimolati ad imparare l’italiano».

Nei suoi progetti futuri è previsto un ritorno in Cina?
Spero di andarci nelle prossime vacanze: non ci sono più tornato da quando ero bambino. Ma a viverci, no. Sono passati troppi anni e io sono cresciuto qui.
Non credo che troverei più a mio agio: il mio paese è sicuramente cambiato rispetto a quando l’ho lasciato. Può darsi che, da vecchio, deciderò di farvi ritorno per essere seppellito lì, nella mia terra. Ora però penso di stare qui, a lavorare. L’Italia mi piace molto».

Questo significa che metterà su famiglia qui?
«Credo proprio di sì».

Con un’italiana o con una cinese?
«Non so: per me è uguale. Per i miei genitori no: sono all’antica e vorrebbero che sposassi una connazionale. Quando si presenterà il problema ci penserò». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Non tornerei in Marocco”

La cultura di provenienza è una ricchezza enorme. Ma – spiegano le due ragazze islamiche – «il nostro paese ora è l’Italia».

Fatima e Sarah, due ragazze marocchine, sono sedute ai tavolini di un bar di un grande albergo che ospita il festival islamico di al-Aqsa, una ricorrenza annuale per raccogliere fondi da mandare a orfani e vedove in Palestina. Sorseggiano del caffè mentre sembrano immerse in una fitta conversazione.
Vivono in Italia da tanti anni: universitaria la prima, liceale la seconda, hijab intorno al capo, entrambe fanno parte del direttivo del Gmi, Giovani musulmani italiani.
Stanno discutendo di integrazione e di conflitti familiari. L’argomento è interessante …

Fatima, come ti percepisci, italiana, marocchina, tutte e due le cose?
«Mi sento di appartenere sia a questa cultura sia alla mia. Sono cresciuta qui, tra i miei amici italiani. Mi sento alla pari con loro. Il primo giorno di frequenza all’università, i miei compagni mi hanno osservata con interesse ma senza diffidenza. Considerata la situazione internazionale, mi sarei aspettata un atteggiamento negativo. Invece è andato tutto bene e abbiamo fatto subito amicizia. Studiamo insieme in biblioteca o in aula. Amo questo paese ma non mi sembra una contraddizione indossare l’hijab, come richiede la mia religione. Credo che ciò che non si riesce a capire è che noi siamo italiani a tutti gli effetti: la cultura di provenienza è un’enorme ricchezza.
Noi giovani musulmani costituiamo un ponte tra le culture. Molti aspetti legati alle tradizioni di provenienza possono essere abbandonati, i principi della fede, no. Tutti noi siamo di fronte a una sperimentazione di un islam italiano.
Uso il velo dall’età della pubertà: è stata una scelta serena, i miei genitori non me l’hanno imposto. Nessuno può obbligare qualcun altro a usarlo. E non ritengo giusto giudicare chi, pur praticante, decide di non indossarlo».

E in famiglia, come vanno le relazioni tra le generazioni?
Sarah: «Esistono tanti tipi di famiglie, sia quelle legate alle tradizioni sia quelle che si oppongono se i figli vogliono seguirle, qui in Italia. Ci sono anche i giovani che non hanno ricevuto alcun approccio religioso. D’altro canto, si trovano anche genitori che addirittura vietano ciò che l’islam non vieta: la libertà di movimento e di relazione umana con altre persone. Per esempio, non lasciano uscire di casa le ragazze, le discriminano proibendo loro l’accesso allo studio. I miei genitori sono religiosi praticanti ma non tradizionalisti: mi lasciano uscire fino a tardi con le mie amiche, studiare e pensare al mio futuro. Quelli più tradizionalisti e duri sono in disaccordo con i figli e in casa ci sono gravi conflitti. Sono intransigenti e poi neanche sanno che fanno e dove vanno i ragazzi una volta usciti. Ci vuole fiducia e apertura mentale».
Fatima: «Abbiamo una doppia identità: a casa, in genere, si parla arabo, fuori, italiano. Pensiamo anche in italiano. Certe volte abbiamo paura che il nostro sentirci italiani possa offendere i nostri genitori, come se avessimo dimenticato le nostre radici e le nostre tradizioni».

Il mito del ritorno in patria dei padri è ancora condiviso dai figli, secondo voi?
Fatima: «I miei genitori sanno che io non toerei in Marocco con loro, nonostante sia nei loro programmi. E lo accettano. Ma non è così per tutti i ragazzi: spesso si creano dei “giochi di ruolo”, due identità. In casa sono in un modo, fuori in un altro. E ciò porta a una situazione di disagio, anche a livello psicologico: si è scissi in due in contesti importanti per la propria vita. Non si è se stessi. Ecco, l’islam ci aiuta a trovare la strada e la serenità». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Stiamo tornando indietro”

I problemi – spiega il sindacalista di origini iraniane – riguardano soprattutto gli immigrati da paesi islamici. Il domani? Dipende da…

Mohammed Reza Kiavar è un sindacalista di origini iraniane che dagli anni Settanta vive in Italia, dove era arrivato per frequentare la facoltà di architettura. È sposato con una giornalista torinese, ha una bimba di sette anni e lavora alla Cisl, dove si occupa delle tematiche dell’immigrazione.

Come stanno attualmente i figli dei nostri concittadini immigrati?
«Le seconde generazioni sono in crisi. Lo sono soprattutto quelle provenienti da paesi islamici. Non è per tutte così, ovviamente: dipende dalle famiglie e dal contesto culturale. Quando i genitori non hanno i mezzi adeguati per bilanciare l’educazione domestica con quella che i loro figli inevitabilmente ricevono fuori, esplodono i conflitti e le sofferenze. I ragazzi si ritrovano con una doppia identificazione culturale: hanno studiato qui e si sentono vicini alle esigenze dei loro compagni e amici, ma in famiglia si pretende che rispettino le tradizioni d’origine. Per i padri è forse l’unico strumento per farsi valere in un contesto che considerano privo di rispetto per le figure genitoriali. I maschi sono lasciati un po’ più liberi, ma è sulle femmine che avviene la pressione maggiore: devono vestire in un certo modo, hanno limitazioni nelle libertà, ecc. Spesso escono di casa con l’hijab e la jellaba, e una volta arrivate a scuola si levano via tutto per rimanere in jeans e magliette corte».

E i latinoamericani?
«Stanno molto meglio: le differenze culturali e religiose sono poche. Diciamo che vivono crisi diverse: accusano i loro genitori di essere un po’ arretrati rispetto ai mezzi della vita modea e consumistica italiana, ma non ci sono conflitti laceranti tra scelte opposte e inconciliabili, come spesso accade per i musulmani.
Per gli immigrati dall’Est europeo non si può parlare ancora di seconda generazione, trattandosi di un’immigrazione molto recente. Comunque, i ragazzi provenienti da queste regioni sono quelli che si integrano più facilmente.
Possiamo in effetti dedurre che, dove agiscono religioni e culture molto diverse da quelle del paese ospite, allorché mancano gli strumenti o la volontà per ridurre le distanze, i conflitti familiari e sociali aumentano. Tra le famiglie islamiche chi, pur senza rinnegare la propria cultura, ha rinunciato ad alcune tradizioni che ostacolerebbero una buona integrazione, è riuscito a risparmiare ai propri figli tensioni, malessere e crisi di identità. Molto dipende dalla preparazione dei genitori e dalla loro disponibilità a ridiscutere abitudini secolari e consolidate».

Quali potranno essere le prospettive future?
«Se le seconde generazioni sono e saranno attraversate da crisi, la situazione migliorerà per le terze… sempre che i figli degli italiani di oggi non diventino razzisti e xenofobi domani. E dalle attuali premesse politiche, sociali e culturali, tutto fa pensare al peggio: siamo in piena regressione. Stiamo tornando indietro di anni e anni. E questo è molto preoccupante». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANITutti i colori del mondo

Sono cinesi, peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani, filippini. Le aule italiane sono sempre più colorate. I problemi aumentano, ma anche le speranze per un futuro veramente multietnico e dunque più ricco.

Torino, quartiere San Paolo. Il vecchio borgo operaio è ora diventato un rione ad alta densità di immigrati inseriti nel mondo del lavoro. L’epoca è diversa e anche le speranze: allora la città era in pieno boom economico, ora è in espansione edilizia e recita un copione di falso benessere truccando la propria immagine con mille nuovi cantieri, spot e cartelli pubblicitari a cui nessuno più crede.
Il San Paolo era un quartiere proletario socialmente attivo, e tale è rimasto: i nuovi proletari sono adesso gli immigrati da un «meridione» ancora più a sud. Gente che sgobba dalla mattina alla sera e che vuole costruirsi un futuro migliore di quello lasciato in patria (ammesso che le strette e spesso inumane maglie della legge Bossi-Fini, glielo permettano).
Sono peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani subsahariani, filippini, cinesi ecc. Molte le giovani coppie, con figli che frequentano le scuole del quartiere.

NELLA SCUOLA NASCE L’ITALIA MULTIETNICA
Elementare Santorre di Santarosa: 102 bambini stranieri su un totale di circa 600 in età fra i 6 e gli 11 anni. In ogni classe ci sono dai 5 ai 12 piccoli immigrati su una media di 24 alunni.
Una scuola pilota nell’ambito dell’intercultura, con un «collettivo di docenti» motivato e attento alle esigenze dei vecchi e nuovi alunni, che ha saputo trasformare l’emergenza scolastica quotidiana in un esperimento di inserimento ben riuscito.
Il primo programma di Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri è nato nel 2000. Le insegnanti della scuola elementare si erano confrontate con i colleghi della media vicina e avevano compreso di avere gli stessi problemi di inserimento scolastico: ragazzini che arrivavano dai paesi d’origine a metà anno, senza alcuna competenza nella nostra lingua, con tradizioni e abitudini completamente diverse che davano adito a incomprensioni e a difficoltà relazionali.
Era nato così un «progetto in rete», finanziato dalla circoscrizione, che prevedeva la presenza di mediatori che lavoravano in entrambe le strutture.
Negli anni successivi il progetto è stato inserito all’interno dei finanziamenti statali («per scuole ad alto flusso di immigrati») e regionali («inserimento stranieri e prevenzione del disagio scolastico»).
Le difficoltà avvertite dalle maestre erano causate anche dalle differenze culturali che agivano nella quotidianità, dalla mancanza di conoscenza di usi e costumi dei paesi di provenienza dei giovani scolari e delle regole educative in cui erano cresciuti.
«L’esperienza è iniziata con i cinesi – racconta Feanda Torsello, insegnante e responsabile del progetto interculturale di “Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri” -. Erano i figli dei ristoratori. Poi, negli anni, sono arrivati i bambini arabi, latinoamericani, africani, e così via. Il primo boom è stato sei anni fa: avevamo parecchi maghrebini inseriti nelle prime classi».
«Alcuni mangiavano seduti per terra a gambe incrociate – aggiungono altre maestre -, com’erano abituati nelle loro case d’origine, dove i tavolini sono spesso bassi e ci si siede su cuscini o tappeti. Rifiutavano diversi cibi e c’era il problema di sostituire alcuni piatti con i pasti alternativi senza insaccati a base di maiale. Ora è più semplice, anche se le difficoltà continuano, soprattutto quando i bambini arrivano a metà anno scolastico e sono già grandicelli».
«Ricordo un bimbo russo che, quando mi avvicinavo, alzava le braccia in segno di difesa – aggiunge un’altra maestra -. Non riuscivo a comprendere quale fosse il problema, poi ho capito che a scuola, nel suo paese, lo picchiavano, e che ne era rimasto scioccato».
A fianco degli ostacoli nella comunicazione linguistico-culturale, il flusso continuo di arrivi e gli inserimenti ad anno scolastico già avviato costituiscono due fra le principali difficoltà che le scuole devono affrontare: le lezioni sono iniziate da tempo e le insegnanti devono trovare il modo per far recuperare ai nuovi scolari il percorso perduto, e contemporaneamente insegnar loro la lingua italiana. Le difficoltà sono facilmente intuibili. In particolare, i ragazzini cinesi e arabi manifestano i problemi maggiori: le loro lingue madri nulla hanno a che fare con le neolatine, e laddove un rumeno o un peruviano fa meno fatica a inserirsi, chi arriva dalla Cina, dal Maghreb o dal Medioriente, stenta di più. O meglio, necessita e richiede un maggior sforzo personale, la presenza di insegnanti di «sostegno» e di mediatori.
Un altro aspetto dolente, in certi casi, è quello delle relazioni tra insegnanti e genitori: i padri lavorano tutto il giorno e le mamme spesso non parlano italiano. Gli avvisi non vengono letti e i colloqui sono disertati. Anche se per alcune famiglie è vero proprio il contrario: la partecipazione è continua e positiva.
Il quadro generale è dunque complesso e, tra un taglio di finanziaria e l’altro, i fondi per le esigenze scolastiche sono sempre meno. Tuttavia, l’esperienza di questi anni di progetto, e l’impegno delle insegnanti, hanno dimostrato che, dopo i primi mesi di difficoltà, i piccoli immigrati si inseriscono bene e partecipano pienamente alle attività.
Una peculiarità della scuola Santorre di Santarosa rispetto ad altre, sia a Torino sia in altre città, è la scelta di avvalersi di mediatori linguistici italiani ma laureati nelle lingue straniere di appartenenza dei bambini: è loro convinzione, infatti, che l’integrazione passi attraverso la piena acquisizione degli strumenti linguistici e culturali del paese di residenza pur mantenendo legami con le proprie radici. In quest’ottica, «mediatore» significa «colui che media» tra la propria cultura e quella dei cittadini immigrati.
Per la mediazione di lingua araba, ad esempio, vengono usate sia le schede didattiche previste dai programmi ministeriali, con il supporto di altro materiale linguistico, sia il Lexico minimo, vocabolario interculturale illustrato, che si avvale di 320 cartoncini con altrettante parole scritte in arabo, traslitterate e tradotte in italiano e corredate da disegni. Uno strumento predisposto anche per altre lingue straniere e molto utile sia per acquisire termini in italiano sia per mantenerli o apprenderli in quella d’origine.

TRA SCUOLA E FAMIGLIA, TRA IDENTIFICAZIONE E TRADIZIONE
Se un ragazzino immigrato, ancora in età elementare, si trova a essere l’unico elemento straniero in una classe, è facile che possa tendere all’uniformazione, all’identificazione con il resto dei compagni e a provar disagio e vergogna per tutti quegli aspetti che possono contribuire a renderlo «diverso»: difficoltà linguistiche proprie o dei genitori, abbigliamento tradizionale o eccessiva religiosità.
Ne risulta una sorta di rifiuto per tutto ciò che rischia di separarlo dagli amici, dal gruppo di cui desidera, invece, fare parte.
Nel caso dei bimbi maghrebini, tale malessere talvolta è manifestato attraverso un’aggressività verbale indirizzata verso i compagni connazionali, e l’utilizzo in senso spregiativo di espressioni quali «marocchino» o «arabo».
Se in classe o nella scuola ci sono altri bambini stranieri – o della sua o di altre culture di appartenenza -, cercherà la solidarietà e l’amicizia con loro e poi, o contemporaneamente, l’integrazione con gli altri compagni.
Racconta Nasira, una giovane universitaria marocchina: «Ricordo come fosse ora il mio primo giorno di scuola: ero vestita di rosso, avevo i capelli raccolti sulla nuca. In classe c’erano altri stranieri: tre ragazzini sinti che mi hanno accolto con un bel saluto. (…) Ho sentito subito quella solidarietà come qualcosa di bello, di familiare. Ero una di loro. Siamo diventati amici subito ed è stato una sorta di rito di iniziazione: un’introduzione a un mondo per me totalmente sconosciuto».
I ragazzini di famiglia modesta, con una scarsa preparazione scolastica e culturale, con limitate competenze linguistiche, hanno una percezione di sé, e del proprio ambiente, piuttosto inferiore, e tendono quindi a identificarsi con la società occidentale, nella speranza di cambiare la propria condizione sociale.
L’atteggiamento muta significativamente, invece, per chi proviene da famiglie immigrate benestanti e colte: tenderà infatti ad accettare e a vivere con più serenità sia le tradizioni d’origine (in certi casi, tuttavia, già molto «occidentalizzate») sia quelle del paese di residenza.
È motivo di orgoglio, per i ragazzi e per le famiglie stesse, l’uso di un italiano corretto e fluente e la buona conoscenza della cultura italiana.

DUE VOLTE STRANIERI: NE’ ITALIANI, NE’ ALTRO
Frequente, tra i bambini, è dunque il desiderio di somigliare ai compagni. Una ragazzetta di quarta elementare arrivata tre anni fa dal Marocco, ha attraversato alcune fasi contrapposte: l’anno scorso aveva più volte manifestato il desiderio di «essere come le altre compagne», di «essere pienamente italiana» e «non voler essere araba». Abbigliamento, diario scolastico, gadget, tutto richiamava la moda infantile diffusa tra le amiche italiane. Anche la lingua araba standard che, appena giunta in Italia, riusciva a scrivere e a leggere abbastanza correttamente e con orgoglio, era finita nel dimenticatornio, rimossa, relegata nell’oblio. È bastato, tuttavia, un periodo di vacanze estive passate nella sua bella casa con giardino a Marrakech, dove poteva «giocare fuori fino a notte inoltrata», per risvegliare il suo senso di appartenenza: «Io sono marocchina – ha infatti affermato recentemente -, e voglio tornare in Marocco, perché lì è più bello di qui».
Un altro problema da non sottovalutare è infatti quello dello «sradicamento»: il sentirsi, cioè, né «italiani né immigrati», senza una buona e corretta conoscenza della lingua e delle tradizioni del paese in cui si vive e si cresce, senza più strumenti di comunicazione nella lingua d’origine e di decodificazione della cultura di appartenenza. Stranieri in terra d’immigrazione e in patria: forse una tra le esperienze più destabilizzanti che un bambino straniero possa provare.
In particolare, per i ragazzi arrivati in Italia alla fine dell’infanzia o all’inizio dell’adolescenza, da soli (cioè senza genitori ma affidati alle cure di fratelli o cugini più grandi), il problema dello sradicamento, della incapacità a comunicare con l’ambiente che li circonda è ancora più forte e ha un peso enorme sull’auto-percezione e sull’auto-stima. Essi tenderanno infatti a difendersi con una buona dose di ribellione e di aggressività, di diffidenza costante nei confronti degli adulti e dei compagni.
Quando trovano, tuttavia, un insegnante, un educatore disposto ad accoglierli e a seguirli nel loro percorso di inserimento scolastico e sociale, riescono a recuperare in fretta il divario linguistico e culturale e a riempire il vuoto che sentono attorno a sé.
Per i bambini cinesi sorgono problemi a più dimensioni: per via dello stretto legame linguistico e culturale con la famiglia e la comunità a cui appartengono, si crea in loro una situazione di confusione e di crisi d’identità. Come tutti i ragazzini, da un lato vorrebbero essere uguali ai compagni italiani, aver diritto alle stesse opportunità, dall’altro sentono la pressione sociale del proprio gruppo di appartenenza e si riconoscono nei valori e nelle tradizioni in cui sono cresciuti. Finiscono così per assumere una sorta di «identità costruita», cercando di adeguare le due culture, quella di appartenenza e quella di arrivo, spesso e volentieri senza alcun sostegno da parte dei genitori (sprovvisti dei mezzi culturali per aiutarli). Per ciò che riguarda la lingua, a casa usano il cinese perché i familiari non sono in grado di capire l’italiano, e a scuola si sforzano di apprendere quest’ultima.
La relazione tra la lingua e la cultura di partenza e quella di approdo è decisamente meno complessa per i latinoamericani e per i rumeni.
Julia è una studentessa di origine peruviana iscritta al terzo anno di un istituto tecnico superiore di Torino. È arrivata quando aveva 10 anni ed è stata inserita in quinta elementare. Racconta delle iniziali difficoltà di comunicazione ma anche dell’entusiasmo che l’ha portata ad apprendere abbastanza velocemente vocaboli, verbi e sintassi della nuova lingua.
Ora è una delle migliori della classe: studia volentieri e molto, è ben inserita e molto stimata da compagni e insegnanti. Per il forte senso di responsabilità e per la maturità che la distinguono, è diventata la referente per le attività di biblioteca e per altri laboratori.
La scuola è dunque un luogo privilegiato per monitorare il fenomeno dell’immigrazione minorile, sia regolare sia irregolare, e dei suoi cambiamenti.
Le sanatorie degli anni Novanta hanno portato ai ricongiungimenti familiari – mogli e figli dei lavoratori stranieri presenti sul territorio – e a nuovi immigrati: questo significa, tra l’altro, che la loro presenza nelle scuole per l’infanzia, nelle elementari e nelle medie inizia a compensare la scarsa natalità delle famiglie italiane. Per esempio, i nuclei familiari maghrebini, e spesso anche rumeni, hanno in media dai tre ai cinque – sei figli.

«SENTIRSI ITALIANI»:LE SECONDE GENERAZIONI
Come abbiamo visto, i ragazzi stranieri cresciuti in Italia tendono a «sentirsi italiani» a tutti gli effetti, soprattutto grazie alla scuola. Lo spiega bene don Fredo Olivero, responsabile dell’ufficio migranti della Caritas torinese: «La loro patria è questa: qui desiderano vivere e diventare adulti, studiare, laurearsi, trovare un posto di lavoro. Vogliono divertirsi, uscire con gli amici, e immaginano un futuro diverso da quello dei propri genitori. Questa nuova condizione e prospettiva crea, in non poche famiglie – non solo musulmane ma anche peruviane, cinesi, albanesi, ecc. -, frequenti conflitti e grandi tensioni. Qualcuno addirittura se ne va di casa».
Nelle associazioni di volontariato arrivano spesso ragazzi in rotta con le famiglie: sono campanelli di allarme di un disagio interiore e dell’incapacità degli adulti a relazionarsi con i figli che cambiano, che crescono, che incontrano nuove realtà, magari diverse o opposte rispetto a quelle a cui erano abituati da generazioni. I quartieri-ghetto delle grandi metropoli italiane possono costituire un rifugio per un malessere che colpisce giovani italiani e immigrati, e la prevenzione, attraverso l’accoglienza, l’educazione, l’ascolto, l’offerta di opportunità e speranze, rimane l’unico strumento vincente.
Secondo alcune proiezioni, tra il 2010 e il 2020, in Italia, le seconde generazioni raggiungeranno la cifra di un milione. Molti di loro, come già sta accadendo da alcuni anni, saranno nati qui e avranno frequentato le scuole insieme ai coetanei italiani «figli di italiani».
Come sostengono i ricercatori della Fondazione Agnelli, saranno persone non più classificabili come «immigrati» o come «stranieri», ma neppure come «italiani» tout court. Abbiamo iniziato a vederlo ora con i ragazzi arabi, latinoamericani, africani, ormai «naturalizzati», perché hanno visto la luce nei nostri ospedali o sono arrivati da piccoli.
Hanno accenti regionali marcati o nessuna inflessione dialettale, vanno alle feste delle comunità di appartenenza e a quelle di compleanno dei propri amici o compagni di classe, portano il foulard o i jeans a vita bassa, i pantaloni che arrivano fin sotto le scarpe e i maglioni con la scritta alla moda, si fanno le treccine fitte fitte o si colorano di henné le mani. Come la maggior parte degli adolescenti, parlano in fretta «mangiandosi» le finali di ogni frase, usano fraseologie gergali e parolacce, oppure, per distinguersi, ostentano una sintassi e un lessico impeccabili; scaricano musica dai computer e l’ascoltano con il portatile durante gli intervalli, si esaltano per divi della Tv o del cinema. Insomma, a scuola e per strada sono in quasi tutto uguali ai compagni «italiani da generazioni»…
Tranne che a casa: lì, infatti, molti rientrano negli «schemi familiari» previsti per loro. Quasi avessero una doppia esistenza o fossero costretti a vivere in una «schizofrenia» più o meno lucida e consapevole. Ciò accade, ovviamente, quando la famiglia è conservatrice ed estremamente tradizionalista, o non ha gli strumenti intellettuali per accettare nuovi stili di vita, e quando il comportamento «esterno» dei figli è radicalmente diverso da quello domestico. Esistono comunque tante «vie di mezzo» meno stridenti e traumatiche.

UN GIORNO IL PRIMATO, OGGI L’ABBANDONO
Quando proseguono gli studi alle superiori, i ragazzi immigrati sono spesso tra i più bravi della classe: s’impegnano, sono partecipi, si documentano. Quando emergono sono dei leader tra i compagni. Assimilano il meglio di due culture e fanno da «mediatori naturali». Come afferma Fredo Olivero, «quando le condizioni familiari e della società in cui vivono glielo permettono…».
Attualmente, invece, ci troviamo di fronte a numerose situazioni di abbandono scolastico subito dopo la terza media. Le motivazioni possono essere molteplici: la famiglia richiede al ragazzo/a di contribuire al bilancio domestico; i genitori sono rimasti in patria e lui/lei deve provvedere a mandare soldi per il mantenimento dei cari; mancanza di interesse per gli studi e scelta lavorativa; fallimento del percorso di inserimento scolastico, sociale e identitario – o perché il minore ha trovato un ambiente ostile e insegnanti poco preparati ad accoglierlo, o perché la famiglia non l’ha sostenuto e appoggiato -; ritorno al paese d’origine, e altro ancora.
Come l’esempio francese insegna, le seconde e le terze generazioni avranno ben chiaro in mente ciò che desiderano o rifiutano: saranno meno disponibili ad accettare i mestieri scartati dagli italiani – in genere umili e poco gratificanti -; si svilupperanno (già sta accadendo) conflitti familiari a causa delle differenze maturate; qualche tendenza ortodossa o, al contrario, estremamente liberale, si trasformerà in integralista; l’ottenimento della nazionalità sarà considerata una delle priorità. Insomma, avremo di fronte uno scenario in continuo movimento.
Sulle seconde generazioni, spiegano ancora i ricercatori della Fondazione Agnelli , «si gioca veramente l’integrazione e tutto dipenderà dalla capacità di accoglienza della società italiana».

I RUMENI, LA SORPRESA
Sono tanti, i rumeni e hanno battuto i maghrebini nel totale italiano delle presenze. In genere si integrano abbastanza bene e sono oggetto di minori pregiudizi, perché fisicamente «più simili agli italiani» dei loro concorrenti nelle statistiche sull’immigrazione: gli arabi marocchini, appunto.
Ma anche loro sono noti nelle cronache giornalistiche soprattutto per quella parte che delinque, che si prostituisce o che sfrutta i minori anche nel mercato del sesso.
La comunità dei rumeni in realtà è formata da due gruppi diversi: i cattolici, molto meglio assimilati, e gli ortodossi, molto meno. I primi sono qui da almeno due generazioni e i figli si sentono del tutto italiani, gli altri costituiscono un’immigrazione più recente.
Il grande afflusso è iniziato 10 anni fa circa, con adulti e minori che arrivavano qui in cerca di lavoro. Nei decenni precedenti si era trattato invece di migranti per matrimonio: giovani donne maritate a italiani maturi.
Chiediamo a Zamfira, mediatrice culturale, moglie di un italo-rumeno e madre di una ragazzina di seconda media, del tutto italiana, come vivono i suoi giovani connazionali. La sua risposta potrebbe adattarsi bene sia al caso dei cinesi sia a quello dei maghrebini.
«Sono scissi tra due identità: da una parte sono legati alle proprie tradizioni familiari e culturali, dall’altra vorrebbero essere come i loro coetanei, che imitano nel consumismo e nelle mode. C’è un senso di sradicamento che spesso prevale e tanti conflitti interiori e familiari. Non credo vivano bene, e sto parlando di chi è qui con la famiglia o almeno con dei parenti. La situazione per quelli soli è ben peggiore, ovviamente. Dobbiamo capire che in patria hanno lasciato una realtà di povertà e qui si trovano di fronte a tanti stimoli materiali ma ad altrettanta solitudine. Tra i compagni, nelle superiori, c’è un certo razzismo: loro sono figli di gente che, seppure spesso con una laurea in tasca, svolge lavori umili, che gli italiani non fanno più: assistenza a malati e anziani, mansioni nell’edilizia, nei mercati alimentari, nel settore delle pulizie. Mestieri di cui si vergognano, quando stanno in mezzo agli italiani, e di cui non parlano quando si ritrovano con i connazionali. Tra loro c’è un tacito sorvolare sull’argomento: tanto, quasi tutti i loro genitori sono impegnati nelle stesse modeste attività».
Viene da pensare che, forse, se sapessero che questi percorsi professionali e questa vergogna per gli umili impieghi dei propri cari erano molto diffusi fra i giovani italiani figli di immigrati dal Sud dell’Italia o dal Veneto o dalle campagne piemontesi, si sentirebbero meno frustrati. Forse sono le nuove generazioni nostrane ad aver dimenticato di essere, in molti casi, la discendenza di migranti poveri e senza mezzi culturali.
«In effetti, la situazione di molti immigrati è piuttosto simile a quella dei vostri, nel Novecento – riflette Zamfira -. I ragazzini rumeni spesso inventano realtà che non esistono: benessere, lavori ben pagati, soddisfazione. Raccontano che i genitori hanno una bella professione e che guadagnano tanti soldi: sono bugie che servono per coprire il loro disagio. Anche il fatto di abitare in due-tre famiglie in uno stesso appartamento non aiuta a risolvere i problemi.
Un’altra nota dolente è la prostituzione e la delinquenza minorile. Qualche giorno fa mi trovavo sul tram e ho assistito a una scena che mi ha angosciata molto: tre donne rumene, di cui una adolescente, stavano discutendo animatamente. Erano prostitute. La giovane si stava ribellando a quella che doveva essere sua madre, affermando di non voler fare più quel mestiere. La mamma e l’altra donna, forse la maman del giro, erano visibilmente in disaccordo con lei. Poi, a un certo punto, la ragazzina ha notato il pulsante per la prenotazione della fermata e, tutta contenta e stupita, ha iniziato a schiacciarlo ripetutamente, come in un gioco infantile. Ho capito che forse era arrivata da poco da qualche villaggio della Romania per fare la prostituta. Ma era rimasta una bambina dentro, come giusto». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANINon eravamo tanto amati

Un tempo non lontano l’Italia era un paese di emigrazione. Fuori dei confini geografici, oggi vivono almeno 60 milioni di connazionali. Nel frattempo, siamo divenuti terra d’immigrazione. E in molti storcono il naso, alzano la voce, o sbattono la porta, non sapendo o fingendo di non sapere la nostra stessa storia.

Lo schermo della sala video di una scuola superiore di Torino proiettava due immagini in bianco e nero così simili da sembrare prese da una stessa fonte. Nella prima, una poverissima famigliola di migranti, composta da madre e tre figli, era ferma sul marciapiede di una stazione; per terra si vedeva una valigia sgualcita e legata con una corda; sulle spalle del figlio maggiore faceva capolino un sacco a righe; sguardi schiusi in un sorriso di speranza si perdevano dentro l’obiettivo del fotografo. Nella seconda, un altro gruppo di migranti appoggiati a transenne di contenimento aspettava il proprio tuo, presumibilmente davanti a un ufficio immigrazione.
Perplessi i trenta ragazzi cercavano di dare un’identità nazionale alla mamma e ai suoi tre figli: «Sono degli zingari rom», proponeva uno; «No, sono marocchini», gli faceva eco un’altra; «Ma dai, sono albanesi!», incalzava un terzo; «Tunisini, sono tunisini», rispondeva il compagno dall’ultima fila; «A me sembrano iracheni», «Curdi?», insinuavano altri due.
«Italiani. Sono italiani. Nostri connazionali. Migranti di inizio Novecento» – spiegava infine l’insegnante -. «La seconda foto è invece recente e ritrae dei cittadini immigrati in Italia. Lo sapete vero che eravamo un paese di emigranti, gente povera che se andava via all’estero, nelle Americhe, in Francia, in Germania, per trovare un lavoro con cui mantenere la famiglia lasciata in patria?».

Già, siamo ex emigrati – i nostri connazionali nel mondo sono circa 60 milioni, un’altra Italia, dunque -, persone spesso abituate a svolgere professioni modeste, quelle che gli abitanti dei paesi che ci ospitavano non volevano più fare, o quelle che spettavano agli schiavi, successivamente liberati.
Abitavamo in tanti in uno stesso appartamento misero e sporco; quando ce lo permettevano e le nostre condizioni miglioravano, ci facevamo raggiungere da mogli, mariti, figli e genitori. Ricongiungevamo così le nostre famiglie spezzate, magari dopo anni di duro lavoro, e allora, con un po’ di benessere nelle tasche, ci compravamo il vestito bello con cui farci fotografare nella bottega del quartiere più carino della città e mandavamo la nostra immagine sorridente e decorosa ai nostri parenti rimasti al paese natio. Che gioia quando uno dei nostri figli si laureava in quel luogo straniero! La nostalgia di casa ci riempiva di gioia e di orgoglio: di senso finalmente offerto alla nostra struggente lontananza. Erano le radici che germogliavano in angoli del mondo a noi spesso ostili. I nostri sacrifici cominciavano a dare frutti e avrebbero assicurato una vita agiata alla nostra discendenza.
Non eravamo sempre amati, noi italiani all’estero: ci gridavano «mafiosi», «spaghetti» e «pizza». Dicevano che dovunque andassimo portavamo criminalità e malattie. Ma noi volevamo solo lavorare, migliorare quell’esistenza misera che avevamo lasciato nelle nostre campagne o nelle nostre valli, o nei rioni più poveri delle nostre città.
Ricordi, racconti, immagini. Memorie racchiuse in molte delle nostre famiglie. Ora dimenticate. Rimosse. Adesso ci sentiamo i padroni del mondo, o semplicemente «gli amici cari dei padroni del mondo». Dalle copertine di giornali e riviste, e dalle pagine di libercoli best-seller, spesso gridiamo il nostro «vade retro» ai nuovi immigrati, nostri fratelli odiei di sventure passate. Li descriviamo come «orde pronte a invaderci e a sporcarci le strade. A colonizzarci. A islamizzarci. A portarci ogni sorta di epidemie e di disastri». Il cavallo di Troia astutamente posto nelle terre dei discendenti degli antichi celti e romani. In realtà, capri espiatori delle politiche economiche e sociali di una classe dirigente senza etica e senso dello stato, che, servendosi del potere concesso dai mezzi di informazione, tuona semplice e stupida propaganda.

Certo, in questo bel paese spaccato in due tra nuove povertà e nuove ricchezze ostentate con sfacciataggine, in quest’Italia rimbalzata indietro di decenni in ogni campo, ma soprattutto in quello politico – culturale – economico, il momento storico non è dei più favorevoli per parlare di «incontro di civiltà» e di integrazione. Per raccontare delle seconde generazioni di immigrati: quelle che stanno crescendo a fianco dei nostri figli, che stanno arrivando a seguito dei ricongiungimenti familiari; che giungeranno o che nasceranno nei prossimi anni.
Il contesto non è dei migliori, forse per questo abbiamo voluto parlarvene attraverso le pagine di questo nostro dossier. Perché la memoria del passato è il miglior deterrente contro gli errori del presente e del futuro.
Angela Lano

Angela Lano




Sulle due Simone

Luciano Coggiola e Giuseppe Gentile contestano la redazione per l’articolo
pubblicato in questa rubrica nel numero di dicembre 2004.
Poiché i contenuti sono molto simili, riportiamo solo la prima.
Nel frattempo, un’altra italiana, la giornalista Giuliana Sgrena, è stata rapita…

Per quanto riguarda il sig. Farinella, al quale mi permetto suggerire di non definirsi «libero» per questioni di buon gusto, desidero sottolineare che egli ha scritto il suo lungo e dotto libello senza considerare che proprio il governo attuale (voluto dalla maggioranza degli italiani con votazione democratica) ha sborsato migliaia di euro per la liberazione delle «due Simone», tornate dalla terribile esperienza carceraria, ridenti e ingrassate, e divenute il simbolo vivente e immediato di un tipo di kultura che, spaziando su riviste, giornali e tv, ha l’improntitudine di affermare che i mass media sono «completamente» in mano al centro-destra e che il loro spirito, collaborativo e per nulla disfattista, viene respinto con disprezzo e alterigia.
Sono altresì rattristato che una rivista come Missioni Consolata, che venne alla luce l’anno in cui nacque mia madre e che dovrebbe – mi si perdoni la «pretesa» – essere super partes, non tralasci occasione per non esserlo. È una rivista che ho sempre letto unitamente a parecchi conoscenti (anche a nome dei quali scrivo la presente) e della quale ho apprezzato il suo «essere l’eco del lavoro missionario nel mondo».
Nella mia vita (sono del 1930) ho visto passare l’orrore d’innumerevoli conflitti, con l’inesorabile scia di sangue e sofferenze che lasciano appresso. Valuto la caduta morale di una società che bada al profitto, calpestando i diritti di molti, però non ho portato il cervello all’ammasso, in quanto giudico che ogni dittatura sia una sciagura. A cominciare dal nazismo e comunismo, per giungere agli sterminii di Saddam con gas venefici, al massacro dei Curdi, all’annullamento di tante minoranze etniche di cui si ha notizia o meno.
Contro tali dittature proprio l’America (ora di Bush, rieletto con l’apporto di una maggioranza di 3,5 milioni di voti) ha sacrificato per la liberazione d’Italia e d’Europa, migliaia di suoi figli. Tale verità viene continuamente taciuta. Proprio l’America di Bush ha sofferto un 11 settembre di sterminio e distruzione ad opera di un terrorismo (il profetizzato «anticristo»), che ha deciso l’annientamento della democrazia, dell’Occidente e del Cristianesimo.
Come tutti, anch’io sono contro la guerra e mi adopero gioalmente con il volontariato, onde portare aiuto a indigenti e malati. Nei ritagli di tempo che mi rimangono, leggo, oltre a uno dei «rimasugli della inciviltà italiota», anche autorevoli quotidiani come Repubblica, cercando di avere una visione pluralistica degli avvenimenti.
Per la verità non mi sento affatto in colpa, in quanto non acclamo come eroine le «due Simone». Acclamo per contro l’opera silenziosa delle migliaia di persone, religiose o laiche, che si adoperano per gli altri, onde riportare pace e democrazia (binomio inscindibile) anche a costo della propria vita.
Il sig. Farinella cita Dante; io cito Maister Eckart: «Non c’è niente che assomigli a Dio come il silenzio».
Grazie per avermi letto e auguri di un «sereno 2005».
Luciano Coggiola
Rosignano Monferrato (AL)

Risponde Paolo Farinella.

Gentile amico (se mi permette questa confidenza), vorrei chiarire alcune cose, come è possibile.
Il titolo Battitore libero è un’espressione giornalistica per esprimere il fatto che alcune pagine della rivista (preparata un mese prima della data di pubblicazione) non sono legate né a tematiche prefissate, né ad autori precisi. Di conseguenza, Battitore libero non era e non è un titolo che mi attribuisco né una definizione, ma solo l’indicazione di uno spazio.
Le «2 Simone». L’articolo da lei contestato ha solo evidenziato alcuni fatti visibili a occhio nudo a chi non è prevenuto ideologicamente, tanto è vero che personalmente ho ricevuto attestazioni esattamente contrarie alle sue. Ciò non mi stupisce, perché so che la realtà non è solo quella che è, ma è anche quella che noi interpretiamo in base alla nostra esperienza, convinzioni, ecc. S. Tommaso d’Aquino lo insegna con autorità: «Nulla può essere nella mente che prima non sia passato attraverso l’esperienza».
Riguardo al governo, bisogna distinguere con precisione, perché altrimenti si fa confusione: il governo non è la nazione e nemmeno la rappresenta, perché secondo la nostra Carta costituzionale è il presidente della repubblica che incarna l’unità nazionale, simboleggiata dal tricolore. Il governo amministra la gestione dello stato ed è per natura sua «provvisorio»; infatti giuridicamente si dice governo «pro tempore», proprio perché eletto dalle camere che possono in qualsiasi momento, teoricamente, negargli la fiducia.
Ciò precisato, è necessario puntualizzare che il governo ha pagato un riscatto per le «2 Simone», ma i soldi li ha sborsati lo stato, cioè lei, io e chiunque ha il senso morale di pagare le tasse. Ufficialmente lo stesso governo ha sempre negato di avere pagato qualsiasi riscatto, forse per non ammettere compromessi imbarazzanti per la dissennata scelta di fare guerra «preventiva», isolandosi dall’Europa dei padri fondatori e correndo a scodinzolare dietro a Bush nella sua insana avventura. Invece il governo si è preso tutto il merito mediatico della liberazione delle «2 Simone». Sarebbe stato più opportuno, anche per rispetto agli italiani che erano laggiù (i soldati vi sono ancora), non suonare fanfare e strombazzare tamburi. Ciò che ha inorridito il governo pro tempore e la canèa che lo sostiene sono state le limpide parole delle due ragazze, ignare di quanto succedeva in Italia e altrove: Chiediamo la fine della guerra, perché chi ne paga le spese è la popolazione inerme. Queste parole hanno scatenato il linciaggio morale delle «2 Simone», le quali, come lei può verificare, non hanno concesso interviste, si sono eclissate subito e hanno ripreso il loro lavoro, in attesa di ritornare in Iraq, dove hanno lasciato amici, donne e bambini con cui costruivano un futuro di riscatto.

L ei è nato nel 1930, quindi ha fatto in tempo a vedere le conseguenze del fascismo che ha permesso al nazismo di installarsi in Italia con tutte le conseguenze del caso. Nessuna dittatura può essere tollerata; ma neppure alcuna azione illegale e immorale, come la guerra preventiva, contro cui lo stesso papa ha detto parole di fuoco.
L’11 settembre, atroce e diabolico, non autorizza a usare mezzi altrettanto atroci e diabolici: si chiamerebbe vendetta. Il terrorismo, fenomeno non nuovo nella storia degli ultimi tre millenni, non è il «profetizzato anticristo», ma il risultato di politiche ingiuste e scelte sbagliate da parte di governi miopi (Inghilterra, Francia, Russia di fine xviii secolo e America del secolo scorso e dell’attuale).
Democrazia, Occidente e Cristianesimo non sono sinonimi, anche se in certe tornate storiche qualcuno tenta di farli coincidere. Una cosa è la democrazia, termine non univoco presso culture diverse: in Oriente non esiste il concetto stesso di democrazia e in Cina nemmeno l’ideogramma per esprimerlo; noi sproloquiamo di democrazia, senza conoscere i popoli a cui vorremmo esportarla (anche con una guerra?).
Altra cosa è l’Occidente e altra cosa ancora è il Cristianesimo, che per sua natura è portato a innestarsi in qualsiasi cultura (oggi il Cristianesimo numericamente è maggioritario nei paesi del Terzo mondo non in Occidente). Lei sa che il Cristianesimo è nato in Oriente: in Palestina e nell’attuale Siria. Gesù era ebreo, come lo erano Paolo, gli apostoli, Maria e tutti i primi cristiani. Ad Antiochia, nell’attuale Siria, per la prima volta i credenti furono chiamati «cristiani». Identificare Occidente e Cristianesimo è fare un’operazione indebita e non corrispondente alla verità rivelata e alla verità storica.
Il sig. Berlusconi che s’identifica con il «Bene» (io sono il Bene) è blasfemo, perché si ammanta di un’aura religiosa che non ha e induce a somigliarlo a Gesù, che ebbe a dire: Io sono la via, la verità, la vita, la porta, il pane. Simili aberrazioni schizofreniche dovrebbero sconvolgere le budella dei credenti, perché si trovano di fronte a uno che assume la fisionomia di un messianismo per tutte le stagioni, mentre con le sue Tv divulga un mondezzaio, che ha già travolto le coscienze dei più, deformandone i criteri di valutazione e di critica.

S iamo grati all’America per l’intervento liberatorio dell’ultima guerra; ma lei sa bene che le questioni storiche sono molto più complesse di quanto sappiamo semplificare. L’America intervenne per difendere se stessa e di conseguenza per aiutare l’Europa a liberarsi dall’oppressione nazifascista. A questo scopo foì mezzi e armi alla Russia di Stalin, con il quale concordò un comune intervento, sia dall’Occidente che dall’Oriente. Non vinse solo l’America. Se dobbiamo essere onesti (e noi credenti non possiamo non esserlo), bisogna dire che l’Europa fu salva dalla combinazione di tre interventi: America, Russia e resistenza italiana, francese e scandinava.
Non è un caso che la nostra Costituzione, mondialmente giudicata come la più equilibrata tra le esistenti, è il frutto di tre matrici culturali: cattolica, social-comunista e liberale. Ci può piacere o meno, ma la realtà non si può mutare. Resta il fatto che oggi al governo stanno non chi allora fu a fianco degli americani liberatori, ma coloro che furono a fianco e succubi del nazismo, causa di mali atroci per la nostra nazione. Fini e compagnia non sono un vulnus nella nostra tradizione democratica? Per favore, non mi dia del «comunista». Non lo sono e non lo sono mai stato.

C aro sig. Luciano, come vede le questioni sono complesse e per potee dare una valutazione abbastanza consona, è necessario avere in mano tutti i dati del problema, che oggi non è possibile in questa Italia, dove la democrazia è stata accorciata da leggi che mirano solo all’eversione del diritto.
Prima di morire, don Giuseppe Dossetti, padre costituente e perito conciliare del card. G. Lercaro, dopo 20 anni di silenzio, muto e orante, ricominciò a battere l’Italia per avvertire del pericolo incombente: lo stravolgimento della Carta costituzionale e lo sfregio dello stato di diritto a cui l’avventura Berlusconi avrebbe portato l’Italia. A lui, con altre motivazioni, si unì Indro Montanelli, che mise in guardia contro la stessa avventura, tanto da essere licenziato in tronco.
Disdire l’abbonamento alla nostra rivista (come scrive in calce alla sua lettera) vuol dire solo una cosa: nonostante cerchi «di avere una visione pluralistica degli avvenimenti», lei vuole leggere solo quello che coincide con il suo modo di vedere e chiede alla rivista una funzione che la garantisca in questa sua ideologica presa di posizione, probabilmente inconscia. Lei rifiuta tutto ciò che non combacia con quanto pensa.
Un consiglio d’amico: continui a leggere la rivista, che forse è una delle poche non prezzolata e non in svendita, guidata da un concetto di servizio che supera la cronaca e gli interessi di parte, ma ancorata alla prospettiva di non fare gli interessi di alcuno se non dei poveri di cui è voce limpida e senza compromessi. Le resterebbe Libero, fratello gemello del Gioale, strumenti liberi di essere al servizio del padrone di tuo. In questo senso, una rivista cattolica non potrà mai essere super partes, perché il vangelo non lo è (Matteo 25,31-44): esso ci impone di stare dalla parte dei senza voce, dei senza diritti, dei poveri, secondo il principio che «le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et Spes, n.1).

Luciano Coggiola