DOSSIER VIETNAM Una foglia di fico (introduzione)

Nell’immaginario collettivo il Vietnam resta legato alla lunga e sanguinosa guerra cosiddetta «americana», che infiammò e divise il mondo per 15 anni (1960-1975). In qualcuno rimangono anche le tragiche immagini dei boat people, che affrontarono l’oceano su fragili imbarcazioni per fuggire al regime comunista (1975-1979) e alla miseria (1988-1990).
Oggi il Vietnam occupa il 101° posto nell’Indice dello sviluppo umanitario. Negli ultimi anni è passato dall’isolazionismo internazionale all’apertura alla comunità mondiale, dall’economia pianificata del socialismo a un sistema economico più aperto, simile alla Cina. Ma ben poco è cambiato nel campo della libertà e diritti umani, che continuano a essere negati e calpestati.

Grande come l’Italia, ma con oltre 80 milioni di abitanti, il Vietnam si estende lungo la parte orientale della penisola indocinese. Geograficamente è costituito da tre regioni: a nord il Tonchino, quasi un’appendice geografica della Cina; al centro la lunga e stretta fascia dell’Annam; al sud la regione della Cocincina.
Per quasi un millennio, a partire dal secolo 3° a.C., il Tonchino fu vassallo dell’impero cinese, che vi impose le proprie istituzioni politiche e culturali, compresi gli ideogrammi per la lingua vietnamita, il pensiero di Confucio, gusti artistici e musicali.
Una serie di sollevamenti a intermittenza cercarono invano di scrollarsi di dosso il dominio cinese, finché nel 939 le forze vietnamite di Ngo Quyen riuscirono a sconfiggere le truppe di occupazione e a instaurare uno stato monarchico indipendente. Seguirono varie dinastie che rintuzzarono le mire di vecchi e nuovi invasori: nei secoli xi e xii resistettero ai cham e ai mongoli di Gengis Khan; nel xv e xvi secolo respinsero i cinesi delle dinastie Ming e Ching, nel xviii i khmer, finché estesero il loro territorio verso il sud, fino a comprendere la foce del Mekong dando origine al Dai Viet (Grande Viet).
Intoo al 1620, per le rivalità tra clan di corte Trinh e Nguyen, la monarchia cominciò a perdere potere e il Dai Viet fu diviso in due zone di influenza: il nord dominato dai Trinh, con capitale Hanoi; il sud dagli Nguyen, con capitale Hué. I contrasti tra nord e sud si inasprirono con l’arrivo degli europei, giunti nel sud-est asiatico per motivi commerciali e per diffondervi il cristianesimo.
Dalla fine del 1600, per oltre un secolo, le alleanze dei vari feudatari con gli europei si alternarono a violente proteste contro gli stranieri, sfociando nella persecuzione contro i cristiani, finché il territorio fu riunificato sotto un unico regno (1789), per opera dei fratelli Tay Son. Poco tempo dopo, Nguyen Anh, unico sopravvissuto degli Nguyen del sud, con l’aiuto dei francesi riprese il sopravvento e nel 1802 si autoproclamò imperatore e ribattezzò il paese con il nome attuale: Vietnam (1804).

La dinastia Nguyen, temendo intromissioni della Francia nei suoi affari, riprese la persecuzione contro i missionari e i vietnamiti convertiti, fino all’esecuzione di alcuni cristiani. Quando vennero lesi anche gli interessi commerciali e militari francesi, Napoleone iii inviò varie spedizioni punitive, finché il Vietnam fu costretto a cedere la Cocincina alla Francia (1860) e poi accettare il protettorato sulle altre due regioni, Annam e Tonchino, che diventarono parte dell’Unione Indocinese, insieme al Laos e la Cambogia.
Nonostante i tentativi di modeizzazione introdotti dal sistema coloniale, i vietnamiti furono ben presto delusi: l’imperatore fu posto sotto tutela, la maggioranza della popolazione fu esclusa dall’amministrazione e privata della libertà politica, di associazione e di espressione. Ad arricchirsi erano solo i colonizzatori e una ristretta élite di vietnamiti e cinesi. Il malcontento causò l’apparire di movimenti nazionalisti e rivoluzionari. Nel 1927 venne costituito il Partito nazionalista vietnamita; nel 1930 Ho Chi Minh fondò a Hong Kong il Partito comunista di Cambogia, Laos e Vietnam, che ben presto si divise in tre sezioni nazionali.
Durante la seconda guerra mondiale il Vietnam fu occupato dai giapponesi. I comunisti diedero vita al Viet Minh (Lega per l’indipendenza) e organizzarono la resistenza, cornoperando con gli alleati, senza nascondere l’intenzione di sbarazzarsi anche del regime coloniale. Di fatto, dopo la capitolazione del Giappone, Ho Chi Minh lanciò l’appello all’insurrezione nazionale: il partito comunista si insediò ad Hanoi e proclamò l’indipendenza della Repubblica democratica del Vietnam (1945).
Nei negoziati del marzo 1946, la Francia, che controllava ancora la Cocincina, riconobbe l’indipendenza del Vietnam nell’ambito della Unione francese, aspettando l’occasione per restaurare il dominio coloniale: in giugno dello stesso anno, i francesi formarono un governo guidato dall’imperatore Bao Dai, ultimo regnante della dinastia Nguyen.
Per quasi otto anni (1946-1954), le forze del Viet Minh, guidate dal generale Giap, combatterono una sanguinosa guerriglia, culminata nella battaglia di Dien Bien Phu, in cui i francesi furono definitivamente sconfitti. La conferenza di Ginevra (20 giugno 1954) sancì la fine della colonia francese e divise provvisoriamente il Vietnam in due stati indipendenti, con l’impegno di tenere votazioni generali nel 1956, per riunire il paese sotto un unico governo.
A nord del 17° parallelo si formò la Repubblica democratica del Vietnam, capeggiata da Ho Chi Minh e appoggiata da Urss e Cina; a sud la Repubblica del Vietnam, guidata dal filo-occidentale Ngo Dinh Diem, sotto l’ombrello francese, poi degli Stati Uniti.

Gli sviluppi politici non consentirono lo svolgimento delle elezioni previste dagli accordi di Ginevra. A Saigon, capitale del sud, Diem rovesciò Bao Dai e instaurò un regime autoritario e repressivo, alienandosi l’appoggio di buona parte della popolazione. Gli oppositori del regime (democratici, socialisti, nazionalisti e marxisti) si unirono nel Fronte di liberazione nazionale (Fln), detti «vietcong», per riprendere la guerriglia, con l’appoggio del governo di Hanoi.
Iniziava così la «seconda resistenza» contro i governi militari che si succedettero a Saigon e soprattutto contro gli Stati Uniti, i quali all’inizio foirono armi e consiglieri militari allo stato del sud, poi entrarono direttamente nel confitto (1965), fino a contare 580 mila soldati effettivi. Sul Vietnam furono scaricate più bombe di quelle lanciate in tutta la seconda guerra mondiale e furono sperimentate armi chimiche e batteriologiche.
La lunga e sanguinosa guerra si concluse soltanto nel 1975, col ritiro statunitense e l’occupazione del sud da parte dei vietcong e dell’esercito nordvietnamita: nord e sud furono riuniti nella nuova Repubblica socialista del Vietnam; Saigon, mutò il nome in Ho Chi Minh.

La drammatica situazione ereditata dalla lunga guerra, le crescenti tensioni intee, le politiche attuate dal nuovo regime provocarono esodi di massa: 1 milione e 300 mila persone lasciarono il paese con imbarcazioni di fortuna (i cosiddetti boat people), altri si rifugiarono nei paesi confinanti. Problemi di frontiera con Laos e Cambogia, riaccesero le mire espansionistiche dei comunisti vietnamiti verso i due paesi. Alla fine del 1978 occuparono la Cambogia e vi insediarono un governo filovietnamita.
Le proteste inteazionali provocarono l’isolamento del paese e l’embargo dei paesi occidentali. La lentezza della ricostruzione, la collettivizzazione dell’agricoltura e nazionalizzazione delle imprese aggravarono i problemi sociali ed economici: nel 1986 l’inflazione arrivò al 700%. E riprese l’esodo di circa 800 mila boat people.
Con la salita al potere di dirigenti riformisti e, soprattutto, cessati gli aiuti sovietici in seguito al collasso dell’Urss, il Vietnam ritirò le sue truppe dalla Cambogia (1989) e imboccò la strada delle riforme economiche. Per attirare gli investimenti stranieri, la nuova Costituzione, adottata nel 1992, rinunciava al marxismo-leninismo e riconosceva la proprietà privata.
Tutto ciò ha consentito al paese di uscire dall’isolamento internazionale e ristabilire rapporti diplomatici con molti paesi europei e asiatici, attirando così investimenti stranieri. Dall’inizio del 1994 anche gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico e ristabilito legami diplomatici, permettendo al Vietnam di accedere ai crediti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per ricostruire e sviluppare il paese.
Negli ultimi anni, sull’esempio della Cina, il Vietnam ha aperto i battenti al libero mercato e firmato un importante accordo commerciale anche con gli Stati Uniti, favorendo una forte accelerazione della crescita economica. Tuttavia resta ancora profondo il fossato tra il sud, più sviluppato, e il nord, dove molti milioni di persone vivono con un’agricoltura di sussistenza e il cui sviluppo è ancora condizionato, oltre che da gravi inondazioni, dai drammatici effetti delle armi chimiche usate dagli Stati Uniti durante la guerra.

Nelle città e nelle aree dove è in corso il processo di modeizzazione il regime è costretto a mostrare agli stranieri una faccia più rispettabile, rispetto al passato; ma nelle zone rurali e lontane da occhi indiscreti continua la politica di oppressione.
La Costituzione del Vietnam ribadisce il ruolo unico di guida del Partito comunista, il quale mantiene saldamente il controllo su tutti gli aspetti della società vietnamita. Senza contare che anche l’ordinamento giudiziario, pur essendo basato sul sistema francese, continua a ispirarsi alla dottrina giuridica marxista.
Ma da quando il governo ha adottato il sistema capitalista, nessun comunista crede più all’ideologia comunista, ma solo al potere e al denaro, molto denaro (ma guai a dirlo apertamente!). Tale ideologia, ormai, è diventata la «foglia di fico» per opprimere e seminare terrore, sfruttare il popolo e, soprattutto, per coprire la piaga di una corruzione dilagante, mai vista in tutta la storia del Vietnam.
B.B.

Benedetto Bellesi




Intervista al vescovo mons. Macram Gassis

Sudan: la chiesa tra i nuba
40 ANNI DI CROCIFISSIONE

Nel gennaio scorso è stato firmato un accordo di pace per il sud Sudan, che suscita molte perplessità, anche perché il Darfur non è compreso nell’accordo.
Si spera, comunque, che l’accordo possa portare buoni frutti.


Il 31 ottobre 2004 mons. Macram Gassis, vescovo di El Obeid (Sudan) ha benedetto il restauro della chiesa di San Rocco «simbolo di pace» a Rivoli (TO). Gli abbiamo rivolto alcune domande sulla situazione della sua gente e un messaggio per i cristiani della vecchia Europa.

Eccellenza, come gruppo Bakhita-Follereau, la conosciamo dal 1994; attraverso le sue testimonianze e lettere partecipiamo alle sofferenze della sua gente, cercando di offrire concreti gesti di solidarietà. Può dirci com’è diventato missionario comboniano e poi vescovo di El Obeid?

Fu il vescovo di Khartoum, mons. Agostino Guaroni, italiano di Bologna, a incoraggiarmi perché diventassi comboniano. Nel 1955, partii per l’Inghilterra, feci il noviziato e gli studi di filosofia presso i comboniani. Nel 1960 mi fu concessa una breve vacanza e, dopo cinque anni, potei riabbracciare la mia famiglia a Khartoum, mio luogo di nascita.
Frequentai, poi, i corsi di teologia in Italia, a Venegono e Verona, e fui ordinato prete nel 1964, proprio a Verona alla vigilia della festa dei Santi Pietro e Paolo dal card. Gregorio Pietro Aghagianian, prefetto di Propaganda fide. Il giorno della festa dell’Assunta feci l’ingresso nella cattedrale di Khartoum: ero il primo e unico sacerdote religioso della diocesi di Khartoum. Attualmente in Sudan ci sono 12 vescovi, di cui 10 sudanesi, ma io sono l’unico vescovo del nord Sudan, di madre lingua araba e cresciuto in ambiente islamico. Riesco, perciò, a leggere tra le righe i discorsi del governo.
Provengo da una famiglia cristiana o meglio ecumenica: mio padre era cattolico, mia madre protestante ed i nonni matei ortodossi copti. Dal 1964 al 1979 prestai il mio ministero nella diocesi di Khartoum, prima come vice parroco e poi come parroco per aprire nuove parrocchie. Inoltre, poiché potevo dialogare con il governo, ebbi molti incarichi a livello diocesano (cancelliere, incaricato delle scuole cattoliche, cappellano dell’Associazione san Vincenzo de Paoli).
Nel 1984 fui nominato amministratore apostolico della diocesi di El Obeid, allora vacante, e nel 1988 vescovo della stessa. È così iniziata la mia via crucis. Portai, infatti, sacerdoti e suore di varie congregazioni (Maryknoll, Comboniani, Aposteles of Jesus, suore di Madre Teresa di Calcutta), ma a tutti non fu permesso di restare nel paese.
Nel 1990 lasciai la diocesi per motivi di salute; poi mi fu consigliato di non rientrare perché molto pericoloso. Avevo, infatti, denunciato apertamente le ingiustizie contro la mia gente. Come già dissi nella mia visita a Torino del giugno 1994, il 4 gennaio di quell’anno ero tornato in Sudan e potei visitare 4 diocesi del sud Sudan ma non la mia. Incontrai, però, una delegazione di circa 100 cristiani della mia diocesi che dai Monti Nuba aveva camminato per 70 giorni a piedi per potersi incontrare con me. Fu un incontro davvero ricco di emozioni.

Quali sono le cause della guerra che dal 1984 ha dilaniato i Monti Nuba? Quante sono state le vittime? È possibile descrivere la sofferenza dei cristiani?

La guerra è stata causata dalle ingiustizie inflitte dal governo. A dir la verità non l’ho mai chiamato governo ma «regime di Khartoum». I Monti Nuba sono sempre stati considerati popolati da negri e per questo si è cercato di arabizzarli, confiscando le 750 scuole private costruite dai missionari cattolici e protestanti.
L’espulsione dei missionari ha esacerbato l’anima della gente che ha visto, nel 1963, i loro pastori caricati sui camion come pecore da macello. Ha visto bruciare 161 chiese cattoliche e protestanti sui Monti Nuba. Quando c’è troppa oppressione e ingiustizia la situazione scoppia. Tutti i posti di potere sono sempre stati occupati dalla gente del nord, sia nel governo che nell’esercito. Alla gente del sud erano riservati ruoli subaltei. Le scuole ormai si erano trasformate in agenzie di arabizzazione e islamizzazione forzata. La gente si è ribellata.
È scoppiata la guerra civile, sfociata nel genocidio dei Nuba. Infatti, la parola genocidio è appropriata quando si vuole privare un popolo delle sue tradizioni, lingua e cultura. La questione del petrolio è venuta dopo. Abbiamo contato circa 2 milioni e mezzo di morti e 5 milioni di rifugiati.

Che cosa ha fatto la chiesa del Sudan e lei in particolare in questo periodo di guerra?

La chiesa ha portato la causa dei Monti Nuba davanti alla comunità internazionale, e io ne sono divenuto il portavoce. Per cinque anni ho presentato la causa dei Monti Nuba nei miei discorsi alla Commissione dei diritti umani di Ginevra. Sono diventato la voce della mia gente davanti al governo italiano, britannico, tedesco, svizzero, canadese e statunitense. Ho parlato apertamente dell’olocausto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, Mary Robinson, Madelein Albright, Colin Powell, Butrous Ghali, al Congresso e al Senato americano.
Adesso il nome dei Monti Nuba è conosciuto. Il senatore americano John Danforth, nominato Presidential Envoy, ci ha visitati con la sua delegazione; abbiamo discusso sulle possibilità per arrivare al cessate il fuoco, che tuttora continua anche se ci sono ancora gravi incidenti commessi dalle forze armate di Khartoum. La chiesa per tutto il periodo dell’isolamento è stata ancora la speranza del popolo nubano.
Nel 1995 sono riuscito a portare due sacerdoti e un fratello religioso sui Monti Nuba; in seguito, altri sacerdoti hanno condiviso con la gente bombardamenti e devastazioni. Anch’io con grave rischio ho ripreso a visitare la mia gente per natale e pasqua. Malgrado tutto la chiesa è stata accanto alla gente come segno di speranza.

Può, con poche parole, definire la tragedia del Darfur?

Nel Darfur, che è parte della mia diocesi, si sta ripetendo quanto è successo sui Monti Nuba, cioè il genocidio di un popolo per la forzata arabizzazione e islamizzazione. L’unica differenza è l’interesse mostrato dai mass media. Molti nuba rifugiatisi nel Darfur, adesso, rientrano a casa e la chiesa cerca di aiutarli in questo reinsediamento, con appropriati micro-progetti.

Dopo il cessate il fuoco, stipulato nel 2002, e i colloqui di pace tra governo e Spla (Sudan People’s Liberation Army) terminati nel maggio 2004, quali sviluppi ha avuto e avrà la diocesi di El Obeid?

I catechisti sono sempre stati la «spina dorsale» della chiesa sui Monti Nuba: hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Adesso stiamo, però, facendo aggioamenti e formazione, perché qualche catechista si riteneva diacono o addirittura sacerdote.
Dal 1995 ci sono sempre stati sacerdoti africani sui Monti Nuba nelle zone rurali, con grande rischio e pericolo, perché i grandi centri erano controllati dalle forze governative. Avevamo riaperto la parrocchia di Kauda, ripetutamente bombardata, e di Gidel. Ora è stata riaperta anche la parrocchia di Lumon, che ci ha dato parecchie vocazioni.
Abbiamo tre seminaristi che dovrebbero iniziare i corsi di filosofia a Khartoum. Ci sono sei sacerdoti e presto dovrebbero arrivae altri quattro. Abbiamo anche una quindicina di suore (Comboniane, Preziosissimo Sangue, Madre Teresa di Calcutta), che si occupano dell’istruzione e della promozione della donna, seguono i corsi di formazione e le cornoperative.
I catechisti sono circa 100 e le comunità cristiane con chiesa cappella una cinquantina. Abbiamo scuole elementari, ma procederemo con la costruzione di scuole superiori e tecniche. Abbiamo scavato 150 pozzi, portando acqua a molti villaggi. Stiamo costruendo un ospedale.
Abbiamo chiesto al card. Sepe di sollecitare le congregazioni missionarie a venire sui Monti Nuba, ora è possibile. I nostri sacerdoti sono giovani, ancora traumatizzati dalla guerra, e hanno bisogno di un sostegno morale, psicologico e di buoni esempi per ricostruire la chiesa su basi solide. I cattolici sui Monti Nuba sono ormai 100 mila. La nostra chiesa è una chiesa martire, che dona alle chiese d’Occidente i frutti del suo martirio.

Quale messaggio desidera inviare ai cristiani della vecchia Europa?

Viviamo in un mondo pieno di inganni, menzogne e falsità, permeato da secolarismo e indifferenza. Uomini e donne che vivono la verità sono crocifissi. Non abbiate paura di dichiarare che siete cristiani. Non dimenticate le vostre radici e tradizioni. Cristo era, è e sarà. Chi vive senza Dio non può portare la pace.
In Sudan essere cristiano vuol dire accettare la sofferenza. In Italia si dice che l’Europa è una chiesa che dona e l’Africa è una chiesa che riceve. Ed è vero. Ma anche la chiesa del Sudan è una chiesa che dona e la chiesa d’Europa è una chiesa che riceve. Noi doniamo la nostra sofferenza, il martirio dei nostri giovani, le lacrime delle nostre vedove, la schiavitù dei nostri bambini. Un dono grande di conciliazione alla chiesa universale perché siamo sulla croce di Cristo.
Pregate per il Darfur dove stanno sterminando cristiani e musulmani neri, perché ritenuti di seconda categoria. Dicono che è una guerra santa, ma non esiste una guerra santa! Dio non vuole la guerra.
Solo con un’adeguata conoscenza è possibile il dialogo. L’Europa si dimostra superficiale nel dare, dare senza adeguata conoscenza e preparazione. Non svendete i vostri valori e le vostre tradizioni. State giocando con il fuoco. Anch’io ho fatto pozzi, scuole e l’ospedale per cristiani e musulmani ed ho iniziato un autentico dialogo di pace.
Ricordate cosa disse il santo padre all’apertura della moschea di Roma: chiedete sempre la reciprocità.


Silvana Bottignole




Dalla parte degli esclusi

A mezzogiorno le strade di Camaçari sono ancora deserte. La gente sta sbadigliando tra le lenzuola, mentre qualche netturbino toglie dal marciapiede i resti dei fuochi accesi davanti alle abitazioni durante la notte di follie. È la festa di São João. A fine giugno tutto il popolo di Bahia perde la testa.
Importata dai portoghesi, originariamente mescolava il culto dei santi cattolici con quello della dea delle coltivazioni Feronia, cara ai Romani. Ma adesso è completamente diventata bahiana: un’occasione per scatenarsi con il ballo del forró e sparare tutta la notte mortaretti e fuochi d’artificio.
Un uomo apre lentamente il suo chiosco di dolciumi, ha ancora la testa stordita da tutta la birra bevuta. Dal negozio di pompe funebri, con le porte spalancate sulla via, esce il canto di una radiolina. Una fuoriserie fiammeggiante supera svogliata un uomo a cavallo e nell’aria, all’ora di pranzo, l’unica cosa che vibra è la voce roboante del predicatore della «chiesa universale», una delle tante congregazioni d’affari spirituali, sorte negli ultimi decenni ad opera di sedicenti vescovi ricchi e potenti, con l’appoggio, si dice, degli americani, per contrastare la forza sociale della chiesa cattolica brasiliana.
Il predicatore per tutta la notte si è sgolato contro il diabolico forró, che trascina i giovani sulla cattiva strada dei mille peccati, consumati nel grande spettacolo musicale, offerto dal sindaco che, per farsi rieleggere, «ha stipulato un patto con il popolo e con la verità», come si legge sul cartellone pubblicitario.

M a la città non è solo festa. Qui funziona un grande polo petrolchimico e la Ford ci ha costruito uno stabilimento. Tra le ciminiere fumanti svetta anche l’insegna della Monsanto, l’azienda americana di prodotti per l’agricoltura, redarguita dal governo italiano per aver importato illegalmente partite di semi di soia geneticamente modificati.
A prima vista, Camaçari si direbbe una cittadina sviluppata, per via delle industrie; invece solo pochi raggiungono un salario minimo e sono i tecnici altamente specializzati; per tutti gli altri, la manovalanza, lo stipendio è misero a fronte, per di più, di un lavoro pericoloso, logorante e non protetto dai sindacati.
Si viene a creare dunque una situazione di estrema disuguaglianza. Le imprese moltiplicano i loro guadagni mentre un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, minacciata dalla disoccupazione, e il rischio della perdita di dignità, come persone e come cittadini, perpetua lo sfruttamento che fa del Nord-Est una delle regioni più arretrate del paese.
In questa difficile situazione socio-economica, i più colpiti sono i bambini. Non solo perché più esposti alle malattie respiratorie, provocate dall’inquinamento delle industrie chimiche, ma soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, vivono soli accanto alla madre, talvolta con un padre adottivo, che declina le proprie responsabilità di educatore.
Tale stato permanente di instabilità mina gli stessi rapporti umani, a volte inquinati da violenza e alcol, e spinge sempre più persone verso gli strati più bassi della società.
Q uando don Paolo arrivò a Camaçari si mise subito a lavorare con gli esclusi, come aveva fatto a Saõ Salvador, dove aveva difeso dalla prepotenza di politici e poliziotti il diritto alla casa di tante famiglie costrette a invadere terreni su cui costruire abitazioni fatiscenti.
Nei suoi 30 anni brasiliani, la pastorale di don Paolo è stata sempre rivolta a quelli che non hanno voce, quelli che si devono accontentare delle briciole, che tuttavia incarnano una protesta non-violenta, una innata rivendicazione affinché la storia umana possa voltare pagina.
Oggi il «fischietto», ossia Apito, l’associazione a lui dedicata, è una colorata scuola matea, un ambiente pedagogico creativo e mirato alla formazione dei bambini in sintonia con i loro genitori, ed è inoltre un progetto di accompagnamento di famiglie bisognose, non solo di beni materiali, ma anche di una nuova coscienza.
Le 50 donne volontarie che fanno parte del progetto si riuniscono frequentemente per organizzare visite a domicilio, monitorare i casi d’indigenza e realizzare attività manuali e artistiche che coinvolgono le famiglie nella ricerca di una più forte autostima e di una piena consapevolezza dei propri diritti politici e umani.
Applicarsi nella produzione di medicine alternative o di cibi naturali sfruttando la saggezza popolare diventa un mezzo efficace per far emergere capacità che la miseria e l’ignoranza tendono a oscurare.
La fantasia e la calda solidarietà di queste volontarie sono i veri strumenti civili per far alzare la testa a chi l’ha sempre tenuta tra le ginocchia. Tra di loro si avverte sempre un clima giornioso, perché nessuno giudica l’altro, perché si è allegri con semplicità, si va dritti al centro delle emozioni accettando quello che viene oggi.

Intanto il giorno si è fatto caldo. Mezzogiorno è passato e il fumo dei fuochi ormai si è del tutto diradato, sebbene in lontananza si senta qualche piccola esplosione.
In mezzo al traffico un ragazzo spinge un carretto pieno di cappelli di paglia che nasconde uno stereo e scuote la testa al ritmo della musica distorta che buca le casse.
Sembra che all’improvviso debba accadere qualcosa di sconvolgente. Alcuni dicono che non succederà mai nulla. Altri hanno speranza.

BOX 1

Trenta anni nella Bahia

Paolo Maria Tonucci nacque a Fano il 4 maggio 1939. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1962. Ottenuto il permesso di partire come missionario, arrivò in Brasile alla fine del 1965 e fu destinato alla parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella città di São Salvador de Bahia. Vi lavorò per 15 anni insieme ad altri sacerdoti, per lo più provenienti dalla diocesi di Firenze.
Nella distribuzione delle responsabilità, don Paolo si dedicò soprattutto al quartiere di Fazenda Grande, dove stabilì la propria residenza, in una stanza dietro la cappella. Qui istituì la scuola professionale Primero de mayo, per la formazione di giovani tecnici e l’alfabetizzazione degli adulti. Fu tra i fondatori e poi il responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace, per lo studio delle situazioni di ingiustizia e la difesa dei diritti umani.

Nel 1981, don Paolo lasciò la città di Salvador e si trasferì a 40 chilometri di distanza, nella cittadina di Camaçari, divenendone parroco. Con lo scopo di essere più vicino al popolo, per due volte don Paolo chiese la cittadinanza brasiliana, prima durante la dittatura militare (1964-1985), poi in tempo di democrazia. Gli fu sempre negata «per indegnità», in quanto negli archivi della polizia erano segnalati i suoi interventi in difesa dei senzatetto, proditoriamente sloggiati dalle loro baracche proprio dalle forze dell’ordine.
Il 19 ottobre 1992 il comune di Fano gli assegnò il premio «Fortuna d’oro», con la seguente motivazione: «Al missionario Paolo Maria Tonucci, per la sua attività umanitaria e spirituale a favore delle popolazioni povere del lontano Brasile e per aver saputo coraggiosamente lottare contro gli ostacoli e le incomprensioni di una dittatura militare».
Nell’agosto 1993 gli fu diagnosticato un tumore al cervello. A nulla valsero gli immediati ricoveri in Italia. Morì il 9 ottobre 1994 e fu sepolto a Fano.

Esattamente 10 anni dopo, contemporaneamente a Camaçari e a Fano, si sono svolte manifestazioni e incontri per commemorare il suo impegno di testimone del vangelo nel rispetto pieno della dignità umana.
Per l’ardore con cui lottò fino agli ultimi giorni a fianco dei diseredati, don Paolo è rimasto per sempre nei cuori dei brasiliani e di quanti, in Italia, lo hanno conosciuto. Coloro che hanno collaborato e vissuto con lui hanno dato continuità alla sua opera, costituendo due associazioni a lui intitolate in patria e in Brasile.
In Italia, il 5 dicembre 1996, fu costituita l’Associazione «Centro scuola don Paolo Tonucci» Onlus, con lo scopo di sostenere iniziative di promozione cristiana, umana e sociale delle persone più svantaggiate di Camaçari.
A Camaçari è nata l’Associazione Paolo Tonucci «Apito» (in brasiliano significa fischietto), che ha attivato diversi programmi sociali:
Fami-Apito si occupa delle circa 260 famiglie bisognose.
Centro-Apito attua programmi di educazione per l’infanzia, di cui usufruiscono 140 bambini dai 3 ai 6 anni.
Eco-Apito ha programmi di complemento scolastico per 120 ragazzi da 7 a 12 anni.
Arte-Apito è un biennio professionale per circa 80 giovani sopra i 14 anni.


Paolo Brunacci




LETTERE – Ma perché Cristo ha fatto seccare il fico?

Botta e risposta tra un lettore
e il nostro collaboratore don Paolo Farinella.

D i solito non contesto il contenuto degli articoli giornalistici, ma ora lo faccio, perché ho avuto la netta sensazione che la verità sia stata travisata. Si tratta dell’articolo «Perché il dolore e la morte?» di Paolo Farinella (Missioni Consolata, febbraio 2005).
«Dio non vuole né permette alcuna disgrazia». Questa frase non ha fondamento nelle sacre scritture! Il Vecchio Testamento è ricco di episodi che rivelano che Dio è intervenuto in maniera forte nei confronti dell’uomo. E nel Nuovo Testamento possiamo ricordare che Cristo fa seccare il fico che non dà frutti fuori stagione, poi c’è la parabola dei talenti, quella delle vergini sagge, il giudizio universale, ecc. Non ci è lecito inventare un Dio che non esiste.
Dio permette le disgrazie, non per vendetta, ma perché l’uomo rinsavisca e salvi la sua anima! Quindi anche in questo manifesta la sua bontà. A proposito dei bambini, non possiamo ragionare come i non credenti: la Perfetta Giustizia, i cui confini ci sono ignoti, li ricompenserà in modo sovrabbondante della sofferenza, sorretta e lenita dalla sua misericordia.
Nessuno si può permettere di giudicarLo. Domina gli eventi: dal vangelo ricordiamo la tempesta sedata, l’invito a pregare perché «non accada in inverno», l’affermazione che i «capelli sono contati» ecc.
Che dire di quanto è avvenuto a Vailankanni (India), nuova Lourdes, dove il mare si è fermato all’ingresso del santuario, come riferisce Avvenire e Eco di Medjugorje, dopo aver spazzato via ogni cosa? In questo caso il messaggio mi sembra chiaro: in Maria c’è la salvezza, soprattutto quella spirituale! «Dio è già là che aspetta, perché nessuno in quei tragici momenti si senta solo». Questa frase trova riscontro nel vangelo: basta pensare alla parabola del figliuol prodigo, dove il Padre lascia che il figlio cada nel «letame» che si è scelto, ma è anche pronto ad accoglierlo, senza rimproverargli nulla quando rinsavisce.
«In un tempo in cui attraverso i satelliti si riesce a individuare una formica nera su una pietra nera in una notte senza luna». La frase è completamente infondata. Questa presunta onnipotenza dell’uomo non esiste: in caso contrario Ben Laden sarebbe già stato catturato e la guerra irachena finita!
Maremoti, terremoti ed eruzioni vulcaniche non possono essere collegati alla gestione disordinata del nostro ecosistema, perché non si spiegherebbe l’eruzione del 79 d.C. o il maremoto che ha colpito Messina nel 1908. L’ipotesi che le catastrofi naturali possano essere causate dai nostri peccati, potrebbe essere plausibile, ma indimostrabile, perché l’intera umanità dovrebbe vivere per lunghi periodi senza peccare.
E veniamo alle affermazioni che riguardano il capo del governo: se ragionasse come l’autore dell’articolo vorrebbe, sarebbe riuscito a occupare l’attuale posizione? Per i suoi interessi riesce a sfruttare bene i nostri egoismi!
Due lettere della direzione offrono spunti di riflessione sugli armamenti e le fabbriche d’armi. La proposta di riconversione è un ritornello datato e affonda le sue radici nella propaganda politica degli anni sessanta e non è attuabile. Io penso che il cristiano non debba dare indicazioni su come si devono comportare gli altri, ma cercare le vie da seguire in conformità al messaggio evangelico.
E allora? I cattolici potrebbero dare un segnale molto forte. Ogni reddito scaturisce dal Pil. Quindi anche chi non lavora nell’industria bellica o chi non vi ha investito dei capitali, gode dei suoi frutti. Se calcoliamo in che percentuale l’industria bellica contribuisce alla formazione del reddito, conosciamo il suo apporto al nostro benessere.
Coscienti che quella ricchezza gronda sangue e sofferenze umane, potremmo offrirla in dono a quei popoli che subiscono la guerra a parziale riparazione.

Mario Rondina – PU

Signor Mario, di fronte alla sua lettera, mi sento in dovere di tentare una risposta, anche se penso che sia molto difficile, perché le sue argomentazioni spazzano via quattro secoli di studi e ricerche bibliche, come anche l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano ii, e cioè: che la Provvidenza non si sostituisce affatto all’autonomia delle realtà terrestri e alla responsabilità dell’uomo.
Lei ha ancora un approccio scritturistico di tipo «fondamentalista» o, per dirla con san Paolo, di natura «letterale».
Sono l’autore dell’articolo criticato e affermo quello che ho scritto da 30 anni e mai nessuno ne ha contestato la fondatezza sia biblica che teologica, perché l’impostazione del problema e la risposta sono coerenti: sfido chiunque a trovarvi qualcosa di «eterodosso». Se usiamo il sistema del «taglia-ritaglia-e-cuci», tutto è possibile, anche il suo contrario. A me pare che lei sia stato attento a «singole» affermazioni che, facendo problema alle sue personali convinzioni e tolte fuori dal loro contesto, dicono assolutamente nulla o fanno dire sciocchezze che mai sono passate per la mia mente.
Rispetto tutti gli approcci di natura religiosa, perché sono convinto che per arrivare a Dio vi siano tante strade quante sono le persone; ma non può pretendere di leggere «la scrittura» senza tenere conto degli studi e degli sviluppi degli ultimi quattro secoli, che oggi sono insegnamento comune in tutte le università cattoliche, comprese quelle pontificie (tranne qualcuna che, fraintendendo il significato di «tradizione», contesta tutto ciò che viene dopo il Concilio Vaticano ii).
Mi riferisco a Lefèvre e altri suoi seguaci, che vedono Dio come «giustizia» e mai come «misericordia». Noi attribuiamo a Dio un concetto di «giustizia modea», che non ha alcuna cittadinanza nella Bibbia, e dimentichiamo che in Dio il nuovo nome della giustizia è «misericordia» o, per dirla con la stessa Bibbia, «tenerezza» o, meglio, «fremito di viscere» (Sal 51/50).
Lei, signor Mario, ha un concetto «materialista» di Dio, di stampo cartesiano, e, inconsciamente, se lo immagina come un orologiaio che passa il tempo a sistemare meccanismi, ad aggiustare il tiro per tenere a bada tutta quell’umanità ribelle che non sta in riga. A me pare che lei abbia trasferito alla Bibbia l’idea di Dio che lei si è fatto nell’arco della sua formazione.
Per dare una risposta adeguata alle difficoltà che lei pensa di avere trovato nel mio articolo, dovrei scrivere un intero corso non solo di sacra scrittura, ma anche di teologia e di storia della teologia. Non è possibile. Penso che nella sua città non mancheranno occasioni di approfondimento. Posso solo garantirle che credo fermamente nella Provvidenza e proprio questa fede fonda la certezza che Dio è Padre e, come Padre, non può volere il male o la sofferenza per i suoi figli; ma quando questi accadono, perché sono intrecciati alla vita, Dio è già lì.
Questo è il succo dell’Antico e del Nuovo Testamento, al di là delle singole frasi che possono anche fare di Dio un assassino o un guerrafondaio o un sadico o un violento senza scusa o un cecchino che si diverte al tiro al bersaglio.
La Bibbia è parola di Dio scritta con parole umane (legga la Dei Verbum del Concilio Vaticano ii, che è vincolante per ogni cattolico); e gli agiografi scrivono con le conoscenze che hanno del loro tempo, i limiti propri e i propri sentimenti. Bisogna sapere distinguere questi livelli; ed è per questo che ho dedicato tutta la mia vita allo studio esclusivo della parola di Dio.
Il suo approccio sentimentale merita rispetto, ma lei non può pretendere che sia l’unico e il solo possibile; anzi le garantisco che non fa giustizia né a Dio né alla sua parola, perché lei facilmente corre il rischio di fare confusione tra rivelazione, che è vincolante per ogni credente, e tradizioncelle, anche dignitose, che sono e restano soltanto nell’ambito delle devozioni private, libere e non impegnative come le apparizioni della Madonna (comprese quelle di Fatima e Lourdes, riconosciute dalla chiesa, ma non imposte e non vincolanti per i credenti).
Lei fa riferimento ad una apparizione ancora sub iudice, come quella di Medjugorje (forse non sa che ai preti è proibito organizzare pellegrinaggi a quel santuario?), che non vuole assolutamente dire nulla. Dell’altra, in India, che ferma l’acqua davanti alla sua cappella e lascia che l’acqua distrugga le case della povera gente, beh, è meglio non parlarne, perché ritengo che la Madonna sia persona seria. Un cattolico che non crede alle apparizioni della Vergine non è meno cattolico di chi invece vi crede: questa è dottrina ufficiale della chiesa.
Lei contesta affermazioni che non sarebbero nella sacra scrittura e poi intende provare le sue affermazioni con le apparizioni della Madonna e, per giunta, con quelle che nemmeno la Chiesa ha riconosciuto né intende riconoscere. Strano modo di affrontare problemi gravi e solenni che toccano l’umanità, come il dolore e la sofferenza, che non sono armi con cui Dio ricatta l’umanità.
Questo Dio, caro signor Mario, è morto con Gesù Cristo, che appunto si è limitato a fare seccare un fico, per altro già secco, senza fare danni ad alcuno se non allo stupore dei discepoli.

Mario Rondina




LETTERE – Per Aldo era tutto interessante

Per Aldo era tutto interessante

Cari missionari,
il 4 gennaio 2005 è morto mio marito, dottor Aldo Casarotto, di 92 anni. Perché ve lo scrivo? Perché, quando arrivava la rivista Missioni Consolata, egli si sedeva e cominciava a leggerla dalla prima pagina all’ultima; per lui era tutto interessante; tuttavia su alcuni dossier si fermava più volte e voleva che li leggessi anch’io, per dargli conferma o meno della sua opinione in merito.
Ebbene, cari missionari, tutte le volte che arriverà Missioni Consolata, mi si rinnoverà il dolore pensando a mio marito, ma non potrò fare a meno di seguire l’esempio suo e, magari, mettere la rivista da parte per rileggerla più avanti con più attenzione come faceva lui.
Vi chiedo una preghiera per lui ed anche per me: soffro molto per la sua dipartita, anche se so che il suo spirito è vivo.
Grazie delle moltissime e belle ore che la rivista ha fatto trascorrere a mio marito, che tanto l’apprezzava. Porgo distinti saluti.

Ersilia Confalonieri, vedova Casarotto,
Seregno (MI)

Lettera bellissima, per lo spirito di apertura del carissimo dottor Aldo. Nell’affermare che tutta la rivista era interessante, con ogni probabilità non significa che sia stato interamente d’accordo con i temi trattati. Tuttavia era «semper paratus doceri», ossia sempre pronto ad imparare, a confrontarsi con nuove realtà: e non solo per giudicarle negativamente, anzi!
Signora Ersilia, grazie di averci trasmesso questo incomparabile insegnamento di suo marito.

Ersilia Confalonieri




LETTERE – Povero Tagikistan!

Cari missionari,
tempo fa, dopo aver letto Missioni Consolata di aprile 2004 sul Tagikistan, mi era venuto un dubbio: forse, nel descrivere la crisi della piccola repubblica ex-sovietica (in particolare nel dire che negli anni del comunismo le cose andavano meglio), Maria Bianca Balestra aveva esagerato.
Invece, qualche mese dopo, guardando un filmato di Rai Uno per la rubrica Superquark e, soprattutto, ascoltando la drammatica testimonianza di Donata Lodi, cornordinatrice di Unicef Italia, mi sono resa conto che non solo il mio dubbio era privo di fondamento, ma che la situazione è ancora più tragica di quella denunciata dalla vostra collaboratrice.
1 – La mortalità infantile è altissima, solo di poco inferiore a quella dei paesi africani più disastrati.
2 – In un paese pieno di nevi e ghiacci perenni, dove le montagne superano i 7 mila metri di altezza e ospitano ghiacciai come il Fedcenko (tra i più estesi del mondo), una delle emergenze più grandi è quella dell’acqua potabile, che non c’è, anche se assicurarla a tutti costerebbe pochissimo. Se è vero quanto ha dichiarato Donata Lodi, la sera in cui è stata ospite di Piero Angela, 72 mila euro sarebbero sufficienti a garantire acqua di ottima qualità a 98 mila bambini, scongiurando il rischio di dissenteria, che, come ha ricordato anche Bianca Maria Balestra, è la principale causa di morte al di sotto dei 5 anni di età….
3 – Le aree rurali sono ancora più povere di quelle urbane, tanto che perfino l’esercizio di una professione di medico procura non più di 2 dollari al mese (Donata Lodi ha detto proprio così: «Due dollari al mese»); pertanto anche i medici si vedono costretti ad accettare lavori di ripiego.
L’estrema povertà della popolazione tagika è l’ennesima conferma del fatto che il prodotto interno lordo (pil) non è un indicatore affidabile del grado di sviluppo raggiunto da una nazione e del livello di benessere della sua popolazione. Se si può prestar fede a certi dati statistici, nel 2000 il Tagikistan ha avuto un incremento del pil superiore all’8%, ma ciò non è servito a ridurre le sofferenze della stragrande maggioranza dei tagiki; anzi, l’impressione è che abbia contribuito ad aumentarle.

Stefania De Tigris
Urbino

Lettera volutamente monca. Manca la domanda: «Che c’è che non va in Tagikistan?»; e la risposta?
L’autrice dell’articolo sul Tagikistan, Bianaca Maria Balestra, chiama in causa (guarda caso) la guerra, mentre Stefania de Tigris allude alla pessima distribuzione dei proventi economici.

Stefania de Tigris




LETTERE – La bibbia sbaglia?

Cari missionari,
sono una vecchietta e, fin da bambina, leggo la vostra rivista, che un tempo aveva solo quattro paginette in bianco e nero e raccoglieva soldi per «battezzare i moretti».
Mi rivolgo a Paolo Farinella, che invita a farlo. Non ho mai letto la Bibbia, ma sono stata allevata da un nonno che la conosceva bene; la citava ogni giorno e spesso me ne leggeva pagine e pagine. Quando voleva insegnarmi l’orrore della bestemmia, mi leggeva un brano che diceva: «Che si secchi la mia lingua, che si paralizzi la mia mano destra se io offenderò Dio con la parola».
Non avevo più pensato a questo, ma da due anni il problema mi ronza nella mente, perché mio marito è stato colpito da un ictus devastante, che lo ha lasciato senza parola e paralizzato nella parte destra. Oggi sono anche la sua badante-infermiera e ho scarse possibilità di contatti veri estei.
Siamo sposati da 50 anni e posso garantire che non ho mai (nemmeno una volta) sentito mio marito nominare il nome di Dio invano. Pertanto le maledizioni bibliche, riportate sopra, non lo dovrebbero riguardare; però vorrei che qualcuno mi spiegasse questo… «svarione biblico». Non posso rivolgermi a mio nonno, morto mezzo secolo fa, convinto che anche le virgole della Bibbia fossero verità assoluta.
Complimenti per la rivista, che è sempre molto interessante.

Maria Pozzo
Torino

Cara signora Maria, lei abita a pochi passi da casa nostra. E noi desideriamo esserle ancora più vicini con la preghiera.
Con molto coraggio e altrettanta semplicità, lei solleva un problema cruciale: come interpretare la Bibbia, specialmente nella sofferenza? Il biblista don Farinella le ha già un po’ risposto con l’articolo «Perché il dolore e la morte?» (cfr. Missioni Consolata, febbraio 2005). Inoltre veda l’intervento nella pagina seguente.
Noi, sommessamente, la invitiamo a ricordare:
1. All’interrogativo «perché il dolore dell’uomo?», Dio ci risponde con il suo Figlio crocifisso, ma anche risorto.
2. La Bibbia non è da assumere in senso letteralistico: ossia parola per parola. Questo sconfina nel fondamentalismo religioso, che porta ad una forma di suicidio del pensiero (cfr. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993).

Maria Pozzo




LETTERE – L’ambiente in dodici comandamenti

Spettabile redazione
ho letto le interviste di Paolo Moiola a Serge Latouche «Schiavi del mercato e delle sue leggi» (Missioni Consolata, gennaio 2005) e a Wolfgang Sachs «Né giustizia né pace senza ecologia» (Missioni Consolata, febbraio 2005).
Condivido le opinioni delle personalità intervistate e, a conferma, invio un «dodecalogo dell’ambiente», che scrissi nel 1990. Recentemente sovrapposi un logo, tratto da Le Monde, 6-08-2003, che mi è sembrato molto pertinente al tema trattato.
Leggo sempre con interesse Missioni Consolata e mi congratulo per l’umanità e la spiritualità negli argomenti trattati.

prof. Bruno Fassi
San Mauro (TO)

Complimenti, professore, per il suo «dodecalogo dell’ambiente». Non potendolo pubblicare interamente, ne riportiamo la conclusione.
«Una politica territoriale di tutela dell’ambiente è una politica della vita per tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo, avendo presente che: “Non ci sarà pace definitiva né coesistenza vera tra l’uomo e la natura finché l’economismo (non l’economia!) non rinuncerà al dogma assurdo della crescita infinita in un mondo finito (Philippe Lebreton, 1986)”».

Bruno Fassi




LETTERE – “Jihad è sforzo, non guerra santa”

Spettabile redazione,
ho letto l’articolo di Angela Lano sull’islam, dedicato al jihad. Mi ha lasciato molti dubbi, sui quali desidero un chiarimento. Premetto che nei confronti dei musulmani, almeno per quei pochi che conosco, provo rispetto e per certi aspetti anche ammirazione.
L’articolo cui mi riferisco parla molto di pace, perdono, tolleranza e rispetto, anche nei confronti di altre religioni. Parla di come, nel Corano, questi atteggiamenti siano «fondamentali» per un musulmano. Ma dai mass media ci arrivano notizie molto diverse. Per esempio: come nei paesi islamici ci siano esecuzioni o mutilazioni pubbliche, anche per piccoli reati; come siano poco tolleranti con chi non rispetta tutti i precetti. Inoltre chi si converte ad un’altra religione deve nascondere la propria fede per paura di essere ucciso (se ricordo bene, ne ha parlato anche Missioni Consolata).
Forse queste sono solo «voci». Però sono in profonda contraddizione con il messaggio trasmesso dall’articolista. Ho l’impressione che l’islam si divida tra una parte «ideologica» e una reale. Vi sarei grato se mi deste una risposta in proposito.
Grazie da un lettore a voi affezionato.
Villa Alberto
Rovereto (TN)

Il lettore si riferisce a «Sulla via di Allah» di Missioni Consolata, settembre 2004. L’articolo ricorda che «jihad» significa «sforzo», non guerra, né, tanto meno, «guerra santa», anche se non la esclude.
Come altri significativi testi di grandi religioni, il Corano è vissuto dai credenti in modo contrastante ed opposto: sulla via dell’odio e su quella dell’amore. Ma, su questo ed altro, interverrà presto Angela Lano.

Alberto Villa




LETTERE – La religiosità di George W. Bush

Spettabile redazione,
leggo sempre con attenzione Missioni Consolata, perché parla di temi importanti, con un’ottica spesso controcorrente rispetto ai nostri mass media.
In riferimento all’articolo di Paolo Moiola (Missioni Consolata, dicembre 2004), sono in sintonia con lui su gran parte di quanto ha scritto, ma rilevo alcuni punti di disaccordo. Convengo su welfare degli Stati Uniti, povertà e disuguaglianze sociali esistenti nel paese più ricco del mondo: dati che a noi, in Italia, sono poco conosciuti, ma ben evidenziati da riviste inteazionali come Time o Newsweek.
Sono, però, in disaccordo per quanto ha scritto circa l’ambiente evangelico che sta dietro al presidente Bush: affermazione generica sull’evangelismo fa di ogni erba un fascio, non rimarcando le profonde diversità tra le varie confessioni religiose americane.
Non credo che gli evangelici europei e italiani la pensino come gli americani; non mi risulta, per esempio, che valdesi o battisti a Torino siano sulle stesse posizioni di Bush.
Per la cronaca, occorre ricordare che il signor Bush esce da una famiglia Wasp episcopaliana del New England e che, solo dopo il matrimonio (prima conduceva una vita giovanile sregolata), si è convertito alla confessione battista, che ha frange integraliste e radicali, che hanno influenzato il pensiero e modo di agire del futuro presidente degli Stati Uniti (fonte: Time Magazine).
Sarebbe più corretto, perciò, non etichettare come vetero protestantesimo ciò che è radicale e non riconoscere, invece, le posizioni moderate e pacifiste che sono proprie di larga parte dell’evangelismo.
Queste precisazioni gioverebbero anche ad un vero ecumenismo, che deve prevalere tra i cristiani.

Walter Giacomelli
(E-mail)

Sì, «l’ambiente evangelico» del presidente George W. Bush va esplicitato. E bene ha fatto il lettore a rimarcarlo.

Walter Giacomelli