Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli




Al supermercato delle religioni (4) Scientology

CHIESA ALLA MAC DONALD’S

Nata come pratica filosofica che mira alla «felicità eterna», Scientology pretende di essere una religione. Pochi stati la riconoscono tale; molti la ritengono una setta affaristica, dai contorni poco trasparenti.

Appena si parla di scientology, la chiesa americana fondata dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard intorno alla metà del secolo scorso, gli animi si scaldano e le opinioni si polarizzano.
Basta cliccare la parola scientology su internet e si trovano migliaia di pagine che raccontano le peggiori storie di sopraffazione, circonvenzione di incapace, spionaggio, e molto altro. In un mare di durissime critiche e accuse, qualche sito, invece, ne tesse lodi sperticate e ne racconta le magnifiche sorti progressive.
Per esempio, siti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano (www.xenu.com-it.net/aiuto.htm) spiegano dettagliatamente e con termini decisamente allarmanti cosa fare, qualora il proprio figlio inizi a fare scientology: come parlargli, cosa dirgli, cosa non fare perché non si disconnetta: la prima cosa, infatti, è il rifiuto del dialogo con chiunque critica scientology, in primis i genitori.
Sempre nella rete, dozzine di siti riportano le querele contro i mezzi di informazione. Scientology ha duramente combattutto contro i suoi critici, querelando giganti come Time o Washington Post. Gran parte delle battaglie legali hanno visto prevalere le opinioni dei giornali, che però hanno dovuto impegnare forti capitali in parcelle agli avvocati.
La combattività di scientology, verso gli organi di stampa è proverbiale. Alcuni analisti sostengono che tale tignosità sia dovuta a una spasmodica ricerca di pubblicità, supportata da capacità finanziarie notevoli. In effetti, una querela al Time, anche se persa in partenza, è un’ottima occasione per farsi conoscere.
Salendo ancora di un gradino, scientology è finita al centro di furiose dispute inteazionali, riguardanti i diritti umani tra i governi degli Stati Uniti, Francia e Germania.

COS’E’ SCIENTOLOGY
Non è facile spiegare cosa sia, anche perché il suo fondatore L. Ron Hubbard, nella sua lunga e tumultuosa vita, ha scritto tutto e il contrario di tutto. «Scientology è una filosofia religiosa nel suo più alto significato e conduce l’uomo alla libertà totale»(1); ma anche «una libertà infinita è una trappola perfetta, la paura di tutto… Fissato su troppe barriere, l’uomo brama la libertà; ma, lanciato nella libertà totale, è senza scopi e miserevole»(2).
La filosofia religiosa di Hubbard è nata nel 1950; inizialmente aveva il nome Dianetics, scienza modea della salute mentale. Nel 1954 venne trasformata in scientology: nuovi aspetti spirituali si innestarono su quelli para-scientifici iniziali. In quell’anno scientology si autodefinì per la prima volta «chiesa».
In sostanza, la filosofia religiosa scientology è un insieme di nozioni pseudo scientifiche, psicologiche e spirituali che vedono all’interno dell’essere umano due entità distinte: la mente analitica e la mente reattiva.
Il refuso alle filosofie orientali diventa chiaro quando scientology sostiene che la mente reattiva, responsabile delle pulsioni umane, è aberrante e deve essere ridotta il più possibile, affinché l’uomo possa finalmente avere solo una mente analitica e raggiungere lo stato «clear» (limpido).
Compito di scientology è portare l’uomo a essere clear, affinché possa iniziare un cammino di perfezionamento che conduca il suo thetan (la sua parte immortale) a recuperare i suoi infiniti poteri, decaduti a causa della mente reattiva.
In poche parole, tutti noi siamo potenziali dèi, con poteri infiniti ma dimenticati, e potremmo recuperarli, applicando letteralmente la teoria scientology.
Come si entra nel giro
Di solito chi si avvicina a scientology viene sottoposto a un test che appurerebbe quanto il thetan sia decaduto e quindi da quale livello iniziare la risalita verso la «libertà totale». Questa classificazione è denominata «quadro della valutazione umana» ed è gratuito.
I detrattori sostengono che il test, composto da 200 domande di tipo personale, tende a evidenziare le frustrazioni della persona, acutizzando i problemi e promettendo una facile soluzione. I clienti vengono «agganciati» per strada, nei supermercati e luoghi molto affollati.
Chi decidesse di iniziare la pratica scientology cerca inizialmente la soluzione per i propri guai; poi, dopo una fideizzazione più forte, proseguirà nel cammino, comprando una serie di costosissimi corsi esoterici, che hanno lo scopo di recuperare l’onnipotenza perduta, cioè il thetan operante.
All’interno del cammino, chiamato anche auditing, lo scientologo (il cliente-fedele) viene sottoposto a un test psico-meccanico: una specie di macchina della verità (elettrometro) che indaga sui lati più oscuri della vita. Esso è infatti caldamente consigliato a confessare tutti i lati peggiori della propria mente reattiva, ovvero le «aree di sofferenza» che rendono la vita insopportabile.
Scientology sostiene che tale pratica, porta grandi benefici a chi vi si sottopone, in quanto crea un quadro d’insieme più preciso, affinché si possano eliminare gli ostacoli psichici che impediscono all’individuo di raggiungere la «libertà totale».
I detrattori, tra cui molti ex scientologisti pentiti, ribattono accusando la chiesa di creare con questa tecnica un archivio personale, contenente le eventuali perversioni o scandali dei clienti-fedeli, da utilizzare qualora questi si ribellino.
La chiesa di scientology assicura agli aderenti di raggiungere il risultato sperato: «Scientology funziona nel 100% dei casi. Nella nostra storia non si è mai verificato un fallimento della tecnologia. Gli unici fallimenti sono stati organizzativi, quando la tecnologia non era nota o non era applicata»(3). Eventuali fallimenti di tale tecnica sono da imputare alla scarsa o cattiva applicazione da parte del cliente-fedele.
Hubbard ha ideato un sistema che prevede soluzioni pratiche semi-immediate per tutti gli aspetti della vita: affari, amore, salute, piccoli e grandi problemi.
gli affari sono affari
La vera novità introdotta dallo scrittore fantascientifico statunitense è la commistione dello spirituale con il tecnologico. Inizialmente scelse di fondare una nuova disciplina che avesse basi molto pratiche, ma poi, vista l’inesauribile domanda di novità spirituali negli Stati Uniti degli anni ’50, ma anche attuale, divenne indispensabile innestare un lato soprannaturale.
La chiesa di scientology sostiene inoltre di non contrapporsi a nessuna altra professione religiosa, anche con quelle che non comprendono la reincarnazione, cosa invece prevista nella chiesa di Hubbard.
Anche in questo caso le interpretazioni sono bivalenti. A fronte di chi vede una innovativa apertura culturale, molti sostengono che scientology abbia scelto la via della plasticità religiosa, ovvero adattare il messaggio alle realtà che si incontrano zona per zona nel mondo. Un po’ come fa McDonald’s che, dopo gli insuccessi del polpettone, ha deciso di adattare il fast food alle cucine locali: in Italia la pizza, in Messico i tacos, in Francia le insalate…
Nonostante il linguaggio ermetico utilizzato dagli scientologi, la formula complessiva è abbastanza semplice. Ma perché scientology non diffonde gratuitamente il suo sapere, ma lo vende a caro prezzo ai suoi clienti? Domanda banale, ma che racchiude tutte le contraddizioni della chiesa di Hubbard.
La risposta potrebbe essere che scientology vende nella solidarietà e commiserazione delle «misemozioni», emozioni negative di cui sbarazzarsi. Ma ciò non spiega perché, dopo ogni catastrofe, i venditori di scientology si accalchino intorno ai disperati, a volte con risultati imbarazzanti, come in Sri Lanka, dove recentemente la Protezione civile ha vibratamente protestato, perché membri italiani della chiesa si attribuivano i meriti degli aiuti provenienti dalle donazioni italiane. Accusa immediatamente smentita dal portavoce italiano di scientology.
Scientology non sceglie la via della gratuità per diffondere il proprio pensiero, ma quella della commercialità spinta e sostiene di avere 8 milioni di fedeli nel mondo. Cifra che i critici ritengono gonfiata. In Italia un rapporto del Ministero degli Intei del 1998 afferma che i seguaci della chiesa di scientology erano circa settemila.
Pochi o tanti che siano, i seguaci della filosofia religiosa inventata da Hubbard sono disposti a investimenti economici consistenti e possono giungere a spendere anche decine di migliaa di euro nei corsi. Scientology afferma che tale ingentissima massa monetaria altro non è che donazioni, ma questo mal si addice alla presenza di un listino prezzi e di formule commerciali che ricordano le promozioni da supermercato.
Non di poco conto è anche la notevole spinta pubblicitaria portata da «eroi» hollywoodiani, aderenti a scientology, tra tutti, John Travolta, Tom Cruise, Nicole Kidman. I tempi degli apostoli stracciati e poveri sono passati. Oggi vanno di moda i belli del cinema.

USA VERSUS FRANCIA E GERMANIA?
Le critiche, anzi, vere e proprie accuse si sprecano. Ma la chiesa di scientology può vantare il riconoscimento del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) che la giudica legittima e non vi riscontra particolari rischi o depravazioni; queste, caso mai, sono da imputare a comportamenti distorti di pochi singoli.
Il direttore del Cesnur, Massimo Introvigne, ospite fisso di Bruno Vespa in qualità di esperto di estremismo islamico, è stato un forte difensore di scientology, non trovando nelle sue dottrine particolari pericoli. La sua posizione è in netto contrasto con la francese «Missione interministeriale di lotta contro le sette» (Mils), che ha inquadrato la pratica scientology in una visione opposta rispetto al Cesnur.
La polemica tra Cesnur e Mils si inserisce in un quadro di tensioni politiche tra Usa ed Europa, in particolare Francia e Germania.
Tutto nasce dal fatto che, riconosciuta come movimento religioso, scientology ha avuto il diritto all’esenzione fiscale da parte del fisco statunitense nel 1993. Un suo portavoce sostenne che «gli scientologisti hanno fornito al governo informazioni sufficienti sui salari pagati ai suoi funzionari, per permettere di determinare che gli executives della chiesa non ricevano benefici impropri» (Chronicle of Philantropy, 1993). Una delle accuse storiche mosse a scientology è, infatti, di sfruttare il lavoro dei seguaci in maniera piuttosto brutale.
L’accordo foì a scientology la stessa posizione fiscale di cui beneficiano molte organizzazioni religiose e permise alla chiesa di Hubbard di risparmiare montagne di dollari evitando la tassazione.
I governi di Francia e Germania si trovarono quindi in frontale opposizione con gli Stati Uniti, in quanto consideravano scientology una pratica pericolosa per l’ordinamento democratico, non solo per le accuse di cui sopra, ma anche per pratiche di spionaggio internazionale, portate avanti da alcuni suoi aderenti.
Scientology schierò in campo l’artiglieria mediatica con una potente manovra di lobby sul presidente americano Bill Clinton, affinché facesse pressioni politiche in Europa, per liberare la chiesa da accuse così pesanti.
Iniziarono a volare recriminazioni di persecuzione religiosa e violazione dei diritti umani: in una lettera del 1997, firmata da 34 vip hollywoodiani, il governo tedesco veniva accusato di aver spostato il tiro dagli ebrei agli scientologi, fatto che ebbe eco planetaria. Il governo Usa non poteva sopportare di essere implicitamente accusato di sostenere un’organizzazione che metteva a repentaglio la democrazia.
In sostanza, per Germania e Francia scientology non è una religione, ma una setta; anzi, un’impresa che agisce a scopo di lucro e spesso in modo tutt’altro che trasparente e democratico.
Per gli americani invece, preoccupati di proteggere al massimo grado la libertà di culto nel loro paese, la chiesa di scientology deve essere messa in condizioni di muoversi senza intralci, in quanto non è stata provata alcuna pericolosità. Da qui la mossa più forte degli Stati Uniti, ovvero il Religious Liberty Protection Act, una proposta di legge che intende mettere le pratiche religiose al riparo da qualsiasi interferenza governativa o amministrativa.

Così scientology continua a scatenare polemiche, cause giudiziarie e accuse pesanti. Gli scientologi si sentono perseguitati a livello mondiale da una lobby internazionale, che non esiterebbe a fomentare false illazioni per ridue la potenza.
Già in vita, il fondatore Ron Hubbard era considerato dai seguaci una divinità votata al martirio, mentre migliaia di siti internet lo dipingono come un impostore, assetato di denaro. Nell’ottobre del 1984 un giudice della Califoia, disse di lui: «È un bugiardo patologico, in relazione al suo passato e alle sue imprese. Scritti e documenti presentati come prove riflettono ulteriormente il suo egoismo, la sua avarizia, smania di potere, vendetta e aggressività contro le persone ritenute ostili. Allo stesso tempo sembra un uomo carismatico e capace di motivare, organizzare, controllare, manipolare e ispirare i suoi seguaci»(4).
Dopo la colluvie di studi pro e contro tale movimento, rimane il dubbio: scientology è libertà totale o fregatura totale?

1) L. Ron Hubbard, Filosofia religiosa e pratica religiosa, 21 giugno 1960, rivisto il 18 aprile 1967.
2) L. Ron Hubbard, La ragione per cui, 15 maggio 1956.
3) Direttiva esecutiva n°450 del Religious Technology Center.
4) Giudice Breckenridge, Corte Superiore della Califoia, parlando di Ron Hubbard in una sentenza del 1984.

Maurizio Pagliassotti




003-Così sta scritto – Dalla bibbia le parole della vita (3)

«Adam, dove sei?»
(Gen 3,9)

«Chi sei, Signore?»
(At 9,5)

Porre domande e interrogarsi sul senso e la direzione della realtà è nella natura umana. L’uomo stesso è una domanda, un perché perenne. Non appena acquista l’uso della parola, il bambino popola la sua esistenza e la pazienza degli adulti con una teoria infinita di «perché?», che a loro volta sono premessa di altri interrogativi che disarmano gli adulti prosciugandoli nella loro capacità di risposta. L’uomo è assetato di conoscenza e la curiosità indagatrice lo porta sempre più oltre… a scoprire novità e orizzonti sempre più ampi.
Lo smarrimento, però, è sempre in agguato. L’uomo, come l’Adam dell’Eden, è insofferente del suo limite e cerca di superarsi, eliminando Dio dal suo orizzonte. Inutilmente, perché Dio resta il fine e il limite dell’uomo, in una parola, Dio è «il luogo» in cui convergono e si fondono la temporalità e l’eternità. Questa è la singolarità della persona umana: finitezza ed eternità, due cornordinate sempre in tensione tra loro. Il sopravvento dell’una o dell’altra a scapito del loro equilibrio, comporta conseguenze tragiche per l’uomo, per le sue relazioni con gli altri e per l’ambiente in cui vive.
La sovrumana potenza scatenata dallo tsunami che ha piegato e piagato il Sud-Est asiatico ha imposto agli uomini una visione fisica della impotenza dell’uomo e ha inferto (almeno lo si spera) una frustata terribile alla saccente onnipotenza dall’alto, della quale spesso l’uomo assalta, manomette e violenta la natura. Ecco la ragione della domanda sul «dove» dell’uomo di tutti i tempi che ci poniamo in questa rubrica.

Dopo le dieci parole/debarim con cui Dio crea l’universo e l’umanità, la prima parola/dabar che Dio rivolge all’uomo è un interrogativo che lo accompagnerà per sempre: «Dove sei?» (Gen 3,9). L’avverbio «dove» è più che un’indicazione locativa: esso indica una prospettiva e coinvolge la natura della persona umana di tutti i tempi. La parola di Dio non ha tempo, perché si pone «oggi» per interrogare l’attualità di ogni persona di ogni tempo.
Nessuno può oltrepassare il suo «oggi» e sfuggire al suo «dove sei?». Adam/persona, di fronte alle sue responsabilità e conseguenze delle sue scelte (non accettazione del limite, volontà di superare il confine umano, velleità di onnipotenza per sostituirsi a Dio, spodestandolo della signoria sul bene e sul male) si nasconde dalla familiarità con Dio, di cui ora ha paura (Gen 3,8.10). Ciò che prima era consuetudine d’intimità dialogica, diventa paura «preventiva»: prima ancora che Dio intervenga e ponga la domanda, Adam ha paura perché «sono nudo – ‘e¯rom» (Gen 3,10).
È la conseguenza di cedere al serpente, il più «scaltro/furbo – ‘a¯rûm» tra tutte le fiere della steppa. È evidente che l’autore della Genesi gioca al modo orientale, sull’assonanza ‘e¯rom/‘a¯rûm, nudo/scaltro, per mettere in evidenza che spesso scaltrezza e furbizia non sono altro che un nome diverso per indicare la nudità, cioè la inconsistenza e la vacuità.
Adam è nudo perché sfugge al suo «dove sei?» di cui non ha consapevolezza: questo stato d’inconsistenza lo porterà per sempre fuori del suo ambiente vitale, fuori dal giardino di Eden che era stato creato su misura per lui. Esule nella sua stessa umanità, profugo nella sua stessa carne, fuggiasco senza potere mai nascondersi da se stesso, l’uomo è rimasto senza un «dove», senza una prospettiva d’orizzonte.

Nella bibbia la nudità è segno di spersonalizzazione, come il vestito è segno di personalità. Conoscere il proprio «dove» significa sapere sempre a che punto si è della propria storia, della memoria che la lega e della maturazione che la marca. Il «dove sei?» è l’angolo di visuale da cui affrontare la vita, il futuro, i problemi che sorgono e da dove individuae la soluzione.
«Adam, dove sei?» significa: Adam, qual è la tua consistenza di individuo e membro di un gruppo sociale, famiglia, comunità? Quando ti rapporti con te stesso, con la donna, con gli altri, con la terra… come ti poni? Quale orizzonte hai di fronte alle tue responsabilità nei confronti della storia di cui sei artefice e conseguenza? Di fronte alla miseria che priva i due terzi dell’umanità di quella porzione di Eden cui hanno diritto, qual è il tuo «dove»?
Nel contesto di una politica ed economia mondiali che prosperano sulla guerra, immaginata addirittura «preventiva», che produce centinaia di migliaia di morti anonimi, carne da macello d’innocenti colpevoli solo di esserci in mezzo, qual è il tuo «dove»?
Di fronte alla ingiustizia di un sistema economico mondiale che produce sperequazioni e devasta l’umanità in modo permanente più di qualsiasi tsunami, «dove» si colloca la coscienza civile, occidentale e cristiana?
Di fronte alla deriva istituzionale della nazione, in balìa di un potere personalistico che spazzola il diritto ad libitum e accorcia la dimensione democratica della convivenza civile, eliminando la nozione stessa del «bene comune», patrimonio irrinunciabile per il credente, è essenziale stabilire il proprio «dove sei?» e rivelare il proprio angolo di visuale, libero da ogni ideologismo di maniera e di cultura.

Non si può essere credenti e/o cittadini per tutte le stagioni. Di fronte ai tour operator, che pretendono di applicare la penale del 60% sui viaggi del Sud-Est asiatico, disdetti dopo l’apocalisse, di fronte a quella manciata di turisti che non vogliono rinunciare alle tanto sognate vacanze negli atolli asiatici e chiedono la garanzia di non volere vedere nulla di «sconveniente», mentre nell’atollo accanto, visibile ad occhio nudo, tutto è fango, epidemie e tratta di bambini, bisogna stabilire e identificare il proprio «dove sei?» come esigenza di sopravvivenza civile, prima che spirituale. Non c’è limite all’indecenza umana!
No! Adam, non puoi ritirarti tra gli alberi del tuo privato, alla ricerca di un rifugio in cui rinchiuderti per non vedere le conseguenze dell’apocalisse tsunami. Anche se ti nascondi su una spiaggia dietro l’angolo, anche se ti difendi col paravento, il tuo «dove sei?» è più forte della indegnità e prima o poi esigerà una risposta e una spiegazione.
Il tuo «dove sei?» non è privato, esso è il «luogo» dove puoi riconoscere i tuoi simili come parte di te e da dove puoi spiccare il salto per andare oltre te stesso e aprirti alla condivisione con ogni uomo e donna di buona volontà per essere insieme, per affrontare insieme, per stare insieme presenti nella storia, che è dell’uomo e di Dio, nel tempo e nell’eternità. Contemporaneamente.
Insieme ci si può salvare, da soli possiamo solo morire, credendo di divertirci: così insegnava la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, i cui piccoli montanari avevano saputo cogliere e individuare il loro «dove» da cui guardare alla loro città, alla loro nazione, al mondo, di cui si sentivano cittadini a pieno titolo.

La domanda di Dio ad Adam sul «dove sei?», trova la risposta compiuta in un’altra domanda, posta da Saulo di Tarso, quando, disarcionato da cavallo sulla via di Damasco, si trova faccia a faccia con Colui che s’identifica con i perseguitati, vittime innocenti della ferocia persecutoria del fariseo zelante e fondamentalista, Saulo. «Egli (Saulo, caduto in terra) rispose: “Chi sei, Signore?”» (At 9,5).
Ora il «dove sei?» dell’uomo è stato illuminato dalla venuta del Logos/Verbo, la cui tenda è piantata nel cuore dell’umanità; e anche se le tenebre non lo accolgono, Egli resta la luce, quella che illumina ogni uomo in ogni «dove».
Dopo l’ingresso di Dio nella storia, «nato da donna, nato sotto la Torah» (Gal 4,4), tutto è illuminato, anche se in apparenza sembra buio senza confine; per questo la risposta dell’uomo non può essere che un’altra domanda, ma questa volta, centrata sulla stessa personalità di Dio: «Chi sei, Signore?».
Dal «dove sei?» della prima pagina della Genesi si passa al «chi sei?» della prima comunità cristiana. Non è più tempo di smarrire la prospettiva della vita, perché ora quella prospettiva ha i confini della risurrezione e dell’eternità. Resta solo il bisogno di ripristinare e rimettere in circolo quella familiarità con Dio che Adam aveva infranto con la sua paura «preventiva».
La risposta di Paolo è ancora più forte della domanda di Dio: «Chi sei, Signore?» significa: Signore, dammi la coerenza perché dal mio «dove» possa sempre riconoscere «Chi» sei negli eventi che scorrono la mia vita, nelle persone che incontro lungo la mia strada, nelle scelte che sono chiamato a fare, in quanto testimone della tua presenza.

Paolo Farinella




AfroItalyfashion in passerella

NON SOLO MODA

Da una frivola sfilata di moda a una solidarietà
attenta ai bisogni… lontani, ma resi più vicini dall’interesse e dallo scambio.

Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

Mission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

M ission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).

Dino Sassi




SIRIA – Il monastero di san Mosè

IL DESERTO STA FIORENDO

Nel deserto siriano, un prete italiano ha rivitalizzato un antico monastero e raccolto attorno a sé una comunità che si propone, oltre alla preghiera e contemplazione, il dialogo tra culture e religioni, per far fiorire la pace in Medio Oriente.

Conobbi il Monastero di San Mosè l’abissino (Deir Mar Musa el-Habashi) nel 2000. Mi trovavo a Damasco. Raife, la signora presso cui vivevo, mi parlava sempre di un padre italiano, padre Paolo, che da qualche anno viveva in un antico monastero nel deserto, a una ottantina di chilometri da Damasco, nei pressi di Nebek a circa 1.400 metri di altezza.
Presi un autobus per Nebek; dove avrei potuto trovare un passaggio da qualche contadino che mi avrebbe accompagnata in prossimità del monastero. Non fu difficile trovare qualcuno che mi aiutasse, tutti conoscevano Deir Mar Musa, tutti conoscevano padre Paolo. Mi unii a due abitanti del luogo, anch’essi diretti al monastero.
Il ragazzo che ci aveva fatto salire sul suo motocarro ci accompagnò fino all’ultimo punto raggiungibile con mezzi di trasporto. Da lì avremmo dovuto continuare a piedi, perché l’unica via che portava direttamente al monastero era uno stretto sentirnero in salita tra le rocce. Il ragazzo ci disse di fare attenzione alle indicazioni che avremmo trovato, di non sbagliare sentirnero perché era quasi notte e poteva essere facile per noi perdere la strada.
Dopo 40 minuti di cammino, intravedemmo tra le rocce il lato posteriore di Deir Mar Musa. Entrammo attraverso una piccolissima porta di ferro, alta poco più di mezzo metro; questo era l’unico ingresso.
Ci venne incontro padre Paolo, che ci invitò a dividere con lui e alcuni compagni un piatto di patate e pomodori. Ci fece strada e ci condusse su un’enorme terrazza affacciata sulla valle.
A tutti gli ospiti e pellegrini che arrivavano al monastero non veniva chiesto niente a livello economico, solo di condividere tutto con la comunità, non solo il cibo e le stanze per dormire, ma anche partecipare attivamente alla vita quotidiana, aiutandoli nella cucina, nei lavori di pulizia, nell’organizzazione dei pasti e anche in lavori di costruzione e manutenzione dentro e fuori il monastero.

Ci sedemmo attorno alla tavola e padre Paolo iniziò a raccontare alcuni episodi della sua vita e del motivo per cui si trovava nel cuore del deserto siriano, a 1.400 metri di altezza.
Disse che è originario di Roma. Fu allievo dei gesuiti; dal 1977 è in Medio Oriente per servire l’impegno della chiesa nel mondo islamico. Nel 1982 arrivò alle rovine di Deir Mar Musa e se ne innamorò. Qui trovò la possibilità di realizzare i suoi sogni e desideri, quelli mistici, ma anche comunitari, culturali e politici.
Con l’aiuto di volontari del luogo e persone di passaggio iniziò i lavori di restauro del monastero e il recupero di oggetti e libri sparsi tra le macerie. Piano piano arrivarono altre persone, uomini e donne provenienti da diverse chiese e paesi. Nel 1991 nacque una comunità.
Raccontò che, fin dal tempo di Maometto, il monastero svolgeva una funzione socio-spirituale, nota, apprezzata e rispettata nel mondo musulmano. Costituiva un testimone della vita spirituale della regione. Diceva che, con l’impegno e lavoro suo e dei suoi compagni, voleva recuperare tale funzione e riproporla nel mondo attuale.
Deir Mar Musa si affaccia su una valle tra le montagne a oriente di Nebek. Quest’area era inizialmente abitata da cacciatori di gazzelle, pastori di capre e briganti. Era una zona ideale per il pascolo delle capre. Forse i romani avevano costruito inizialmente una torre di guardia.
In seguito i cristiani eremiti usarono le grotte naturali formatesi nella montagna come luoghi per la meditazione. Si creò quindi il primo centro monastico.
Sulla base della tradizione locale, San Mosè era il figlio del re dell’Etiopia. Rifiutò di accettare la corona, gli onori e un matrimonio, per dedicarsi alla ricerca di Dio. Iniziò a viaggiare in Egitto e in terra santa. Visse come un monaco a Qara, un villaggio siriano, e poi come un eremita tra queste montagne. Morì martirizzato dai soldati bizantini.
Con l’ausilio di studi storico-archeologici sappiamo, spiegava padre Paolo, che il monastero esisteva dalla metà del vi secolo, apparteneva al rito siriaco di Antiochia. Dalla traduzione delle iscrizioni arabe che si possono leggere sui muri, il monastero sarebbe stato costruito nel 450 dell’epoca islamica (1058 d.C.). Nel xv secolo è stato parzialmente ricostruito e allargato; ma dalla prima metà del xix secolo è stato completamente abbandonato. Lentamente cadde in rovina. Tuttavia rimase nella proprietà della diocesi siriana cattolica di Homs, Hama e Nebek. Gli abitanti di Nebek hanno sempre continuato a visitare il monastero con devozione e la parrocchia locale lottò per conservarlo.
Nel 1984 iniziarono i lavori di restauro, grazie a una comune iniziativa dello stato siriano, chiesa locale e un gruppo di volontari arabi e europei. Il restauro è stato completato nel 1994 grazie alla cooperazione tra gli stati italiano e siriano.

Il suono di una campanella ci informò che stava per iniziare, come ogni sera, l’ora del silenzio. Un’ora da dedicare interamente alla preghiera e riflessione. Improvvisamente ogni conversazione e ogni attività furono interrotte.
Terminato il silenzio, all’interno della chiesa padre Paolo iniziò a recitare i vespri secondo il rito siro-cattolico. Eravamo seduti attorno a lui, sopra dei grandi tappeti, con in mano una candela, perché il generatore di corrente non sempre riusciva a fornire energia sufficiente a illuminare tutte le stanze.
Dopo i vespri iniziò la messa.Terminata la lettura del vangelo, completamente in arabo, chi voleva poteva esprimere un suo giudizio, un suo pensiero, una sua riflessione sui brani letti. Poi nel momento della comunione, vennero fatti passare una ciotola con vino e una pagnotta di pane, con cui ognuno poteva condividere con gli altri il corpo e il sangue di Cristo.
Terminata la funzione padre Paolo mi indicò gli alloggi riservati alle donne, mentre gli uomini dormivano in stanze ricavate nella roccia fuori del monastero.

Il giorno seguente Elena, una ricercatrice in studi islamici, che avevo incontrato all’università di lingue orientali a Venezia e che per caso trovai lì, mi portò a fare un giro dell’edificio. Mi disse che, come padre Paolo, anch’essa era arrivata a Deir Mar Musa e se ne era innamorata. Aveva deciso di rimanere per aiutare, soprattutto nella riorganizzazione della biblioteca.
Mi accompagnò all’interno della chiesa dove, con la luce del sole, era più facile poter ammirare il ciclo di affreschi. Essi vengono fatti risalire al secolo xi-xii e rappresentano l’unico ciclo completo di affreschi sul giudizio universale scoperto in Siria.
La chiesa era stata costruita nel 1058. Lo spazio, circa 10×10 metri, era suddiviso in due parti: la più grande è a una navata centrale, illuminata da due piccole finestre; la seconda è il santuario con l’altare e l’abside. La piccola chiesa si affaccia sulla terrazza ed è situata nel cuore della costruzione.
Nelle altre zone si trovano la cucina, le stanze per dormire, un piccolo museo e una biblioteca, nati grazie al recupero di oggetti vari e libri.
Attraverso uno stretto passaggio, dove erano custodite delle enormi anfore di terracotta per conservare l’acqua, mi condusse fuori dal monastero dove stavano iniziando la costruzione di alloggi per i monaci e per gli ospiti. Al momento venivano utilizzate principalmente le grotte che servivano anche come stalle per il riparo degli animali. Ma la comunità si stava piano piano allargando, per questo risultavano necessarie nuove costruzioni.
Il materiale veniva portato dal paese con l’aiuto di muli e una piccola carrucola. Elena mi disse che moltissime persone del paese offrivano il loro aiuto, sia nel trasporto del materiale che nella costruzione degli edifici. Molto importante per loro era l’acqua. Stavano iniziando gli scavi di un pozzo, con il quale avrebbero non solo coperto il fabbisogno giornaliero degli ospiti, ma anche potuto creare un orto e frutteto.
Le parole di Elena, la vita della comunità con i suoi progetti, idee e sogni, il monastero con quell’atmosfera di pace e serenità, ma soprattutto di calore umano che regnava, mi avevano affascinata. Capivo benissimo le persone arrivate fin quassù e poi non più ripartite.
Quasi ogni volta che too in Siria passo da Deir Mar Musa, ogni anno ci sono dei cambiamenti, degli sviluppi. Ora è arrivato internet, c’è il telefono, il computer, anche se spesso le linee non funzionano.

La comunità che negli anni si è formata a Deir Mar Musa è una comunità di silenzio e preghiera. Attraverso la riscoperta dell’attività manuale e del valore del corpo e delle cose, vuole elaborare una vita di semplicità evangelica, in armonia con il creato e la società circostante.
L’ospitalità sta alla base di questa concezione di vita, punto di partenza anche per gli antichi monaci che popolavano questa zona. Il monastero è inteso come luogo di incontro, di approfondimento, di cultura, di comunione, dialogo e unità tra le chiese, senza perdere nulla della specificità siriaca e siro-cattolica del monastero stesso.
Vengono organizzati incontri interreligiosi a tema, cercando la mutua comprensione. La visita viene restituita andando a visitare moschee e centri islamici.
La relazione islamo-cristiana è l’obiettivo primario che cerca di raggiungere la comunità. Per questo viene utilizzata la lingua araba, non solo per la vita liturgica, ma anche per quella sociale, perché è lo strumento necessario per arrivare allo scopo prefisso.
Questo progetto, di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa, riceve aiuti dalla Comunità Europea, nell’ambito del programma per la diffusione della democrazia nel Mediterraneo, dalla Fondazione Remo Orseri di Roma e da altre associazioni.
A questo proposito, vengono organizzati seminari di studio e scambio di esperienze nel campo del discorso interculturale e interreligioso, sia sul piano locale che su quello internazionale. Attraverso gli scambi e i rapporti con altre realtà simili, favoriti dall’arrivo di internet, la comunità vuole partecipare alla creazione di una cultura condivisa, centrata sui valori della pace.
Sul piano sociale la comunità di Deir Mar Musa è impegnata nell’aiuto alle famiglie cristiane delle cittadine limitrofe. Il progetto di un dialogo interreligioso è infatti messo a rischio dalla continua migrazione di famiglie cristiane verso altri paesi, costrette a lasciare la Siria per motivi economici.
Un tempo il pluralismo culturale era molto importante in questa regione, era considerato un valore: un valore che la comunità di Deir Mar Musa vuole salvaguardare. Quindi il monastero aiuta, con il restauro di case tradizionali e con la costruzione di nuove, giovani famiglie della parrocchia, che non sarebbero in grado altrimenti di comprare o affittare una casa.
Su un piano puramente ambientale, la comunità ha avviato alcuni programmi di sviluppo agrario destinati alla pastorizia e alla coltivazione in luoghi desertici. Tale connessione di scopi ha favorito l’effettiva riconciliazione tra la comunità cristiana e musulmana per le quali il monastero è tornato a essere un simbolo di condivisione e riconciliazione.
La piccola biblioteca curata dai monaci, nata inizialmente dal recupero di testi trovati tra le rovine, si è negli anni sviluppata. L’intento è stato quello di raccogliere testi che potranno servire a operatori e formatori nel campo del dialogo. Essa non è esclusivamente specializzata sulle scienze religiose cristiane e musulmane, ma è anche foita di testi di antropologia, psicologia, sociologia e filosofia, discipline indispensabili per lo sviluppo del dialogo e la sua comprensione.
Un’attenzione particolare viene data agli studi di Louis Massignon (1883-1962). Questi fu uno dei precursori del dialogo tra cristiani e musulmani. Dedicò la sua vita al contatto spirituale tra il cristianesimo e l’islam. Le sue impegnate riflessioni e stile di vita sono fonte di costante ispirazione per la comunità.

Elisabetta Bondavalli




DOSSIER VIETNAM -Intervista a Marie Tran Thi Huyen, missionaria laica

FARSI ABORIGENI FRA GLI ABORIGENI

Missionaria laica vietnamita, 67 anni, Marie Tran Thi Huyen lavora da 40 anni tra i chau ma e k’ho, gruppi etnici delle regioni montuose attorno a Bao Loc.
Intervistata da Uca News, parla della esperienza ed esigenze di adattamento alla vita della gente nei villaggi indigeni.

Ci racconti qualcosa della vostra équipe di lavoro.
Il nostro gruppo, chiamato «Famiglia dei testimoni di Cristo» è formato da 15 persone e fa parte del Centro di evangelizzazione degli aborigeni di Bao Loc, fondato dal padre Laurence Pham Giao Hoa, 85 anni, che dal 1958 svolge l’attività missionaria tra le minoranze etniche della regione.
È un gruppo laicale, ma i suoi membri, che da molti anni si sono uniti a padre Hoa, hanno scelto volontariamente di vivere una vita di celibato e povertà al servizio dell’evangelizzazione delle minoranze etniche. Nel 2002 il nostro gruppo è stato ufficialmente riconosciuto dal vescovo di Da Lat.

Qual è il vostro metodo di evangelizzazione?
In generale non rimaniamo sempre nello stesso posto, ma ci spostiamo di villaggio in villaggio. Scegliamo una famiglia presso cui dimorare. Lavoriamo insieme, mangiamo e dormiamo sul pavimento di bambù, intorno al fuoco come tutta la famiglia.
Poi cerchiamo di incontrare e conoscere altre famiglie, di guadagnare la simpatia e la fiducia delle persone più importanti della comunità, specie i gia lang, i capi villaggio.
Una volta che la gente ha iniziato a considerarci come membri delle loro famiglie, è più facile che si apra all’ascolto di quanto vogliamo comunicare loro. A questo punto iniziamo a usare immagini cattoliche per spiegare i fondamenti del catechismo e la figura di Gesù, e cerchiamo dei laici cattolici kinh (maggioranza vietnamita) che possano essere buoni padrini dei catecumeni. I semi del vangelo sono cresciuti in questo modo.
Inoltre, abbiamo un buon numero di collaboratori che ci aiutano nell’insegnamento del catechismo alle minoranze etniche che appartengono alle 25 parrocchie di Bao Loc.

Quali altre attività portate avanti nei villaggi?
Insegniamo canti e catechismo agli adulti e ai bambini, prepariamo le coppie al matrimonio, aiutiamo le donne durante il periodo della gestazione, al momento del parto, curiamo i loro bambini e accompagniamo gli infermi all’ospedale. Inoltre, insegniamo alla gente a confezionare i propri abiti e aiutiamo le spose ad acconciarsi i capelli e farsi belle. Soprattutto ci uniamo alla gente nel lavoro nei loro campi.

Quali sono le sfide che avete affrontato?
La difficoltà più grande è la malaria. Io stessa sono stata più volte in fin di vita a causa di questa malattia. Prima del 1975, in piena guerra, era terribilmente pericoloso evangelizzare nelle comunità indigene. I soldati Sud e Nord Vietnam ci tenevano entrambi sotto controllo e ci minacciavano: sospettavano che lavorassimo come spie. I comunisti ci arrestarono tre volte, minacciando di ucciderci. Ci proibirono categoricamente di continuare il nostro lavoro religioso nei villaggi indigeni.
Dopo il 1975 non fummo più arrestati; ma continuarono le restrizioni dei nostri movimenti e attività. Tuttavia siamo ritornate nei villaggi di nascosto e abbiamo continuato a predicare la buona notizia ai nostri fratelli e sorelle indigene. Alcuni catechisti locali ci hanno aiutato nell’insegnare il catechismo e in altre attività apostoliche.

Incontrate difficoltà nel vivere in mezzo agli indigeni?
Non è facile abituarsi al loro stile di vita. Anche condividere un pasto con loro a volte è un grande problema: essi puliscono i piatti con le loro gonne; mangiono il riso condito con sale grosso, pesce essiccato di basso prezzo, mam (salsa di pesce) e sangue di bufalo. Alcuni anni fa, a una esponente del nostro gruppo fu offerto un piatto di girini, cucinati in salsa di pesce.
Inoltre, dobbiamo rispettare le loro credenze e costumi tradizionali: essi credono che la vita delle persone, soprattutto dei malati, dipenda dagli yang (divinità) e sia sotto il loro influsso. I parenti dell’infermo uccidono un pollo o una capra come offerta agli yang; il sangue dell’animale viene spalmato sulla fronte del paziente, sulle porte e su un altare. Spesso il malato è portato allo sciamano per essere sottoposto alle sue cure, compensate con qualche dono.
Quando muore qualcuno, gli abitanti del villaggio non possono visitare la famiglia del defunto per 100 giorni per paura della morte. Tutte le cose appartenenti al defunto vengono poste accanto alla tomba, il corpo avvolto in fasci di bambù e trasportato al cimitero.
Intanto insegniamo alla gente, passo dopo passo, come curare l’igiene personale, come trattare il cibo in modo sano e accudire ai malati con uno spirito di servizio.

Cosa le ha insegnato l’esperienza vissuta nelle comunità indigene?
Prima di tutto che dobbiamo farci indigeni fra gli indigeni: vivere con loro, mangiare con loro, parlare il loro idioma e, soprattutto, dobbiamo amarli. Sono molto contenti che impariamo la loro lingua e si sentono orgogliosi quando possono insegnarcela. Questa è senza dubbio la via più rapida per conquistarsi l’affetto e la fiducia della gente.
Quando andiamo in un villaggio e parliamo la lingua del posto, siamo accolti come parenti. Se domandiamo qualcosa in vietnamita, la gente spesso tace o evita di rispondere.
Sono persone che non amano i ragionamenti complessi, formalità e cerimonie. Sono semplici, onesti, molto sinceri e fedeli. Per questo non possiamo mai tradire la loro fiducia. Se si manca, anche una sola volta, alla parola data, si perde per sempre la fiducia che hanno posto in noi.
(da Asia Focus)

Asia Focus




DOSSIER VIETNAM -I Montagnard: i più tartassati e… dimenticati

CACCIA APERTA… AL CRISTIANO

I francesi li chiamarono montagnard (montanari)
e gli americani storpiarono il nome in yards;
i vietnamiti li chiamano moi (selvaggi)
e il governo nguoi dan toc (popolo tribale).
Essi si definiscono degar, «figli delle montagne». Sono uno dei popoli più antichi del sud-est asiatico e vivono nella penisola indocinese da oltre 2 mila anni.

I montagnard rappresentano una quarantina di differenti gruppi aborigeni, appartenenti ai ceppi linguistici mongolo-tibetano e malese-polinesiano. La maggioranza vive nel Vietnam centrale; numerosi sono in Cambogia, molto meno in Laos. I due gruppi principali sono i bahnar (circa 400 persone) e i jarai (300 mila), seguono i rhade, koho, sedang, bru, pacoh, katu, jeh, cua, halang, hre, rongao, monom, roglai, cru, mnong, lat, sre, nop, maa, stieng…

TRA DUE FUOCHI
I montagnard non sono sempre stati sulle montagne. Più di 2 mila anni fa, occupavano gran parte del sud dell’Indocina, da Hué a punta Ca Mau. Sui monti furono spinti progressivamente dall’espansione di popolazioni più forti e numerose: dal sud i cham, di origine hindu, dal nord i vietnamiti, di origine cinese.
Alla fine del secolo xvii, quando i vietnamiti conquistarono anche il regno meridionale dei cham, i montagnard si trovarono definitivamente relegati tra gli altipiani centrali del Vietnam, dove trovarono rifugio e vissero in pace per molte generazioni, sviluppando le coltivazioni e l’allevamento del bestiame.
I vietnamiti, pur continuando la loro espansione, non si avventurarono mai tra i monti, anche perché li credevano infestati da spiriti, che avvelenavano i ruscelli che scendevano da quelle montagne, provocando la malaria.
Gli unici a entrare e vivere nel loro territorio furono i missionari, che vi impiantarono scuole e avviarono l’evangelizzazione.
I francesi fissarono i confini tra la colonia vietnamita e i due regni di Cambogia e Laos, sotto il proprio protettorato, frenando così l’espansione dei vietnamiti. Nel 1895 entrarono anche nel territorio dei montagnard, ma riconobbero loro il diritto sulle terre che occupavano e coltivavano. Nei negoziati del 1946, fu ratificato il diritto di essere nazione, chiamata Pays montagnards du Sud Indochinois (paese dei Montagnard dell’Indocina del sud).
Nella prima guerra indocinese tra francesi e indipendentisti (1946-54), i montagnard furono presi tra i due fuochi e, con la fine del colonialismo, videro i vietnamiti prendere il controllo del loro territorio, si sentirono chiamare moi (selvaggi) e subirono lo stesso trattamento avuto dagli indiani in America o dagli aborigeni in Australia: massacri, sfruttamento delle risorse, privazione di ogni diritto.
In quegli anni la popolazione dei montagnard contava 3 milioni di persone. Se avesse avuto la possibilità di crescere con lo stesso tasso di incremento del resto del paese, oggi sarebbe più che raddoppiata. I superstiti sono tra i 700 e gli 800 mila.
La resistenza
Finita la prima guerra indocinese i montagnard non volevano stare con il Vietnam del nord e neppure con quello del sud. Nel 1957 nacque il movimento Bajaraka, che chiedeva pacificamente l’autonomia del loro territorio. Il governo sud-vietnamita, però, represse brutalmente il movimento e imprigionò i loro leaders.
Durante la seconda guerra di Indocina (1963-1975), i montagnard si dimostrarono fortemente anticomunisti e si schierarono con i governi sostenuti dagli statunitensi. E quando gli americani entrarono in guerra, 40 mila montagnard si arruolarono dalla loro parte, nella speranza di vedere riconosciute le richieste di autonomia politica, sociale e culturale.
Il territorio diventò un sicuro rifugio per l’esercito vietnamita e i montagnard si trovarono di nuovo tra due fuochi: l’85% dei loro villaggi furono rasi al suolo da bombardamenti e rappresaglie d’ambo le parti.
Nel 1969, tra le popolazioni cristiane delle montagne nacque un altro movimento: il Fronte unificato di lotta delle razze oppresse (Fulro). Tale movimento rappresentava politicamente le minoranze etniche presso il governo di Saigon e faceva parte di quella «terza forza», che manifestava per la pace e non voleva né il governo militare filoamericano né un regime comunista come nel Vietnam del nord.
La vittoria dei comunisti spazzò via tutte le formazioni pacifiche e democratiche: il Fulro, insediatosi in Cambogia, continuò la resistenza militare fino al 1992, quando gli ultimi 400 membri furono consegnati alle Nazioni Unite.
Oggi 800 montagnard, rifugiati negli Usa, continuano a tener desta la speranza di libertà di quelle centinaia di migliaia di connazionali sopravvissuti ai genocidi e che non hanno mai accettato di sottostare al giogo del regime comunista, nonostante le decisioni prese dalla comunità internazionale.

COLPEVOLI DI ESSERE CRISTIANI
A Kontum, nel cimitero dell’istituto delle Missioni estere di Parigi, si possono contare più di 200 tombe di missionari e suore francesi che hanno dato la vita per gli indigeni. I missionari cattolici e protestanti, infatti, sono stati quasi gli unici, con alcuni funzionari dell’epoca coloniale, a interessarsi di loro, aprendo scuole e ospedali, istituti tecnici e professionali.
Gran parte dei montagnard sono cristiani. Negli anni ‘70 essi costituivano quasi il 40% dei cristiani sudvietnamiti. Le diocesi di Kontum, Ban Me Thuot e Dalat avevano propri sacerdoti e parrocchie, con tante conversioni e vocazioni.
Con la riunificazione del paese e il trionfo di Ho Chi Minh (1975), il regime comunista di Hanoi ha nazionalizzato le terre dei montagnard, non riconoscendo nessun diritto sui territori che abitavano da millenni. Centinaia di villaggi sono stati distrutti e spostati su terre meno fertili per far posto alle piantagioni di caffè di proprietà dello stato.
Il governo comunista non li ha mai sopportati, prima perché si erano alleati con gli americani, poi perché molti di loro sono cristiani e adesso anche perché l’unico interesse del governo è prendere le loro terre.
Mai rassegnati al regime oppressivo e persecutorio, i montagnard hanno fatto numerose manifestazioni pubbliche per reclamare l’indipendenza e il ritorno alle loro terre ancestrali e alla libertà religiosa.
Nel febbraio 2001, 20 mila persone manifestarono contro il governo. Ma secondo alcuni, è possibile che il governo abbia ordinato ai suoi quadri di suscitare tali proteste, per poter decimare tutti i capi dei montagnard, attirandoli nella trappola.
Sta il fatto che, con l’impiego di migliaia di poliziotti e soldati, i manifestanti furono dispersi; alcuni rimasero uccisi e, nelle settimane seguenti, centinaia di leader politici e religiosi furono arrestati e poi condannati a pene comprese fra i 3 e 12 anni di prigione.
L’organizzazione Human Right Watch (Hrw) ha documentato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione dei montagnard: arresti, detenzione e interrogatori arbitrari, torture della polizia e, più in generale, ripetute violazioni dei diritti alla libertà religiosa, restrizioni sui viaggi; rimpatri forzosi di coloro che avevano cercato di fuggire nella vicina Cambogia. Sempre secondo Hrw un centinaio di persone sono ancora detenute a causa di quella manifestazione.

«PASQUA DI SANGUE»
Più spietata fu la repressione della vigilia di pasqua, 10 aprile 2004. Oltre 130 mila cristiani, provenienti dai più sperduti villaggi, avevano raggiunto Buon Ma Thuot, capoluogo provinciale degli altipiani, per pregare e protestare pacificamente davanti agli edifici del partito comunista vietnamita contro la repressione religiosa e la confisca delle loro terre. Lo slogan era: «Felice giorno, Cristo è risorto!».
Le forze governative impedirono il raduno con le armi, causando centinaia di feriti e 10 morti (2 secondo il governo). La «pasqua di sangue» fu seguita dalla «caccia al cristiano», facendo salire a 400 il numero dei morti, secondo il Partito radicale.
L’incertezza delle cifre è dovuto al fatto che il governo ha chiuso l’area a tutti gli stranieri e giornalisti. Ma le notizie trapelano attraverso i fuggiaschi che riescono a raggiungere Phnom Penh, in Cambogia, dove esiste un rifugio per loro, sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Centinaia di manifestanti sono stati arrestati, processati e condannati a vari anni di prigione a seconda delle accuse: turbativa dell’ordine pubblico, resistenza alla polizia, incitamento alla protesta, favoreggiamento della fuga oltre confine, attentato alla sicurezza e unità nazionale… I processi sono ancora in corso; l’ultimo di cui si ha notizia ha avuto luogo nel gennaio scorso.
Testimoni oculari, intervistati nei campi dei rifugiati in Cambogia, hanno parlato anche di uccisioni, varie forme di «crocifissione», iniezioni letali, pestaggi, trattamenti degradanti, cerimonie pubbliche in cui sono imposte dichiarazioni di fedeltà alla bandiera vietnamita e di ripudio della fede cristiana.

DIMENTICATI DA TUTTI
Nonostante l’allontanamento di preti, pastori e missionari, i montagnard continuano a tenere viva la loro fede grazie all’attività dei laici; seguono la preghiera liturgica ascoltando Radio Veritas, che ritrasmette da Manila i programmi della redazione vietnamita della Radio vaticana. In vari villaggi hanno ricostruito chiese di legno al posto di quelle distrutte dalla furia comunista.
Ma, più delle atrocità di cui sono vittime, i montagnard paventano il silenzio che regna sulla loro sorte. Non è solo il regime a nascondere i propri misfatti; ma anche l’opinione pubblica internazionale resta insensibile alle loro sofferenze. I paesi occidentali continuano a firmare accordi di cooperazione con il Vietnam, che includono solenni clausole sul rispetto dei diritti umani; dopo di che le clausole vengono ignorate e i finanziamenti arrivano regolari a foraggiare la tirannia.
C’è di più: i cristiani montagnard si sentono dimenticati anche dai loro fratelli di fede.

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM Storie esemplari di persecuzione

Prigionieri… di coscienza

Controllo, repressione e persecuzione statale colpiscono tutte le comunità religiose e chiunque critichi il regime. Si può rischiare la prigione anche navigando su internet.

Thadeus Nguyen Van Ly,
prete cattolico di 59 anni, nel 2001 aveva inviato una lettera al Congresso americano, per chiedere un ritardo nella ratifica degli accordi commerciali bilaterali fra Stati Uniti e Vietnam, citando le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni religiose compiute in Vietnam.
Arrestato e condannato a 15 anni di carcere, poi ridotti a 10, ha ottenuto recentemente da una corte locale un ulteriore sconto: 5 anni di prigione e altrettanti agli arresti domiciliari. L’agenzia di stato Vietnam News Agency ha riportato la motivazione: al padre è stata riconosciuta una «buona condotta in carcere».
A Hué si dice che in prigione padre Van Ly abbia scritto e firmato lettere inneggianti al socialismo vietnamita e alla politica del partito comunista. Secondo alcune persone che hanno potuto visitarlo, il sacerdote mostra segni di squilibrio mentale e potrebbe essere stato drogato al fine di «rieducarlo».
Anche la delegazione vaticana, guidata da mons. Piero Parolin, nel suo viaggio in Vietnam alla fine di aprile 2004, ha potuto parlare del caso Van Ly con le autorità di Hanoi. Per tutta risposta i rappresentanti del governo hanno mostrato le lettere di Van Ly che manifestano la sua «avvenuta rieducazione».
Ma vari gruppi americani per i diritti umani considerano padre Van Ly un prigioniero di coscienza e hanno fatto pressioni sul governo statunitense per il suo rilascio.
La notizia della riduzione della pena è arrivata proprio alla vigilia di una visita di rappresentanti dell’Unione europea in Vietnam, in occasione di un convegno sui diritti umani, nel quale si è parlato anche del trattamento dei prigionieri.

Giovanni Bosco Pham Minh Tri,
66 anni, monaco della Congregazione di Maria Corredentrice, è stato arrestato il 20 maggio 1987, insieme a una sessantina di altri cattolici, preti e laici, per aver organizzato corsi di formazione e aver distribuito pubblicazioni religiose senza il permesso del governo.
Processato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri 22 arrestati, è stato condannato per il solito reato: «Propaganda contro il regime socialista, minaccia per la politica di unità e di sicurezza nazionale». Condannato a 20 anni di reclusione, continua a scontare la pena nelle patrie galere di Xuan Loc, provincia di Dong Nai, insieme al confratello laico Nguyen Thien Phung. Il padre soffre di disturbi mentali.
Nguyen Hong Quang,
pastore della chiesa mennonita, è stato arrestato l’8 giugno 2003. Mentre si trovava in casa, nella periferia di Ho Chi Minh, con un gruppo di scout, 30 poliziotti hanno circondato l’abitazione e dopo averlo arrestato, hanno sequestrato il suo computer, carte personali e numerosi documenti, compresi i casi di violazione dei diritti umani di cui Quang si stava occupando.
Il pastore è stato accusato di «istigazione e resistenza a pubblico ufficiale» e condannato a tre anni di carcere, insieme a 5 «complici», condannati a pene tra i 9 mesi e i 2 anni di prigione. Al processo, concluso in una sola giornata, non sono stati ammessi testimoni di difesa né giornalisti. L’accusa si riferisce alla protesta di Quang e decine di suoi fedeli contro l’arresto di 4 pastori mennoniti, avvenuta nel marzo 2004.
Quang, 45 anni, è segretario generale della chiesa mennonita in Vietnam, non approvata ufficialmente dal governo. Avvocato, ha difeso i contadini delle province e denunciato gli arresti di dissidenti politici e religiosi. In particolare, egli aveva scritto e pubblicizzato via internet un rapporto su uno dei più noti prigionieri cristiani, padre Nguyen Van Ly.
La domenica 21 novembre 2004, mentre la moglie del pastore, Le Thi Phu Dung, guidava un servizio religioso nella propria casa, sono intervenuti 40 poliziotti e hanno interrotto la funzione con la forza, denunciando tutti i presenti per «incontro illegale» e «uso di abitazione a scopo religioso».
L’incursione della polizia è solo l’ultimo di una serie di intimidazioni e denunce contro la donna protestante, già fatta oggetto di minacce, se non metteva fine alle sue attività religiose.
La situazione di alcune comunità protestanti, come quella mennonita, è un esempio emblematico della politica repressiva del governo contro la libertà di fede: le attività religiose sono permesse solo in luoghi approvati dallo stato e guidate da capi autorizzati; ma il governo continua a negare spazi e permessi per la costruzione di nuove chiese e luoghi di culto, per cui molte denominazioni cristiane usano le abitazioni private per incontri di preghiera.

Nguyen Vu Binh
giornalista, è stato arrestato il 25 settembre 2002 nella sua abitazione di Hanoi; il 31 dicembre 2003 è stato condannato a 7 anni di carcere e 3 di arresti domiciliari. Poco prima del suo arresto aveva scritto un articolo in cui criticava gli accordi in materia di confini con la Cina, nei quali il governo aveva ceduto un pezzo di Vietnam.
Dopo aver lavorato per quasi 10 anni al Tap Chi Cong San, pubblicazione del Partito comunista vietnamita, Binh aveva lasciato la sua posizione per partecipare alla formazione di un gruppo d’opposizione indipendente, chiamato Liberal Democratic Party e da allora aveva scritto numerosi articoli per criticare l’attuale linea di governo e chiedere una riforma politica. Ma il documento ufficiale della sentenza diceva che Binh era in possesso di «documenti scritti che chiedevano un intervento esterno negli affari interni del paese».
All’inizio dello scorso anno, la Corte suprema ha respinto il suo ricorso in appello, riconfermando la pena a 7 anni di carcere per spionaggio. «Per me, o la libertà o la morte – ha dichiarato Binh dopo aver udito la sentenza -. Se le autorità non mi rilasceranno, inizierò uno sciopero della fame».
Secondo le fonti del Cpj, infatti, Binh avrebbe rifiutato di mangiare dalla fine del processo. Il giornalista è attualmente detenuto nel carcere New Hoa Lo di Hanoi.

Do Nam Hai,
è uno scrittore. Negli ultimi 5 mesi del 2004 é stato arrestato ripetutamente e sottoposto a vari interrogatori anche in pubblico. Il 6 agosto la polizia lo aveva trattenuto per due giorni; il 3 dicembre è rimasto in carcere per 24 ore. Un uomo, poi identificato dallo scrittore come un poliziotto, avrebbe sequestrato il computer di Do Nam cancellando vari documenti.
Durante il 2000 e il 2001, Hai si era trasferito in Australia, dove sotto pseudonimo aveva scritto e pubblicato in internet una serie fortunata di articoli sulla storia e sulla politica del Vietnam. Negli articoli proponeva alcune idee per arrivare a una riforma pacifica e chiedeva alle autorità più democrazia e, soprattutto, l’adozione di un sistema formato da più partiti politici.
Il 10 dicembre scorso Hai ha scritto una lettera aperta alle autorità denunciando tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare negli ultimi mesi. «Avete definito i miei articoli contro rivoluzionari, contro il partito e contro il governo, ma io la penso diversamente: credo che sia materiale per la democrazia» dice nella lettera.
Secondo la testimonianza del Cpj, le pressioni sullo scrittore sono cresciute dall’inizio del 2005 e si teme un nuovo arresto.

Thich Huyen Quang,
supremo patriarca della chiesa buddista unificata del Vietnam (Ubcv), è agli arresti domiciliari quasi ininterrottamente dal 1977. Il suo vice, Thich Quang Do, condannato a due anni di domicilio coatto, fu rilasciato a giugno scorso. Ma nel mese di ottobre, tutti e due sono stati rimessi agli arresti domiciliari in località diverse, insieme ad altri 30 importanti monaci.
Il venerabile Thich Huyen Quang, all’età di 87 anni, continua a essere considerato un pericolo da parte del governo. Recentemente, ricoverato in ospedale, gli è stato impedito di ricevere le visite dai suoi monaci.
Ai primi di novembre, un gruppo di giovani del movimento «La famiglia buddista» erano in partenza per un pellegrinaggio in India, per visitare i luoghi sacri del buddismo: al momento dell’imbarco, sono stati prelevati e interrogati all’interno dell’aeroporto di Ho Chi Minh e poi rispediti ai propri monasteri.
Il viaggio era stato organizzato già da un anno e i pellegrini avevano espletato tutte le formalità necessarie per ottenere passaporto e visto. La polizia ha spiegato che il viaggio era stato annullato «per questioni di sicurezza nazionale», senza chiarire quali fossero i pericoli concreti. È probabile che si sia voluto impedire ai giovani vietnamiti di partecipare al congresso di Bodh Gaya in India, dove avrebbero incontrato i connazionali di movimenti buddisti americani, canadesi, europei e australiani.
Intanto il governo continua a vietare e scoraggiare la partecipazione alla Ubcv e richiedere ai monaci di passare sotto l’egida della chiesa centrale buddista, aggiogata al regime.

Guyen Dan Que,
endocrinologo di 63 anni, è uno dei più noti attivisti per la democrazia in Vietnam. È stato arrestato il 17 marzo 2003, per aver mandato un documento a un parente negli Stati Uniti da un internet cafè. Nel documento egli sosteneva la necessità di riforme politiche e garanzie dei diritti umani in Vietnam e criticava la gestione della libertà di informazione da parte del governo.
Il 29 luglio è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere, per «abuso di libertà democratiche antigovernative». Quindi è stato trasferito a quasi 2 mila km a nord di Saigon e rinchiuso nel carcere di Lam Son, noto per essere un campo di lavori forzati per criminali.
La sorella, Quan Nguyen, ha raccontato in che modo le autorità hanno disposto il trasferimento: «Hanno avvertito la moglie di Que di portare più medicine e soldi perché lo stavano portando lontano da Saigon. Lui non sapeva nulla. In questo modo vogliono isolarlo, nella speranza di mettere a tacere la sua voce».
Dopo il trasferimento le autorità vietnamite hanno rifiutato alla moglie il permesso di visitare il marito; il viaggio richiede comunque più di 2 giorni. Non è possibile parlare con lui telefonicamente e in molti temono la noncuranza dei carcerieri verso la sua salute precaria: soffre di ipertensione, ulcera e calcoli renali.
Quella di Dan Que è una storia esemplare: ha già scontato più di 20 anni di prigione, torture, arresti domiciliari a causa dei suoi appelli pubblici per un sistema politico multipartitico e la fine della censura in Vietnam. Nel 1978 fu incarcerato senza processo per aver criticato il sistema politico del paese. Rilasciato, ha fondato High Tide Humanism (Marea dell’Umanesimo), movimento moderato e non violento per l’affermazione dei diritti umani in Vietnam.
Medico da sempre impegnato a favore dei poveri, ha istituito una clinica basata sul lavoro di volontari, si è battuto per il miglioramento del sistema carcerario, per i diritti umani e per le minoranze etniche nel paese. Ha chiesto al governo vietnamita di investire di più nelle politiche sociali e di ridurre la grandezza dell’esercito.
Nuovamente arrestato nel giugno 1990 e, sempre senza essere processato, è rimasto in carcere fino a settembre 1998, quando fu costretto agli arresti domiciliari, sotto costante sorveglianza, con restrizioni su spostamenti e uso di ogni mezzo di comunicazione.
Nel 2004, l’Accademia delle scienze di New York gli ha assegnato il premio Pagels per i diritti umani degli scienziati. La motivazione: «Per il suo sforzo di migliorare la vita quotidiana della gente e promuovere una transizione pacifica verso la democrazia e la libertà in Vietnam».
Il Vietnam è attualmente uno dei 53 membri della Commissione per i diritti umani dell’Onu. Quindi ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti politici e civili che, in base all’articolo 19, protegge il diritto individuale di «dare, ricevere e scambiare informazioni o idee di ogni genere e tipo senza limiti di frontiere, sia oralmente, in forma scritta o stampata, o attraverso ogni altro mezzo di comunicazione».

Asia news e Comimitee to protect Joualists




DOSSIER VIETNAM La chiesa cattolica: martirio e profezia

Nel segno della croce

Non esiste in Asia una chiesa tanto perseguitata da secoli e così radicata nella cultura del popolo come quella vietnamita. Fecondata dal sangue dei martiri, essa resiste all’asfissiante controllo del regime comunista, per non essere asservita al potere e conservare la sua natura profetica.

Secondo la notizia tramandata dagli Annali imperiali della corte annamita, I-ne-Khu (Ignazio) fu il primo missionario che, nel 1533, predicò il vangelo nella provincia di Nam Dinh (Tonchino) e fu subito colpito da un editto di proscrizione. Nel 1580 ci riprovarono, nella Cocincina, alcuni francescani delle Filippine, ma anche la loro opera fu presto cancellata.
Ufficialmente la chiesa vietnamita nasceva il giorno di pasqua del 1615, quando due gesuiti, il napoletano Francesco Buzzoni e il portoghese Diego Carvalho, approdarono a Tourane (Cocincina) e celebrarono la messa con un gruppo di cristiani giapponesi esiliati dal loro paese natale. L’anno seguente la comunità contava 300 neofiti.
La presenza missionaria era scarsa e discontinua, poiché tutto dipendeva da una nave portoghese, che ogni anno portava da Macao merci e doni ai sovrani del Tonchino e della Cocincina, i due regni ostili in cui, già in quel tempo, era divisa la penisola indocinese.
Nel 1626 altri gesuiti arrivarono ad Hanoi e avviarono l’evangelizzazione del Tonchino. Uno di essi era il pistorniese Baldinotti. Un giorno, questi assistette a una curiosa rappresentazione teatrale all’aria aperta per la popolazione cinese di Hanoi: un personaggio vestito da portoghese, con una pancia enorme, da cui entrava e usciva un piccolo vietnamita. Si fece spiegare la scena: era una parodia del battesimo cristiano, in cui si «rinasce portoghesi».

L’APOSTOLO DEL TONCHINO
Il vero fondatore della chiesa vietnamita fu il gesuita francese Alessandro de Rhodes (1583-1660). Esperto matematico, eminente linguista, padre de Rhodes arrivò a Hué nel 1625; due anni dopo passò ad Hanoi ed ebbe subito grande successo: con un orologio e un’opera di matematica di Matteo Ricci incantò il re, che fece edificare una chiesa ad Hanoi; battezzò la sorella del monarca; convertì nel primo anno 200 vietnamiti, in maggioranza bonzi, altri 2.000 nel secondo, più di 3.000 il terzo anno.
Ma nel 1630 fu espulso. Si stabilì a Macao, dove mantenne i contatti, tramite i missionari che potevano entrare nel paese, con i catechisti che vi aveva formato. Tra il 1640 e il 1645 toò in Cocincina e fu espulso altre tre volte: la terza fu imprigionato e bandito dal paese sotto pena di morte. E non mise più piede nel paese.
Inviato a Roma come procuratore (1649), sollecitò Propaganda fide perché ordinasse preti locali e istituisse la gerarchia, nominando vicari apostolici per l’Indocina, in modo da sottrarre l’attività della chiesa dal sistema del padroado portoghese. Fece conoscere in Italia e in Francia quel campo di missione, procurando personale e altri aiuti: dopo 50 anni di evangelizzazione c’erano 300 mila cattolici in Tonchino e altri 500 mila in Cocincina.
Tale successo è dovuto alla notevole bontà naturale della gente, che il missionario ricambiò con profondo e rispettoso amore. Per prima cosa, de Rhodes affrontò lo studio della lingua, arrivando a possederla perfettamente. Vero colpo di genio fu la trascrizione dei suoni della lingua parlata con le lettere dell’alfabeto latino, al posto degli ideogrammi cinesi, scrittura inaccessibile alle folle.
La lingua parlata, nella trascrizione in caratteri latini, permetteva la comunicazione delle idee religiose e le novità scientifiche dell’Occidente in modo comprensibile anche al popolo semplice. La stessa lingua diventò uno strumento letterario con cui i vietnamiti cominciarono a esprimere la propria cultura, attraverso opere scritte di religione, storia, poesia, legislatura…, per la prima volta staccata dalla letteratura cinese.
Sullo stile di adattamento praticato dai gesuiti a Pechino, padre de Rhodes si immerse totalmente nella vita e mentalità del popolo, per trovare i mezzi più consoni a trasmettere i valori evangelici: nella sua catechesi sfruttava gli elementi culturali locali, come poesia e spettacoli religiosi; rispettava i riti dei defunti, che riteneva «molto innocenti e senza danno per la santità della religione»; si preoccupava di presentare il messaggio cristiano in modo che non desse l’impressione di essere una dottrina straniera o una «legge dei portoghesi».
Geniale fu pure l’idea di evangelizzare i vietnamiti mediante i vietnamiti. A tale scopo fondò la Congregazione dei catechisti: li istruiva nella conoscenza e nella pratica della fede; li addestrava nella medicina; dava personalmente l’esempio, insegnando il catechismo e soccorrendo poveri e malati. Dopo un periodo di formazione, emettevano i voti di povertà, di celibato e obbedienza.
I catechisti vivevano nella stessa casa con i missionari e il personale della missione, formando una sola famiglia cristiana e apostolica. Oltre ad istruire la gente, esercitavano tutte le funzioni che non richiedevano il sacerdozio. Nasceva così una chiesa quasi autosufficiente dal punto di vista dell’evangelizzazione, che continuò anche in assenza dei missionari. Di fatto, dopo l’espulsione dei missionari dalla Cocincina (1645) e dal Tonchino (1663), furono i catechisti a mantenere viva la chiesa in Vietnam, nonostante le ricorrenti maree di persecuzioni e martirio.
centomila martiri
Alcuni incidenti banali offrono la chiave di lettura delle successive ostilità contro i cristiani: abbattutasi una forte siccità in una zona, la popolazione cacciò i missionari, con questa accusa: «Con il pretesto di insegnare la via del cielo, rovinano la nostra terra». Nella concezione vietnamita, infatti, cielo e terra erano elementi che esprimevano una visione della vita sulla quale era costruito l’intero tessuto sociale, che la predicazione cristiana sembrava mettere in pericolo.
Lo stesso de Rhodes e il compagno padre Márquez, per aver battezzato alcuni moribondi, furono accusati dagli stregoni di possedere «un’acqua di morte che avrebbe spopolato il regno». Nel 1629 il re del Tonchino emanò tre editti per proibire ai vietnamiti di farsi battezzare e di avvicinare i missionari, rimandati a Macao con la prima nave portoghese. L’accusa ai cristiani di minare le fondamenta dello stato dura ancora oggi.
Nella Cocincina gli olandesi sparsero una calunnia infame: i missionari di Macao erano l’avanguardia della conquista portoghese. Nel 1640 i missionari furono tutti espulsi. De Rhodes e compagni ritornarono a più riprese, finché il re proibì ai suoi sudditi di «abbracciare la legge predicata» dagli europei e di frequentare i missionari.
E cominciò la persecuzione. Nel 1645 il catechista Andrea, fu pescato in casa dei missionari e condannato alla decapitazione. La stessa sorte toccò a Ignazio e Vincenzo, altri due importanti catechisti. Un altro centinaio di cristiani persero la vita nelle ondate persecutorie che seguirono fino alla fine del secolo.
Le difficoltà della presenza di missionari stranieri rendeva più che mai urgente la creazione del clero locale. Nel 1668 arrivarono due vicari apostolici, che ordinarono preti due catechisti, uno in Tonchino e l’altro in Cocincina. Nello stesso periodo fu fondato l’istituto femminile delle «Amanti della croce».
Le ordinazioni si moltiplicarono per tutto il secolo seguente; si registrò una forte espansione cristiana, specie al nord. Ma proseguirono pure le persecuzioni, con fasi altee, prima in Cocincina, poi in Tonchino, facendo circa 30 mila martiri tra i cristiani vietnamiti e missionari stranieri.
I cristiani godettero di un periodo di relativa tolleranza a partire dal 1802, quando le due regioni furono riunite sotto un unico imperatore Gia Long. Questi salì al potere con l’aiuto di un contingente di soldati francesi, inviato su sollecitazione del vicario apostolico, mons. Pietro Pigneau de Behaine.
Alla morte di Gia Long (1820), il successore Minh Mang pose le basi per una nuova ondata di persecuzione. Dichiaratosi «figlio del cielo», padre e madre del suo popolo, pontefice, legislatore e giudice assoluto, impose al Vietnam una politica di isolamento e, nel 1833, ordinò a tutti i cristiani di «abbandonare» la religione straniera. E poiché questi non rinnegavano la fede, la persecuzione si abbatté su di loro con particolare virulenza in un clima di terrore.
Il terrore cessò nel 1840 e gli incidenti furono saltuari sotto il nuovo imperatore Thieu Tri. Gli successe Tu Duc (1847) che proclamò un’amnistia generale. Ma l’anno dopo scatenò una nuova persecuzione che, col trascorrere degli anni, sfociò in autentici massacri (1851-1862).
Nonostante le persecuzioni e uccisioni, distruzione di chiese ed esilio di cristiani, la missione perdurò, anzi fece progressi. In quasi 50 anni ci furono oltre 70 mila martiri, che, sommati a quelli del secolo precedente, fanno più di 100 mila. Di questa schiera di eroi, 117 furono beatificati in date differenti e tutti canonizzati nel 1988: 8 vescovi e 21 missionari stranieri, 37 preti indigeni, 20 catechisti e seminaristi, 1 suora e 20 altri cristiani.

DAL COLONIALISMO AL COMUNISMO
Con l’occupazione francese dell’Indocina (1886) cessarono le persecuzioni sanguinose. Ciò permise alla chiesa vietnamita di espandersi, fino a diventare la più importante tra le chiese in Asia (quasi il 10% della popolazione), dopo quella delle Filippine.
Ma non finirono le difficoltà per la comunità cattolica: da una parte la politica anticlericale della Francia del tempo ne condizionava il lavoro; dall’altra i nazionalisti vietnamiti continuavano a presentare il cristianesimo come una religione straniera, con l’aggravante, ora, del sospetto di favorire la colonizzazione.
Tali sospetti furono enfatizzati dal partito di Ho Chi Minh, tanto che, nel 1931, un prete vietnamita e alcuni cristiani furono massacrati dai comunisti in un villaggio dell’Annam.
Il peggio per i cristiani è cominciato con la fine del colonialismo (1955), quando il paese fu diviso in due: nel nord, nella «Repubblica democratica» di Ho Chi Minh, cominciarono subito le purghe contro coloro che non si mostravano entusiasti del nuovo regime, facendo 1 milione e mezzo di morti. I cristiani furono i primi bersagli.
Oltre 860 mila nord vietnamiti fuggirono nel sud: di essi più di 676 mila (75%) erano cattolici. L’esodo di altri milioni continuò negli anni seguenti e durante la guerra del 1963-75, periodo in cui i vietnamiti cattolici si sono dimostrati fortemente anti-comunisti e, quindi, favorevoli ai governi sostenuti dagli Stati Uniti.
La successiva unificazione del paese, nel 1975, sotto il regime comunista del nord, segnò un’ulteriore pagina di sofferenza e di emarginazione per i cattolici vietnamiti: chiusura di tutti i seminari e noviziati; confisca delle scuole; incarcerazione del vescovo coadiutore di Saigon, ingerenze del governo negli affari della chiesa, espulsione del delegato apostolico, impedimenti ai vescovi di comunicare con la Santa Sede.
Nel 1989 il card. Roger Etchegaray, inviato speciale del papa, poté visitare 10 delle 25 diocesi del Vietnam. Tale visita è servita in certo senso per sbloccare la situazione, avviando un dialogo col regime comunista. In seguito, una decina di delegazioni del Vaticano si sono recate ad Hanoi per trattare con il governo; nell’ultima, in giugno 2001, sembra che le autorità vietnamite si siano mostrate più aperte e cordiali rispetto alle visite precedenti.
Ora in Vaticano si parla di «segnali di buona volontà» provenienti da Hanoi. L’ultimo è del gennaio 2005: negli incontri tra il presidente vietnamita Tran Duc Luong e quello della camera italiana, Ferdinando Casini, in visita al Vietnam, Tran ha affermato che «non vi sono contrasti tra Hanoi e Vaticano» e che per i «rapporti diplomatici» tra i due è solo «questione di tempo».
I mezzi di comunicazione di stato hanno dato risalto a tale evento, usando espressamente i «rapporti diplomatici»: per alcuni sarebbe quasi un impegno da parte del governo vietnamita. Ma altri sospettano che si tratti della solita carota, per imbonire l’opinione internazionale e nascondere il solito bastone.
chiese piene
Negli anni successivi all’unificazione, la politica del governo marxista-stalinista mirava a distruggere la chiesa cattolica. Poi, sull’esempio della Cina, ha cercato di fondare una specie di chiesa patriottica, chiamata «Associazione dei cattolici patriottici»; ma senza successo: i pochi aderenti sono solo a Ho Chi Minh.
Non potendo sopprimerla, e grazie ai mutamenti politici seguiti alla caduta del muro di Berlino, lo stato non considera più la chiesa «oppio» del popolo, ma continua a essere sospettoso e cerca di asservirla alla sua causa, usando il bastone e la carota.
Alcune chiese e proprietà confiscate nel passato, ormai ridotte in uno stato fatiscente, sono restituite con solenni cerimonie ufficiali. In tali occasioni partecipano sempre eminenti personalità del regime, che elogiano e incoraggiano l’opera della chiesa, soprattutto perché si prende cura di handicappati, ospedali, lebbrosari, orfanotrofi, asili infantili e altre opere sociali.
Ma intanto lo stato continua a mantenere il pieno controllo su tutte le attività caritative, sociali, educative e culturali della chiesa, specialmente quelle rivolte ai giovani.
Ancora più asfissiante è il fiato del regime sul collo del personale ecclesiastico: lo stato controlla le nomine episcopali e le ordinazioni sacerdotali; gli spostamenti di vescovi, preti, religiosi, suore anche per fini pastorali; le ammissioni e la formazione dei seminaristi, alcuni dei quali devono aspettare anche 10 anni prima di poter essere ammessi.
Nonostante le restrizioni, continua la fioritura di vocazioni sacerdotali e religiose, specialmente nella vita consacrata femminile. In ogni diocesi sono almeno 100 giovani disponibili a entrare in seminario, ma i seminari concessi dal governo sono appena 6 e ciascuna diocesi non può mandarvi più di 10 seminaristi ogni due anni.
Ma il problema più grande, riguarda la formazione e l’aggioamento del clero. Il governo impone ai seminaristi lo studio della filosofia marxista-leninista, materia normalmente riservata ai membri del partito comunista.
Nonostante il clima di ostilità in cui vive, la chiesa vietnamita è viva, attiva, entusiasta della propria fede: la pratica religiosa è altissima (80-90%); i laici continuano con coraggio il loro impegno nella chiesa e nella vita sociale. Continuano le conversioni, perfino tra le fila degli impiegati statali, col rischio di perdere il lavoro o almeno di essere considerati impiegati di serie «B».

PROFEZIA A RISCHIO?
Un giorno il regime comunista sparirà anche dal Vietnam, come è avvenuto in altri paesi. Ma come sarà la chiesa vietnamita, quando riavrà la sua piena libertà? L’interrogativo che si pone anche padre Chan Tin, redentorista vietnamita di 84 anni.
Egli denuncia l’«arsenale giuridico» con cui il governo soffoca la libertà religiosa, ma lamenta anche la «rassegnazione» della chiesa vietnamita nell’accettare l’ingerenza del potere nei suoi affari, illusa dagli scampoli di apparente libertà.
«Il fatto che lo stato esige la sua previa approvazione nella formazione, nomina e collocamento interno alla chiesa – spiega padre Chan -, fa sì che quanti lavorano nella chiesa e per la chiesa siano, alla lunga, alla mercé del potere, pronti a conformarsi alle sue esigenze. Senza contare che, dai ruoli guida nella chiesa, rimangono escluse le persone più competenti e capaci di autentica testimonianza cristiana. Alla fine la chiesa diverrà a poco a poco un docile strumento nelle mani del potere. Una volta giunto a questo stadio, il potere potrà lasciarle libertà totale, perché essa non avrà altra capacità che quella di eseguire gli ordini del partito e dello stato».
Tale politica sottile e peiciosa, lamenta padre Chan, sta minando alla radice il carattere profetico della missione della chiesa, la quale si accontenta di vedere le chiese strapiene la domenica, ma che di fronte a certi casi di abuso di potere, rimane in silenzio o al più accenna a qualche timida protesta.
«La politica religiosa di questo regime sta snaturando la chiesa cattolica e le altre chiese del paese – confessa padre Chan -. Temo che quando esso sarà passato, la mia chiesa non sarà più una chiesa autentica; che essa non possa più andare a testa alta, fiera dei suoi sacrifici e del suo coraggio, come lo ha fatto nel passato, gloriandosi delle centinaia di migliaia di martiri».
Più ottimista è il messaggio che Giovanni Paolo ii ha affidato ai vescovi del Vietnam, durante la visita ad limina, alla fine di gennaio 2004. Per la prima volta il governo vietnamita ha «concesso» a tutti di recarsi a Roma. «Quando farete ritorno al vostro nobile paese – ha detto il papa -, fate sapere ai vostri sacerdoti, religiosi, religiose, catechisti, fedeli laici e specialmente ai giovani, che il papa prega per loro e li incoraggia ad affrontare le sfide che pone il vangelo, prendendo esempio dai santi e dai martiri che li hanno preceduti lungo il cammino della fede e il cui sangue versato rimane un seme di vita nuova per l’intero paese…
La vitalità e il coraggio dei laici vietnamiti che anche oggi vivono e celebrano la loro fede in condizioni spesso difficili, la decisione altrettanto coraggiosa dei sacerdoti nell’annuncio del vangelo, come pure la fioritura delle vocazioni alla vita consacrata, specialmente nella vita religiosa femminile, sono fattori molto importanti per il futuro della chiesa in questo paese dalla storia così spesso travagliata».

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM Ultima legge in materia di fede e religione.

È tutto… sotto controllo

Il 15 novembre 2004 in Vietnam è entrata in vigore l’Ordinanza sulle credenze e le religioni. È tutta basata sul sistema di «richiesta e concessione»: il perfido sistema «del bastone e della carota». Così lo stato controlla tutto: personale e attività, fino al sentimento religioso, compreso quello legato ai culti tradizionali del paese.

Dopo 6 anni di gestazione, il 18 giugno 2004 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale ha approvato i 6 capitoli e 41 articoli dell’Ordinanza sulle credenze e religioni. La legge è entrata in vigore il 15 novembre dello stesso anno.
Il documento ribadisce il principio costituzionale della libertà religiosa: «Ogni cittadino può seguire o non seguire una religione», ma tale premessa è oscurata negli articoli successivi: in essi si «permettono» diverse attività, ma sempre e solo dopo previa «autorizzazione» governativa.
Il controllo statale si esercita a 3 livelli: distrettuale, provinciale e nazionale. I primi 2 livelli sono gestiti dai Comitati del popolo, mentre l’ultimo è di competenza dell’Ufficio per gli affari religiosi e del primo ministro. Il Fronte patriottico è un altro mezzo di controllo. I suoi membri hanno il dovere di «incoraggiare i fedeli e i religiosi ad applicare l’ordinanza» e possono partecipare alla «stesura e supervisione» di ulteriori ampliamenti all’Ordinanza.

LIBERTÀ RELIGIOSA… PERMESSA
In base a tale legge, ogni organizzazione, per vivere, deve essere riconosciuta e registrata presso gli uffici per gli affari religiosi. Lo stesso vale per «congregazioni, conventi e forme di vita religiosa in comune».
Per quanto riguarda l’educazione, si possono istituire scuole per la formazione di personale religioso, ma solo dietro autorizzazione del primo ministro. In questi istituti lo stato stabilisce anche i programmi didattici e extra didattici e seleziona gli iscritti. Obbligatorio l’insegnamento della storia e delle leggi del Vietnam.
Attività e iniziative dei gruppi religiosi riconosciuti vanno programmate annualmente e si possono eseguire solo dopo autorizzazione governativa. Eventi fuori programma devono avere l’approvazione degli uffici per gli affari religiosi, come pure feste, riti, credenze, congressi e conferenze.
Anche l’ecumenismo, la collaborazione, l’unità, il trasferimento, la distribuzione del personale, ecc… nelle varie organizzazioni cadono sotto il controllo dello stato: tutto deve essere comunicato e approvato dalle autorità governative.
Ordinazioni, promozioni e nomine all’interno delle gerarchie religiose, sono regolate dai «codici e dalle procedure delle singole comunità». I candidati, però, vengono valutati dallo stato, che ne giudica la validità dal punto di vista morale e civico.
Pubblicazioni, stampa e diffusione di materiale religioso necessitano di autorizzazione. Produzione e vendita di oggetti per il culto e la pratica religiosa devono rispettare le regolamentazioni governative.
La predicazione è permessa solo nei luoghi di culto, anche questi stabiliti dalle autorità statali.
Per quanto concee le proprietà, le terre dove sono situati edifici religiosi devono essere utilizzati in modo regolare e permanente. Il rischio possibile, in caso di inadempimento, e la confisca delle terre stesse.

LIBERTÀ RELIGIOSA… SOSPESA
Il testo dell’Ordinanza prevede anche la possibilità di «sospendere» la libertà religiosa. Le motivazioni che possono spingere il governo ad adottare tale provvedimento sono vaghe e si prestano a diverse interpretazioni e strumentalizzazioni.
La legge dice che la libertà religiosa in Vietnam viene sospesa nei casi in cui «minacci l’unità dello stato» (secondo il testo, infatti, ecclesiastici e religiosi «devono» insegnare ai fedeli «i valori della patria e il rispetto delle leggi»), sia «contraria ai buoni costumi, minacci «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico», rappresenti un pericolo per «la vita, la dignità, l’onore e la proprietà».
La nuova Ordinanza suggerisce alle comunità religiose l’impegno nei problemi sociali, incoraggiandole «a prendersi cura dei bambini, dei malati, dei poveri e dei disabili», ma sempre «in accordo con le regolamentazioni statali».
L’Ordinanza, inoltre, prevede che chi è stato in prigione per motivi religiosi e ha finito di scontare la pena può tornare a svolgere attività quali preghiera, evangelizzazione, partecipazione a funzioni solo dopo l’approvazione dell’Ufficio affari religiosi.

MEGLIO AL TEMPO DI HO CHI MINH
Anche se l’Ordinanza è in vigore dal novembre scorso, il testo della legge era stato presentato in via provvisoria nel dicembre 2000. Fin da allora ci sono state reazioni negative, interventi e suggerimenti da parte del clero ed episcopato cattolico, pastori protestanti e monaci buddisti, ma senza alcun risultato.
I vescovi della provincia di Ho Chi Minh hanno affermato: «La libertà religiosa è un diritto; e un diritto non si accontenta di un sistema che funziona per domande e concessioni dell’autorizzazione».
Stesso concetto è stato ribadito di recente da mons. Etienne Nguyen Nhu The, vescovo di Hué. Egli afferma che l’Ordinanza «non segna un’apertura sufficiente» per la piena libertà religiosa nel paese, perché «restiamo dentro un principio contrario alla libertà religiosa: quello di chiedere permesso e ottenere concessioni dal governo» in tema di libertà, di credo e di culto.
«Bisogna sempre domandare al governo la possibilità di fare ogni cosa – continua mons. Nguyen Nhu The -. Se il governo non dà il permesso, non si può fare niente». Di conseguenza «la chiesa non può organizzarsi come dovrebbe. Non abbiamo il diritto di organizzarci come vorremmo; bisogna sempre essere autorizzati in ogni scelta e decisione: per questo non c’è ancora piena libertà».
Durante l’assemblea generale di fine settembre 2004, la Conferenza episcopale vietnamita ha scritto una lettera all’Ufficio degli affari religiosi del governo di Hanoi affermando che «la nuova legge sulla vita religiosa è ancora inscritta in un sistema di “richiesta e concessione” in tema di libertà religiosa. Questa situazione non è ancora quella di una piena libertà, perché si è ancora sotto controllo».
In molti ritengono la legge sulle credenze e le religioni ancor più restrittiva delle precedenti norme. Il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh, ha definito l’Ordinanza «peggiore della legge di Ho Chi Minh del 1955», giudicata più liberale di quella attuale, ma di fatto mai applicata.
Secondo padre André Mals, delle Missions Etrangères de Paris (Mep), per molti anni missionario in Vietnam, poi espulso dal governo di Hanoi, nel paese c’è una restrizione liberticida verso le religioni e un netto peggioramento per la libertà religiosa: «Finora si voleva controllare la pratica pubblica dei vari culti. Ora si decide di determinare direttamente il sentimento religioso delle persone».

PERICOLO… PERSECUZIONE
Critici verso la legge sono soprattutto i gruppi di cristiani protestanti, che ne hanno lamentato la pericolosità. Il reverendo Pham Dinh Nhan, capo degli evangelici del Vietnam ha avvertito che «l’Ordinanza creerà problemi e disuguaglianze soprattutto a riguardo dei luoghi di culto e di preghiera».
Tale legge mira «a bandire in modo definitivo le case che abbiamo dovuto adibire a chiese e che dal 1975 aspettano un riconoscimento statale – rincara il pastore -. Molti articoli dell’Ordinanza foiscono alle autorità locali una giustificazione legale alla persecuzione delle chiese in Vietnam».
Dalla fine della guerra, nel 1975, il governo ha chiuso o convertito ad altri scopi molti luoghi religiosi. Il reverendo Pham ha di recente invitato i fedeli a digiunare e pregare 3 giorni al mese, da settembre a novembre, affinché il governo cancelli l’Ordinanza, metta fine a «pregiudizi e persecuzioni» contro la chiesa e le sue attività.
La pesante repressione governativa è visibile nelle aree rurali più che nelle grandi città; ma soltanto perché il governo, impegnato nella ricostruzione del paese, non vuole attirare l’attenzione dei suoi partner commerciali e delle autorità inteazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

* Per gentile concessione di Asia News.

BOX 1

Alcuni aricoli dell’ordinanaza

Art. 1 – Il cittadino ha il diritto di godere della libertà di credenza e religione e di aderire o meno a una religione. Lo stato garantisce la libertà di credenza e religione dei cittadini. Niente può minare questo diritto.

Art. 16 – Il primo ministro approva le organizzazioni religiose che operano in molte province e città sotto la diretta amministrazione del governo centrale.
Il presidente del Comitato del popolo di una provincia o città… approva le organizzazioni religiose che operano principalmente in tale provincia o città. La registrazione delle attività religiose e la procedura per riconoscere le organizzazioni religiose devono essere approvate dal governo.

Art. 17 – La fondazione, divisione, fusione e unificazione di gruppi religiosi locali devono essere approvate dal Comitato del popolo provinciale.

Art. 18 – Convegni e conferenze di organizzazioni religiose locali hanno bisogno dell’approvazione del Comitato provinciale del distretto. Per convegni o conferenze a livello nazionale è necessaria l’approvazione dell’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.

Art. 21 –
Capi di conventi religiosi hanno la responsabilità di registrare presso il Comitato del popolo del villaggio i nuovi membri reclutati.

Art. 22 – Ordinazioni, promozioni, nomine, elezioni… devono essere concordate in antecedenza con l’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.
Le organizzazioni religiose hanno la responsabilità di registrare i loro candidati e informare gli uffici competenti della dimissione e rimozione di ecclesiastici.

Art. 23 – Trasferimento di ecclesiastici o religiosi da un luogo all’altro devono essere notificati al Comitato del popolo del distretto nel luogo di partenza e registrare presso quello del luogo di destinazione.

Art. 24 – L’apertura di scuole per la formazione di operatori religiosi deve essere autorizzata dal primo ministro.
Ogni reclutamento per tali scuole deve essere fatto secondo principi pubblici e regole approvate, e deve offrire agli studenti libertà di arruolamento.
La storia e le leggi del Vietnam sono soggetti obbligati del programma scolastico per la formazione degli operatori religiosi.

Art. 33 – Lo stato incoraggia e provvede condizioni favorevoli per le organizzazioni religiose perché si impegnino nel prendersi cura di bambini fisicamente e mentalmente disabili; assistano i centri sanitari per i poveri, disabili, persone colpite da Hiv/Aids, lebbrosi o handicappati mentali; aiutino lo sviluppo di scuole infantili e prendano parte in altre attività a scopo umanitario o caritativo.

(Asia Focus)

Marta Allevato