LETTERE – Chi ascolta gli adolescenti?

Cari missionari,
nel vostro interessante «dossier giovani» di gennaio 2005 ho notato con piacere che accennate al contesto, troppo spesso sciocco e deleterio, nel quale vivono gli adolescenti. Chi ascolta però gli adolescenti quando fanno denunce appropriate? Ecco la nostra piccola storia emblematica.
La minuscola «oasi Bakhita», presso la parrocchia San Martino di Rivoli (Torino) è luogo d’incontro e formazione per adolescenti (12-19 anni), alcuni dopo-cresima altri in preparazione alla cresima (fuori corso), tutti impegnati nel «Comitato un cuore per San Rocco», con l’obiettivo di aiutare il parroco nell’informare, documentare e organizzare azioni di raccolta fondi per il restauro della chiesa di San Rocco in Rivoli, costruita nel 1630 dai rivolesi, come ex-voto per la scampata peste.
Per trasformare la chiesa in concreto simbolo di pace abbiamo organizzato con i ragazzi rosari per la pace, leggendo i messaggi di Giovanni Paolo ii e presentando alcune guerre dimenticate (Missioni Consolata ci è stata utile). Nell’oasi Bakhita sono esposti i versi di Dante: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza».
Al rientro dalle vacanze, i ragazzi hanno segnalato, molto sdegnati, che nel centro storico di Rivoli, all’uscita di un oratorio e non lontano dalla chiesa di San Rocco era stato aperto un sexy-shop. Ne abbiamo discusso e scritto l’allegata poesia, appesa dal parroco alla porta della chiesa e inviata al cardinale di Torino che ci ha risposto, facendo felici i ragazzi.
Purtroppo però il negozio è ancora lì. Quanti genitori, insegnanti, educatori, amministratori pubblici diventano per apatia complici del male, scordando il monito evangelico: «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perdere anima e corpo nella Geenna!» (Mt.10,28).
Silvana Bottignole
sociologa

Siamo un gruppo di teenagers (12-19 anni) di Rivoli, molto dispiaciuti che nel centro storico di Rivoli sia stato aperto un «sexy-shop». Con l’aiuto della nostra educatrice abbiamo scritto questa poesia, che sarà certamente apprezzata da tanti nostri coetanei e da tutte le persone di buona volontà che vogliono bene a Rivoli.

L’apertura di un sexy-shop
nel centro storico di Rivoli
è AZIONE DI GUERRA.
GUERRA contro la CULTURA
perché innesca il degrado.
GUERRA contro i BAMBINI
perché uccide l’innocenza.
GUERRA contro le DONNE
perché ne mortifica la dignità
GUERRA contro tutti gli UOMINI
perché svilisce l’intelligenza ed il cuore.
Il filosofo laico Compte-Sponville ha scritto:
«Tollerare è sopportare un peso:
farlo sopportare agli altri non è più tolleranza.
Tollerare Hitler era farsi suo complice,
quantomeno per omissione, per abbandono;
e questa tolleranza era già collaborazionismo».
Denunciamo chi «uccide l’anima»
con un’azione di GUERRA
nel centro della piccola e signorile RIVOLI.

Un gruppo di giovanissimi
di Rivoli (TO)

Carissimi,
ho ricevuto la vostra lettera con acclusa la poesia… Sono perfettamente in sintonia con voi e mi rammarico che nella nostra società si sviluppi questo tipo di proposte e di pubblicità, proponendo realtà che avviliscono la dignità delle persone, sia adulte che giovani.
Sono pertanto vicino a voi nel condannare questa situazione, anche se non so come, dal punto di vista della legge, sia possibile frenare queste cose. Il nostro dovrà essere soprattutto un impegno per l’educazione della sensibilità delle persone a riguardo di una situazione delicata e veramente avvilente.
Ogni vostra iniziativa, nel rispetto e nel dialogo, finalizzata a far sì che queste realtà non dilaghino, non è che da benedire e da incoraggiare.
Vi assicuro del mio ricordo nella preghiera e vi saluto con una cordialissima benedizione per voi e le vostre famiglie.
Card. Severino Poletto
arcivescovo di Torino

Silvna Bottignole e aa.vv.




LETTERE – Abbracci da Sevilla

Carissimi tutti,
grazie mille per la vostra stupenda rivista che tanto mi aiuta a capire meglio i problemi dell’umanità e ad assumermi la parte di responsabilità che mi spetta. Grazie alla quasi totale comprensione della lingua italiana, posso gustare, mese dopo mese, gli stupendi articoli e il loro contenuto. Sono inoltre felice di potere, a volte, incontrare qualche ex-compagno di noviziato, trascorso alla Certosa di Pesio nel 1969-70, sotto la guida di padre Giuseppe Mina, recentemente scomparso.
Abbracci a tutti da Sevilla, da un ex allievo che per 8 anni ha vissuto la meravigliosa esperienza di essere membro dell’Istituto, ma che il Signore ha incamminato su un’altra strada; ma continuo a collaborare con la vostra casa di Madrid.

Carmona




LETTERE – Ancora tanta gioia dalle adozioni

Carissimo direttore,
non ho mai scritto alla «nostra» rivista, lo faccio adesso per rilanciare quanto affermato dal sig. Manlio Mazza di Torino (marzo 2005, p. 6). L’adozione «a distanza» resta, a mio parere, un atto sublime di sensibilità e generosità: si aiuta un bambino a crescere, studiare, entrare nel mondo del lavoro nella propria terra, senza sradicarlo, accontentandoci di saperlo felice.
A tutti i lettori auguro di provare la stessa gioia del sig. Mazza, che alcuni tuoi «vecchi compagni» vivono già da tempo. Non esitate, dunque, abbiamo la fortuna che il nostro piccolo aiuto può essere gestito direttamente dai nostri missionari, con la certezza che ogni euro arriva integro dove c’è bisogno.
Ciao, Checco, e buon lavoro! Dalle pagine della nostra rivista bombarda i lettori su questo argomento, perché i bambini sono la ricchezza di tutti, non solo di chi li ha messi al mondo. Salutami tutti i «vecchi», per i quali nutro infinita riconoscenza, per il tanto che mi hanno dato e per il poco che hanno ricevuto.

Il «nostro» lettore è stato compagno di padre «Checco» Beardi fino al ginnasio. Grazie per sentirsi membro della «nostra» famiglia missionaria. Da parte nostra continueremo nel bombardamento di… pace.

Francesco Basta




LETTERE – “Avrei tante cose da dire…”

Gentile Angela Lano,
premetto che sono un volontario, praticante e anche ausiliario della Sindone (questo per ovvi motivi, dato che non sono d’accordo col suo articolo di marzo 2005 pag. 28).
Non regge il paragone con la nostra emigrazione verso gli Usa e altri paesi: si trattava di un popolo di religione cristiana, come la maggior parte della gente del paese nuovo; per cui non portava gravi turbamenti al riguardo, non avrebbe picchettato di luoghi di culto completamente diverso; anzi ha collaborato alla costruzione di chiese nuove ecc. Inoltre non esisteva un blocco della nostra religione, come in Arabia, Sudan, Congo, Iran…
Non c’era un abisso totale insuperabile (lo si vede tutti i giorni) di usi e costumi e a cui è sciocco e, anzi, «colpevole» passare sopra, nell’entusiasmo dell’accoglienza: l’ultima disgrazia del crollo della casa occupata da extracomunitari (madre e bimba rumene, morte a Torino il 6-3-2005, ndr) non è forse responsabilità di chi dice, in fondo, «venite, venite»?
Se va avanti così, la cattolicità potrà crollare, infiltrata e circondata da ogni parte dall’islam, che si vede sempre più in tv, su libri, su giornali, su tutto, per un buonismo errato (ci manca solo la Turchia…).
Tante cose avrei da dire ancora, ma forse «non potrai portae il peso».
Guarda che la maggior parte degli italiani la pensa così, e anche C. Biffi ecc.

A lei e alla «maggior parte degli italiani che la pensa così» avremmo anche noi tante cose da dire. Come «ausiliario della Sindone», vorremmo solo invitarla a leggee bene il significato: l’immagine che vi è impressa dovrebbe ricordarle il Cristo «in agonia fino alla fine del mondo» per dirla con Pascal, cioè, che continua a patire e morire in coloro che fuggono dalla miseria, fame, ingiustizie e oppressioni di ogni genere. E quando ci sarà il giudizio dei popoli (Matteo 25), non le sarà chiesto come ha adorato il Cristo nell’«uomo della Sindone», ma se lo ha riconosciuto e servito nell’affamato, assetato, ignudo, malato, profugo, senza tetto… sia cristiano che islamico.

lettera firmata




LETTERE – Lavaggio del cervello

Gent. don Farinella,
scrivo per manifestarle la mia stima e apprezzamento per gli articoli pubblicati su Missioni Consolata. In particolare condivido appieno le sue affermazioni riguardanti il sig. Berlusconi, apparse su «Battitore libero» di marzo 2005.
Ciò che più rattrista e indigna è il lento ma inesorabile lavaggio del cervello mediatico a cui parte della popolazione italiana si è lasciata sottoporre, negli ultimi 20 anni, dalle sue tv commerciali, con i risultati che lei bene esprime nel suo articolo.
Grazie di cuore a lei e a voi tutti di Missioni Consolata, Paolo Moiola in testa, per essere voce nitida, lucida e critica in un momento di così grande disorientamento morale e civile per il nostro caro paese.
Da più di 10 anni accompagnate il mio cammino di crescita cristiana nella chiesa, quello di mio marito e di nostro figlio Emmanuele, 18enne, studente impegnato, serio e appassionato catechista, ottimo musicista.
Contrariamente a quanto scrive un sacerdote delle nostre parti (… Sassuolo è terra di ceramiche e ricchi industriali), io credo che la vostra rivista sia «davvero» per famiglie che desiderano crescere nella luce di Cristo e del vangelo.
Lettera firmata
Modena

Anche noi della redazione ringraziamo per l’incoraggiamento a continuare nel nostro impegno di essere, alla luce del vangelo, una coscienza critica della società in cui viviamo.

lettera firmata




Ricordando Romero

Lunedì 24 marzo 1980, mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, fu assassinato mentre stava celebrando l’eucaristia nella cappella di un ospedale, insieme agli ammalati. Cadde sull’altare, mescolando il suo sangue al vino che stava offrendo per il sacrificio eucaristico. Fu ucciso perché si era schierato e identificato con i poveri, gli emarginati, i disprezzati, condividendone le sofferenze, sull’esempio di Cristo, fino a dare la vita.
«Credo di conoscere il vangelo – disse un giorno in un incontro di preghiera comunitaria -; ma sto imparando a leggerlo in altro modo». La radicalità evangelica era la base della sua libertà straordinaria, che lo spingeva ad ammonire i potenti, fino a chiedere ai soldati di disubbidire agli ordini di morte, come fece il giorno prima del martirio, nell’omelia tenuta nella cattedrale, «Fratelli… davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è tenuto a obbedire un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate e obbediate alla vostra coscienza, piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio e di questo popolo sofferente, vi supplico, vi chiedo, vi ordino: cessi la repressione».
Era una morte annunciata. «Se mi uccidono, risorgerò nel mio popolo» aveva detto poco tempo prima.
A 25 anni dal suo martirio, Romero è vivo non solo nella sua gente e nelle chiese dell’America Latina, ma anche in quella universale e in tutti coloro che nel mondo si schierano in difesa della dignità della persona, per la giustizia e per la pace.

Egli sapeva che tale scelta evangelica gli avrebbe procurato la persecuzione, come ebbe a dire in una omelia del 1977: «La persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa. Sapete perché? Perché la verità è sempre perseguitata… Quando un giorno fu domandato a Leone xiii quali siano le note che distinguono l’autentica chiesa cattolica, il papa disse subito le quattro conosciute: una, santa, cattolica, apostolica. “Aggiungiamone un’altra – disse il papa -: perseguitata”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata».
A 25 anni dalla morte, Romero continua a essere un profeta scomodo, non solo ai potenti della terra, ma anche nella chiesa: nell’indirizzare il processo di beatificazione qualcuno cerca di farlo passare come confessore della fede, piuttosto che come martire della giustizia.
Scriveva Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente: «Gli eventi storici legati alla figura di Costantino non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la chiesa è diventata nuovamente chiesa di martiri, come nei primi tre secoli» (Tma 37).
È un’affermazione coraggiosa, che va oltre quella di Leone xiii: non solo la persecuzione è una nota dell’autenticità della chiesa; ma questa è più più libera quando è osteggiata e perseguitata.

La libertà evangelica di Romero è un esempio valido anche per noi, in Italia ed Europa, dove da secoli, i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e libertà.
La perdita di certi privilegi acquisiti, per cui si sente levarsi voci di lamento e vittimismo, è nulla in confronto alla «grande tribolazione» che vivono i nostri fratelli e sorelle in altri continenti, dove i cristiani pagano con il sangue la loro sequela del Signore, la radicalità delle beatitudini, la fame e sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati degli stranieri.
Oggi, piuttosto, esiste un’altra persecuzione, di cui parlava Ilario di Poitiers nel 360, all’inizio dell’era costantiniana: «Ora combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… che non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma s’impossessa del nostro cuore; non ci taglia la testa, ma uccide l’anima con l’oro e il potere…» (Contra Costantium 5).

Benedetto Bellesi




004-Così sta scritto – Dio li benedisse e disse loro

Il verbo «benedire» e il sostantivo «benedizione», in secoli di pratica cultuale, hanno perso il loro significato originario. Vogliamo tentare di recuperare «una» dimensione biblica, senza pretendere di esaurire tutta la complessità di significato che questi termini hanno.
a) In accadico, kara¯ bu significa pregare, consacrare, benedire, salutare. In arabo, baraka esprime beneficio, flusso benefico che viene da Dio, dai santi, dalle piante, da cui benessere, salute o felicità. In ebraico, la radice brk da cui il verbo ba¯ rak, dotare di forza vitale, e il sostantivo bera¯ ka¯, forza salutare o vitale, ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio.
In Oriente, il termine ginocchio è un eufemismo, cioè un modo attenuato e indiretto per indicare gli organi sessuali maschili; in questo senso vi sarebbe una parentela con l’accadico birku, ginocchio e grembo.
b) Questi cenni etimologici dicono un nesso tra benedire/inginocchiarsi e benedizione/ginocchio, stabilendo un collegamento tra benedire/benedizione e gli organi sessuali maschili. Se qualche lettore si stupisce ora, lo invitiamo a proseguire nella lettura fino in fondo, garantendo che non siamo maniaci.
In base alle loro conoscenze «scientifiche», per gli antichi è l’uomo che trasmette la vita, mentre la donna è solo una incubatrice di seme. Discendenza, infatti, in ebraico si dice «zera’» che il greco biblico traduce con sperma (Gen 12,7; Gal 3,16). Ecco il senso: benedire significa trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo. Questa benedizione è unica: una volta data non può più essere tolta.

Quando si benedice Dio, si usa sempre il participio passato passivo ba¯ rûk, benedetto, perché in Dio la benedizione è uno «stato» permanente della sua persona, mai un augurio: «Sia benedetto!», che indica un compiersi nel tempo. Dio «è» Benedetto. Sempre. È la benedizione stessa.
Quando Dio benedice trasmette la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per rendere partecipi della sua pateità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”» (Gen 1,28), dove il nesso tra «benedire» ed «essere fecondi», cioè generare, è evidente.
Quando l’uomo benedice, trasmette tutta la sua energia di vita a colui che è benedetto. Ora si capiscono meglio le parole di Dio a Caino dopo il fratricidio (Gen 4,10). Dice il testo ebraico: «La voce dei sangui (demê, sic! plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui, cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio, perché futuro e presente sono legati in vita e in morte.
In Genesi 27 si narra la storia di Giacobbe che carpisce con inganno la benedizione al fratello Esaù, il quale implora per sé la benedizione; ma il padre Isacco non può riprendersi tutta la sua capacità generativa che ha trasmesso al fratello, il quale resterà benedetto per sempre (v. 33).
Esaù supplica il padre piangendo: «Non hai conservato per me una benedizione?» (v. 36); «hai dunque una sola benedizione?» (v. 38). Isacco non può più benedire Esaù, perché ha trasmesso tutto il suo seme promessa/premessa del futuro che cova nella sua potenza generativa a Giacobbe.
La benedizione/fecondità patriarcale conduce la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello; il padre lo accompagna con queste parole: «Ti benedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (28,3), che sono l’eco di Dio creatore in Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”».
c) La benedizione, come atto che trasmette la vita e la capacità di generarla in ogni relazione umana, comprende un gesto, l’imposizione della mano o delle mani, e una parola, che accompagna e spiega il testo. Il gesto senza la parola è solo mimica; la parola senza il gesto è solo suono evanescente. È la stessa dinamica della creazione: «Dio disse… e così fu».
Parola e fatto. Dabar/Lògos. La Parola è il senso dell’avvenimento, che è incarnazione della Parola. Non a caso gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità, di popolo, di popoli sono «le parole» con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che Dio parla agendo e agisce parlando: parola/fatto, cioè dabar.
In sintesi, benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione; in senso spirituale significa generare colui/coloro che si benedice. Altrimenti: chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice.

I l nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e, spesso, le parole si rincorrono a vuoto, approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra «parola» ed «evento» della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri.
La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, presidenti del consiglio, deputati, superiori, parroci, vescovi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza ai loro governati: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio.
Lo stesso vale per la vita di fede: rito e vita stanno insieme, altrimenti i sacramenti sono solo «rituali» amorfi e senza sapore. Inutili. Vuoti. Nel marasma politico che attanaglia il mondo intero e il nostro popolo, in questo momento grave della nostra Repubblica assistiamo a un genocidio delle parole, utilizzate come corpi morti, senza anima e senza vita, perché usate come strumenti per ingannare e camuffare la realtà, piegandola ai propri piccoli e meschini interessi. Oggi in Italia domina la logica dell’utile, non la dinamica feconda della benedizione generante.
Incaati nella storia, i cristiani hanno il dovere e l’onore di rendere testimonianza alla Parola con le loro parole accompagnate da gesti di verità e coerenza, affinché la loro vita e presenza nella storia siano una «benedizione di fecondità», capace di generare quanti incontrano sul loro sentirnero di carne, per ritrovare in ciascuno e in tutti il volto velato di Dio, il quale, benedicendo, ci rende fecondi di vita e artefici di Storia: profeti dell’amore, per amore e con amore.
È la benedizione della tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, che scende feconda e ri-generante su tutti i nostri lettori e le loro famiglie. Amen!

Paolo Farinella




COME STA FATOU? Manuel Antonio ce la farà


Prima di partire per una nuova destinazione, un medico dell’Organizzazione mondiale della sanità fa il bilancio della propria esperienza in un paese uscito distrutto da una lunga guerra civile. Tanti problemi, tanta sofferenza, ma anche esperienze umane indimenticabili.

Manuel Antonio mi guarda con un sorriso aperto. Anche sua madre sorride. Il medico le ha appena detto che questa volta suo figlio è salvo. Sì, Manuel Antonio ce la farà. Era stato colpito dalla malaria 5 giorni fa. La malaria si era subito complicata perché il bambino era molto denutrito.
Il villaggio di Manuel Antonio è alla periferia del mondo, in una Angola martoriata dalla guerra per tanti anni e dove la maggior parte della popolazione vive nella povertá estrema. Non c’erano farmaci antimalarici, né un medico o un infermiere per aiutare Manuel Antonio.

MAMMA ANGELINA
Come tante altre mamme angolane, Angelina ha dovuto percorrere piú di 200 chilometri, in parte a piedi, in parte con veicoli di fortuna, o militari, prima di arrivare all’ospedale provinciale. È durata tre giorni la corsa disperata contro il tempo per portare Manuel Antonio all’ospedale di Kuito, la capitale della provincia di Bié: è una zona che è stata a presa in mezzo da una guerra che ha distrutto un paese e la sua gente per più di 30 anni. Duecento chilometri di polvere, fame, fatica e paura, per strade, sentirneri e campi seminati di mine antiuomo.
Nel paese oggi c’è la pace, dopo che, nell’aprile 2002, l’esercito nazionale ha firmato l’armistizio con le forze dell’Unita. Angelina ha perso gli altri figli nella guerra. Dopo gli accordi di pace, si è ricongiunta con suo marito da cui era rimasta separata per 5 lunghi anni. Lo aveva dato per morto o per disperso in guerra. Angelina, come altri 4 milioni di persone, è tornata al suo villaggio, con la speranza di rivedere i suoi cari e rifarsi una vita.
La lunga guerra non ha piegato gli angolani. Sono fieri della loro terra e ora sperano che la pace durerà per sempre. È incredibile come sia stato possibile che, in così breve tempo, tanta gente sia ritornata a casa. È incredibile che, dopo 30 anni di guerra tutti adesso sembrano essersi già dimenticati che il loro vicino di casa era il nemico da abbattere.

I POSTUMI DELLA GUERRA
In una Angola traboccante di petrolio, diamanti ed altre ricchezze minerarie, con una potenzialità enorme anche per le risorse turistiche ed agricole, è incredibile che la povertà estrema riguardi il 69 per cento della popolazione.
È incredibile ma è vero che, seppur la guerra sia finita da piú di due anni, ancor oggi la gran parte della popolazione si ritrovi a lottare disperatamente per la sopravvivenza, per poter mettere i figli in una scuola e per riuscire a trovare un infermiere per curarsi. Sono i postumi della guerra la nuova condanna da cui ora ci si deve liberare. Sono i suoi effetti devastanti, fisici e culturali. I signori della guerra, interni ed estei al paese, hanno mantenuto acceso il conflitto a lungo per potersi arricchire; ma ora la popolazione vuole costruire un futuro di pace, fatto di scuole elementari, centri sanitari periferici, amministrazioni municipali funzionanti.
Solo pochi dei 163 municipi del paese possono già permettersi il lusso di una organizzazione e di un finanziamento pubblico che consenta gettare le basi di uno sviluppo produttivo, di una ricostruzione del tessuto sociale della comunitá, e l’accesso all’istruzione primaria e alla sanità di base.
Guardo Manuel Antonio e vedo in lui un milione di bambini che in Angola sono colpiti ogni anno dalla malaria, una malattia ormai scomparsa dal mio paese che qui invece uccide ogni anno almeno 30.000 bambini sotto i cinque anni e piú di mille donne gravide. Quando penso a questi bambini che muoiono ogni anno, non voglio vederli come cifre, statistiche da manuali asettici. Voglio vedee i volti, per capire che dietro questi numeri in realtá ci sono persone, bambini come i miei figli, donne come mia moglie.
Guardo Angelina ed il suo Manuel Antonio. E mi chiedo come sia possible che tante Angeline e tanti Manuel Antonio vivano la tragedia della malaria nell’era della tecnologia. Cosa sta succedendo in questa strano mondo perché, nella sola Angola, ogni anno altri 40.000 muoiano di malattie contagiose ma facilmente prevenibili, come la denutrizione, la diarrea, le malattie respiratorie, il morbillo e la malattia del sonno.
Per questo, appena arrivato in Angola, mi sono sentito preso dal lavoro, nell’impossibile pretesa di fare qualcosa di sostanziale per cambiare le cose, per rendere l’organizzazione dei servizi piú funzionale, piú efficiente e migliorare la qualitá dell’accesso alla sanitá di base.
Ora, con l’avvento della pace, c’è bisogno di lavorare ancor piú sodo e senza sosta con il governo per ricostruire il paese in fretta, per evitare tante morti e tanta sofferenza. C’è bisogno di lavorare con le Ong e le altre agenzie delle Nazioni Unite. Di coinvolgere maggiormente le ambasciate, le compagnie private e sostenere la crescita della società civile angolana, ancora così debole e dare una voce a chi non ce l’ha mai avuta.
In quattro anni, dal 2000, l’ufficio dell’Oms in Angola è cresciuto da 17 a piú di 100 dipendenti, di cui tre quarti medici gestori e tecnici sanitari e sono stati aperti dai due iniziali, altri 18 uffici a livello provinciale per aiutare le autoritá sanitarie.
Le attivita hanno dato priorità all’analisi sistemica della realtá socio-sanitaria e identificazione delle prioritá sanitarie; essere in grado di riconoscere le malattie, notificarle e combatterle d’accordo alle risorse disponibili, preparazione di schemi di diagnosi e cura per evitare le morti matee e infantili; integrazione dei programmi e implementazione di una strategia che consenta, attraverso la presenza a livello periferico di stock di farmaci essenziali e di professionisti della sanitá, di garantire un pacchetto ‘minimo di servizi’ a tutta la popolazione, dalla vaccinazione contro la polio, il morbillo ed il tetano, alla lotta alle malattie sessuali e al’Aids.
Mentre ho ancora nel cervello l’immagine di Manuel Antonio che mi sorride, penso alle molteplici inizitive che abbiamo instancabilmente prodotto in questo paese. Penso ai generatori consegnati, ai tre Tir e ai due camion di zanzariere con insetticida, materiali di laboratorio e farmaci antimalarici che abbiamo distribuito in sei province con alta mortalitá infantile e matea per malaria in questi ultimi mesi grazie al finanziamento dell’Unione europea. Penso al sistema di sorveglianza delle malattie a trasmissione sessuale, tra cui l’Aids, che è stato possibile costruire grazie a finanziamenti italiani.
Penso ai colleghi dell’Oms, medici e tecnici, che lavorano senza risparmiare energie nelle 18 province del paese ed al loro impegno costante per aiutare i direttori sanitari provinciali a capire le prioritá di gestione, a elaborare piani d’azione, a eseguire e valutare le attivitá.
Quando al mattino corro nella ‘marginal’ di Luanda, penso a come potrei migliorare le nostre azioni sul territorio e creare migliori opportunitá di politica sanitaria per i piú vulnerabili con le poche risorse a disposizione. Quando dormo, penso a come meglio appoggiare le attivitá dei nostri colleghi del ministero della sanità angolano. A come pappoggiare il vice-ministro, generoso e convinto della sanità di base, ad accelerare le strategie integrate per aumentare l’accesso ai servizi sanitari, attraverso la sua influenza. Spero che possa continuare in questa lotta quotidiana e generosa a favore della sua gente troppo martoriata dalla miseria e dalle malattie. Penso a come potremmo accelerare gli sforzi, aggirare le lentezze, gestire le difficoltá di comprensione e le paure nell’esecuzone delle strategie.
Penso a Manuel Antonio, sei mesi, diagnosi di malaria grave che questa volta è riuscito a scamparla. Ma ci riuscirà anche nelle altre due volte che prenderà la malaria? Già, perché ogni bambino in Angola, si prende la malaria in media tre volte all’anno…
Angelina mi guarda e sorride. Si sente meglio oggi. Ha lottato per il suo bambino, con disperazione e dignità. E ce l’ha fatta. Manuel Antonio è sfuggito al destino impietoso che ogni anno non risparmia migliaia di bambini come lui. La sua mamma che ci ha creduto, i medici e gli infermieri che l’hanno curato, chi l’ha accompagnata nella lunga strada che separava il suo villaggio dall’ospedale, i colleghi del ministero della sanità angolano, il mio amico e compadre vice- ministro ed io, questa volta ce l’abbiamo fatta. Tutti i nostri sforzi ne valevano la pena: Manuel Antonio è salvo.
Guardandomi allo specchio, credo di essere invecchiato 8 anni in questi 4 anni, ma credo di poter dire che ce l’ho messa tutta. Ora mi aspetta un nuovo paese e una nuova avventura umana.

Pier Paolo Balladelli




NICARAGUA Ventiquattrore nella discarica

El Pantanal e Acahualinca sono quartieri che circondano «la Chureca» nelle vicinanze del lago di Managua. «La Chureca» è una parola che non compare nel dizionario, ma è un’auto-definizione creata dalla gente che abita qui. Si tratta di una discarica di oltre 47 metri di profondità che esiste dagli anni Cinquanta, ovviamente senza alcun tipo di controllo.

Un bambino che non avrà neppure 14 anni affonda le mani in una montagna di spazzatura: è vestito con dei pantaloni marroni, che forse una volta erano bianchi, una maglietta grigia e un cappellino rosso molto sporco che probabilmente ha trovato tra la spazzatura. È uno dei tanti bambini-lavoratori che incontriamo durante la nostra visita alla discarica. Porta a tracolla un sacco grande quasi quanto lui, dove mette tutte le cose che trova (bottiglie di vetro o plastica; pezzi di ferro, legno e materiali riciclabili in genere) e che proverà poi a vendere per poter – almeno quel giorno – mangiare qualcosa. Continuiamo ad addentrarci nella Chureca e l’odore è sempre più nauseabondo: un misto di esalazioni di animali morti, spazzatura e prodotti chimici che arrivano dal contaminatissimo lago di Managua, che si trova a pochi metri dalla Chureca.
Qui arrivano ogni giorno più di 1.400 tonnellate di spazzatura e con esse la speranza di mangiare per più di 100 famiglie. Per tutte loro la discarica rappresenta l’unico mezzo di sopravvivenza. Queste persone lavorano con ritmi estenuanti: per tutta la notte e altri fin dal mattino presto, frugano tra i rifiuti cercando qualcosa con un minimo di valore, circondati da animali morti, cani randagi, avvoltorni, mucche e cavalli che pascolano sul posto.
Nelle vicinanze del lago di Managua, al Nord della capitale, abbiamo incontrato Eddy Perez, che in passato lavorava raccogliendo spazzatura, e oggi è un educatore di strada che lavora da anni con le popolazioni dei quartieri, che circondano e sopravvivono con la Chureca.
«La Chureca – ci spiega Eddy – è la principale discarica della capitale, che produce, secondo le stime ufficiali, un totale giornaliero di 1.400 tonnellate di spazzatura, ma noi crediamo che siano molte di più. La sua estensione è di 64 ettari e al suo interno lavorano 1.300 persone, di cui più della metà sono minori di 18 anni. Questa è una parte della popolazione urbana che si è vista obbligata a vivere qui spinta dalla difficile situazione economica. La Chureca permette loro di mangiare: è l’unica strada che la gente può percorrere per sopravvivere. Nella Chureca vivono 133 famiglie in baracche del tutto inadeguate, senza servizi igienici, né acqua potabile né elettricità, costruite con materiali di recupero, a loro volta scartati da altre persone, che li ritenevano inservibili. La gente qui alla Chureca vende magari un chilogrammo di alluminio, rame, vetro, carta o plastica e risolve in questo modo le necessità basiche di un giorno per loro e i loro figli. Sono persone che non sanno misurare il domani, perché non hanno la certezza di arrivarvi. Questa realtà non glielo permette, non consente loro di avere nessun progetto per il futuro».
Aldilà dei materiali che si possono vendere per il riciclaggio i churequeros raccolgono anche scarti di cibo come ossa di maiali, scarti di pesce e verdura marcia che arrivano dal mercato orientale, il mercato più grande di Managua. Con questi scarti cucinano e mangiano famiglie intere, molte volte anche sul posto, con conseguenze per la salute facilmente immaginabili. Purtroppo, la metà di questi lavoratori sono bambini a cui non viene riconosciuto nessun diritto, la cui vita non conosce scuola, né giochi, e il cui futuro è gravemente compromesso.
Sono stati fatti molti progetti per far uscire dalla povertà questa parte di popolazione, ma la spazzatura rimane la loro unica certezza. Nel frattempo, la Chureca continua a rappresentare una contraddizione umana per chiunque si guardi attorno: da un lato trova la bellezza del tropico e l’esuberanza della natura, dall’altro indifferenza, miseria e fame.
Josè Carlos Bonino

Josè Carlos Bonino




NICARAGUA Mondi locali ed ecosistemi a rischio

Un sacco di riso transgenico proveniente dagli Usa costa
meno di un sacco di riso naturale prodotto in Nicaragua.
È sempre più incerto il futuro di indigeni e contadini di fronte all’avanzata dell’Alca, del Piano Puebla-Panamà, del Corridoio biologico mesoamericano.
A tutto ciò si aggiungono le zone franche e le fabbriche
di assemblaggio (maquilas), che certamente non aiutano lo sviluppo locale.

Managua. L’America Centrale – come scriveva Pablo Neruda – è la cintura del continente americano e al centro troviamo il Nicaragua. A Managua, la capitale, abbiamo incontrato esponenti della società civile impegnati nella difesa della sovranità alimentare e di un modello di sviluppo economico congruente con i bisogni della maggioranza dei nicaraguensi.
Il settore agricolo e l’allevamento hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo da protagonisti nello sviluppo economico e sociale del piccolo paese. L’agricoltura è da sempre la componente più importante dell’economia nicaraguense ma, negli anni, è stata segnata profondamente dalla travagliata storia del Nicaragua. Dopo i 50 anni di dittatura somozista (finiti nel 1979 con la rivoluzione sandinista), nel 1990 l’agricoltura ha cominciato a subire le conseguenze dell’applicazione del modello neoliberale. Da una parte, infatti, i governi subentrati negli anni Novanta non hanno fatto altro che promuovere questa tendenza economica e dall’altra le riforme strutturali imposte al paese hanno aggravato la già difficile situazione della classe contadina.
Ne parliamo con José Adan Rivera Castillo, vicepresidente della Atc-Unapa (Associazione dei lavoratori della campagna), l’associazione più rappresentativa degli agricoltori nicaraguensi.
«La nostra organizzazione – ci spiega – lavora con due blocchi di persone: lavoratori salariati raggruppati in 131 sindacati e piccoli produttori raccolti in 345 cornoperative. L’Atc ha iniziato a lavorare nel 1977 prima del trionfo della Rivoluzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, avvenuto nel 1979, quando cadde la dittatura di Anastacio Somoza. Dopo questa data ebbe inizio un processo in cui per la famiglia rurale contadina si aprì uno spazio nuovo: la riforma agraria, dove si distribuì la terra a coloro che la lavoravano, cioè ai contadini. Questo grande cambiamento in effetti colpì molto i proprietari terrieri e nel 1984 gli Stati Uniti iniziarono la guerra contro il Nicaragua.
È stata questa guerra che fece rimanere incompiuta la riforma agraria, perché essa non consisteva soltanto nel consegnare la terra ai contadini ma anche nell’avere accesso alla formazione, alla tecnologia, all’educazione, alle reti commerciali: insomma integrazione verticale e orizzontale nel sistema produttivo contadino. Non ci fu il tempo di portare a compimento la riforma agraria perché la guerra, l’invasione, i porti minati e le migliaia di morti non lo permisero. Seguì una pressione estea che finì nel 1990 con il disarmo totale di tutte le parti in conflitto: la controrivoluzione da una parte e il popolo e i contadini dall’altra. Poi iniziarono i governi neoliberali. Questi stabilirono uno schema giuridico agrario a favore della controriforma agraria, che mirava a spogliare i contadini delle loro terre per beneficiare i grandi proprietari terrieri, che erano fuggiti 25 anni prima e che volevano la restaurazione delle loro proprietà. Tutto ciò fece sì che gli ultimi tre governi – come quello di Doña Violeta Barrios de Chamorro del 1990, quello di Aoldo Aleman del 1996 e l’attuale governo di Enrique Bolaños del 2000 – decostruirono quelli che erano gli strumenti di appoggio alla piccola produzione, cominciando dalla Banca nazionale di sviluppo (che si occupava del finanziamento ai piccoli produttori), che privatizzarono. In seguito crearono una serie di leggi che riguardavano la proprietà per obbligare i contadini ad abbandonare la loro terra e non dettero nessun tipo di appoggio alle associazioni di contadini organizzati: fu un piano strutturato per spogliarci delle nostre terre. Perché noi, come contadini, ci troviamo in totale svantaggio e per uscire da questa situazione stiamo stimolando l’associazionismo; in tal senso abbiamo approvato una nuova legge generale delle cornoperative che è il modello dell’organizzazione a cui vogliamo dare impulso. L’obiettivo è poter sviluppare l’attitudine imprenditoriale presso i piccoli produttori e contadini del Nicaragua, che rappresentano più dell’80% della produzione alimentare nazionale e hanno un grande potenziale di sviluppo. Non si tratta di dire: “il Cafta e l’Alca sono cattivi”; “quella è una politica colonialista”».
«Noi dobbiamo cercare una risposta alternativa. Io credo che ci siano due modelli in conflitto: un modello esclusivo, concentratore, punitivo e un altro partecipativo, autogestionario, umanista e di solidarietà. Sono due sistemi contrapposti, è una lotta ideologica permanente in tutti i campi. Stiamo creando strategie comuni con il movimento sociale e con le università perché difendano le posizioni contadine. In altre parole; stiamo ricostruendo le alleanze sociali per affrontare questo fenomeno, quest’offensiva neoliberale costituita dall’Alca, dal Plan Puebla-Panamà, dal Corridoio biologico mesoamericano».

GOVERNI SUCCUBI, LAVORATORI IN GINOCCHIO
La classe dirigente centroamericana al potere (fatta eccezione per la Costa Rica, unico paese dell’America Centrale ad aver resistito all’Alca) non ha una strategia alternativa, un progetto autoctono di sviluppo, solamente ripete gli argomenti della controparte statunitense che chiaramente ha un progetto ben preciso e sta tentando in tutti i modi di ottenere il via libera. La classe contadina ha un suo progetto di sviluppo ma è molto difficile da attuare visto che le negoziazioni sono state fatte in segreto come ci spiega Hermogenes Rodriguez della giunta direttiva della Fenacornop (Federazione nazionale di cornoperative agricole, di allevamento e agroindustriali), la federazione di cornoperative più importante del Nicaragua formata da 620 cornoperative (di cui 371 si occuppano di produzione agricola e di allevamento e 249 cornoperative prestano servizi vari).
«Noi che abbiamo seguito queste negoziazioni, all’inizio molto segrete, le abbiamo trovate molto compartimentate, per questo abbiamo dovuto impegnarci molto per conoscere i testi originali. Prima è stato necessario conoscerli a livello di dirigenza della Federazione e poi trasmetterli alle nostre basi sociali. Noi crediamo che il Nicaragua e, perché non dirlo, l’America Centrale si siano avventurati in una negoziazione di un trattato complesso e pericoloso, come l’Alca, sotto la pressione dell’ondata di globalizzazione mondiale. Quindi, si tratta di una imposizione che il paese sta soffrendo e che non ha avuto una seria analisi da parte del governo. Queste trattative per la loro natura sono state condotte da governo a governo, in modo molto isolato, tagliando fuori il settore sociale e produttivo. Solo molto tempo dopo, i politici hanno inscenato un più ampio coinvolgimento per giustificarsi e poter dire che la società civile e i settori coinvolti in questo trattato hanno dato il loro parere».

PRODUTTORI LOCALI SCHIACCIATI DAL MERCATO
Il trattato dell’Alca e più precisamente il Cafta è indispensabile per gli Stati Uniti, innanzitutto perché consente loro di piazzare su un mercato esterno (quello centroamericano) le loro eccedenze agricole e la produzione industriale che non è competitiva all’interno della loro economia. In secondo luogo, l’Alca è indispensabile per incrementare il processo di remissione dall’estero di utilità, pagamenti per royalties e capitali, processo che sostiene l’economia statunitense. Infine, gli Usa hanno bisogno di questo megamercato latinoamericano per facilitare le sue transnazionali nell’appropriazione di risorse strategiche indispensabili per aumentare la loro competitività. Di fronte a questa chiara strategia politico-economica, il governo nicaraguense ha ceduto incondizionatamente e ora pretende di far diventare il Nicaragua un paese ancora più povero e analfabeta. A tal proposito abbiamo incontrato Alvaro Fiallos Oyanguren, presidente della Unag (Unione nazionale agricoltori e allevatori), organizzazione contadina che con i suoi 72.634 membri è il consorzio più importante dei produttori e allevatori medi del Nicaragua.
«Il governo del Nicaragua ha elaborato la teoria che questo paese debba svilupparsi in base al settore dei servizi, come il turismo e le zone franche, convertendo il piccolo produttore – considerato non efficiente – in operaio di maquila e addetto del turismo.
L’attuale situazione di crisi ha fatto aumentare l’analfabetismo, che nella campagna raggiunge ormai il 60%, e, in generale, ha peggiorato le condizioni di vita della gente. Infatti la popolazione in stato di povertà si aggira intorno al 70%, di cui un 20-25% si trova in una situazione di estrema povertà. Questo è, a mio parere, il prodotto dell’applicazione delle riforme strutturali, della politica del Fondo monetario internazionale e della preferenza espressa da questo governo per le politiche di investimento estero, a totale scapito dei produttori nazionali.
Con la ratifica del Trattato di libero commercio (Alca) l’effetto sarà completamente negativo: non c’è nessuna capacità reale di competere – soprattutto nel settore rurale – con i produttori degli Stati Uniti che hanno tutte le condizioni materiali ed economiche a loro favore, come la modeizzazione tecnologica e i grandi sussidi da parte dello Stato. Ovviamente tutto ciò altera le relazioni commerciali. Arrivano in Nicaragua prodotti statunitensi sussidiati a competere con i nostri prodotti che non hanno neanche il finanziamento di base, con la paradossale conseguenza che un sacco di riso transgenico Usa costa meno di un sacco di riso naturale coltivato in Nicaragua. Ne deduciamo che la competitività che dovrebbe stabilirsi in un trattato tra eguali non esiste».

BIODIVERSITÀ A RISCHIO
Accanto al Cafta c’è il Ppp (Piano Puebla-Panama) orientato ad offrire l’infrastruttura al megamercato americano. Il suo disegno è stato realizzato dai tecnocrati della Banca mondiale e del Bid (Banca interamericana di sviluppo) e nella sua formulazione comprende uno spazio che si estenda dallo Stato di Puebla nel sudest del Messico, attraverso altri 8 stati messicani, per arrivare a comprendere tutti i paesi Centroamericani fino a Panamà. Il finanziamento complessivo si aggira intorno ai 4.4 mila milioni di dollari, di cui il 96.3% è assegnato alla costruzione di strade, il restante 3.7% è per lo sviluppo sostenibile e la protezione del Cbm (Corridoio biologico mesoamericano) che si estende dal Chiapas messicano fino al Panamà.
Il Ppp prevede la costruzione di reti di autostrade, oleodotti e gasdotti, porti, aeroporti, dighe e un sistema di interconnessione energetica, oltre all’impiantazione di zone franche in tutta quest’area geografica. Tutto questo in una delle aree più incontaminate del pianeta, coperta ancora per gran parte dalla foresta pluviale e che, a livello mondiale, è seconda, per biodiversità, solo all’Amazzonia. Infatti quest’area, pur coprendo appena lo 0,5% della superficie totale del pianeta, alberga il 7% di tutta la biodiversità conosciuta nel mondo. Appare dunque evidente come uno degli obiettivi principali degli Usa sia proprio estrarre la riserva biogenetica da questa area con l’aiuto del Cbm, con lo strumento giuridico del brevetto delle specie biogenetiche e con l’ausilio dell’infrastruttura prevista dal Ppp. A questo quadro allarmante va aggiunta la risorsa-acqua che in questo momento, con la rivoluzione biotecnologica, è diventata un patrimonio strategico.

CONTRO GLI INDIGENI, CONTRO I CONTADINI
Un altro aspetto importante della strategia occulta del Ppp consiste nel costruire un sistema di 30 dighe lungo l’asse Puebla-Panamà e in questo modo interrompere le reti di sviluppo autoctone e smembrare le popolazioni delle comunità indigene e delle popolazioni contadine, che per il loro stretto rapporto di interdipendenza con la natura sono i più indifesi di fronte a questo tipo di cambiamenti. In un secondo momento il Plan Puebla-Panamá intende consegnare titoli di proprietà a queste stesse popolazioni, in cui l’uso della terra è invece ora comunitario, per poter smembrae definitivamente l’economia collettiva.
Queste popolazioni stanno resistendo al Ppp, perché coscienti che esso verrà a sconvolgere il fragile equilibrio del loro sistema ecologico ed eco-compatibile. Di questo ci parla José Adan Rivera dell’Atc.
«Noi siamo stati tutto questo tempo in resistenza di fronte a questa situazione che viene a coronarsi con macro-programmi come il Ppp perché si sono rivelati illusori e dannosi. Quest’ultimo infatti si è tradotto solamente nell’articolazione della strada Panamericana , ma, al di fuori di questa, tutte le strade intee verso le comunità sono distrutte, non c’è nessun tipo di comunicazione intea, a conferma che la infrastruttura viaria del Ppp è stata concepita per favorire il passaggio di merce del Nord verso il Sud e per saccheggiare risorse dal Sud verso gli Stati Uniti.
Anche nel settore energetico il quadro appare contraddittorio. Nel campo dell’energia, infatti, ci sono grandi interconnessioni elettriche ma ancora il 40% delle comunità locali non hanno l’elettricità. In base a tutte queste considerazioni, possiamo davvero affermare che il Nicaragua sia stato convertito in una discarica a cielo aperto per quanto riguarda l’ambiente, e in una riserva di mano d’opera a basso costo per quanto riguarda l’aspetto sociale. Non è infatti un caso se tutta la strada Panamericana è stata disseminata di zone franche che, oltre all’elevato profitto delle multinazionali, producono lo smembramento culturale della gioventù contadina con false illusioni di guadagno.
Con la diminuzione numerica degli occupati nel settore agricolo, i Paesi centroamericani, vincolati dai nuovi trattati neoliberali, diventeranno ancor più dipendenti dalle importazioni alimentari estere, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione».

A VOI L’INQUINAMENTO, A NOI IL PROFITTO
In questa direzione si sta muovendo l’attuale governo nicaraguense che ha deciso di dare forte impulso al cosiddetto «Piano nazionale di sviluppo» (Plan nacional de desarrollo o Pnd). Scopo principale di tale iniziativa è quello di creare dei clusters, ovvero una serie di concentramenti di attività economiche composte da infrastrutture come fabbriche, reti di comunicazione, forza lavoro ecc.
Sono sei i clusters previsti: energia, turismo, prodotti tessili, prodotti caseari, prodotti forestali e agrumi. Dietro alla creazione di questi clusters c’è un lungo elenco di trasnazionali, come Enron, Chiquita Brands, Del Monte Foods, Nestlé, Philip Morris, Danone, Parmalat ecc. Queste transnazionali si doteranno di concimi, macchinari, consulenza tecnica di alto livello ecc. provenienti dall’estero e all’estero toeranno anche i guadagni (come nel caso della maquilas o zona franca) e pertanto non lasceranno al Nicaragua altro che un salario da fame.
Infatti, questo tipo di economia in America Latina venne chiamata «economia rondine», con allusione al carattere volatile di tali investimenti. Tutto questo senza parlare dell’inquinamento che lasceranno dietro di sé queste industrie, a causa dell’inesistenza di norme a difesa dell’ambiente.
Il Nicaragua è un paese povero e non sarà certo grazie a questo vecchio modello di agricoltura d’esportazione che uscirà dalla povertà. Invece, a nostro parere, una possibile via d’uscita sostenibile si trova nel modello alternativo proposto dalle organizzazioni contadine di piccoli e medi produttori e allevatori (che in Nicaragua rappresentano il 99%), dalle cornoperative e dalla gente che lavora nel settore terziario. Questo nella convinzione che l’economia popolare abbia la capacità di risolvere i problemi laddove ha fallito il modello agricolo d’esportazione, come ci racconta Orlando Nuñez Soto, direttore del Cipres (Centro di ricerca e promozione dello sviluppo rurale e sociale), un centro di ricerca che appoggia, attraverso 30 progetti specifici, lo sviluppo rurale di 150 comunità contadine, 5mila famiglie in tutto il Nicaragua.
«La nostra proposta è di sussidiare le famiglie contadine perché producano latte, uova, carne, frutta, verdure e cereali, e in questo modo compensino con la produzione alimentare i problemi che l’economia commerciale crea loro.
La nostra proposta di produzione alimentare è integrale e si irradia all’interno delle famiglie, all’interno delle cornoperative, all’interno delle comunità. Questo permette alla comunità di amministrare meglio le relazioni con la città, tanto a livello commerciale quanto a livello politico: è questa la nostra strategia. Il problema è che al Nicaragua è stato chiesto dai Paesi ricchi di produrre beni commerciali per l’esportazione come legno, caucciù, oro, cotone e caffè a seconda delle necessità delle metropoli europee e nordamericane. Parallelamente i contadini hanno prodotto per mangiare perché la produzione commerciale non ha mai lasciato eccedenze al Nicaragua a causa della vendita sottoprezzo di tali beni d’esportazione. In questo modo il Nicaragua si trova al centro di un circolo vizioso: più produce più si decapitalizza, più esporta più le sue terre diventano sterili, più sfrutta le risorse ambientali e più perde la sua biodiversità e la sua gente emigra. Oggi, con il “Piano nazionale di sviluppo”, assistiamo a un’offensiva ancora maggiore: non solo ci richiedono i beni commerciali per l’esportazione, come nel passato, ma addirittura ci viene proposto che il Nicaragua si trasformi in mercato per i paesi industrializzati. È noto infatti che l’Europa e il Nord America producano e vendano alimenti e abbiano problemi per “piazzare” le loro eccedenze: pertanto hanno bisogno dell’America Latina, e in questo caso del Nicaragua, come mercato di consumo dei loro prodotti. Si tratta di una lotta in corso tra noi che vogliamo continuare a produrre alimenti per conservare la nostra sovranità alimentare e i paesi ricchi e le imprese transnazionali che vogliono il contrario. Praticamente è in atto il tentativo di smantellamento dell’agricoltura centroamericana che, se riuscisse, costringerebbe il Nicaragua a vendere, per poter sopravvivere, le spiagge, le sorgenti d’acqua e gli ultimi boschi che restano».

BOX 1
Questo viaggio…

In questo viaggio attraverso l’America Centrale abbiamo raccolto molte testimonianze. Abbiamo voluto seguire una linea immaginaria che transita per i quattro paesi, partendo dal Nicaragua, passando per l’Honduras e El Salvador ed infine arrivando in Guatemala. Questa linea tocca i punti deboli di ognuna di queste piccole realtà, diverse tra loro, ma con problematiche che si estendono all’intera area centroamericana. Per il Nicaragua, ad esempio, abbiamo intervistato esponenti e leader contadini alla luce della crisi della sovranità alimentare, che espone i contadini al rischio di sparizione e fa sì che il problema della povertà acquisisca dimensioni endemiche e probabilmente irreversibili. Dal Nicaragua abbiamo viaggiato verso nord, verso Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, dove abbiamo incontrato dirigenti sindacali, donne leader contadine e diversi esponenti dei Centri di difesa dei diritti umani. Abbiamo voluto investigare sulla situazione delle zone franche o «maquillas» (che in castigliano antico significava: «quegli avanzi» che si lasciano al proprietario del mulino per l’utilizzo dei suoi macchinari) e più specificamente la situazione dei diritti delle donne che vengono pagate intorno ai 25 centesimi di euro all’ora e costituiscono la quasi totalità della mano d’opera all’interno delle zone franche.
Andando ancora al nord, a 5 ore di strada dalle montagne di Tegucigalpa, troviamo El Salvador, probabilmente il paese più piccolo dell’America Latina, chiamato non per altro «il pollice d’America». A San Salvador – la capitale – abbiamo avuto degli incontri con economisti rappresentanti di organizzazioni sociali e contadine e con i membri di un Centro di difesa dei diritti umani. Abbiamo cercato di capire di più sul perché oltre un quarto della popolazione salvadoreña è residente negli Stati Uniti: sarà forse perché più del 90 per cento dei suoi fiumi sono inquinati, la campagna senza acqua si sta svuotando, le città crescono a ritmi impressionanti e con queste le enormi bidonvilles che la circondano.
Infine, siamo arrivati in Guatemala, paese per più della metà indigeno. A Città del Guatemala abbiamo intervistato il procuratore dei diritti umani e alcune donne indigene che sono impegnate nella «ricostruzione della memoria storica» dopo il conflitto armato che finì solo nel 1996 e che per tre decenni pesò sulle popolazioni indigene del Guatemala con più di 250.000 vittime. Queste donne lottano per la difesa dei diritti umani, per il compimento degli accordi di pace, per la partecipazione femminile alla vita politica e civile e per il risarcimento delle vittime della guerra.
L’America Centrale per tanti aspetti è la parte più debole dell’America Latina e non reggerà di certo alle conseguenze che deriveranno dai trattati come il Cafta, il Ppp e il Cbm nella attuale situazione in cui si trovano. Proveremo a spiegare il perché lasciando parlare i protagonisti delle società civili centroamericane.

BOX 2
Glossario


Alca: «Area di Libero Commercio delle Americhe». Trattato commerciale firmato al summit di Miami nel 1994 dai 34 capi di stato del continente americano. Prevedeva una tappa iniziale di «preparazione», fino al 1998 con l’intenzione di concludere l’accordo nel 2005. In termini di mercato coinvolge una popolazione di 780 milioni di abitanti, un terzo del prodotto lordo globale e il 20% del commercio mondiale. L’Alca è promosso dagli Stati Uniti, che pretendono di utilizzarlo come strategia per riacquistare la sua egemonia perduta in materia di competitività nei confronti dell’Europa e dei paesi asiatici. Attualmente molti paesi dell’America Latina hanno opposto resistenza, tra essi principalmente il Brasile, il Venezuela e l’Argentina.

Ppp: «Piano Puebla-Panamà». Vi partecipano i 9 stati più poveri del sud del Messico, insieme ai paesi centroamericani e a Panamà. È un macro programma centrato nella costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, reti ferroviarie, corridoi energetici, ecc.) lungo l’America Centrale, che permetterà in futuro di estrae le risorse e trasportare merce verso l’America del Sud.

Cafta: «Area di Libero Commercio per l’America Centrale». Sessione dell’Alca circoscritta ai paesi dell’America Centrale.

Cbm: «Corridoio Biologico Mesoamericano». Ne fanno parte Messico, Belize, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panamà. È un sistema di cornordinamento territoriale di aree protette. Proposta parallela al Ppp e al Cafta, viene cornordinata dai ministri dell’ambiente dei paesi dalla Mesoamerica all’interno della Commissione centroamericana dell’ambiente e lo sviluppo (Ccad).


Josè Carlos Bonino