Viaggio in Caquetà

Un paese esagerato
Racconto di un’esperienza nella foresta amazzonica: incontri, sapori, colori e… missionari nel bunker.

La signora colombiana emigrata in Italia, insieme alla quale abbiamo condiviso la traversata dell’oceano, ci aveva guardati stupita e incredula dopo aver saputo la nostra destinazione: «In Caquetá?». Per lei, che conosce bene quelle terre, avrebbe fatto meno effetto un soggiorno a Baghdad.
Florencia, Caquetá, la porta dell’Amazzonia. Fare turismo da queste parti è facile, soprattutto per quanto riguarda la preparazione del bagaglio; nella valigia serve mettere solo una cosa: l’incoscienza. Qui uno straniero passa inosservato come un marziano a Firenze, fare una foto ci mette a disagio tanto quanto passeggiare nudi per le vie del centro di una qualsiasi delle nostre città; tutti ti guardano e si chiedono: «Perché?».
La stazione di Florencia si anima di buon’ora; ogni partenza è una storia e ogni viaggiatore è un attore: mille romanzi tutti diversi. Avendo tempo, ci si può fermare, osservare mondi lontanissimi in ogni persona; ma bisogna partire e recitare anche noi la nostra storia.

SGUARDO DAL FINESTRINO

La scelta del mezzo su cui viaggiare offre tre opzioni: la chiva, tradizionale autobus coloratissimo, privo di finestrini e porte, dove si può caricare qualsiasi bagaglio personale e dove può capitare di avere come vicino di viaggio un maiale o una pecora; la jeep, che però è molto scomoda se ti capitano i posti laterali; il piccolo pulmino, il mezzo che abbiamo scelto noi.
L’eccitazione della partenza pare coinvolgere tutti, sembra una gita. Senza rendersene conto, si diventa parte di un gruppo e la solidarietà fra gli occupanti del veicolo si avverte a pelle, senza bisogno di parole. In queste zone, il viaggio è sempre molto pericoloso: è facile non arrivare a destinazione.
Sono stato fortunato, il passeggero che mi è toccato vicino non è un maiale, né una capra: è un giovane costeño (abitante della costa; termine usato abitualmente per indicare gli afro-colombiani) dalla pelle scura e dal fisico possente. In compenso viaggio con un gallo da combattimento chiuso in una scatola di cartone sotto al sedere!
Il primo posto di blocco ci aspetta subito fuori l’abitato di fronte a una grande caserma. Qui i militari sono più rilassati, rispetto a quelli incontrati nel resto del viaggio: avere una caserma alle spalle, con tanti commilitoni pronti a contrastare eventuali assalti della guerriglia, penso dia sicurezza e, di conseguenza, renda più sereni. Controllo dei documenti e perquisizione, infatti, sono veloci e non infastidiscono più di tanto. Ognuno riprende il proprio posto e, senza alcun commento, si riparte verso sud.
Qui, non è il mezzo di trasporto che ti permette di arrivare: è la strada, la cui terra rossa cambia ogni giorno, vive, si muove: il tuo arrivo dipende dal suo umore. Oggi che la strada è buona, si guida sul fango, in controsterzo, tanto che non posso fare a meno di dire al conducente: «Usted maneja mejor que Montoya!». Una leggera smorfia, a significare «si fa quel che si può», è la risposta. Le condizioni della carreggiata sono davvero pessime, ma mi dicono che oggi siamo fortunati, perché la pioggia, arrivata durante la notte, ci ha risparmiato la polvere.
Fisso il cruscotto del veicolo: balla che pare staccarsi da un momento all’altro; guardo le mani dell’autista girare vorticosamente a sinistra il volante, mentre la logica lo vorrebbe nel senso opposto, ma così si deve fare per restare sul tracciato. Mi viene da fare quattro conti e concludo che i danni al veicolo saranno sicuramente maggiori di quanto incassato dai viaggiatori trasportati.
Scoprirò in seguito che in Colombia si aggiusta tutto con poco o niente e che il milione di chilometri per una autovettura non è cosa impossibile, né rara.
Il percorso è abbastanza omogeneo, si viaggia in un continuo saliscendi, fra verdissime colline disboscate per far posto al pascolo, le mucche però sono molto magre e ce ne vogliono due per fae una delle nostre. Ogni tanto si incontra qualche gaucho, il cavallo e il cavaliere sono una cosa sola, né bestia, né uomo.
Attraversiamo qualche villaggio. Le case sono di legno e qualche mattone; le grondaie dei tetti in lamiera hanno legato all’estremità un recipiente e un tubo di gomma porta acqua da qui a un serbatornio più grande. Non mancano piccoli negozi e bar per la sosta, la pipì e una cerveza.
Incrociamo un grande autocarro: la motrice è molto vecchia, America anni ’50, sono sicuro che non ha servosterzo… Lo guida un ragazzino: qui si cresce in fretta.
Più avanti, dopo molta strada e tanto niente, sul ciglio, un vecchio vestito di bianco, sombrero sulla testa, fa segno all’autista di fermarsi. Insieme a lui sta una minuta figura contorta; è una piccola vecchia vestita con uno straccetto, incapace di salire a bordo: ha le gambe storte e anche le braccia sono colpite da handicap. Sembra un piccolo passero ferito, incapace di volare, e quei due scalini sono invalicabili. Ma la mano del costeño è grande, la sua forza capace di sollevare tutto il bus e il suo cuore sa amare senza pietà. La prende da terra come una foglia e la fa sedere vicino a noi.
Al secondo posto di blocco la procedura di controllo è uguale alla prima. Si scende tutti, perquisizione, verifica documenti e qualche domanda. I militari qui sono più tesi; sono tutti giovanissimi, armati di mitra. Alcuni stanno rinchiusi in piccoli rifugi fatti di sacchi verdi riempiti di sabbia, sono tutti molto seri. La guerriglia può colpire in ogni momento; già troppe volte ha attaccato e ucciso come si uccide in battaglia, perché qui siamo in guerra, guerra civile.
A qualcuno i militari chiedono, dopo avergli preso il documento, di ripetere a memoria il numero dello stesso. Un passeggero non lo ricorda e subito gli intimano di impararlo. Guardano il mio passaporto, se mi fanno domande non saprei cosa dire, spero solo di non essere loro antipatico per non maledire il giorno che sono partito dall’Italia.
Avanti ancora… Ormai siamo alle porte di Cartagena del Chairá, ma prima di arrivare ecco un altro posto di blocco. Giù tutti e di nuovo perquisizione con documenti alla mano. Tutti in fila: uomini, donne, vecchi e giovani; i ragazzi in divisa ci devono dire se possiamo passare, oppure no. Anche questa volta sembra tutto a posto, ma mi accorgo che fanno togliere un bagaglio dalla corriera e si portano dietro il mio amico nero. Lui non dice niente, segue rassegnato quei bambini-soldato, il suo viaggio finisce lì. Noi ripartiamo, con un posto vuoto e tante domande in testa, che non avranno mai risposta. Ciao, costeño dal cuore grande.
Paese… «normale»
Mi pare che siamo nel 2005. Non so quanti anni siano passati da quando, anche nel nostro mondo, si parcheggiavano i cavalli anziché le automobili. Cartagena è un luogo dove il cavallo parcheggiato, legato per la briglia a un albero, è cosa normale anche per il cavallo.
Sono normali anche le tracce di recenti battaglie, i colpi di mitra sui muri, se si è già messo in conto di essere morti, di averla anticipata la morte e di vivere ogni giorno un giorno di più.
Lì ho visto tre foto nelle mani di padre Victor Iacovissi e ho letto un foglio che le accompagnava. Le fotografie mostravano i corpi senza vita di tre vittime della guerriglia passate per le armi, sfigurate e sporche di sangue e il foglio, con la grafia di mani senza pietà, giustificava la sentenza: ladro, prostituta e spia.
Ho capito dov’ero! Ci dovrebbe essere per tutti un momento in cui si capisce veramente che non esiste violenza giustificabile e nulla che valga la morte di un uomo. Io l’ho capito a Cartagena del Chairá.
La casa dei missionari della Consolata è attigua alla grande chiesa. Vi si accede attraverso un grande portone di legno, che conduce all’interno di un grande giardino quadrato. Tutto intorno la costruzione a un solo piano, che forma un intero isolato nel paese in riva al fiume. Si avverte subito un senso di pace e protezione; ci si sente a casa, forse per l’ospitalità vera che si respira e, forse più, per la presenza delle anime buone degli uomini che l’hanno costruita e che ci hanno vissuto, aiutando tutti senza distinzioni.
Non avevo idea, prima di questo viaggio, di cosa significasse essere missionari e quale fosse il loro mondo. Ho imparato, o almeno penso di aver capito, quale sia la cosa più bella, utile e grande del loro agire. Non sono le innumerevoli opere delle quali si sono resi artefici, come scuole, orfanotrofi, ospedali e tutto quello che aiuta la gente a vivere, crescere ed evolversi. Non sono gli aiuti in denaro, cibo, medicine e altro genere; né il conforto che sanno dare ai poveri, disperati, emarginati.
La cosa più grandiosa che sanno fare è semplicemente il vivere donando se stessi agli altri, senza chiedere nulla in cambio. La loro vita è un esempio benefico di un’alternativa possibile ai nostri piccoli mondi fatti di egoismi, paure e superficialità.

PADRE VICTOR SI È FATTO IL BUNKER

Credo che certi uomini nascano buoni, allo stesso modo in cui altri nascano con gli occhi verdi. La differenza è che gli occhi verdi non servono a nulla e a nessuno, la bontà sì.
Oltre ad essere un buon uomo, padre Victor è anche un bravissimo cuoco e così il pollo che ci aveva preparato è passato, oltre che dal mio stomaco, anche nella stanza dei ricordi che non si cancellano. Noi, in cambio, avevamo portato un pandoro, un dolce fatto a Verona, che diventa il dolce più buono del mondo se mangiato a 10 mila chilometri da dove viene prodotto.
È incredibile come le cose perdano o, viceversa, acquistino valore cambiando luogo. Un dolce che in Italia costa meno del pane e si mangia solo per tradizione a Natale, senza apprezzarlo più di tanto, qui diventa una squisitezza. Allo stesso modo, le preziose e tanto desiderate foglie di coca, lì perdono tutto il loro valore e diventano solo foglie, come quelle di tanti alberi che fanno ombra e compagnia a meravigliosi pappagalli colorati.
Padre Victor, oltre a essere un bravo cuoco, è anche un grande attore. Recita senza copione le parti di un’opera che non ha sceneggiatura, ma solo un titolo: «Amore». All’altare veste gli abiti del prete sopra la canottiera del contadino che ingrassa i polli col pane. Le tasche delle braghe sono piene di caramelle per i bambini di Cartagena del Chairá, che bussano sempre al suo portone: «Padre Victoooor!».
Verrebbe da pensare che persone disposte a lasciare la propria terra per vivere al servizio degli altri, fra mille sacrifici e privandosi di tutto quello che i più considerano indispensabile per vivere bene, abbiano un rapporto con la morte più facile e sereno. Credo anche che la fede in Dio aiuti ad avere con la morte un rapporto privilegiato. Nonostante questo, padre Victor si è fatto costruire un bunker in cemento armato all’interno della missione, vicino al pollaio, sotto un grande albero di mango, per difendersi in caso di attacco della guerriglia.
Non è passato molto tempo, infatti, da quando i guerriglieri delle Farc, avevano sferrato un attacco alla caserma, a poche decine di metri dalla chiesa, uccidendo tutti i militari che vi stazionavano dentro. La sua non è paura della morte, è difesa ostinata della vita; non c’è tempo ora per morire, con tutto quello che c’è da fare!
La mia insonnia di quella sera, invece, era proprio paura. La stanzetta che mi era stata riservata stava proprio di fronte alla caserma, che i militari avevano da poco ricostruito, e dalle fessure degli stipiti di legno della finestra potevo guardare fuori. La luce dei lampioni rendevano ancora più tetro quello che potevo scorgere e i racconti ascoltati durante la giornata sulle modalità dell’attacco della guerriglia, rendevano l’atmosfera surreale per uno come me, abituato a vedere la guerra in Tv. Un soldato di guardia, mitra a penzoloni sul fianco, camminava lento, avanti e indietro, davanti a quella costruzione grigia in cemento armato, senza porte e finestre, solo piccole feritornie alle pareti.
Per la strada, nessun altro.
Entro nella mia piccola stanza. Qualcuno, passando, aveva lanciato all’interno, prima che io entrassi per andare a dormire, due lattine di birra vuote e io, subito, avevo tradotto in minaccia quel gesto. La paura mi impediva di dormire; la mente produceva solo il peggio che mi sarebbe successo: in quella occasione ho imparato a cosa può servire una bottiglia di aguardiente… E il sonno fu profondo; la mattina arrivò presto.

IL FIUME

La luce sull’acqua del fiume, al mattino presto, subito dopo l’alba, sprigiona energia dentro chi sa vedere il bello; energia inebriante, che ti coinvolge ed entusiasma. La brezza del mattino appoggiata sul fiume si rivelò presto fredda e fastidiosa anche a pochi chilometri dall’equatore; ma l’ebbrezza di quella navigazione a zig-zag lungo il corso del fiume riscaldava a sufficienza per ignorare il freddo.
Risalimmo la strada d’acqua per circa 5 ore: ancora non ho capito se l’arrivo a San Vicente sia stato una liberazione o la fine di una grande gioia. Ora so bene cosa significhi «essere sulla stessa barca». L’ho imparato in mezzo al fiume sperduto in Amazzonia, insabbiato per la poca profondità dell’acqua.
Non so come facesse il pilota dello scafo a individuare, in quelle acque limacciose, il punto profondo dove poter sfrecciare veloce, senza arenarsi. Il fiume, normalmente pieno d’acqua, era in quel periodo più asciutto per le scarse piogge. Sicuramente, vedeva un percorso a noi sconosciuto, che lui aveva già fatto migliaia di volte e che suo figlio stava imparando. Un attimo di stanchezza o disattenzione e la barca, improvvisamente, per via del basso fondale in quel punto, si arenò e il motore si spense. Il silenzio di tutti fu subito la nuova musica e gli sguardi di ognuno verso gli altri un punto di domanda: «Che fare?».
Alcuni dei nuovi passeggeri, imbarcati lungo le sponde del Caguán, misero le braccia in acqua lungo il fianco della barca e sollevarono le mani piene di sabbia. Il motorista si rimboccò i calzoni e scese in acqua per tentare, spingendo, di uscire dal fango. Al motorista si aggiunse un altro passeggero e il pilota; sempre in silenzio, cominciò a far dondolare lo scafo con il peso del corpo per aiutare la corrente del fiume a togliere la barca da quel pantano. Niente da fare.
Pensai subito che, oltre a spingere, bisognava togliere peso all’imbarcazione per farla galleggiare meglio. Non trovai altra soluzione che togliermi le braghe, scendere nel fiume e spingere anch’io. La cosa si rivelò subito divertente anche per gli altri passeggeri che, vedendo un forestiero in mutande spingere la loro barca per toglierla dall’insabbiatura, manifestarono sorridendo la loro gratitudine.
Ho visto l’acqua e la luce; poi sono arrivato a San Vicente del Caguán.

GRAZIE COLOMBIA
Capita a tutti di incontrare persone che non vedremo mai più. Magari ci parliamo anche, per una volta soltanto, e le perdiamo per sempre senza addii. Quel giorno ho perso i miei compagni di viaggio nel più piccolo porto che si possa immaginare, sulle sponde del Caguán, a San Vicente, in Colombia.
Fare paragoni con le nostre realtà, quando si frequentano nuovi mondi, è la cosa più sbagliata. Bisogna osservare senza riferimenti per scoprire bellezze inaudite dove, altrimenti, non le troveremo mai. Ho fatto così e ho visto colori più forti e tutto mi è piaciuto quanto basta per avere la voglia di tornare.
Verso sera, padre Luis ha celebrato la messa e, dato che quando sono arrivato io era quasi finita, l’ho aspettato fuori, seduto sui gradini della piccola chiesa celeste, godendomi quella distanza che mai avevo raggiunto dalla mia casa, oltre l’oceano, lungo il fiume.
Una giovane donna, finita la messa, avvicinò il prete e gli chiese se la poteva confessare, che il giorno dopo si sarebbe sposata. Io la guardai e mi chiesi che peccati potesse aver commesso. Non riuscii a immaginae alcuno e mi dissi che l’unico peccato era quello di essere nata in un meraviglioso paese dove tutto è esagerato.

Francesco Rezzadore