RORAIMA Reportage tra gioia e rabbia
hanno potuto festeggiare l’«omologazione» di un pezzo di terra che, d’ora in poi, sarà loro. Ma non tutti si rassegnano alla… sconfitta, continuando ad esprimere,
con la violenza, il loro rancore…
Quella del 21-24 settembre 2005 è stata una grande festa nel territorio di Roraima (Brasile): dopo lunga attesa, la terra di «Raposa Serra do Sol» è stata «omologata», cioè consegnata definitivamente ai popoli indigeni, legittimi proprietari. La vigilia è stata preceduta da un evento funesto: due giorni prima i fazendeiros hanno appiccato il fuoco a quasi tutte le costruzioni della missione di Surumú.
Una delegazione di cinque persone, la senatrice Emanuela Baio, mons. Aldo Mongiano, padre Silvano Sabatini, fratel Carlo Zacquini e padre Giordano Rigamonti, in cammino verso Maturuca, decideva di fermarsi a Surumú per essere testimone degli effetti di tanta violenza.
La festa è stata grande ugualmente: le ceneri della missione hanno maggiormente stimolato la resistenza degli indigeni nella difesa dei loro diritti e la volontà di ricostruire il loro futuro.
Surumú, 20 settembre
Scuola, ospedale, casa delle suore, chiesa… tutto distrutto dalla violenza: quali sono le sue prime impressioni, senatrice?
Sgomento e dolore hanno accompagnato le quattro ore che abbiamo trascorso nella missione di Surumú. A distanza di giorni, ancora rabbrividisco quando penso alla violenza racchiusa in quelle macerie, allo scontro tra odio e amore. Di violenza, terrorismo e scontro si può parlare, perché questo è un male che accompagna l’uomo e che nella piccola e sperduta missione di Surumú, ha espresso il peggio di sé.
Tutto è cominciato al nostro arrivo a Boa Vista. Fratel Carlo ci ha accolti, immergendoci immediatamente nella triste realtà: «Qualche ora fa, hanno bruciato la nostra missione a Surumú». Poche parole per esprimere il dramma di un popolo: gli indios dello stato di Roraima, dimenticati dai più, poco conosciuti, ma forti della loro esistenza, cultura, tradizioni e capacità. Non saranno i fazendeiros, conniventi con alcuni «politici», a distruggere questa comunità (vedi riquadro). Ci hanno già provato, ma non sono riusciti. Nonostante lo sgomento e la rabbia che ho ritrovato tra i missionari, è riemerso immediato l’amore.
Il giorno seguente il nostro arrivo a Boa Vista, padre Mario Campos, parroco di Surumú, ci ha detto pure che i giovani vogliono continuare l’esperienza comunitaria della missione. Una scelta coraggiosa, che ha illuminato di speranza il paesaggio devastato dall’odio e che ha fatto in modo che condividessimo un momento di riflessione e preghiera con quei giovani. Questo mi ha convinta ancor di più sulla necessità di continuare a sostenere il loro coraggio, sia da parte degli italiani, come hanno già fatto con la campagna Nós existimos, sia da parte delle istituzioni, come la Commissione diritti umani del Senato della repubblica.
Girando fra le macerie della scuola, casa delle suore, ospedale e nello squallore dei pochi resti della chiesa, mi sono subito accorta che la mano potente e violenta di quegli uomini (quasi sicuramente ubriachi, a detta dei presenti) hanno colpito con un’intelligenza raffinata. Quella di Surumú non è solo una missione: è il centro pulsante di una nuova cultura. Lì vengono formati i nuovi leaders e istruiti gli indios, si trova la quintessenza della paziente e faticosa opera compiuta dai missionari della Consolata per più di 30 anni di impegno. Ma lì si trova anche un ambulatorio medico, importante per le prime cure delle comunità indie.
Nella povertà e desolazione di quel luogo risiede il futuro, ricco di speranza. Se nell’ambulatorio si percepisce la solidarietà umana e il riconoscimento di un diritto inalienabile dell’uomo, quale è quello alla salute, nei resti della chiesa si intravede la profonda ricerca spirituale, nella scuola la costruzione del presente: tre simboli che rappresentano per i giovani le rocce sulle quali costruire il futuro.
Calpestiamo le ceneri ancora calde sul pavimento; preghiamo con i leaders della comunità; padre Mario, il parroco, è in lacrime e a stento riesce a dare la parola a giovani che vogliono celebrare la vita: le emozioni sono stampate su tutti i volti dei presenti…
Sono sopravvissute solo le mura perimetrali della chiesa: il resto è polvere, ceneri. È un paesaggio surreale, ma brutalmente vero. Eppure abbiamo vissuto un momento di intensa spiritualità: i giovani della scuola, nel momento di preghiera, si sono disposti in cerchio, quasi a rappresentare il circolo dell’esistenza, e ognuno di loro ha gridato il proprio nome, affermando così una presenza che non è stata portata via dal vento dell’odio, ma che lì, in quel cerchio, formava la catena della vita: la forza dell’amore.
Hanno poi intonato canti e letto testi sacri, per suggellare il sentimento di perdono e la richiesta di aiuto: è stata una comunione di intenti e una grande lezione di vita. Nessuna recriminazione né minaccia di vendetta; nessuna spiegazione per cercare di capire… Ma hanno accettato quella sorte con la forza della speranza nella pace e nella prospettiva di un futuro migliore, senza dare spazio alla rassegnazione.
Con noi c’era anche il neo vescovo di Boa Vista, mons. Roque Paloschi, il quale ha individuato il percorso dove camminare come un fratello fra fratelli, una strada in cui i missionari sono i seminatori del regno, tra un popolo che soffre.
Maturuca, 21 settembre
Il capo Jacir De Souza ti prende sotto braccio e ti accompagna alla maloca centrale, accolta da una folla festante… Come ti sei sentita, tra un popolo orgoglioso del traguardo conquistato?
Il loro scortarci alla grande maloca con canti e balli, con una gioia incontenibile, mi ha fatto constatare la spontaneità di un’ospitalità non consueta. Per noi occidentali è semplice condividere la felicità di questo popolo; non lo è altrettanto capirla fino in fondo. Solo stando lì, sentendo il racconto di persone che per 30 anni hanno sopportato le angherie dei fazendeiros (retribuiti per il loro lavoro con bottiglie di alcornol), ci si può forse avvicinare, rispettare e apprezzare la loro dignità di popolo; mentre noi non siamo in grado di guardare al futuro, essi hanno la felicità dell’essenziale, invisibile agli occhi.
La Commissione diritti umani del Senato ha fatto un prezioso lavoro di appoggio alle rivendicazioni degli indigeni di Roraima per la riconquista della loro terra: quale è stato il tuo messaggio? Quale ipotesi di collaborazione per il futuro?
«Costruire una società nella quale i diritti di pochi si trasformino nel diritto di tutti» è la prima affermazione che ho pronunciato durante la festa di omologazione. È lo spirito che ha accompagnato i missionari e che ha mosso anche il nostro impegno alla Commissione diritti umani del Senato. La mia partecipazione rappresenta una tappa di un percorso. Le 44.000 firme consegnate al presidente Marcello Pera costituiscono il sostegno, la condivisione e il rafforzamento di una battaglia (vedi riquadro).
Come rappresentante del Parlamento italiano ho ringraziato gli indios di Roraima per il coraggio dimostrato, per la forza morale che ha consentito di superare barriere invalicabili, per la paziente attesa di vedere ripristinati i loro diritti umani e civili, senza mai ricorrere alla violenza, senza attimi di esitazione o demotivazione.
Quello che unisce le nostre nazioni è anche un altro sentimento: l’amore verso la propria terra. Il concetto di terra è ben definito, indica dei limiti e proprio in questi ritroviamo i nostri valori, che, nonostante gli usurpatori, le catastrofi naturali o l’allontanamento forzoso, non potranno essere stravolti. Dentro questo diritto naturale è riconosciuta la nostra esistenza, la disponibilità a essere amati per la nostra identità, essere accettati anche da chi, forse ancora oggi, non vuole riconoscere quel grande e unico popolo.
Nel momento in cui si ammette il diritto alla terra, si riconoscono anche diritti umani essenziali: alla vita, all’alimentazione, all’acqua potabile e, quindi, all’esistenza. L’impegno del Parlamento italiano continuerà, vigilando da lontano e da vicino e lavorando affinché questi diritti, che non sono ancora pienamente riconosciuti, siano suggellati anche dal Tribunale internazionale di giustizia.
Con i missionari e la comunità indigena lavoreremo anche per far crescere sempre più la conoscenza culturale di questo popolo. Brasile e Italia, insieme, possono contribuire, con la forza della frateità, a costruire un mondo migliore, fatto di tante diversità, ma realizzato con giustizia, libertà, pace e democrazia.
Boa Vista, 21 settembre (sera)
In città circolano voci su una spedizione punitiva nei tuoi confronti… con l’accusa di ingerenza, già sbandierata dai media nei giorni precedenti: hai avuto paura?
L’atteggiamento di intimidazione nei nostri confronti, a mezzo stampa, aveva già avuto un precedente, nell’agosto di questo anno, quando il senatore Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani, si era recato in visita a Roraima. Forse siamo stati fraintesi: il nostro intervenire non era finalizzato all’ingerenza, ma alla cooperazione con questo popolo e le istituzioni brasiliane.
Non nego che tali intimidazioni mi abbiano spaventata, però non potevano impedire la mia visita, in quanto ero profondamente convinta del valore del mio compito.
Non posso nemmeno negare il conforto morale datomi dai missionari della Consolata che, attraverso la disponibilità e l’autornironia per quanto stava accadendo, mi hanno dato la forza per non abbattermi e hanno fatto in modo che anche questa esperienza mi rimanesse impressa come positiva.
Brasilia, 22 settembre
Incontri con deputati e senatori dello stato federale del Brasile: quali sono i suggerimenti dati e ricevuti riguardo al futuro dei popoli indigeni di Roraima?
Fra Brasilia e lo stato di Roraima è come se ci fosse una dissociazione. Ciò che sembra possibile nelle aule del Parlamento federale è vissuto come difficile o impossibile a Maturuca e a Surumú. Le ragioni sono molte e non sta a noi giudicare le scelte politiche degli uni o degli altri. Credo sia importante capire, per individuare la via da percorrere, continuare il nostro aiuto e il sostegno internazionale a una causa non solo giusta, ma essenziale per il futuro dell’umanità.
Come ci ha detto il vescovo di Boa Vista: il diritto alla terra è un diritto inviolabile dell’uomo. Anche alcuni parlamentari federali lo affermano. Ci hanno ripetuto che questa è una competenza dello stato federale. Peccato che il governatore di Roraima, quando il presidente Lula, il 15 aprile 2005, ha firmato il decreto di omologazione, abbia dichiarato sette giorni di lutto per Roraima!
Il nostro compito in Brasile è quello di creare un ponte tra due sponde che hanno gli stessi obiettivi: se da una parte ci sono i parlamentari brasiliani impegnati per gli interessi del popolo indio, dall’altra compaiono missionari, associazioni e cittadini che ambiscono alla serenità e al benessere; le due sponde fronteggiano lo stesso fiume, ma non hanno lo stesso materiale per costruire un collegamento, le stesse parole per comunicare.
Stiamo seguendo questa prima delicata fase, ascoltando entrambe le motivazioni, traducendo gesti incompresi in un messaggio reciproco di solidarietà. La prima impressione è, infatti, quella che i fazendeiros non siano convinti a lasciare le terre, nonostante lo stato federale abbia assegnato loro altre proprietà.
I colleghi brasiliani ci hanno chiesto l’impegno a continuare a sostenerli dall’Italia; ma anche di non rinunciare a raggiungerli, evitando interferenze, e aiutando il processo di autodeterminazione del popolo.
Noi, invece, abbiamo chiesto di far sentire la loro presenza in quello stato del nord brasiliano. Ci hanno assicurato che non abbandoneranno il loro popolo: parola di brasiliani. Io, di certo, non lascerò questa esperienza come mero ricordo, ma per me sarà un obiettivo quotidiano: parola di italiana!
Emanuela Baio Dossi