DALLA LEGGENDA ALLA REALTÀ
Il mito dell’eterna giovinezza o la possibilità di prolungare la vita e restituire la salute attraverso la sostituzione di organi o tessuti malati con organi e tessuti sani ha stimolato la medicina e da sempre anche la fantasia popolare.
La storia dei trapianti ha origini nella leggenda, in Cina. Si narra che nel III secolo a.C. un chirurgo, Pien Chi’ao, scambiò i cuori di due soldati addormentati. Nel II secolo d.C. sempre un chirurgo cinese Ua T’o realizzò trapianti di visceri utilizzando per l’anestesia sostanze vegetali.
In Occidente, invece, la nascita dei trapianti viene fatta risalire dalla tradizione al III secolo d.C. quando J. da Varaquine nella Leggenda aurea narra che i santi Cosmo e Damiano sostituirono la gamba cancrenosa del loro sacrestano con l’arto di un etiope deceduto il giorno precedente. Francois Rabelais nel 1552 immaginò nel suo surreale Pantagruel un autotrapianto totale di testa; in particolare, nella ricostruzione del cranio di un nobile moscovita ferito in duello, si utilizzarono addirittura frammenti del cranio di un cane.
La storia scientifica dei trapianti inizia invece nel 1902, quando un chirurgo francese, Alexis Carrel, mette a punto a Lione una tecnica efficace e sicura per suturare le arterie e i vasi sanguigni, dimostrando in questo modo di poter collegare un organo estraneo, alla circolazione di un organismo ricevente. Per tale contributo, nel 1915, primo e finora unico chirurgo, otterrà il Premio Nobel. Lo stesso prestigioso riconoscimento fu assegnato cinquant’anni più tardi all’inglese Peter Medawar, le cui scoperte segnarono una seconda tappa fondamentale nella storia dei trapianti. Lo scienziato, dagli studi di anatomia, orientò le sue indagini sulle reazioni immunitarie dell’organismo dopo un innesto di cute in pazienti gravemente ustionati durante i bombardamenti di Londra della II guerra mondiale. Pose in questo modo le basi della compatibilità genetica tra individui consanguinei e quindi dello sviluppo dell’immunologia dei trapianti e del correlato problema del rigetto, cioè a quel complesso di reazioni biologiche in base al quale l’organismo tende a rifiutare l’organo trapiantato, riconoscendolo come estraneo.
Jean Dausset, allievo di Medawar, proseguì queste ricerche, dimostrando che un trapianto aveva maggiori possibilità di riuscita se il sistema anticorpale dei donatori era il più possibile simile a quello del ricevente, ponendo così le basi per i successivi studi sulla «compatibilità». Tali ricerche condussero l’équipe del professor Murray ad eseguire, il 23 dicembre 1954, a Boston il primo trapianto di rene fra gemelli omozigoti. L’identità genetica tra donatore e ricevente permise di evitare la reazione di rigetto determinando l’esito positivo dell’intervento, anche in assenza dei molti farmaci immunosoppressori, scoperti ed applicati nella pratica clinica solo successivamente.
Negli anni seguenti furono eseguiti un gran numero di trapianti da donatore vivente con risultati sempre più soddisfacenti. Nel 1963 Hardy compie il primo trapianto di polmone.
Nello stesso anno, dopo lunghissima sperimentazione, il chirurgo americano Thomas Starzl eseguì a Denver il primo trapianto di fegato, anche se il paziente morì, purtroppo, nel giro di poche ore. Si dovettero attendere alcuni anni per raggiungere una sopravvivenza sufficientemente lunga e considerare affidabile tale trapianto.
Nel 1966, Kelly e Lillehei furono gli autori del primo trapianto di pancreas a Minneapolis e l’anno successivo, a Città del Capo, Christian Baard eseguì il primo trapianto di cuore polarizzando in quell’occasione l’attenzione di tutti i mass media e dell’opinione pubblica mondiale.
Questo intervento rappresentò una «pietra miliare» e fu proprio in tale circostanza che si diede avvio ad un ampio dibattito sulla donazione degli organi. Nel 1968, un Comitato della Harvard Medical School, stabilì i criteri per la definizione del concetto di «morte cerebrale», che saranno da quel momento in poi universalmente condivisi.
I successi ottenuti determinarono una ampia diffusione della pratica dei trapianti, ingenerando nuove aspettative per l’umanità. Il problema principale, tuttavia, rimaneva legato al rigetto, fino a che la scoperta della molecola della ciclosporina, con la sua applicazione dal 1979, rivoluzionò la terapia immunosoppressiva. Durante gli anni ’80, Thomas Starzl, associando la ciclosporina agli steroidi, migliorò radicalmente le possibilità di successo dei trapianti di rene, fegato e cuore. Le percentuali di sopravvivenza, a un anno dall’intervento, passarono dal 20 al 70%!
L’ultima frontiera nella storia dei trapianti è quella aperta nel 1998 a Lione da Jean-Michel Dubeard con il primo innesto di mano e di avambraccio, creando i presupposti per una nuova e futura disciplina.
Nonostante i successi dal punto di vista clinico, biologico, farmacologico e chirurgico, un problema ancora da risolvere è legato alla carenza di donatori e di organi disponibili. Gli scienziati si sono orientati verso possibili soluzioni alternative e avveniristiche, come gli organi artificiali (emodialisi, cuore artificiale), gli xenotrapianti (trapianto da animale a uomo) e le cellule staminali (potenzialmente in grado di riprodurre qualunque tessuto) che non hanno però finora dato risultati soddisfacenti in termini di applicabilità, di aumento della sopravvivenza, di qualità della vita, ma sollevando, al contempo, scottanti problematiche bioetiche.
Un nuovo scenario si è quindi aperto davanti all’uomo: una possibilità di ridare vita a chi non ha più speranza, ma anche di ingenerare altre occasioni di sofferenza e di morte, quando i criteri morali, relegati in secondo piano, non sono considerati in tutta la loro importanza e complessità.
Enrico Larghero