DOSSIER TRAPIANTI Riflessioni

LA SOFFERENZA E IL TABU’ DELLA MORTE


Aumenta l’aspettativa di vita e, allo stesso tempo, la cronicizzazione delle malattie, nonché l’eventualità dell’accanimento terapeutico. Ciò che non cambia mai è la nostra paura di fronte alla sofferenza. E, in ultima analisi, l’impreparazione dell’uomo davanti alla malattia, alla morte e alla fragilità umana.

Tra le varie conquiste dell’ultimo secolo, un posto di rilievo spetta alla medicina ed ai suoi progressi. La scienza, se da un lato ha prolungato le aspettative di vita, dall’altro ha generato problematiche relative alla cronicizzazione delle malattie e questioni inerenti le fasi cosiddette «terminali» dell’esistenza.
È emersa quindi, in modo sempre più crescente, l’esigenza di disciplinare adeguatamente le condizioni estreme della vita, per evitare i pericoli dell’accanimento terapeutico, che l’incalzante sviluppo tecnologico rende sempre più possibile.
La crescente paura di fronte a situazioni di sofferenza che si protraggono senza alcuna speranza, il diminuito senso di fede, l’enfatizzazione dei mass media di casi limite hanno ulteriormente favorito la diffusione del living will.
L’espressione living will (o testamento biologico, o direttive anticipate) indica le manifestazioni di volontà con le quali gli individui possono decidere a quali trattamenti sanitari essere sottoposti, qualora dovessero trovarsi privi della capacità di esprimere direttamente la propria volontà al personale sanitario.
Fondate sul principio di autonomia e nate come conseguenza alla diffusione del consenso informato, le direttive anticipate sono sempre revocabili. Talvolta l’interessato nomina un tutore come interprete delle sue volontà circa le cure accettate e le eventuali modalità della propria morte.
Possono rientrare, invece, tra le terapie rifiutate, la rianimazione cardio-polmonare, la respirazione meccanica, la nutrizione e l’idratazione artificiale e, meno frequentemente, la terapia antibiotica, le emotrasfusioni, l’emodialisi.

I diversi testamenti vigenti nel mondo variano notevolmente sia nello spirito che nello stile e risentono dei diversi orientamenti antropologici di fondo. Mutano anche le disposizioni contenute in ogni documento: si va dalla domanda dell’eutanasia attiva (Olanda), alla richiesta di terapie intensive per il prolungamento della vita (stato dell’Indiana), passando per il rifiuto sia dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico (Conferenza episcopale spagnola).
La promozione del testamento biologico negli Stati Uniti e in altri paesi anglosassoni viene quasi sempre fatta dai promotori dell’eutanasia e dalle associazioni che lavorano per la sua legalizzazione. Sembra più che giustificato, dunque, il sospetto che molte volte il living will venga proposto e interpretato come una «punta di lancia» per promuovere la «cultura della morte». Negli ultimi anni è stato utilizzato in base a ragioni anche economiche, per giustificare la sospensione dei trattamenti medici in pazienti inabili, ma che non sono malati terminali.
In molti paesi, invece, tra cui l’Italia, le direttive anticipate non hanno ancora trovato codificazione legale e sono, invece, oggetto di controversie e di accesi confronti.
Intanto il termine testamento per questi documenti è improprio perché si riferisce ad un comportamento da realizzare prima della morte del testante. Inoltre, il consenso informato e la figura del rappresentante fiduciario, costituiscono due punti controversi e di difficile interpretazione. Non potendo evidentemente prevedere tutte le possibili situazioni e condizioni in cui si potrà trovare il paziente, le dichiarazioni scritte si tengono necessariamente sul generico, offrendo indicazioni di massima che dovranno essere variamente interpretate ed applicate dai sanitari. La legge non può codificare tutta la realtà medica, molte condizioni cliniche sono imprevedibili, il divenire della scienza presenta continuamente situazioni inedite, apre scenari inquietanti un tempo inimmaginabili, quali gli stati vegetativi permanenti.

Una sovramedicalizzazione della malattia e della morte porta a conseguenze anche sul piano etico. I conflitti morali inerenti a questi problemi sono frequenti ed inevitabili, ma necessitano di risposte concrete: garantire il diritto alla vita di ogni malato attraverso «cure proporzionate», rendere il dolore più sopportabile, ricorrendo alla terapia antalgica e alle cure palliative, garantire la libertà di scelta del paziente (articolo 32 della Costituzione italiana), ma non legalizzare la richiesta di porre fine alla sua esistenza.
Secondo l’insegnamento della chiesa, alla «qualità della vita» devono anteporsi la «sacralità della vita» e la sua dignità. Non vi sono esistenze prive di valore. Il testamento biologico può essere affrontato solo inserito in questo contesto più ampio e l’orizzonte nel quale lo si deve collocare è principalmente culturale. La società contemporanea ha creato il tabù della morte, quasi che questo momento non faccia più parte dell’esistenza. Tale concetto è bandito nei luoghi di cura, non solo tra i malati ed i loro parenti, ma anche tra i sanitari.
I temi della malattia, della fragilità umana ci colgono oggi impreparati. Accompagnare la sofferenza e trae da essa un senso resta comunque un dovere di tutti, a prescindere dalla fede religiosa o dell’ideologia, anche in un mondo che tende a rimuovere questa realtà ricorrendo, ad esempio, alle direttive anticipate, vissute come antidoto alla sofferenza, ma che diventano, invece, se strumentalizzate, anticamera dell’eutanasia.
Alcuni anni fa erano in molti a pensare che il testamento biologico avrebbe risolto alcune importanti questioni inerenti alle problematiche di fine vita. Oggi quell’ottimismo è lontano.
Il diritto prioritario del paziente a gestire la cura della sua esistenza va coniugato con il dovere di tutelare la propria vita, poiché questa non si possiede, ma si identifica con la stessa persona e, per il credente, è un dono di Dio che l’individuo deve valorizzare e non può arbitrariamente distruggere: «Le leggi che autorizzano l’aborto e l’eutanasia si pongono… contro il bene del singolo e contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.72).

BOX 1

Il commercio di organi

Le cause del commercio di organi (*) sono molteplici, ma si possono ricondurre ad una sola: la carenza di organi disponibili.
Nonostante tutte le proibizioni dei governi, degli organismi inteazionli come il Parlamento Europeo e l’ONU, il traffico di organi è tuttora in certi Paesi del Terzo Mondo una pratica molto diffusa. Rapporti di organizzazioni nazionali e di organizzazioni non governative, lo confermano. I mass media, pur meno di quanto dovrebbero, se ne occupano.
La disponibilità di chirurghi senza scrupoli ha consentito la nascita di un traffico illecito, probabilmente limitato ai reni. Questi vengono acquistati a costi irrisori (indicativamente 1000 dollari a Bombay, 2000 a Manila, 3000 in Moldavia, 10.000 in America Latina) e poi rivenduti, insieme al costo dell’intervento eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano tra i 100.000 e i 200.000 dollari.
Tale fenomeno, un vero e proprio crimine contro l’umanità, dovrebbe essere punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque accetti, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui, si rende egualmente colpevole di un gravissimo reato.
Alcuni propongono, come via d’uscita alla carenza di organi, un compenso economico, legalmente riconosciuto per il donatore. Tale strada, oltre che moralmente riprovevole, è anche molto pericolosa, poiché può aprire la porta ad un’allocazione iniqua degli organi, fondata cioè sulla possibilità di pagare da parte di pazienti più abbienti e non sulla reale urgenza medica.
L’atto della donazione deve scaturire da una libera scelta, escludendo ogni costrizione e deve essere evitata ogni forma di speculazione (opportunamente la legge italiana sancisce che in vita si possa cedere un rene, ma solo a titolo gratuito).
Il corpo umano o le sue parti non possono essere oggetto di commercializzazione. La selezione dei riceventi deve fondarsi sulle necessità dei pazienti e non sulla base di criteri economici o di qualsivoglia altra natura.

(*) Sull’argomento si leggano gli articoli pubblicati sulla monografia di MC di ottobre-novembre 2005 a firma Guido Sattin ed Enrico Larghero.

Enrico Larghero

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