È possibile conciliare il rispetto della volontà del donatore e la necessità
della solidarietà? Sì, attraverso l’educazione. Perché il fine è un fine superiore: sottrarre altri a morte sicura.
Di fronte alla gravità dei problemi relativi ai trapianti, emerge, oggi più che mai, l’esigenza di avere un quadro etico di riferimento, il più possibile unitario e convincente, in grado di dissipare i pregiudizi emotivi mediante i dati scientifici e la rigorosa riflessione razionale. Le questioni etiche si traducono anche in questioni bio-giuridiche. In tale ambito gli interessi coinvolti in un trapianto d’organo sono essenzialmente:
• la libertà della determinazione del donatore da vivo e la certezza della irreversibilità del processo del suo morire nel caso di espianto da cadavere;
• la libertà di scelta;
• la dignità e la salute del donatore nel caso di espianto da vivente;
• l’interesse alla salute del ricevente e quindi adeguata probabilità dell’efficacia terapeutica dell’intervento;
• la tutela dei sentimenti dei parenti;
• un criterio di giustizia nella assegnazione della risorsa «organo trapiantabile».
Alcune problematiche etiche si impostano e si risolvono in relazione a scelte tecniche, alla luce delle scienze biologiche e mediche (es. corrette procedure di espianto e di reimpianto). Altre sono di natura propriamente bioetica, sia per i principi che per le regole giuridiche (es. scelte circa la necessità dell’assenso del donatore prima della sua morte).
Altre, infine, mescolano conoscenze scientifiche, suscettibili per loro natura di revisione, e presuppongono antropologie filosofiche e posizioni morali (es.definizione del momento in cui il processo del morire diventa irreversibile e la sua connessione con il concetto di persona umana).
Il dibattito sul consenso è strettamente legato alla modalità di reperimento degli organi.
Sotto il profilo squisitamente etico è necessario elaborare una tesi che si orienti verso il rispetto della libertà del soggetto donatore, ma anche in spirito di solidarietà verso chi ha bisogno degli organi per la sua sopravvivenza. A questi risultati, prima che attraverso atti coercitivi e complesse legislazioni, si deve giungere con l’educazione.
Il corpo diventa lo spazio e il momento in cui la persona si rivela e si realizza come dono. Spendendo il proprio tempo, le energie, la salute, ed anche la vita, la persona incarna la sua identità di dono. Non solo in vita, ma anche con la possibilità di disporre (o permettendo che altri decidano) del proprio corpo e dei propri organi anche dopo la morte.
Sul piano etico non è soltanto l’intenzionalità oblativa che rende tale atto straordinario, ma soprattutto è la persona stessa che viene donata affinché altri siano sottratti a morte sicura e riacquistino la salute.
Il dono esige strutturalmente la gratuità più assoluta e l’altruismo come forma squisita di solidarietà non tanto per filantropia, umanitarismo o legami parentali, quanto come espressione trasparente di offerta.
Scriveva Giovanni Paolo II: «Il trapianto presuppone una decisione anteriore, esplicita, libera e consapevole. È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un’altra persona. In questo senso, l’atto medico del trapianto rende possibile l’oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione. Amore, comunione, solidarietà e rispetto assoluto per la dignità della persona umana costituiscono l’unico legittimo contesto del trapianto d’organi» (1).
La scelta morale del trapianto trova unanime e trasversale consenso all’interno delle diverse religioni. Essa costituisce un atto di alta qualità morale, perché pone la cura dell’altro come fine ultimo. Il criterio fondamentale, cui fare riferimento, è il rispetto e la promozione dell’uomo in quanto uomo.
L’essere umano deve intendersi sempre e solo come un fine, mai come un mezzo. Qualunque intervento medico, deve volgersi, pertanto, al bene dell’uomo, ma non deve mai strumentalizzare un uomo al servizio di un altro.
Nel caso, ad esempio nel trapianto di rene, il donatore si sottopone a grandi disagi e sacrifici, che vengono accettati nella logica del dono di sé, per il bene e la vita del prossimo.
Alla luce dei criteri di priorità, scelte drammatiche e tragiche si presentano agli operatori sanitari nella assegnazione degli organi, che si rendono disponibili per i trapianti.
Alcuni ritengono che in queste decisioni debbano essere esclusi o penalizzati nella lista di attesa coloro che attendono un organo per una patologia riconducibile alle loro abitudini di vita (ad es. gli alcornolisti da trapianti di fegato e i tabagisti da trapianto di polmone). Questa strada eticamente discutibile condurrebbe soltanto ad un’eccessiva intromissione nella vita privata dei pazienti e sottoscriverebbe una spiegazione scientificamente erronea dell’insorgenza delle malattie, che dipendono da molteplici fattori e non da una sola causa. La valutazione che presiede all’individuazione di priorità deve essere legata a considerazioni di ordine strettamente clinico e, dunque, al beneficio dell’intervento per il malato.
La necessità di disporre di criteri, a cui uniformarsi e a cui fare riferimento, rende di grande utilità l’accesso ed il potenziamento dei Comitati etici e bioetici presso le istituzioni sanitarie.
Il trapianto si pone al servizio della vita, nel senso di difenderla e di favorirla. È questa la logica positiva che ne ha favorito l’enorme progresso registrato in questi ultimi anni.
Ciononostante, alcuni aspetti necessitano di essere tenuti costantemente presenti.
Ad esempio, può sembrare scontata la liceità del trapianto che viene fatto e motivato per un prolungamento della vita di un malato non altrimenti curabile. Si deve però considerare che, anche nell’ipotesi di un beneficio per il paziente che riceve l’organo, si viene talora a richiedere una qualche menomazione del donatore nel caso in cui questo sia vivente.
Si afferma nell’ultimo catechismo: «Il trapianto di organi è moralmente accettabile col consenso del donatore e senza rischi eccessivi per lui» (2).
Salvatore Privitera aggiunge: «Abbiamo il dovere morale di non compiere l’azione moralmente errata, ma non quello di compiere l’atto moralmente retto, quando non compiendolo, non provochiamo conseguenze negative. Nessuno è tenuto a mutilare, fisiologicamente o psicologicamente, se stesso per recare beneficio ad altri» (3).
Diversa ovviamente è la donazione dei propri organi da morto. In questo caso essa è moralmente doverosa, in quanto non vi è più alcun danno nel donatore, mentre grandi sono i benefici di chi riceve. Inoltre, l’etica dei trapianti è indispensabile che coinvolga l’équipe medica. A prescindere dalla sua preparazione e dalla sua formazione tecnico-scientifica, alta deve essere potenzialmente la possibilità di riuscita dell’intervento; il sacrificio del donatore non deve essere inutile.
La vita è sacra e, come tale, può venir sottoposta ad un trattamento rischioso ed invasivo soltanto se vi sono fondate speranze di successo. Sono, pertanto, da bandire quelle finalità esclusivamente sperimentali, in cui si antepone la ricerca all’attenzione nei confronti del malato.
La donazione, per sua natura, rimanda alla libertà e alla responsabilità. È in tale contesto che deve essere letta, partendo da una adeguata interpretazione della fisicità. Il corpo non può essere inteso semplicemente come un complesso di organi, tessuti, funzioni, senza un ulteriore riferimento alla dimensione psichica e spirituale.
Le attuali scienze antropologiche sono particolarmente efficaci nel presentare il corpo come manifestazione dell’individuo, anzi come strumento della sua realizzazione. E poiché l’identità della persona è di essere «dono» e la sua finalità è «donarsi», il corpo è veramente umano quando diventa lo spazio nel quale la persona si rivela e si realizza come dono che si fa dono.
La strada che conduce a questo atteggiamento libero e responsabile passa attraverso una continua educazione al significato della donazione. Rientra in questa opera educativa favorire e alimentare il senso umano della solidarietà.
La visione cristiana dell’esistenza offre un contributo nuovo ed originale: la donazione di organi, in vita e dopo la morte, è una forma secondo la quale vivere concretamente il comandamento della carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni, 15,13).
Note:
(1) Giovanni Paolo II, su L’Osservatore Romano, 21 giugno 1991.
(2) Compendio catechismo della chiesa cattolica, n.476, San Paolo, LEV 2005.
(3) S. Privitera e coll., opera citata, p.108.
Enrico Larghero