DOSSIER TRAPIANTI Diagnosi ed accertamento della morte

QUANDO MUORE IL CERVELLO


Quando è possibile procedere all’espianto di un organo? L’accertamento

della morte deve essere rigoroso per evitare abusi (in nome della scienza
o del profitto) e sbagli. Oggi si ritiene che il sistema migliore sia quello
della «morte cerebrale»: un individuo è morto quando muore il suo cervello.

Secondo il comune pensare, la concezione prevalente di morte è essenzialmente di tipo «cardio-respiratorio». Un individuo è morto quando non respira ed il cuore non batte più. Tale criterio appare oggi superato. La nuova definizione di morte integra e supera questo primo concetto con una nuova definizione, quella di «morte cerebrale»: l’individuo è morto quando muore il suo cervello.
Alla fine degli anni ’60 il trapianto di cuore realizzato da Baard segnò una trasformazione radicale della riflessione sui problemi etici dei trapianti: l’espianto del cuore doveva essere realizzato, per la riuscita dell’intervento, con un organo mantenuto in vita, sia pure artificialmente attraverso la circolazione extracorporea. Diveniva in questo modo essenziale poter ricorrere, per l’accertamento della morte, al criterio della cessazione totale dell’attività cerebrale e non del battito cardiaco.
Uno dei quesiti che fu posto all’attenzione della ricerca medica nel 1968 dalla «Commissione Harvard» fu la revisione dei criteri per la definizione di morte.
Tali criteri sono stati poi codificati in Italia dalla legge n.578 del 29 dicembre 1993 e dal relativo regolamento di esecuzione del 22 agosto 1994, n.582.

Il sospetto di morte cerebrale può esser avanzato quando si rilevano: stato di incoscienza; assenza di riflessi del capo e del collo (ossia corneale, fotomotore, oculocefalico ed oculo-vestibolare), nonché reazioni a stimoli dolorifici nel territorio di innervazione del nervo trigemino; assenza di respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale; silenzio elettrico cerebrale documentato mediante elettroencefalogramma.
Il decreto applicativo n.582 del 1994 consente di stabilire con certezza quali siano i parametri cui fare riferimento per accertare l’avvenuto decesso. Dopo sei ore di accertata morte cerebrale (12 per i bambini e 24 per i neonati) si può dar luogo ad una sicura definizione e certificazione di morte, anche nei casi in cui, grazie al supporto medico rianimatorio, altri fenomeni vitali, come quelli cardiocircolatori e respiratori, sono ancora in atto.
Per accertare la morte clinica non sono sufficienti di per sé la perdita di coscienza per l’insorgere del cosiddetto «coma profondo» (che non comporta necessariamente la previsione di irreversibilità), né la cessazione dell’attività elettrica del cervello («elettroencefalogramma piatto»), perché tale segnale si riferisce soltanto all’attività della parte estea, della corteccia cerebrale. Occorre l’inattività dei centri interni, più profondi, dell’encefalo (bulbo, ponte, ecc.), ovvero di quei centri responsabili dell’unificazione delle funzioni organiche: è il caso, detto dagli esperti, «coma dépassé», nel quale non esiste più speranza di ripresa della vita cosciente e di relazione.
Ha ben scritto Elio Sgreccia: «Si ha morte clinica quando si constata la cessazione irreversibile delle attività non soltanto della corteccia cerebrale per un certo numero di ore, ma anche dei centri cerebrali interni cornordinatori delle funzioni organiche, quali la respirazione, il battito cardiaco, i riflessi nervosi» (1).
Pazienti in tali condizioni cliniche vengono mantenuti in vita grazie all’esistenza di strutture sanitarie complesse, quali le terapie intensive. In tali reparti il monitoraggio dei parametri vitali, il controllo ed il mantenimento del battito cardiaco e della funzione circolatoria, l’utilizzo di ventilatori per il supporto alla respirazione, tengono in vita malati in condizioni gravissime.
In tal modo, pazienti clinicamente morti, ovvero con morte cerebrale, possono essere sottoposti ad un eventuale espianto.

È necessario fugare molte perplessità sollevate riguardo ad una condizione affine alla morte cerebrale, cioè il quadro definito di coma. In questa situazione, causata da molteplici fattori patologici o traumatici, si verifica un obnubilamento dello stato di coscienza, per cui il paziente non reagisce più agli stimoli estei, compresi quelli dolorosi.
Il coma non deve esser considerato una malattia: è sempre l’espressione di un processo, che direttamente o indirettamente ha coinvolto il cervello e ne ha causato una riduzione funzionale tale da produrre incoscienza.
Un primo elemento da porre in evidenza è, in questi casi, l’incompletezza della compromissione funzionale: un’attività cerebrale residua è infatti sempre presente e può essere registrata tramite elettroencefalogramma. Un secondo elemento è la reversibilità: dopo alcune settimane alcuni pazienti ricominciano ad aprire gli occhi e riacquistano funzioni, come quella respiratoria ed intellettiva, la consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante.
Nei casi restanti, invece, il coma può divenire irreversibile e lo stato di vigilanza apparente prende il nome di stato vegetativo persistente (Psv). Ciò avviene quando le lesioni riportate danneggiano le funzioni più complesse del cervello, ma risparmiano le strutture, sede delle funzioni vegetative. In quest’ultimo caso si verifica talvolta il recupero funzionale della corteccia cerebrale prima silente e quindi la ripresa, seppur lenta e graduale, delle funzioni superiori. Alla luce di questi dati, appare quanto mai pericoloso il dibattito attuale circa la possibilità di ritenere questi soggetti candidabili all’espianto.

La morte quindi deve identificarsi con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
«L’espianto… senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore… è una delle forme più subdole di eutanasia» (2).
Oggi, oltre all’elettroencefalogramma, molti esami strumentali, più modei e sofisticati, permettono di documentare l’assenza di flusso ematico cerebrale. Tali metodi sono: l’angiografia, la scintigrafia, il doppler trans-cranico, la Tac e infine la Pet (tomografia ad emissione di positroni). L’assenza di flusso implica inequivocabilmente la morte cerebrale, cioè del centro unificatore e cornordinatore dell’organismo.
Tale definizione, strettamente scientifica, trova conferma in un’affermazione della Pontificia Accademia delle scienze: «Una persona è morta quando ha subìto una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di cornordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo».
In queste condizioni, però, un essere umano, con l’estremo dono di sé, può diventare ancora una volta sorgente di vita.

Enrico Larghero


Note:
(1) E. Sgreccia, Sono tre i principi che vanno rispettati, su Avvenire, 14 novembre 1985.
(2) Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995.

BOX: Opinione pubblica e trapianti

Quali sono i limiti?

Esistono dei limiti nella medicina? Esiste un limite ai trapianti? Questi gli interrogativi che frequentemente ci poniamo, quando constatiamo che il progresso scientifico abbatte barriere sino a ieri insuperabili. Sono interrogativi elementari, ma non per questo privi di buon senso, di quella sapienza che è sollecita nel custodire il valore della vita ed il suo significato.
A tutti è nota la situazione attuale: le possibilità di trapianto si estendono sempre di più, nuove frontiere si schiudono sotto i nostri occhi. Al di là delle tecniche ormai convalidate, pare di essere talvolta di fronte ad una «medicina trapiantista», frutto di una «mentalità trapiantista».
Diversi aspetti, tuttavia, inquietano l’opinione pubblica. Ad esempio, la necessità di avere a disposizione un maggior numero di organi può indurre medici senza scrupoli a non essere rigorosi nell’accertamento della morte. Le ragioni della medicina dei trapianti possono generare una «cultura della predazione».
Molte sono ancora le paure ancestrali della profanazione dei corpi, molti i timori su possibili abusi compiuti in nome della scienza. La confusione, spesso derivante anche dalla disinformazione e da una certa malasanità, può essere parzialmente superata con l’educazione e richiamando i principi etici fondamentali della questione.
La vera soluzione al problema è da ricercarsi in una capillare opera di sensibilizzazione che serva alla diffusione di una nuova cultura, affinché la donazione divenga sempre più un atto libero, gratuito e spontaneo, a cominciare dalla donazione del sangue.
Il trapianto è forse l’unico settore della sanità che non può esistere senza la partecipazione di tutti. Inizia e termina nell’ambito della società, è talmente complesso da non poter essere lasciato ad una libera interpretazione, necessita di un’attenta regolamentazione, rappresenta una «cartina di tornasole» per poter definire il valore di una società.
La diffusione della cultura del dono può condurre al superamento, eticamente problematico, del silenzio-assenso, coinvolgendo tutti, indipendentemente dalle convinzioni personali, a praticare questa nobile forma di solidarietà nella ricerca del bene comune.

Enrico Larghero

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