GUATEMALA – Viaggio in America centrale (4)

RICOSTRUIRE LA AMEMORIA PER RICOSTRUIRE LA PACE

La maggioranza della popolazione del Guatemala è formata dai discendenti degli antichi maya, la cui storia è segnata da tre genocidi. L’ultimo (1954-96) riporta cifre agghiaccianti: 250 mila tra assassinati e desaparecidos, 100 mila orfani,
1,5 milioni di rifugiati e sfollati.
La strada della pace e riconciliazione nazionale è tutta in salita, perché i responsabili del genocidio rimangono impuniti e le leve dell’economia e della politica sono sempre in mano a una minoranza di bianchi e meticci. Eppure non mancano segni concreti di speranza.

Ricordando la loro storia dalla colonizzazione a oggi, gli indigeni maya del Guatemala parlano di tre genocidi. L’ultimo è terminato, dopo 36 anni di guerra civile, con gli accordi di pace nel 1996. Ma a distanza di quasi 10 anni, la società civile guatemalteca sta ancora tentando di costruire una nuova cultura di pace e una riconciliazione inclusiva, cioè, estesa a tutti i guatemaltechi, compresi i responsabili dei crimini compiuti durante la guerra.
TRAGEDIA IN TRE ATTI
Il primo genocidio ebbe inizio nel 1524, quando le truppe di Pedro de Alvarado, luogotenente di Hean Cortez, invasero le terre dei maya, dove le popolazioni indigene abitavano da più di 12 mila anni: territorio poi chiamato dagli invasori «Capitaneria generale del regno del Guatemala».
Occupazione e colonizzazione del Mesoamerica si tradussero in politica di saccheggio, schiavizzazione e sterminio a danno delle popolazioni autoctone, a vantaggio degli interessi espansionistici, economici e religiosi dei sovrani e della società spagnola dell’epoca.
In effetti, nel giro di pochi decenni del xvi secolo, le popolazioni maya furono decimate, sia dalle malattie portate dai conquistatori, contro le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie, sia dalle fatiche e stenti a cui furono sottoposti nelle miniere d’oro e d’argento, dove lavoravano come schiavi. Nonostante i tre secoli di colonizzazione diretta, il regime coloniale non riuscì a troncare il legame che univa i popoli indigeni con la propria cultura.
Il secondo genocidio iniziò a metà del secolo xviii, con l’invenzione dei coloranti artificiali in Europa: tale scoperta ebbe forti ripercussioni in Guatemala, allora paese esportatore di tinture vegetali, provocando una grave crisi economica.
Per risolvere tale crisi, l’élite filo-europea allora al potere introdusse la coltura intensiva del caffè. Per incrementare la produzione, la cosiddetta «Riforma liberale», nel 1871, espropriò le terre comunitarie degli indigeni maya, acquistate poi dai grandi latifondisti meticci per la creazione di piantagioni di caffè.
La «Riforma liberale» imprigionò gli indigeni nella loro stessa terra, costringendoli a diventare braccianti stagionali. Cominciò un secondo periodo di genocidio fisico e culturale per la popolazione maya, nella cui spiritualità la terra è considerata «dea madre».
Il terzo periodo tragico ebbe inizio nel 1954 con la fine della cosiddetta «rivoluzione di ottobre», chiamata poeticamente dai guatemaltechi: «I dieci anni di primavera nel paese dell’eterna dittatura». In effetti, finita questa rivoluzione, iniziò la lunga successione di dittature militari, durata più di 40 anni.
SOTTO IL TALLONE MILITARE
Per capire il significato della «rivoluzione di ottobre» bisogna andare al 1944. Il governo progressista di Juan José Arévalo, democraticamente eletto, diede il via a riforme economiche e sociali di ampia portata, tra cui l’estensione del diritto di voto alle donne (1945). Fu pure progettato un vasto programma di riforma agraria, ideato dal presidente Jacobo Arbenz a cavallo degli anni ’50.
Tale riforma, però, minacciava gli interessi della transnazionale nordamericana United Fruit Company (Ufco), che all’epoca possedeva il 2% delle terre del paese, molte delle quali lasciate incolte, e sfruttava gli indigeni, usati come braccianti con salari da fame. La riforma agraria proponeva la ridistribuzione di 100 mila acri di terra di proprietà dell’Ufco.
Per l’esproprio la Compagnia sarebbe stata indennizzata in base al valore dichiarato nel pagamento delle imposte allo stato guatemalteco. Il governo sapeva, infatti, che la United Fruit Company aveva da sempre falsificato il valore reale delle proprietà terriere per trarre il massimo beneficio dall’evasione fiscale.
Di fronte a questa riforma, John Foster Dulles, segretario del Dipartimento di stato Usa, oltre che azionista e avvocato della Compagnia, fece pressioni sul governo statunitense per ottenere la condanna del governo guatemalteco di Arbenz. La reazione dell’amministrazione di Dwight Eisenhower fu immediata: la riforma agraria venne dichiarata «una minaccia per gli interessi americani» e Allen Dulles, direttore della Cia ed ex presidente dell’Ufco, fu incaricato di organizzare un’invasione, partendo dall’Honduras, per «ristabilire l’ordine in Guatemala».
Era il 1954. Centinaia d’indigeni, operai e leaders contadini furono catturati e fucilati, le terre restituite alla United Fruit Company e il governo di Arbenz rovesciato; al suo posto fu insediato il colonnello Carlos Castillo Armas, che arrivò in Guatemala nell’aereo privato dell’ambasciatore Usa.
Seguirono sei anni di instabilità politica, sfociata in una serie di governi militari, contro cui insorsero vari movimenti rivoluzionari armati. Dal 1960 l’esercito iniziò a terrorizzare il Guatemala con repressioni, violenze, torture e massacri contro le comunità indigene. Il genocidio fisico e culturale raggiunge il culmine negli anni ’80. Le forze armate adottano la strategia della «terra bruciata». Per eliminare l’appoggio alla guerriglia, 400 comunità indigene vengono disarticolate e ristrutturate, secondo un progetto di ingegneria sociale, in «poli di sviluppo», cioè, «villaggi modello», in cui i contadini furono trasferiti e costretti a produrre per l’esportazione e non per l’autosostentamento.
Sotto la vigilanza stretta dell’esercito, essi venivano indottrinati. Una vasta rete d’informatori bloccava qualsiasi manifestazione di dissenso. Molti contadini e indigeni furono costretti a entrare nelle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), una sorta di gruppi paramilitari che, sotto il controllo dell’esercito, dovevano combattere la guerriglia.
Vari tentativi di ritorno alla democrazia furono frustrati dall’ingerenza dei militari, che proseguirono nella violazione dei diritti umani, in massacri e assassini politici fino al 1996, quando vennero firmati gli accordi di pace tra il governo, guidato da Alvaro Arzú del Partito progressista nazionale, e l’Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca (Ug), formata fin dal 1982 dai tre principali gruppi guerriglieri.
RICERCA DELLA MEMORIA
Finito il conflitto, rimangono le ferite da rimarginare, come racconta una leader indigena, Maria Ebedarda Tista, cornordinatrice del Comitato nazionale delle vedove del Guatemala (Conavigua). «La nostra organizzazione è sorta negli anni ’80, durante la repressione perpetrata dall’esercito e “squadroni della morte”. È composta prevalentemente da vedove che, fin dall’inizio, si sono poste l’obiettivo di appoggiare la smilitarizzazione del territorio e la ricerca della pace. Oggi Conavigua lavora in 12 dipartimenti del Guatemala, prevalentemente nell’ambito della ricostruzione della memoria e delle esumazioni.
Le donne sopravvissute al genocidio continuano a cercare i loro familiari desaparecidos, fino a denunciare davanti ai tribunali le ingiustizie subite e chiedere le esumazioni dei resti dei familiari, sepolti in più di mille cimiteri clandestini in tutto il territorio guatemalteco. È l’aspetto più importante: queste donne sono riuscite ad arrivare alle autorità giudiziarie, fatto insolito per una indigena in questo paese, e avviare i processi contro i loro carnefici, responsabili di 250 mila morti tra assassinati e desaparecidos».
Purtroppo si assiste a un fenomeno preoccupante, precisa la leader indigena: «Molte di queste donne ricevono intimidazioni e minacce e sono perfino oggetto di attentati, per far sì che desistano dal loro proposito di chiedere giustizia».
Al momento la quasi totalità dei responsabili del genocidio restano impuniti, protetti dalla connivenza dell’élite politica e dal loro passato di potenti gerarchi dell’esercito. Uno dei più feroci dittatori contemporanei, per esempio, l’ex generale Rios Montt, ha avuto l’ardire di candidarsi alle presidenziali del 2003, con una campagna elettorale di intimidazioni e violenze, gettando di nuovo il paese nel terrore.
Il recente passato del Guatemala continua a pesare enormemente sul presente, come spiega la signora Tista: «L’impatto culturale dello sterminio delle comunità indigene, per noi donne, ha significato la perdita dei nostri diritti fondamentali, della nostra cultura e, al tempo stesso, la proibizione delle nostre credenze e tradizioni culturali. Per esempio, nella nostra cultura gli anziani hanno un ruolo centrale, perché concentrano in sé tutta la saggezza tramandata oralmente di generazione in generazione: sono una “biblioteca vivente”. Ebbene, questi anziani non hanno avuto lo spazio d’insegnare alla nostra gente questo sapere millenario, perché per più di tre decenni hanno dovuto restare in silenzio, fuggendo dalla guerra.
Inoltre, cosa ancor più grave, molti di essi sono stati rapiti e assassinati dall’esercito, in cui militavano molti indigeni che, quindi, sapevano dell’importanza degli anziani nelle nostre società indigene. La nostra cultura ha subito una specie di amputazione. Tuttavia abbiamo resistito, nella convinzione di avere il diritto di sopravvivere, conservando la cultura e cosmovisione maya. Nonostante tutto, siamo ancora il 70% della popolazione del paese».
NUNCA MAS
«Un paese senza memoria e autocoscienza della propria storia – dicono i guatemaltechi -, non riuscirà a costruire una pace duratura». Per rimarginare le ferite aperte nel tessuto sociale occorre conoscere la verità di quanto è accaduto; altrimenti la pace sarà sempre fragile.
La ricerca della verità è lo scopo principale del «Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica» (Remhi) che, nell’immediato dopoguerra, ha pubblicato il rapporto Guatemala nunca más (Guatemala mai più), pietra miliare del processo di chiarificazione storica.
Questo rapporto, promosso dall’Ufficio per i diritti umani dell’arcidiocesi di Città del Guatemala (Odhag), fu fortemente voluto dal vescovo della capitale, mons. Juan Gerardi, che tre giorni dopo la pubblicazione venne assassinato. In Guatemala nunca más, frutto di meticolose indagini, mons. Gerardi denunciava dettagliatamente gli omicidi e altri crimini contro i diritti umani perpetrati dai militari durante la guerra. Vi sono registrati 663 massacri. Finora, in 12 anni di lavoro, sono state realizzate 381 esumazioni, il 57% dei massacri registrati; ma si stima che ce ne siano altrettanti non ancora scoperti. In 36 anni di conflitto ci sarebbero state oltre mille esecuzioni di massa.
Il lavoro di riesumazione, in cui è impegnato anche l’Odhag (vedi riquadro), è fondamentale per la ricostruzione della verità: è la chiave di volta per una vera pacificazione del Guatemala attuale. Ma non basta. Oltre che ricostruire la memoria storica della società guatemalteca, l’Odhag è impegnato nella ricerca di nuove forme di convivenza, nel rafforzare l’organizzazione comunitaria, nel costruire una nuova cultura di pace, affinché mai più si ripeta la violenza sofferta nel passato.
OCCORRONO RISARCIMENTI
Tutto questo lavoro indica che la situazione sta cambiando in meglio; ma è indispensabile che a tali sforzi seguino azioni concrete per elevare la qualità della vita di comunità e persone che hanno vissuto sulla propria pelle il flagello della violenza. Il processo di pace e riconciliazione deve portare a gesti di risarcimento.
A tale proposito è stato creato il Programma nazionale di risarcimento (Pnr), a capo del quale c’è Rosalina Tuyuc, ex deputata e leader indigena guatemalteca. «Come strategia di lavoro usiamo la riparazione tanto materiale quanto psicologica – spiega la signora Tuyuc -. Il nostro obiettivo è quello di creare un registro nazionale delle vittime e delle esumazioni. Inoltre, vogliamo assicurare un risarcimento alle vittime della guerra e riparare i danni psicologici e fisici causati da torture, esecuzioni extra giudiziarie, stupri e tutti i delitti di lesa umanità commessi dall’esercito, agenti della polizia segreta e gruppi paramilitari.
I membri indigeni che partecipano al Pnr esigono che il progetto abbia anche una dimensione culturale, che costruisca, cioè, una mappa dei centri cerimoniali distrutti e delle comunità indigene smembrate. Tali dati sono importanti per riuscire a contestualizzare la vastità e gravità delle conseguenze che la guerra ha lasciato nei popoli indigeni. Finora abbiamo in mano dati molto generici. Si sa, ad esempio, che ci sono attualmente 663 cimiteri clandestini, ma non si sa quanti siano i cimiteri per ognuna delle 23 comunità linguistiche; ci sono stati un milione e mezzo di profughi, ma ancora non sappiamo da quali comunità linguistiche provengono».
Rosalina Tuyuc ci tiene a sottolineare che «l’impatto culturale del conflitto ha danneggiato il tessuto sociale comunitario dei popoli indigeni, ha provocato la distruzione dei terreni comunitari e l’interruzione dell’esercizio sia delle guide spirituali maya che delle autorità indigene. Abbiamo il bisogno di conoscere il grado di smembramento e distruzione provocato nella nostra società indigena, per calcolare il tempo necessario per ricostruire e, soprattutto, sapere da dove iniziare».
Una delle mete a cui punta il Pnr è incamminare il Guatemala sulla strada della costruzione della pace, mediante una riconciliazione duratura. «Questa, però – conclude Rosalina Tuyuc -, sarà possibile solamente quando coloro che hanno partecipato al disegno ed esecuzione delle violenze contro uomini, donne e bambini, riconosceranno le loro responsabilità e ne pagheranno le conseguenze».
PIÙ SPAZIO ALLE DONNE
Norma Isabel Santic Suque, presidente dell’Associazione politica di donne maya (Moloj), sottolinea un altro aspetto importante del processo di pace e riconciliazione nazionale: la partecipazione delle donne indigene nella vita politica del paese. In Guatemala, infatti, le donne indigene sono la categoria più emarginata della società, una discriminazione più forte di quella razziale.
Moloj è una associazione sorta nel 1999, in occasione della prima tornata elettorale dopo la pace del 1996, con lo scopo di creare spazio e formazione complessiva alle donne indigene. «Noi donne siamo praticamente escluse dalla partecipazione politica guatemalteca, per mancanza di strumenti giuridici e politici – spiega Norma Isabel -. Moloj vuole colmare questo deficit democratico a livello nazionale e internazionale. Vogliamo offrire alle donne una formazione politica, in cui siano integrati gli elementi della cultura, cosmovisione e spiritualità maya. Cerchiamo di creare spazi in cui le donne leader indigene, nelle 23 comunità linguistiche presenti in Guatemala, possano crescere interiormente senza perdere la loro identità e senza rinunciare alle loro credenze e pratiche culturali proprie della tradizione maya.
Nel processo di globalizzazione in atto, infatti, esistono molti meccanismi che allontanano i popoli indigeni della loro cultura. Tutto ciò implica gravi conseguenze: rischiamo di non trasmettere ai giovani i valori maya o lasciamo loro in eredità un patrimonio culturale viziato».
Per questo l’Associazione ha tessuto una rete di donne maya, una classe dirigente, pronta ad assumere responsabilità civili. Tra le varie iniziative formative figura il corso di laurea biennale in «Gestione politica maya», avallato dalla facoltà di Scienze politiche presso l’Università statale San Carlos de Guatemala. Frequentando tale corso, molte donne maya hanno imparato a conoscere i propri diritti e il valore della politica come strumento di pace; al tempo stesso hanno potuto approfondire la conoscenza della cosmovisione maya.
DEMOCRAZIA INCLUSIVA
«Molti punti del trattato di pace del 1996 restano ancora incompiuti – continua Norma Isabel -. Per esempio, è stato impossibile concretizzare l’accordo sul tema dell’identità, nonostante le chiare proposte che abbiamo avanzato in proposito. E questo perché ci troviamo di fronte uno stato che non ha la volontà politica di migliorare la situazione dei popoli indigeni; è uno stato basato sull’esclusione: non permette che le proposte dei popoli indigeni si integrino nella coice giuridica istituzionale attuale.
Noi vorremmo vivere in una democrazia partecipativa, che includa tutti; una democrazia che si costruisce giorno per giorno mediante il dialogo. Abbiamo avuto alcune esperienze di dialogo con il governo, anche in passato; ma nessuno ha messo i diritti dei popoli indigeni tra le priorità nazionali. Sono state fatte manifestazioni di massa, a cui hanno partecipato le comunità indigene, venute dalla campagna dopo giorni di viaggio a piedi, per consegnare alle istituzioni l’agenda politica contenente le priorità dei popoli indigeni; ma non è servito a nulla. Gli accordi di pace continuano a essere violati. Noi indigeni abbiamo il diritto di ricevere risposte concrete, perché è ora di essere trattati come cittadini del Guatemala, non come stranieri nella nostra terra».

Josè Carlos Bonino




OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO Nemmeno cinque candeline(4)

Ogni giorno nel mondo muoiono trentamila bambini: nella maggior parte dei casi la loro vita può essere salvata.

Ogni anno quasi 11 milioni di bambini muoiono prima di compiere 5 anni: 30 mila al giorno. La maggior parte di queste morti avviene per cause evitabili: disidratazione, malnutrizione, malattie che si potrebbero prevenire o curare, per lo meno nei paesi più ricchi.
Infatti, se nelle nazioni più povere muore 1 bambino ogni 10 prima dei 5 anni, in quelli con reddito maggiore la percentuale crolla a 1 bimbo ogni 143. Inoltre, i numeri riportati sono solo stime, valutazioni approssimative. Nei paesi più poveri, dove è più difficile l’accesso alle cure, non è nemmeno prevista una registrazione delle nascite e delle morti. Infatti quasi nessuna delle regioni che coprono il 98% delle morti infantili possiede un sistema adeguato e completo di annotazione dei morti e delle cause.
Le vittime potrebbero quindi essere molte di più di quello che si pensa e la mancanza di informazioni precise sulla situazione di salute e malattia in questi paesi rappresenta un ostacolo alla pianificazione di programmi efficaci per migliorare lo stato delle cose.

La strage degli innocenti

Il 4° Obiettivo di sviluppo del millennio si concentra proprio sulla strage infantile e sugli interventi necessari per ridurre di due terzi il numero di morti entro il 2015 (rispetto ai dati del 1990).
Fra il 1960 e il 1990 vi era stato un notevole miglioramento delle condizioni di salute dell’infanzia, che aveva portato a dimezzare la mortalità. Ma negli anni successivi i progressi sono rallentati e la mortalità è scesa solo del 15%. In qualche paese sono addirittura stati fatti passi indietro.
Se le cose continuano di questo passo, saranno poche le zone del mondo in cui fra dieci anni verrà raggiunta la meta prefissata: solo America Latina, Caraibi, Europa e Asia centrale sono sulla buona strada. Altrove le cose non vanno bene; i progressi sono particolarmente lenti nell’Africa sub-sahariana, dove i conflitti e l’epidemia di Hiv/Aids hanno addirittura fatto innalzare il numero delle giovani vittime rispetto al 1990: muoiono prima dei cinque anni quasi 2 bimbi ogni 10.

Cause prevenibili
Secondo l’ultimo Rapporto sulla salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 90% di tutte queste morti è causato da sei condizioni: patologie neonatali acute (soprattutto complicanze da nascita prima del termine, crisi respiratorie con asfissia), infezioni respiratorie (in particolare polmonite), diarrea, malaria, morbillo e, da ultimo, anche se è una delle malattie di cui si parla di più, solo nel 3% dei casi, Hiv.
Questo significa che moltissimi di quei neonati e quei bambini, assistiti in modo appropriato, non sarebbero morti. Nascendo in un paese più ricco avrebbero avuto a loro disposizione l’assistenza neonatale adeguata se prematuri, la cura di complicanze infettive e respiratorie in neonatologia, gli antibiotici mirati in caso di polmonite, le soluzioni reidratanti e le condizioni igieniche corrette per prevenire o curare la diarrea, le misure di prevenzione e i farmaci appropriati per la malaria, le vaccinazioni contro il morbillo, i farmaci per proteggerli dal rischio di trasmissione dell’Aids da parte della mamma. E si sarebbero salvati, per lo meno una buona parte di loro.
Un’analisi pubblicata dalla rivista medica The Lancet diversi mesi fa aveva sottolineato che non erano necessari grossi progetti e finanziamenti impegnativi: pochi interventi semplici e di basso costo (promozione dell’allattamento al seno, disponibilità di zanzariere trattate con insetticidi, vaccinazioni contro il morbillo e terapie reidratanti) avrebbero già abbassato drasticamente il numero di morti.

Nemmeno un mese
Considerando poi solo il sottogruppo dei neonati, cioè i piccoli con meno di un mese di vita, i morti contati ogni anno sono 4 milioni, circa il 38% del totale. Di questi, tre quarti non arrivano nemmeno a compiere una settimana, muoiono prima, muoiono subito.
E il 99% di queste morti neonatali avviene ancora una volta nei paesi più poveri, soprattutto nelle zone dell’Asia sudcentrale (con l’eccezione del Bangladesh e Sri Lanka, dove la situazione è migliore) e dell’Africa subsahariana. Due terzi di queste morti sono concentrate in 10 paesi e la metà avviene in casa, senza assistenza. Muoiono perché nati troppo presto, prima del termine, per difficoltà respiratorie, per infezioni, come il tetano, che è facilmente prevenibile, malattia di altri tempi per i paesi ricchi.
Ancora una volta la rivista medica The Lancet ha dedicato una serie di articoli proprio alle morti neonatali, dei primi giorni di vita, sottolineando come la loro prevenzione non sia un punto centrale nei programmi sulla sopravvivenza infantile e la salute matea: il risultato sono 450 neonati che muoiono ogni ora, 10 mila ogni giorno, ancora una volta per cause, nella maggior parte dei casi, evitabili.
Ma non se ne parla, fa parte delle emergenze dimenticate. E in fondo basterebbero pochi semplici interventi per migliorare di molto il desolante quadro: per esempio vaccinazioni contro il tetano per le donne in gravidanza, parti in condizioni igieniche e pulizia adeguate, allattamento al seno immediato ed esclusivo, assistenza per i nati di basso peso e antibiotici per le infezioni neonatali.

Cercare le soluzioni
Le ultime previsioni delle Nazioni Unite, sulla base dell’andamento finora registrato, mostrano un quadro pessimistico per il raggiungimento del quarto obiettivo: se si fallisce, fra oggi e il 2015 moriranno 29 milioni di bambini prima di arrivare a 5 anni di vita. Dieci nazioni africane hanno oggi una mortalità peggiore di quella del 2000, anno in cui sono stati stabiliti gli obiettivi; altre 29 potrebbero invece arrivare al risultato, ma con 35 anni di ritardo.
Eppure, a volte basta davvero poco per ottenere grandi risultati, come attuare gli interventi rapidi ed economici prima ricordati. È importante riuscire a calarsi nelle realtà che si hanno di fronte, pianificare sulla base del tessuto sociale in cui si agisce e delle risposte che si possono ottenere; capire quali siano i reali bisogni primari, capire come arrivare alle famiglie, come integrare l’intervento perché diventi un progetto comune e abbia possibilità di riuscita.
Certo vi sono, in diversi stati, campagne inteazionali di diffusione delle vaccinazioni e di prevenzione delle malattie. Quella promossa in Togo alla fine dello scorso anno è un esempio fra tanti, in cui sono stati uniti gli sforzi contro morbillo, poliomielite, vermi intestinali e malaria. Lo scopo era raggiungere e proteggere circa un milione di bambini fra i nove mesi e i cinque anni.
Ma a volte la soluzione è nascosta anche in interventi apparentemente banali e di basso costo, che aggirano l’ostacolo della povertà, dell’impossibilità di avere attrezzature sanitarie adeguate. Interventi che, per esempio, permettono di salvare la vita a molti bambini disidratati dalla diarrea anche se non ci sono i soldi per ricoverarli o dar loro liquidi in vena. Il Bangladesh ha fatto da apripista in questa ricerca di risposte semplici e immediate ed è stato tra i primi a utilizzare per questi bambini una semplice bevanda, composta da acqua, sale e zucchero.
Perché, se è importante non trascurare la ricerca sul Dna e su nuovi vaccini, a cosa serve se i bambini muoiono di una banale diarrea prima di potee beneficiare? La somministrazione della bevanda in sostituzione della più complicata, e spesso impossibile da realizzare, terapia endovenosa si valuta abbia salvato nel corso degli anni 40 milioni di persone. E dagli anni settanta a oggi la mortalità infantile in Bangladesh è pressoché dimezzata, ridotta a un terzo in alcune zone.

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°4

Ridurre di due terzi
rispetto al 1990
la mortalità infantile

Vi sono enormi differenze fra le possibilità di avere una vita futura offerte a un bambino in base a dove nasce. Se infatti nei paesi in via di sviluppo muore 1 bambino su 12, prima dei cinque anni di età, nei paesi più ricchi ne muore 1 su 143. Complessivamente ogni anno muoiono quasi 11 milioni di bambini nei paesi più poveri prima del loro quinto compleanno, e la maggior parte di queste morti sarebbe evitabile migliorando l’assistenza sanitaria, l’alimentazione e le terapie mediche. L’Obiettivo di sviluppo del millennio numero quattro si propone di ridurre di due terzi la mortalità infantile prima dei cinque anni entro il 2015 (rispetto ai dati registrati nel 1990).

Valeria Confalonieri




Una sola madre terra Homo “turisticus” responsabile(2)

Per proteggere le risorse ambientali, contribuire al reddito e al benessere delle comunità locali, offrire ai turisti un’esperienza di qualità, il turismo deve essere «sostenibile» e «responsabile». E si può! Molti individui, associazioni e operatori turistici ci stanno provando e con buoni risultati.

Responsabile, sostenibile, sociale, consapevole, ecologico, ambientale, etico: sono gli aggettivi in base ai quali un numero sempre crescente di turisti sceglie il proprio viaggio in Italia e all’estero.
Ben 15 mila sono infatti gli italiani che nel 2003 hanno scelto viaggi responsabili verso i paesi del Sud del mondo, 200 mila quelli che hanno preferito un turismo sostenibile nel nostro paese, e si stima che il loro numero crescerà del 30-40% all’anno.
Anche le organizzazioni inteazionali guardano con attenzione questo fenomeno. Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, agenzia dell’Onu, l’essere «sostenibile» significa che deve proteggere le risorse ambientali, contribuire al reddito e al benessere delle comunità locali, offrire ai turisti un’esperienza di qualità. Vediamo in dettaglio cosa può comportare essere turisti responsabili nel Sud del mondo.

VILLAGGI: «CLASSICI» O RESPONSABILI?
Anche le agenzie, organizzazioni e associazioni che offrono un modo di viaggiare diverso dai tour organizzati sono sempre più numerose. Partite qualche anno fa in un silenzio generale, con l’obiettivo di permettere al turista una conoscenza reale del luogo visitato, fuori dai circuiti dei grandi alberghi, villaggi turistici e resort uguali ovunque, oggi in Italia se ne contano circa 80.
Di fronte a operatori turistici «classici», secondo i quali un turismo di massa crea comunque lavoro, benessere e occasioni di sviluppo, i fautori del «responsabile» sostengono che se il turismo non è certamente la causa di tutti i mali dei paesi poveri, non ne è neppure la soluzione. E denunciano l’impatto spesso devastante delle masse di turisti sui paesi ospitanti, con le inevitabili conseguenze ambientali, sociali, culturali e sanitarie, riconosciute anche dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp).
E intanto, lentamente, anche i grandi operatori turistici italiani e inteazionali iniziano ad affrontare l’argomento, anche se in maniera ancora molto limitata. Segnali concreti sono presenti ad esempio nella lotta contro la pedofilia associata al turismo, oppure nello sviluppo dell’ecoturismo.

«TEMPO LIBERO» NON È «RIPOSO DEI VALORI»
Le prime critiche e denunce al turismo «classico» arrivano soprattutto dalle chiese a partire dal 1967. Specialmente nel Sud del mondo, in numerose conferenze ecclesiali si denuncia l’imperialismo economico del Nord, si discute il ruolo delle multinazionali del settore, si solleva la questione del turismo sessuale.
Lo scopo è quello di stimolare una consapevolezza globale sull’impatto del turismo. «Il modo in cui il turismo è organizzato è neocolonialismo. Voi avete diritto allo svago e il denaro per concedervelo, noi no. E la nostra dipendenza economica da questa risorsa fa sì che i turisti debbano essere trattati come dèi» è l’amaro commento del padre indiano Desmond De Souza.
Proprio a partire dall’India, in pochi anni nel Sud e Nord del mondo prende forma un movimento di attenzione e critica al turismo, che si traduce in reti di associazioni e organizzazioni non governative operanti nel campo del turismo responsabile, ma anche in centri di ricerca, singoli intellettuali, attivisti, scrittori e giornalisti. Nel 1995 a Lanzarote, nelle Canarie, si tiene la Conferenza mondiale sul turismo sostenibile, promossa, tra gli altri, dall’Unesco e dall’Unep (United Nations Environment Programme), durante la quale viene approvata la Carta del turismo sostenibile.
Anche in Italia prende vita un forum nazionale di attenzione al turismo. Dal 1996, l’incontro tra associazioni e Ong (come Icei, Mlal e Aspac), organizzazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf e Cts), associazione delle imprese turistiche aderenti alla Lega delle cornoperative (Ancst), Associazione consumatori utenti, Ecpat, giornale di strada Terre di Mezzo… porta a due grossi risultati: la sottoscrizione nel 1997 della Carta di identità per viaggi sostenibili e la fondazione, nel 1998, di Aitr-Associazione italiana turismo responsabile. Nata con l’appoggio ufficiale del Dipartimento del turismo della Presidenza del consiglio dei ministri, l’Aitr ha per scopo la diffusione e realizzazione dei principi contenuti nella Carta; oggi, è formata da 50 associazioni no profit che si occupano a diverso titolo di turismo (vedi bibliografia).
Al fianco di questo movimento, anche il Vaticano si dimostra attento alle problematiche sollevate, tanto che il 9 giugno 2001, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo, papa Giovanni Paolo ii invita tutti i credenti a riflettere sugli aspetti positivi e negativi del turismo, affinché «nessuno cada nella tentazione di fare del tempo libero un tempo di riposo dei valori».

SOSTENIBILE ED ETICO
Nel tempo, grazie anche alla presenza attiva delle organizzazioni non governative, i viaggi di turismo responsabile hanno subito un’evoluzione, puntando su obiettivi sempre più complessi. Nati come occasione per permettere a soci, amici, finanziatori o semplici curiosi, una conoscenza «reale» e problematica dei paesi in cui le Ong operano, negli anni sono diventati un’occasione per visitare i progetti di cooperazione internazionale delle Ong stesse e per conoscere i volontari e le popolazioni locali che beneficiano del progetto, fino a rappresentare una vera e propria occasione di sviluppo per le zone interessate.
Secondo Alfredo Somoza, presidente di Aitr, gli aggettivi chiave di questo modo di viaggiare sono due: sostenibile ed etico. Sostenibile, ossia in grado di favorire un contatto con il territorio e con la società ospitante, avendo cura delle implicazioni ambientali, economiche, sociali e culturali; che rivaluta i ritmi lenti, il confronto e il dialogo con la diversità e che vuole essere anche segnale concreto di aiuto allo sviluppo.
Etico: perché non fa finta di non vedere le violazioni dei diritti dell’uomo e dei popoli; anzi, ha il coraggio di denunciarle. Un esempio: la campagna di boicottaggio al turismo in Birmania, lanciata da Aitr, perché le infrastrutture turistiche del paese asiatico sono state costruite sul lavoro forzato e sono gestite prevalentemente da una narco-dittatura.
Il turismo sostenibile o responsabile richiede quindi il rispetto e la valorizzazione delle culture locali e soluzioni rispettose dell’ambiente, ad esempio, per i trasporti, per i flussi di energia e di materia, per gestire i rifiuti, per minimizzare l’inquinamento atmosferico, del suolo e delle acque, ma anche l’inquinamento sonoro e luminoso.
Il turismo responsabile, inoltre, richiede che siano scoraggiate le attività turistiche, ricreative e sportive dannose per l’ambiente, che si riducano gli sprechi e certi consumi, anche nel rispetto della dignità dei lavoratori. Il contatto con la comunità locale e il contributo al loro sviluppo passa attraverso le scelte di tutti i giorni.
Privilegiare dove possibile bus o treni per gli spostamenti interni, scegliere innanzitutto ristoranti e piccoli hotel a gestione familiare per pasti e peottamenti, essere ospiti nelle sedi di Ong, di missioni e, se possibile, presso famiglie locali, contribuisce a rendere il turista consapevole: di sé e delle proprie azioni, della realtà dei paesi visitati, della possibilità di scegliere un modo di viaggiare che anziché allontanare e distruggere, avvicini e costruisca.

I PROTAGONISTI
Diversamente da qualche anno fa, quando i primi turisti responsabili erano soprattutto persone socialmente impegnate e frequentatori delle botteghe del commercio equo e solidale, oggi i viaggiatori «consapevoli» appartengono a qualunque gruppo sociale e professionale.
Impiegati, professori, architetti, operai, si avvicinano con le aspettative e le esigenze più diverse. Sicuramente il gruppo che parte per un viaggio di questo tipo desidera creare un affiatamento interno che favorisca anche le relazioni con la comunità ospitante.
L’accompagnatore del viaggio non è, quindi, solo una guida turistica, ma diventa un animatore socioculturale e un mediatore fra culture diverse. Sicuramente conosce il paese visitato, ne parla la lingua, magari c’è già vissuto, in molti casi vi risiede (fatto che contribuisce anche ad aumentare la percentuale della quota del viaggio che rimane in loco). Può essere un volontario dell’associazione che organizza il viaggio in partenza dall’Italia oppure del progetto nel paese visitato, o ancora un riferimento locale, con un’opportuna formazione a questo tipo di turismo.
Un ruolo centrale è assunto dalle comunità locali: le associazioni che organizzano viaggi responsabili tendono a rivolgersi a comunità o strutture del luogo di destinazione, con le quali esiste un rapporto di collaborazione o conoscenza reciproca, consolidata nel tempo, e che quindi garantisca una coerenza di valori e livelli minimi di qualità dei servizi offerti.
Contemporaneamente la stessa comunità deve sentirsi parte attiva del progetto, libera di esprimere e risolvere i propri problemi. Molti dei partners dei viaggi di turismo responsabile sono inoltre fornitori di materie prime per il commercio equo e solidale e usufruiscono di crediti della finanza etica per sviluppare le loro iniziative.
A chi sceglie questo tipo di viaggi è richiesto di essere «responsabile» ancor prima di partire. Il gruppo di turisti, l’accompagnatore, l’organizzatore del viaggio, uno o più esperti del paese e i responsabili dei progetti che verranno visitati partecipano infatti a una riunione preparatoria. Ci si incontra, si conosce il paese da visitare, si presentano i progetti che saranno visitati… insomma, il viaggio comincia già in Italia!
Durante la riunione viene consegnata ai partecipanti una scheda con il prezzo trasparente, che evidenzia la percentuale del prezzo finale che rimane alle comunità locali o comunque nel paese di destinazione. La quota che rimane in loco (vitto e alloggio, trasporti locali, accompagnatore, quota progetto, formazione) si aggira sul 35%, che sale oltre il 40% se l’accompagnatore è locale.
Una percentuale della quota di viaggio, che può essere una quota fissa o variabile tra il 2% e il 5%, è destinata a finanziare un progetto nato in loco e gestito direttamente dalla comunità, progetto generalmente visitato durante il viaggio. Può trattarsi di una casa per ragazzi di strada, progetti di aiuto ad anziani e ammalati o di sostegno agli indios, microcrediti per le donne dei villaggi, prevenzione e controllo dell’Aids… (vedi riquadro Brasile).

IL TURISTA CRITICO
Il rischio della classica formula «tutto compreso» è che, dopo il viaggio, si torni a casa… «niente capito». Secondo Vittorio Kulczycki, «il problema è che un certo tipo di turismo ha trasformato il tempo libero, che è un bene sociale, in un bene di consumo».
Il turista che visita paesi del Sud non può più essere solo uno spensierato vacanziero, ma può diventare testimone di una realtà non sempre facile e né bella da vedere. I viaggi di turismo responsabile possono quindi rappresentare una duplice opportunità: una vera occasione di sviluppo per i paesi del Sud del mondo e un mezzo per rendere i turisti occidentali più responsabili nei confronti dei paesi poveri anche al ritorno dal viaggio, nella propria vita quotidiana.
Come è avvenuto per il commercio equo e solidale, fa notare Duccio Canestrini, oggi il consumatore-turista è sempre più consapevole di ciò che si «nasconde» dietro al prodotto «pacchetto viaggio» e, cosa importante, ha la possibilità di scegliere: «Se qualcosa cambierà in maniera rilevante, sarà grazie a una domanda dal basso».

BOX 1

BRASILE: villaggio, viaggio-avventura, o turismo responsabile?

TURISMO CLASSICO DA VILLAGGIO
«La vacanza è tua. Il lavoro è nostro. Al nostro villaggio c’è un intero staff a tua disposizione. Puoi vivere con loro una giornata ricca di emozioni, ma quando lo desideri scompaiono del tutto, lasciandoti in totale tranquillità»…
«Dolce come le melodie d’amore della bossanova. Dolce come i budini di cocco e manioca o come le batidas di maracujá, il frutto della passione… Fate quello che volete, ma per una volta lasciate che il vostro tempo sia veramente, arditamente dolce».
• Sistemazione: villaggio in posizione splendida, direttamente su una lunga e bellissima spiaggia di sabbia fine. Ambiente naturale lussureggiante e atmosfera suggestiva. Camera con servizi situata in palazzine di quattro camere. Veranda, balcone, aria condizionata, telefono, frigorifero, cassetta di sicurezza. Corrente elettrica 220 V.
• Servizi e strutture: area spettacoli, discoteca, sala Tv (Rai Inteational), piscina con acqua dolce, infermeria, area giochi per bambini, lavanderia, boutique, noleggio auto, cambio valuta.
• Attività sportive: canoa, bodysurf, beach volley (2 campi), calcetto (1 campo in erba), beach soccer (1 campo), tiro con l’arco, tennis (2 campi polivalenti), ginnastica acquatica, aerobica.

VIAGGIO AVVENTURA
«La foresta tropicale è vita allo stato puro, gioia, libertà. Non si può inventare la miseria nella terra dell’opulenza, non si può creare il nulla in nome del progresso, il vero progresso è nella salvezza della foresta, la vera ricchezza è nell’umida, sensuale e feconda ombra della selva, generatrice di vita e di speranza».
• Programma: dopo un lungo volo atterreremo a Rio de Janeiro, da dove, dopo aver visitato alcuni luoghi caratteristici della città e il famoso Orto botanico, ci spingeremo con mezzi a nolo lungo le catene montuose che costeggiano l’Atlantico per raggiungere il Parco nazionale di Itatiaia e la Riserva naturale di Poço das Antas… Effettueremo varie escursioni all’interno di queste interessantissime zone forestali e in particolare nella Riserva di Poço das Antas, dove sopravvivono gli ultimi esemplari in libertà di una delle più rare scimmie dell’America Meridionale… Durante questo percorso fluviale ci fermeremo spesso nei villaggi rivieraschi per intraprendere, con guide locali, delle escursioni a piedi o in canoa nella selva, alla scoperta di un mondo unico e straordinariamente ricco di ogni forma di vita…

TURISMO RESPONSABILE O SOSTENIBILE
«Il cuore dell’esperienza è rappresentato dall’incontro e dalla conoscenza: conoscenza reale del paese nella sua complessità, con i suoi problemi e le speranze della gente»… «Con i suoi mille volti e culture, il Brasile è il paese dalle emozioni forti: a bellezze naturali ineguagliabili si uniscono contrasti sociali esplosivi».
• Programma: l’arrivo è previsto a Recife, dove si visiterà il centro storico, con numerosi canali e ponti in riva al mare, di stile coloniale… Da Recife si raggiungerà in pullman Tremembé, villaggio di pescatori a 200 Km da Fortaleza, dove, ospiti dell’omonima associazione, si passeranno 4 giorni immersi nella quiete, con incontri coi pescatori che c’introdurranno al loro lavoro e ad altre attività dell’associazione; visite alla cittadina, uscite in barca e momenti di relax sulle spiagge incontaminate. Con un volo interno ci si trasferirà a Manaus, in Amazzonia, e da qui a Silves, dove si passeranno 5 giorni all’Aldeia dos Lagos, il primo centro di turismo responsabile dell’Amazzonia, sede di un progetto di conservazione dell’ambiente naturale e miglioramento delle condizioni della popolazione, attraverso il reddito prodotto dal turismo. Escursioni a piedi e in barca nella foresta. Ci si trasferirà a Rio de Janeiro, dove si avrà modo di apprezzae le bellezze turistiche e di scoprire anche un’altra Rio, fatta di problemi e di contraddizioni: visite nella periferia della città, per conoscere il lavoro dell’azienda agricola, il centro di formazione per gli adolescenti e la casa-famiglia che accoglie educatori, popolazione locale, minori e visitatori.
• Il viaggio prevede una giornata preliminare di formazione individuale e collettiva.
Fonte: CISV, Solidarietà in viaggio.

BOX 2

Rispetto: mai viaggiare senza

1) Il paese che ti consigliamo di visitare è quello in cui si protegge il patrimonio naturale e si rispettano i diritti umani.
2) Prima di partire, informati su usi, costumi, e problematiche socio-culturali.
3) Una volta scelta la destinazione, spostati con i mezzi che inquinano meno l’ambiente.
4) Gli animali non suonano il clacson e non ascoltano MP3: cerca di non disturbarli con rumori inutili.
5) Lascia a casa le tue abitudini: toerai più ricco con le usanze di un’altra cultura.
6) È meglio partire fuori stagione: affollamenti e file possono rovinare l’ambiente… e anche la tua vacanza.
7) Approfitta dei servizi locali: contribuirai al benessere e allo sviluppo della gente del posto.
8) Viaggia in piccoli gruppi: consumerai meno e rispetterai le comunità visitate.
9) Piante e animali rari stanno bene dove stanno. Non contribuire al traffico illecito di specie protette.
10) Visita i parchi nazionali, le riserve, i santuari: esistono anche grazie ai tuoi biglietti d’ingresso.
Fonte: Campagna CTS – Centro Turistico Studentesco e Giovanile

BOX 3

Per tutti i gusti

Cta Volontari per lo sviluppo è un’associazione di uomini e donne che da anni operano nel settore della solidarietà internazionale e che, come professionisti del turismo, lavorano esclusivamente nell’organizzazione di viaggi di turismo responsabile. Tante sono le modalità offerte per andare a conoscere realtà fatte di uomini, natura, cultura, storia, architettura, arte e artigianato.
Turismo comunitario. Percorsi in cui il turista è ospite di famiglie o di altri nuclei sociali e trascorre la maggior parte del tempo con le persone del posto, condividendone stili e tempi di vita, partecipando talvolta alle attività quotidiane e facendo escursioni in località interessanti dal punto di vista naturalistico, socio-culturale o storico.
Tour di conoscenza. Itinerari che toccano diverse località di uno stesso paese, alla scoperta degli aspetti storici, delle bellezze naturali e soprattutto delle tradizioni dei loro abitanti; una particolare attenzione viene data all’organizzazione di incontri con realtà artigianali collegate alla rete dell’economia solidale e con esponenti della cooperazione internazionale.
Campi di lavoro. Soggiorni che prevedono l’attività volontaria del turista e il suo coinvolgimento nei progetti di sviluppo dell’economia o della qualità della vita locali.
Fonte: Cta Volontari per lo sviluppo

BOX 4

Voglia di lentezza

«Un Paese straniero ti scava dentro l’animo, ma questo avviene solo gradualmente, con i tempi del nostro orologio biologico. Per capire ed entrare in una situazione bisogna appassionarsi ad essa, ma bisogna darsi il tempo perché questo avvenga» (Renzo Garrone).
«Purtroppo, proponiamo solo 15 giorni, perché altrimenti non ce la faremmo a riempire il viaggio. In questi 15 giorni, comunque Ram tocca solo tre/quattro destinazioni approfondite, piuttosto che 10 “mordi e fuggi”. Il tempo a disposizione è determinante per entrare nel ritmo del luogo di destinazione, pena lo smarrimento di qualità e di senso. Ti chiediamo di arrivare a questo appuntamento, per quanto possibile, con un atteggiamento di apertura. Lascia a casa il consumismo che ti obbliga a macinare un’attrazione dietro l’altra: certi tempi apparentemente “morti” dei nostri circuiti non sono dovuti a carenza di organizzazione, sono invece intenzionali, affinché lo “spirito” della realtà del luogo possa imporsi, far breccia, penetrare in noi piano piano».
dal sito di Ram: www.associazioneram.it

BOX 5

Ricordando lo Tsunami

…In conclusione.
1) Il turismo può portare benessere a patto che sia rispettoso e giusto e che il denaro rimanga nelle tasche della (povera) gente del luogo, piuttosto che in quelle di spregiudicati mediatori, indigeni o forestieri che siano.
2) Prima di esortare noi clienti a comprare i loro pacchetti viaggio, i tour operator siano trasparenti nel loro operato, elaborino una responsabilità d’impresa, promuovano un turismo ambientalmente e socialmente sostenibile, contribuiscano allo sviluppo.
3) È auspicabile che il turismo internazionale sia sempre più motivato e sempre meno «vacanza», non perché nella vacanza vi sia qualche cosa che non va, ne abbiamo tutti bisogno, ma fare vacanza in oasi di lusso circondate dalla miseria non è una bella idea.
4) Dopo lo tsunami: sarebbe interessante che le comunità locali avessero la possibilità di governare la ricostruzione, nella promozione di un turismo sostenibile, basato sull’ospitalità di villaggio. Perché, in quanto abitanti di luoghi veri, e non soltanto di destinazioni, possano essere protagonisti della rigenerazione e del ripensamento della loro capacità di ospitare.
Fonte: Duccio Canestrini,
www.homoturisticus.com

Silvia Battaglia




ITALIA – Week end all’inferno

Adolescenti e giovani di una parrocchia torinese,provocati ad «annunciare la risurrezione» in modo nuovo e avvincente.
Una sfida riuscita e che sa un po’ di… miracolo!

«Il nostro musical desidera annunciare che “Gesù è risorto”; per questo l’abbiamo intitolato WEEKEND ALL’INFERNO, a ricordo della sua discesa agli inferi prima della risurrezione»… racconta con decisione don Ugo Bellucci, vice parroco della Beata Vergine delle Grazie di Torino, comunemente conosciuta come parrocchia della «Crocetta».
Non si è trattato, però, della solita recita nel teatro parrocchiale perché, con grinta e determinazione, più di cento adolescenti e giovani si sono esibiti nel cuore di Torino, cioè la regale piazza Castello, davanti alle autorità, al cardinale e a un pubblico di 3.500 persone; poi, con l’appoggio del Centro Studi San Tommaso Moro, alla 8th Gallery, cioè la parte della Fiat-Lingotto trasformata in centro commerciale, davanti a un pubblico di oltre mille persone.


Lo spettacolo inizia con lo smarrimento di Giovanni, l’apostolo prediletto di Gesù, dopo la morte del maestro e con rapidi flash black rievoca gli episodi più salienti della vita del Figlio di Dio, fino all’inaspettata gioia della risurrezione. La scenografia è semplice e imponente allo stesso tempo. Già il coro, formato da più di trenta elementi, con lunghe tonache marroni impreziosite da vistosi oamenti in oro ed argento, si rivela un importante elemento coreografico insieme ai musici (batteria, due chitarre, percussioni e tastiera); ma è l’imponente schermo bianco sul fondo che scandisce, con le ombre proiettate, il succedersi delle scene.
Gesù, gli apostoli ed altri personaggi del vangelo, vestiti con mantelli e tuniche dai colori vivaci, animano i vari episodi caratterizzati da rapidi cambi di scena, effettuati dagli stessi attori. Vediamo comparire delle reti, quando Gesù invita gli apostoli a diventare pescatori di uomini; tavoli e sgabelli per le nozze di Cana e l’ultima cena; otri, vasi, ceste e persino la croce dove Gesù è appeso. Di tanto in tanto compare anche il balletto, che enfatizza i vari brani musicali, filo conduttore di tutto. Lo spettatore è incantato da un tripudio di colori, musica, voci, da tutti questi giovani attori e anche dalla cinquantina di bambini che fanno eco a Gesù quando annuncia le beatitudini e si uniscono nell’imponente coro finale, che inneggia al miracolo della risurrezione.
In una società, dove gli adolescenti fanno notizia quando allagano le scuole, uno spettacolo come questo ha quasi del miracoloso. Abbiamo, perciò, rivolto alcune domande a don Ugo, per capie di più.

Don Ugo, come vi è venuta l’idea di mettere in scena uno spettacolo come questo? In che modo vi siete organizzati?

L’idea ci è venuta perché la diocesi aveva lanciato l’anno della «missione giovani» (2003-2004) e ci è parso doveroso che i giovani annunciassero Gesù alla città a modo loro, cioè con la musica. Siamo partiti per tempo, abbiamo lavorato su periodi lunghi, ci siamo preparati con calma. L’idea è stata discussa durante una settimana comunitaria con gli universitari, presso i missionari della Consolata di Torino. Ricordo che il responsabile del Centro, padre Renato, era presente: ha visto la nostra volontà di realizzare lo spettacolo, ma anche la nostra grande titubanza. Il nostro parroco, don Franco Alessio, ci ha sempre aiutati, anche finanziariamente, ed incoraggiati: senza il suo sostegno, molto probabilmente non ce l’avremmo fatta.
Il gruppo universitari (20-25 anni) si è rivelato l’asse portante di tutto il progetto. Questi ragazzi (circa 20 persone) sono educatori del gruppo-adolescenti e ancora amici dei loro educatori, alcuni ormai giovani coppie sposate. E così abbiamo trovato il cast, circa 100 adolescenti e giovani della parrocchia, dai 15 ai 30 anni. Ci siamo, poi, divisi i ruoli: tre impegnati nella regia e poi altri 12 ragazzi responsabili di scenografia, luci, musici, coro, costumi, balletto. Esserci preparati per circa un anno ci ha dato modo di pensare, discutere, crescere e prepararci.

Come avete scelto gli episodi del vangelo e con quali musiche?

Volevamo annunciare la «risurrezione di Gesù»; per questo, abbiamo scelto gli episodi che ci parevano importanti e ci sentivamo di rappresentare: la parabola del seminatore, le nozze di Cana, Marta e Maria, la chiamata di Levi, la scelta degli apostoli, le beatitudini, il buon samaritano, l’adultera, la risurrezione di Lazzaro, la cacciata dei venditori dal tempio, il litigio degli apostoli (su chi fosse il più grande), l’ultima cena, passione e crocifissione, risurrezione. Le musiche sono tratte da film o spettacoli famosi, che piacciono ai giovani (Il re Leone, La bella e la bestia, Il principe d’Egitto, Streets of Philadelphia, una canzone di Elton John). Con l’équipe della regia abbiamo poi scritto le parole, componendo 17 canzoni adatte ai vari episodi.

Come vi siete organizzati per i costumi, il trucco (così vistoso ed efficace), le prove, la regia? Eravate così numerosi…

Per i costumi ci siamo ispirati al film «Gesù di Nazareth» di Zeffirelli. La ragazza responsabile e una mamma, appassionata di teatro, hanno disegnato costumi, realizzati poi da un senegalese di San Salvario, e studiato il trucco degli attori. Abbiamo prima provato i singoli episodi e le musiche e, poi, assemblato un po’ alla volta i vari episodi. In parrocchia, il teatro è molto piccolo; quindi, la platea è diventata il nostro palco.

E, poi, il grande debutto; come siete riusciti ad ottenere un palco in piazza Castello per un musical, realizzato da giovani sconosciuti alla città?

Tutto il nostro sforzo è stato sorretto da molta fede e tenacia. Il cardinale ci ha appoggiati con una lettera per avere piazza Castello e il palco dal comune di Torino. Ci è sempre parsa una sfida superiore alle nostre forze; però, eravamo contenti di «annunciare Gesù», che certamente ci ha aiutati. Il successo nei due spettacoli è stato molto buono. Alcuni giovani, anche se hanno recepito qualche «stecca» nell’esecuzione delle canzoni, si sono riavvicinati ai gruppi della parrocchia. Speriamo non sia una bolla di sapone e che il seme cresca.

Progetti futuri?

Abbiamo tradotto tutto lo spettacolo in inglese e, in agosto, saremo a Bonn, a presentarlo in un teatro di 800 posti e un palco di 115 metri quadrati, in occasione della Giornata mondiale della Gioventù. In questo progetto, sono attualmente impegnate 134 persone. Pregate per noi! •

Silvana Bottignole




007-Così sta scritto -Nel Giardino di Eden (7)

«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo servisse/coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15)

«Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi
nelle doglie del parto» (Rom 8,22)

Nella coscienza dei popoli aumenta la preoccupazione per il futuro della terra. Lo sviluppo disordinato e lo sfruttamento delle risorse idriche, alimentari ed energetiche hanno imboccato la via di non ritorno verso l’implosione dell’ecosistema. I governi sono i soli a non preoccuparsene, dal momento che essi sopravvivono una manciata di istanti e non interessa loro la sorte delle generazioni future, ma il risultato immediato. Domani altri goveeranno; ad altri i problemi di domani.
Goveare è prevedere. Anzi, governare è anticipare le previsioni. Prendere coscienza della terra o, come si dice oggi, dell’ambiente in cui viviamo è un imperativo morale e religioso, oltre che civile. Per il credente il rispetto e la cura della terra sono un atto di obbedienza al Creatore del cielo e della terra e un inno di lode al Dio redentore dell’umanità e dell’ambiente che la contiene. Chiunque insulta, defrauda, violenta, sfrutta la terra e le sue risorse compie un atto blasfemo contro se stesso e contro Dio.
L’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili; il degrado delle urbanizzazioni selvagge hanno prodotto la cementificazione della terra, con la conseguenza che sono in aumento la desertificazione, alluvioni, mutamento delle stagioni, scioglimento dei ghiacciai, cataclismi di cui siamo attoniti e impotenti testimoni.
Eppure la bibbia si apre appunto con la questione ambientale, fulcro di tutta la storia di salvezza. Il fondamento di tutto ciò era già scritto fin dal principio, ma pochi ne hanno coscienza, anche tra i credenti. In nessun programma di politici sedicenti cristiani e/o cattolici ho mai visto un espresso capitolo dedicato all’ambiente o alla terra e al conseguente sviluppo sostenibile.
Guardandomi attorno, vedo che l’umanità è ancora ferma ai primi 11 capitoli della Genesi: non ha fatto un grande progresso da un punto di vista antropologico. Questa constatazione diventa drammatica se guardiamo al rapporto tra gli uomini, tra uomo e natura, tra uomo e creato. Tutti gli scienziati liberi (non a libro paga dei governi) dicono che il mondo sta morendo per opera dell’uomo e le proiezioni parlano di uno stravolgimento epocale che sovrasta le teste dei nostri figli, perché il rapporto dell’uomo con la terra è un rapporto di violenta aggressione, quasi una volontà positiva di distruggere il creato.

Tutto era previsto dal x sec. a.C. in poi. Tutto era scritto già nel sec. iv a.C., nei primi 11 capitoli del libro della Genesi. Essi sono il risultato finale di una lunga riflessione sull’esperienza di fede del popolo d’Israele, frutto di diverse tradizioni orali e scritte. Sono la proiezione all’indietro dell’esperienza storica vissuta lungo 5 secoli (x-v a.C.): la problematica che attraversa l’anima umana è proiettata su uno sfondo cosmico per dire che si tratta di una realtà universale.
Genesi 1-11 è una «narrazione storica», nel senso che tematiche universali come dolore e morte, violenza gratuita e organizzata, lavoro e fatica, disgregazione dell’ambiente e cataclismi, sofferenza degli innocenti e successo degli ingiusti, attrazione dei sessi e dolore del parto, mistero della vita e mortalità, società e sovversione dell’ordine morale… sono patrimonio dell’umanità che cammina nel tempo della storia. Sempre.
Genesi 1-11, però, supera i confini di un tempo specifico o di una generazione e per questo vengono collocati «in principio», perché fanno parte del patrimonio storico che ogni generazione lascia a quella successiva. Ieri come oggi e come domani. A distanza di almeno 3 mila anni, infatti, anche oggi siamo alle prese con gli stessi interrogativi.
Ai quali interrogativi, l’uomo biblico dà una risposta di fede, che può essere sintetizzata così: l’uomo/Adam che non riconosce la «signoria» di Dio, cioè, non accetta il proprio limite di creatura e si ribella nel tentativo di sostituirsi a Dio stesso, va incontro a una serie di fallimenti senza ritorno.
Adam disponeva del giardino di Eden; era «signore» di tutto il creato; dove svolgeva un compito sacerdotale di rappresentanza. Egli era la «statua/immagine» del Creatore, la coscienza vigile dell’intero creato attraverso l’esercizio di una «signoria vicaria» che avrebbe dovuto fare sperimentare al creato la provvidente pateità di Dio-Signore.
L’uomo poteva «dare il nome» agli animali, cioè esercitare su di essi un compito non di dominio, ma una primazia di signorilità: come il sacerdote nel tempio di Gerusalemme rappresentava liturgicamente Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio attraverso il sacrificio perpetuo e il sacrificio di lode (Sal 53,8; 115,8; 1Mac 4,56; Eb 13,15), così Adam nell’Eden, tempio cosmico, celebrava la liturgia di lode in rappresentanza e in comunione con il creato: umani, animali e cose. Il «principio» o fondamento della creazione era l’armonia del creato, come contesto dell’armonia del regno vegetale, animale e umano e segno dell’armonia pacificata dell’animo umano. Ad Adam non basta.
Egli vuole essere Dio, non solo la sua immagine; non accetta di essere quello che è, ma vuole diventare chi non è, introducendo nel suo cuore, nella relazione con la donna e nel mondo intero il germe del disordine e divisione. Per responsabilità dell’uomo il virus della disgregazione è inoculato nel creato, nel mondo animale, vegetale e inanimato.
Quando la persona perde di vista il confine della propria consistenza e identità interiore e vuole essere altro da ciò che realmente è, pone in atto un processo dissolutivo di sé e travolge tutto ciò che incontra. Egli separa così l’esperienza dalla coscienza, il proprio vissuto storico (del momento) dal proprio progetto complessivo (il dovere essere del proprio io profondo), frantuma ogni principio di coerenza nella verità, la quale non è più un obiettivo da cercare, ma una parzialità imposta come verità assoluta.
La persona che perde di vista il punto di partenza, le sue radici (l’Eden che ne determina l’individualità limitata) e il suo fine (l’immagine che ne esprime la capacità indefinita di relazione creativa), smarrisce se stessa, si attorciglia come un serpente in meccanismi opachi di distruzione, che deprimono la coscienza e ne fanno un soggetto gracile di feroci distruzioni contro se stesso e l’ambiente circostante. Senza più Dio come Signore e principio della creazione, le conseguenze rotolano come su un piano inclinato.
La donna non è più compagna di vita e viaggio alla pari, ma strumento nelle mani del potere maschile, che trasforma anche la relazione d’amore in possesso violento e di dominio: «Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli dominerà su di te» (Gen 3,16). La relazione sessuale, che doveva essere il sigillo dell’armonia perfetta, il sacramento visibile del volto di Dio in quanto «immagine e somiglianza», diventa invece campo di violenza e sopraffazione.
Senza il riconoscimento di Dio come Padre, Abele non è più riconosciuto come fratello, ma diventa ostacolo al successo di Caino, che per questo lo vuole uccidere (Gen 4): nasce l’omicidio/fratricidio. I fratelli diventano «extracomunitari» l’uno all’altro, ieri e oggi.
All’Adam che rinnega Dio creatore, la natura stessa si ribella e non ne riconosce più la signoria: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con travaglio ne trarrai nutrimento… spine e cardi farà spuntare per te» (Gen 3,17-18).
All’uomo che si rivolta contro Dio, l’intero creato si rivolta con violenza sovrumana: il diluvio sommerge la terra intera e solo otto persone si salvano (Gen 6). L’uomo che disattende la Torà/Legge di Dio creatore è incapace di riconoscere qualsiasi legge morale come equilibrio di convivenza: nascono poligamia e vendetta smisurata nella proporzione di uno a sette (Gen 4,19.24).
 
Dio non aveva posto Adam nel giardino di Eden perché ne spadroneggiasse secondo il suo capriccio, ma con un progetto di armonia e sviluppo ben preciso. I due verbi usati in Gen 2,15 sono fondamentali nella teologia biblica ed esprimono la dimensione interiore che si rapporta sempre con la natura di Dio. In ebraico l’espressione suona così: le’abedàch uleshamaràch: per servirlo e per custodirlo; mentre il greco della lxx dice: ergàzesthai autòn kai fylàssein, per lavorarlo e custodirlo.
Servire deriva da ’abàd (290 volte nell’AT) e contiene l’idea di fare e in arabo di onorare/obbedire. Servire vuol dire ascoltare e rispondere ai bisogni di colui che si serve. Dalla stessa radice ’.b.d. deriva ’ebed, servo, che nella bibbia ha anche valore onorifico: è servo il diplomatico che rappresenta il re. Il Servo di Yhwh di cui parla Isaia (52,13-53,12) è il misterioso personaggio eletto perché offra la sua vita in espiazione e col quale s’identificherà Gesù nella sua passione e morte.
Custodire da shamar (420x nell’AT) contiene l’idea di avere a cuore, prestare attenzione e nella scrittura è spesso riservato alla Torà/Legge: osservare/custodire la Torà è vivere; disattendere i precetti del Signore è avviarsi alla morte.
In questo senso i due verbi servire e custodire sono sinonimi, perché pongono il rapporto dell’uomo con il creato nella dimensione del servizio e questo servizio ha la stessa dimensione della Parola di Dio che deve essere ascoltata e custodita. Ascoltare/custodire/osservare (le parole del)la Torà è quasi un ritornello che popola l’intera scrittura ebraico-cristiana: Dt 17,19; 28,58; 30,10; 31,12; 32,46; 1Cr 22,12; Sal 98,7; 118,34.44.55; Mt 19,17; Lc 1,6; 18,20, Gv 14,15.21; 15,10 ecc.

Qui sta il fondamento teologico della creazione: la natura non deve solo essere rispettata per utilità, ma deve essere riconosciuta come soggetto di salvezza e redenzione. Le conseguenze, infatti, della disobbedienza dell’uomo si sono riversate sul creato, che così è associato e coinvolto nella storia distruttiva dell’uomo.
Lo esprime drammaticamente san Paolo nella lettera ai Romani (8,19-22), dove paragona il creato a una partoriente in preda alle doglie: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto».
L’uomo capace di trasformare un giardino di armonia in un deserto di sofferenze è capace di tutto; infatti lo vediamo all’opera instancabilmente: guerra, violenza, corruzione, potere come dominio, egoismo come sopruso, arrivismo, liberismo senza legge e morale, ricerca della propria realizzazione «qui e subito» a scapito degli altri sono le cause «originali» della depravazione dell’ambiente, che da giardino di vita si trasforma in inferno di morte.
L’inquinamento della coscienza e l’oscuramento dell’immagine di Dio nell’uomo-donna sono madre e padre dell’inquinamento della natura che ci sovrasta e ci seppellirà, se non saremo capaci di guardare il «principio» di dignità e libertà che è dentro ciascuno di noi e che si chiama responsabilità. Sì, coscienza della responsabilità non solo di se stessi, ma anche del mondo che ci circonda, degli animali, piante e cose inanimate che fanno parte del mondo che ci è stato consegnato per servirlo e custodirlo e consegnarlo alle generazioni future con lo stesso atteggiamento con cui consegniamo la Parola.
Davanti al tribunale dei nostri figli futuri e al tribunale di Dio, dobbiamo rispondere non solo della gestione della nostra «immagine e somiglianza» di lui, ma anche dell’etica delle nostre relazioni e dell’ambiente dove siamo vissuti che, in quell’ora suprema, si ergerà contro di noi per accusarci di essere colpevoli di assassinio cosmico o per testimoniare a favore di noi per essere stati fedeli servitori e custodi del giardino con la signorilità di chi restituisce qualcosa che ha ricevuto in affidamento.

Paolo Farinella




CUBA – Tutti uguali… ma alcuni più uguali degli altri

Note di viaggio, senza retorica, né pregiudizi…
Attente, però, alle piccole vicende di gente comune, che vive nell’ultimo baluardo del «socialismo» tra rassegnazione, intraprendenza e attesa del nuovo.

Miguel ha le spalle larghe e il fisico robusto. Istruttore di judo, arrotonda i guadagni con il suo lavoro sul ciclo-taxi: un mezzo pratico ed economico che si è costruito da solo, utilizzando una vecchia bicicletta e una sedia di ferro, imbottita di plastica. Quando riesce ad avere un turista straniero da accompagnare, è ben felice e il prezzo si alza. Miguel approfitta della nostra inesperienza e ci chiede una cifra assurda. Eppure, gli siamo grati, perché al nostro arrivo a L’Avana ci ha fatto conoscere la casa di… Maria e Gesù!

Cristianesimo misto
Maria è una donna in gamba. Con la sua casetta, affondata tra le vie più degradate di L’Avana vecchia, è riuscita a creare una piccola impresa. Le due stanze sono sempre prenotate, perché sono confortevoli e pulitissime. Qualche anno fa, il governo ha permesso ai privati di organizzarsi e mettere a disposizione dei turisti al massimo due camere, pagando 200 dollari al mese per ogni stanza. Questa apertura verso l’iniziativa privata comincia a dare i suoi frutti e chi ha voglia di impegnarsi riesce a migliorare la condizione della propria famiglia.
Scegliamo di prendere i pasti in casa e devo dire che ci troviamo bene. Gesù è il marito, un distinto signore dai capelli bianchi e la pelle scura. Le redini sono però in mano di Maria, che è riuscita pure a sistemare le due figlie sposate, entrambe con un bimbo. Yonaika e Yonaisis mi spiegano il perché di questi strani nomi, suggeriti da uno zio materno, che un tempo andava sovente in Russia, per studio e per lavoro.
L’antico centro coloniale di L’Avana è il più vasto e conservato in America. Purtroppo, c’è ancora molto lavoro da fare, ma i primi risultati dei restauri voluti dall’Unesco si vedono soprattutto intorno alla cattedrale e alle piazze principali.
Incontro monsignor Ramón Suárez Porcari nel patio dell’arcivescovado, nel cuore della città vecchia. Al centro dello spazio ombroso di vegetazione tropicale, una statua bianca di Cristo. Qui, nel ’98, giunse in visita Giovanni Paoloii. «La mia famiglia è di origine italiana, i miei nonni emigrarono da Potenza» – mi precisa il prelato. Parliamo della religiosità dei cubani, dopo tanti anni di dittatura castrista, ancora legata alla tradizione afro-cubana. La cultura africana si è sovrapposta a quella cristiana, portata dai missionari spagnoli, e tuttora è molto radicato il culto per gli orixa, divinità associate ai santi della chiesa cattolica.
Parliamo della situazione della gente. «Non vi è solo l’embargo americano – mi dice monsignore -; c’è anche un blocco interno, di un popolo che non si apre a una prospettiva mondiale. La gente non è al corrente di ciò che avviene nel mondo, è ripiegata su se stessa. Il populismo ha rovinato il popolo. L’ideologia sovrasta la cultura e ora tutti si lamentano dei servizi sempre più scadenti, in particolare la sanità».
A Cuba operano alcuni gruppi di suore che si occupano di sanità, tra le quali le Serve di Maria e le missionarie della Carità, di madre Teresa. Monsignor Porcari è cancelliere dell’arcivescovo e parroco di Guanabacoa, centro urbano situato al di là del canale del porto, abitato soprattutto da gente di colore. Con la rivoluzione, tutte le scuole sono state nazionalizzate e ora i religiosi si occupano di catechesi. Sono tre le diocesi a Cuba: Santiago, L’Avana e Camaguey.

Due sardine per pranzo
Non è un lungomare come lo intendiamo noi, questo Malecón, ma una striscia di cemento che costeggia il mare per diversi chilometri, collegando la vecchia città coloniale ai quartieri più recenti. A fine gennaio, la notte può fare anche freddo, ma oggi il sole splende e l’aria si sta riscaldando. Eriberto ha appoggiato la bici arrugginita al parapetto e sta pescando con lenza e amo.
Dopo aver lavorato 44 anni come muratore, ora che riceve la pensione di stato di 124 pesos, passa il suo tempo a pescare. Mi indica il magro bottino: due sardine, che cucinerà a pranzo per la moglie, anche lei con una piccola pensione di custode di un edificio multiplo.
La soddisfazione grande della coppia è avere tre nipotini e due figli ben sistemati. Uno è chirurgo ortopedico, con 500 pesos mensili; l’altro è chimico e prende solo 200 pesos. Incomincio a fare due conti per capire il valore del peso usato a Cuba dalla gente. Per una libbra di carne, ci vogliono 30 pesos e, comunque, ciascuno ha diritto a quote molto limitate di prodotti e non può fare acquisti nei negozi per turisti, dove sono accettati i pesos convertibili, del valore del dollaro. «Ascolta, stanno sparando le 21 salve di cannone per l’anniversario di José Martí, il nostro eroe nazionale».
L’indomani, decidiamo di partire per Trinidad. A Cuba vige l’ora legale per cui, alle otto del mattino, è ancora buio. Si avvicina un giovane e mi chiede dove siamo diretti. «Trinidad? Bene – replica -, se volete vi porto io per lo stesso prezzo del bus». Con il diploma di capitano di lungo corso, Alean ha molto tempo libero, perché la sua nave è ferma in porto da due anni. L’auto non è sua, ma di una cornoperativa. La cosa non mi è molto chiara, certo è che i posti di blocco della polizia per lui non sono un problema: con un saluto, li superiamo tutti facilmente. Comincio a capire che anche qui chi ha iniziativa e conoscenze riesce a cavarsela bene.
Giunti a Trinidad, scopriremo che la mamma di Alean ha già affittato le due stanze, ma non è un problema trovare una sistemazione. Vivienne è giovane, ma intraprendente. Originaria di Sancti Spiritus, è riuscita a permutare la sua casa con una nel centro storico di Trinidad, città turisticamente molto più importante.
A Cuba tutti hanno diritto a una casa di proprietà, ma non possono venderla, solo permutarla. Vivienne, aiutata dal marito che lavora nell’albergo di stato sulla penisola di Ancón, ha ricavato nel patio due linde stanze da affittare ai turisti; cura le relazioni con gli ospiti ed è riuscita a ottenere già da alcuni anni gli inviti tramite ambasciata, necessari per viaggiare in Europa. Una mail è giunta oggi per confermare che amici italiani hanno disposto una fideiussione, affinché anche la prossima estate lei si possa recare in Italia.

Il regime «migliore»
Iraida è molto triste, perché non ha notizie di suo figlio da quasi un mese. «Il ragazzo era stato espulso dall’università di Sancti Spiritus per cattiva condotta – mi confessa – così ha deciso di accettare un invito in Costa Rica e ora si trova molto male. Il suo sogno è Miami, dove vive una forte comunità cubana». Iraida ha perso il marito cinque anni fa e ha dovuto trasferirsi a Trinidad presso la cugina, per potersi mantenere. Trinidad fu uno dei primi insediamenti spagnoli. La sua è una storia affascinante, legata alla pirateria nel ’700 e, più tardi, alla coltura della canna, affidata a schiavi africani. La maggior parte dei turisti che arrivano la mattina con i bus, ripartono nella serata.
Ritorniamo a Trinidad, passando per Ancón, una sottile penisola sabbiosa che chiude una laguna densa di mangrovie. Alle 5 della sera, i dipendenti dell’albergo che smontano trovano un bus che li riporta a casa. Saliamo anche noi e così scopriremo i quartieri periferici dove vivono i lavoratori. File di case fatiscenti attraversate dalla ferrovia, ora in disuso, che un tempo serviva per trasportare lo zucchero proveniente dalla valle de los ingenios, dove un tempo decine di mulini trattavano la canna raccolta dagli schiavi africani, in una zona ora dichiarata patrimonio dell’umanità.
Piazza De Céspedes è il centro amministrativo di Trinidad, con il municipio, il tabaccaio che vende il Gramma, quotidiano cubano, e il cinema. Nei giardini sostano i pensionati anziani, per godersi il sole. Luis è stato insegnante di spagnolo, ora che è in pensione studia l’italiano, seguendo le lezioni alla televisione. È molto magro, ha le scarpe di tela rotte, ma tanta dignità. Il suo problema è la cataratta ed è in attesa dell’operazione. Anche Luis avrebbe bisogno di denti nuovi, gliene resta solo uno superiore.
A Cuba gli anziani rimangono attivi a lungo. In un laboratorio di ceramica, ho il piacere di conoscere tre personaggi, intenti a lucidare piccoli vasi di terracotta, seduti ad un tavolo. Il più anziano è un arzillo signore di 86 anni, magrissimo, dalle orecchie a sventola, che sorridendo mi dice con orgoglio di essere ancora utile in famiglia, con la sua modesta paga. Questi vecchietti hanno l’aria più serena dei nostri, che patiscono sovente la solitudine.
Anche Teresita è orgogliosa di avere un lavoro e lo si capisce dall’entusiasmo che mette nel preparare bibite e cocco fresco per gli avventori di uno dei tanti locali di Trinidad, dove si fa musica son, (tradizionale cubana) con strumenti originali. Una musica capace di incantare i visitatori, che passano da un locale all’altro per godersela.
Teresita è più che sicura: questo regime, imposto da Fidel, è il migliore che ci sia. «Dopo 5 anni di affitto pagato, lo stato mi ha dato la casa, 4 stanze e due bagni, per solo 10 pesos al mese. Anziani e handicappati sono assistiti e seguiti da medici e maestri». Poi, orgogliosa, aggiunge: «Potrei andare in pensione, ma mi piace lavorare; per ora non ci penso». Il suo entusiasmo mi pare esagerato.

Come nel farwest
Questa volta viaggeremo sul Viazul: il percorso è breve, grazie alla superstrada voluta da Castro per collegare le regioni occidentali dell’isola, un tempo arretrate perché difficilmente raggiungibili. Qui sorgono catene montuose e la campagna è fertile e irrigata. Conduttore e bigliettaio sono due distinti anziani signori in divisa, che desiderano darci qualche informazione sulla nostra meta, Vinales, amena località nel nord ovest di Cuba, famosa per le coltivazioni di tabacco.
Circondato da strani monti calcarei, coperti da una densa vegetazione, è un villaggio che ricorda il farwest. Per le vie del paese, dove le case coi portici sono dipinte a colori vivaci, passano i cowboys a cavallo, i carretti e qualche vecchia auto. Ci fermiamo volentieri alcuni giorni per via di quest’atmosfera tranquilla, fuori dal tempo. Anche qui, per visitare le vallate nei dintorni, useremo la bicicletta, che ci consente di fermarci per ammirare il paesaggio e i rari splendidi esemplari di alberi autoctoni sopravvissuti al disboscamento dei secoli scorsi. Sui monti che separano queste vallate dalla costa, il governo ha fatto mettere a dimora milioni di conifere per il rimboschimento, che risultano però poco adatte al paesaggio.
In un appezzamento di terreno ben coltivato a ortaggi, intervallati da file di fiori gialli e viola, incontriamo due contadini di una cornoperativa. Stanno preparando i buoi per l’aratura, sotto il giogo. Prima di iniziare il lavoro, uno di loro raccoglie un fiore per offrirmelo. Questi cubani mi rimarranno nel cuore, molti di loro mi hanno commossa con gesti simpatici. Scopro che a loro è proibito mangiare carne di bovino, pena la reclusione. Anche i buoi appartengono allo stato e si possono affittare per arare i campi. Le famiglie, se possono, cercano di allevare polli e maiali, o tacchini.
Juan Francisco ha un solo rene e un solo polmone. Ormai sono passati dieci anni dall’operazione, dovuta a un tumore. «Sono stato curato bene» – mi dice, orgoglioso del servizio sanitario cubano. Ha vissuto la rivoluzione, da giovane. Come allora è un entusiasta e convinto sostenitore della politica di Fidel. «Con la “Battaglia delle idee” abbiamo ottenuto università e cure mediche per tutti». Ne parliamo a lungo, dopo l’ottima cena che ci ha preparato.
Per essere un rivoluzionario, mi pare che Juan Francisco abbia troppo viziato i suoi due figli. Oggi ha dovuto ammettere che «il campo» socialista è ormai finito. «Prima avevamo ottenuto l’eguaglianza tra tutti i cittadini, ora invece mi rendo conto che si sono formate le classi sociali e che una fascia della popolazione vive con difficoltà, anche se vi sono alcuni servizi garantiti per tutti, come il litro di latte giornaliero per i bimbi e gli anziani».
Situata nel centro della cittadina, dopo 30 anni di chiusura e abbandono, la chiesa di Vinales è rinata otto anni fa in seguito alla collaborazione della diocesi di Pinar del Río con quella di Verona. Padre Gianfranco Falconi è originario di Verona e, da qualche mese, ha sostituito l’anziano padre giunto per primo a Vinales, nel ’96. Dopo la messa, alcuni giovani si fermano per aiutarlo: mi paiono motivati e volonterosi.
Il sacerdote è molto cauto nel parlare: «Quando si riaprirono le chiese, nel ’95, ci furono delle difficoltà e i sacerdoti erano pochissimi». Cerco di capire se la gente ha mantenuto la fede cristiana. A messa erano presenti alcuni giovani e un gruppetto di donne anziane. La maggior parte delle famiglie vuole che i figli siano battezzati, poi non si fanno più vedere.
La piazza della chiesa è il luogo di ritrovo per i giovanissimi, la sera. I «grandi» frequentano i due locali dove si fa musica e si balla; ma non ho mai visto, durante il mio soggiorno a Cuba, le scene disgustose di prostituzione, comuni in molti paesi latinoamericani. Pare che la polizia abbia stretto i controlli.

Claudia Caramanti




DOSSIER CINEMA AFRICANO Film

Cinquant’anni di cinema a sud del Sahara

All’inizio furono film di propaganda coloniale. Poi, negli anni che preparano le indipendenze, nascono le prime pellicole autenticamente africane. Che mostrano l’identità culturale e le profonde aspirazioni dei pionieri. Con un unico obiettivo: la decolonizzazione degli schermi.

La storia del cinema d’Africa nera è allo stesso tempo antica e recente. Molto antica se ci si riferisce ai film d’ispirazione africana, ovvero girati in Africa e aventi il continente come tema. A 10 anni dalla nascita della cinematografia (1895), inizia il cinema coloniale (1905) e in seguito quello «etnografico».
Attraverso questi tipi di cinema gli occidentali hanno impostato il loro sguardo sulla rappresentazione dell’Africa a partire dagli africani. Per il colonizzatore gli africani hanno iniziato a fare cinema nel 1929 con il film Samba, qualificato dalla stampa dell’epoca come il primo film francese fatto da neri.

Le origini
Il secondo periodo, più recente, inizia negli anni ’50 con la crisi coloniale e il movimento per l’indipendenza. Il 1955 è un momento fondamentale per la storia dei rapporti tra i popoli colonizzati di Africa e Asia. La conferenza di Bandoeng (Indonesia) permette ai popoli di rivendicare i propri diritti all’emancipazione e valorizzazione della loro immagine.
Gli intellettuali africani, in particolare gli scrittori, non sono rimasti al margine di questa rivendicazione e hanno fatto sentire la loro voce. Un gruppo di studenti dell’Africa subsahariana, amanti del cinema, fondò nel ’52 il «Gruppo africano del cinema». Ne facevano parte Paulin Soumanou Vieyra (1925-1987), Jaques Mélo Kane, Robert Cristan e Mamadou Sarr (1926- 1990). Per loro «non c’era dubbio che solo la sovranità nazionale dei paesi africani avrebbe permesso l’espressione cinematografica della realtà autenticamente africana».
In questo spirito e contesto fu realizzato da Paulin Soumanou Vieyra e i suoi amici il primo film dell’Africa nera: Afrique sur Seine (Africa sulla Senna), interamente girato e montato da africani su una realtà africana: la vita dei neri a Parigi. Tale data è legittimamente considerata l’inizio di una vera appropriazione della propria immagine da parte degli africani.
Alcune fonti considerano il 1937 come anno del primo film africano, con il documentario La morte di Rasalama del malgascio Raberono; altri citano il 1953 con la realizzazione di Mouramani del guineano Mamdi Touré, come anno di nascita del cinema africano. Queste opere sono oggi introvabili e non si sa se le équipes di realizzazione erano interamente africane.
Ciononostante, gli storici del cinema ammettono che il 1955 segna veramente l’inizio della storia del cinema africano. «Il cinema dell’Africa nera non ha cominciato la sua vera crescita che sotto il sole delle indipendenze» e si è particolarmente sviluppato nel corso degli anni ’70. Mentre negli anni ’80, una tendenza al rinnovo delle forme estetiche e narrative si manifesta e contribuisce al riconoscimento internazionale verso questo cinema.

Il grande vecchio
I due primi decenni sono segnati dai film girati in Senegal e il realizzatore Sembène Ousmane impone il suo stile. Sviluppa temi come le difficoltà della gente del popolo in Borrom sarret (1963), considerato come il primo cortometraggio autenticamente africano; denuncia il neocolonialismo in La noire (1966), considerato come il primo lungometraggio di fiction, denuncia la nuova borghesia africana in Xala (1974).
Il contrasto tra tradizione e modeità è trattato in Kodou di Ababacar Samb Makharam (1971) e in Muna moto (1975) di Dikongué Pipa del Camerun, mentre in Concerto per un esilio di Désiré Ecaré della Costa d’Avorio (1968) descrive gli strascichi della decolonizzazione.
Dalla fine degli anni ’60 fino all’inizio degli ’80, i cineasti liberano la loro immaginazione per proporre al pubblico altri generi e altre forme narrative: parodia weste in Le retour d’un aventurier (1966) di Oumarou Ganda del Niger; commedia in Boubou cravate (1973) e Pousse-pousse di Daniel Kamwa, Camerun; melodramma in Love brewed in the african pot di Kwah Ansah del Ghana (1980); film d’azione con Cameroun connection di Alphonse Béni (Camerun, 1985); film musicali come Naitou di Moussa Kiémoko Diakité della Guinea (1982) e Adjan ogun di Ola Balogun della Nigeria (1975). Solo per citae alcuni.

Nuove tendenze
La rottura con una forma narrativa classica per una ricerca formale arriva con Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty nel 1974. Questa tendenza alla quale sembra identificarsi la nuova generazione di cineasti dell’Africa nera, che emerge poi dagli anni ’90, non rimette in causa la caratteristica fondamentale di un cinema in presa diretta con le realtà quotidiane degli africani.
I cineasti di tutte le generazioni che continuano a raccontare l’Africa nonostante le crescenti difficoltà di finanziamento, restano animati da un’ambizione vecchia di 50 anni: decolonizzare la cultura dell’immagine. •

*Clément Tapsoba, burkinabé, è giornalista e critico cinematografico al Fespaco e presidente della Federazione africana dei critici di cinema (Facc). (Articolo liberamente tradotto da M. Bello).

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO Il malineteso coloniale

Incontro con Jean Marie Teno 

Jean Marie Teno è un noto documentarista che ha pure realizzato diversi film fiction. Il malinteso coloniale, girato nel 2004 tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun vuole indagare sull’influenza della missione cristiana, avamposto di colonizzazione, sullo sviluppo dell’Africa.
Il malinteso è proprio questo legame ambiguo che ha portato il continente alla deriva.
Camerunese, ma vive da tempo in Europa, Teno vuole mostrare che il rapporto tra Africa ed Europa ha bisogno di essere rinnovato.
E per farlo occorre tornare indietro nella storia e fare quello che lui chiama «dovere di memoria».

Perché ha fatto un film su missione e colonialismo?

Il mondo è totalmente globalizzato e il rapporto Africa-Europa condiziona enormemente la situazione odiea del continente. Fare un film su questo tema è chiedersi qual è il posto dell’Africa nel mondo. Posto non invidiabile, quasi un vicolo cieco. Bisogna interrogarsi sulle ragioni che l’hanno portata a questa situazione. Penso che l’incontro tra Europa e Africa, avvenuto anche attraverso la religione e i missionari, sia in parte responsabile dell’impasse in cui ci troviamo oggi. Volevo mostrarlo nel film.

Lei ha parlato di un «dovere di memoria» per il continente.

Sono successe in Africa cose gravi, atroci. C’è stata la tratta negriera, la colonizzazione, e tutte le volte che sono finite, si è detto: bravi è finito, non lo facciamo più, dimentichiamo tutto. Senza mai pensare alle cause. Come possiamo andare avanti senza guardare, esaminare ciò che è successo? È come preparare dei crimini futuri: giriamo pagina senza dire nulla. Il dovere di memoria è necessario, affinché gli africani possano trovare il rispetto in loro stessi, e cominciare ad avere un vero rapporto, più sano, con gli altri.

È una questione di riconciliazione o di restituzione di qualcosa che l’Europa ha preso agli africani?

No, per nulla. Perché il dovere di memoria è importante per qualcuno e non per gli altri? In Europa se ne parla sempre, per esempio per l’olocausto. Intanto è l’Africa che continua a soffrire, chiusa nella sua miseria. In Europa il razzismo tocca sempre più gli africani. Il dovere di memoria è importante perché la gente si renda conto di quello che l’Africa ha attraversato da lungo tempo. Aiuta a capire perché la gente ha certe attitudini e comportamenti e a metterli in questione. Quando si sa quello che è successo, si può vedere il ridicolo delle proprie azioni, cambiare attitudine, raggiungere un dialogo paritario, in modo che la gente possa guardarsi in faccia senza che ci siano complessi di superiorità o inferiorità.

Secondo lei gli europei hanno paura dell’Africa?

Molti lo dicono: hanno una cattiva coscienza rispetto a tante cose che immaginano ma non possono capire. Così la paura dell’Africa viene da tale memoria soffocata. L’Africa è stata saccheggiata e violentata, ma una parte della storia non è per nulla stata assunta. Se la gente non si riconosce in questa storia e non dice: siamo spiacenti, le stesse cose continueranno, magari in modo più nascosto con le istituzioni inteazionali. Finché non lo avremo riconosciuto, continueremo ad avere rapporti molto falsi con l’Africa.

Lei vive da molto tempo in Europa.

E allora?

Come si trova?

Bene. Vivo anche nello sguardo degli altri l’immagine dell’Africa. Non si è discriminati 24 ore su 24; ma in Francia la discriminazione esiste: è dappertutto. Non nei testi ufficiali, ma nelle istituzioni. E gli africani la subiscono. A livello politico pochissimi neri arrivano in alto. C’è un «soffitto di vetro» che fa sì che un nero sia sempre l’ultimo a essere promosso, anche se ha competenza. C’è sempre un razzismo strisciante.

Nel film si parla di «colonizzazione delle menti» oltre che delle terre. Le chiese africane che si formano dopo le chiese missionarie, possono avere un ruolo in tale decolonizzazione spirituale?

Non ho pensato a questo. Nella chiesa della Namibia per esempio, qualcuno parla di rivendicazioni e lotte, ma allo stesso tempo restano molto attaccati alla chiesa come istituzione. Non so se può avere questo ruolo, perché credo che si debbano rimettere in questione un certo numero di concetti, e non sono sicuro che l’istituzione lo faccia. Ma la chiesa nella sua lotta per la dignità dell’uomo ha fatto molto. Le chiese della Namibia e del Sudafrica hanno fatto un lavoro enorme per la lotta contro l’apartheid. Non so se si possono decolonizzare le menti, perché la chiesa resta un luogo di formattazione del pensiero. E il modello è quello occidentale. Ma almeno la parola di Dio non è più uno strumento di oppressione.

Nel film lei dice che i missionari furono identificati come i migliori «civilizzatori», nel momento in cui si voleva civilizzare per occupare le terre degli africani. Vede dei lati positivi della missione?

Non sono uno specialista della missione. Cerco di mettere in fila gli elementi di una riflessione. Quando i missionari sono visti come i vettori della colonizzazione, in quanto i migliori civilizzatori, possono esserci aspetti positivi, ma il risultato finale resta negativo e non abbiamo bisogno di cercare. In qualche modo hanno contribuito ad affondare l’Africa dov’è oggi. Ad esempio hanno imparato le nostre lingue. Ma grazie a questo hanno aiutato la penetrazione coloniale che è stata alla fine una catastrofe per noi.

Vede differenze tra la missione protestante e quella cattolica? E la penetrazione dell’Islam?

Non mi preoccupo dell’impatto dell’Islam, non faccio uno studio comparato dell’impatto delle differenti religioni sull’Africa. I missionari cristiani (cattolici e protestanti) hanno avuto un’influenza reale, duratura e profonda nella vita in Africa. E vediamo gli effetti oggi, che di fatto sono definitivi. Tutta la civiltà europea diceva che la cristianizzazione e la civilizzazione europea andavano insieme. Guardate quello che c’è qui: è grazie all’Europa che siamo dove siamo.

Come immaginate un’Africa senza missione cristiana?

Non serve a nulla. Sono cose che esistono. La domanda è: cosa fare per uscie? Ma non ho risposte. Sono solo un cineasta. Ci son altri che possono trovare soluzioni, come il professore Kumou e altri che intervengono nel film. Io posso solo prendere le parole della gente e darle al grande pubblico per una riflessione sulla storia.

Perché la Namibia?

È stato uno degli elementi essenziali nel dispositivo. Parliamo dell’Europa, come se la storia iniziasse a Auschwitz. C’è una continuità nella storia, ma c’è una tendenza a tagliare quello che è avvenuto prima. Volevo ritornare al fatto che i primi campi di concentramento sono stati in Africa (contro gli herero, ndr) e anche al ruolo che i missionari hanno giocato nel paese. Ho lavorato sulla missione di Renania. Ho potuto mostrare che c’è stata una rivolta, il ruolo dei missionari in questa guerra, durante e dopo e nell’installazione dell’amministrazione tedesca. È rappresentativo di quello che i francesi e gli inglesi hanno fatto in altri paesi. Ma la colonizzazione tedesca è stata la più corta. Possiamo dire che con gli altri è stato peggio. Inoltre la Germania ha fatto un lavoro su se stessa, ci sono documenti. Cosa che gli altri paesi non hanno fatto, e continuano a vivere come se nulla sia successo. •

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO L’Africa va in scena

«Il dialogo tra l’Africa e il resto del mondo è un dovere. Dobbiamo riconciliarci. Siamo in grado di parlarci e avere ognuno il proprio posto». Queste parole del principe Kouma N’Dumbe, professore camerunese alle università di Berlino e Yaoundé, riassumono la forza del messaggio del 19° Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco).
Il «principe» è uno dei protagonisti del film Il malinteso coloniale di Jean Marie Teno. Un messaggio che sembra dire: ci siamo anche noi come popoli, come culture, sappiamo esprimerci, comunicare. Abbiamo il dovere di dialogare con gli altri continenti. Il cinema e l’audiovisivo sono eccellenti mezzi per farlo e noi li sappiamo usare. Guardateci.
Ogni due anni, dal 1973, Ouagadougou, capitale di uno dei paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso, accoglie per una settimana l’evento cinematografico più importante del continente. Per questa edizione sono state circa 170 le opere proiettate, di cui 20 lungometraggi e 20 cortometraggi nelle competizioni ufficiali, 6 nella categoria dedicata alla diaspora africana e 22 film nella sezione Tv e video (18 fiction/documentari e 4 serie televisive). Fuori competizione corto e lungometraggi di Africa, Caraibi, Pacifico, ma anche una sezione dedicata ai film del mondo, con lo Sguardo sul cinema tedesco, che ha riproposto alcune pellicole di Margarethe Von Trotta.
Il 2005 è, secondo molti, il 50° anniversario del cinema africano, che avrebbe origine con Afrique sur seine (1955) del senegalese Paulin Soumanou Vieyra. Proprio per questo, gli organizzatori del Fespaco hanno presentato una «Retrospettiva sui 50 anni del cinema dell’Africa nera». I fortunati festivalieri hanno avuto a disposizione una selezione di 22 titoli storici, come lo stesso film di Vieyra, alcune opere di Sembène Ousmane (l’ultra ottuagenario senegalese, presente al festival, sempre impassibile con la sua pipa), Oumarou Ganda, Ababacar Samb Makharam, Gaston Kaboré, solo per citae alcuni.
Nell’insieme, un cartello non solo di quantità, ma di particolare qualità, assicurano i critici. «Abbiamo trovato un livello molto alto di qualità e una ricchezza eccezionale in questi film» dichiara Souheil Benbarka (vincitore del Fespaco 1973), presidente della giuria lungometraggi.
Ma il Fespaco è anche uno straordinario momento di incontro per tutti coloro che lavorano o si interessano al settore. Registi, attori, produttori, critici e semplici fans hanno la possibilità di incontrarsi, scambiare, prendere contatti per progetti futuri. È in qualche modo il termometro del cinema africano: cosa c’è sul mercato, cosa si è fatto in questi due anni, dove stiamo andando, quale crescita? Ma anche occasione di rilancio, costruzione e progettazione.

Atmosfera da Cinema

Il salone dello storico Hotel Independence di Ouagadougou è gremito di gente: cineasti, produttori, attori e cinefili, venuti dall’Africa e dall’Europa. A guardarli bene hanno tutti qualcosa di particolare. Neri, bianchi, mulatti, vestiti in modo stravagante o appariscente, con elaborate acconciature. Un gigante con la barba bianca indossa il costume tradizionale dei dogon, popolo del Mali di antiche origini.
Si parlano, si ritrovano, si filmano. Qualcuno riesce a incontrare il suo attore preferito, a fotografarlo, a ottenere un’intervista. Sullo sfondo di decine di cartelloni di film, africani e non, grandi o piccoli appiccicati sulle pareti in ogni spazio libero.
Fuori, il caldo del Sahel è ormai arrivato e supera i 40 gradi all’ombra nelle ore di punta (il salone ha l’aria condizionata). Ma i festivalieri si incontrano un po’ ovunque in città: si spostano, spesso a piedi, da un cinema all’altro, da una sala quasi climatizzata alla successiva. Accaldati, sudati, con i volti arrossati (gli europei), ma impavidi del sole battente, si difendono ingurgitando acqua da bottiglie di plastica.
La capitale del Burkina Faso si colora e si anima nella settimana della festa del cinema, e anche quest’anno si sono stimate dalle 4 alle 5 mila presenze.
Anche al Centro culturale francese si incontrano attori e registi e si può visitare il Mica (Mercato internazionale del cinema e televisione africani), un’esposizione di operatori nel settore video e cinema, giunta alla sua 12a edizione.
Ma sono le sale cinematografiche il cuore pulsante della manifestazione. Due grandi sale con aria condizionata (che fatica, vista la quantità di pubblico), due cinema all’aperto e due allestimenti temporanei, anch’essi estei, per godersi i 35 gradi serali. La partecipazione è alta, sia di burkinabé che di stranieri e i cinema sono spesso stracolmi.
Alla sua 19a edizione, il Fespaco è stato, per la prima volta, segnato dal lutto: due ragazze sono morte nella ressa allo stadio per assistere alla cerimonia di apertura. Oltre una decina sono stati i feriti: schiacciati, soffocati. Il caldo ha fatto la sua parte. Un fatto drammatico che dà la dimensione della partecipazione popolare, ma anche della difficoltà o talvolta della leggerezza delle autorità, sorprese a gestire un evento dall’eccezionale afflusso.

I protagonisti

Ma quali sono i film che i festivalieri si raccontano e si consigliano l’un l’altro di andare a vedere in un tour de force cinematografico? L’edizione ha mostrato una forte partecipazione, in quantità e qualità, del cinema anglofono, in particolare sudafricano.
«Questo premio è un enorme onore per il cinema sudafricano, e per il suo popolo, per la sua bellezza, forza, resistenza nella lotta e vittoria di uno dei più brutali regimi del xx secolo» afferma commosso Zola Maseko, regista di Drum e vincitore assoluto del Fespaco 2005, pochi istanti dopo aver ritirato lo Stallone d’oro di Yennenga in uno stadio stracolmo.
Ex militante del braccio armato dell’African National Congress (Anc), Maseko è riuscito a fare un film forte ed emotivo, sulla storia vera del giornale Drum e del giornalista Henry Nxumalo. Ambientato nel Sudafrica degli anni ’50, quando il regime di apartheid si inaspriva, il film racconta una società stratificata e la presa di coscienza di alcune persone contro l’ingiustizia.
I film sudafricani, presenti con quattro titoli nella sezione lungometraggi, hanno anche fatto il pieno di premi. «È un giusto riconoscimento per un cinema che è molto avanzato – dice Idrissa Ouedraogo, il più noto regista e produttore burkinabé -. Noi, in Africa dell’Ovest, dobbiamo metterci al passo e migliorare il nostro livello se vogliamo competere con loro».
Drum conquista anche il premio della migliore scenografia, mentre Zulu love letter di Ramadan Souleman ottiene il premio speciale Unione europea, perché «ben rappresenta i valori dell’Ue» e la miglior interpretazione femminile, con la brava Pamela Monvete Marimbe.
Il film di Souleman presenta un Sudafrica dopo apartheid, alle prese con il suo passato che ritorna, la voglia di riconciliazione, ma anche di verità sui crimini commessi e la difficile convivenza tra vittime e carnefici di un tempo. Ma è anche la storia del rapporto, difficile, tra madre e figlia. «Questo film è un ringraziamento alle donne, che in Sudafrica hanno sempre continuato a tenere in piedi le famiglie. A loro dobbiamo un contributo notevole nella lotta di liberazione» dichiara il regista.
Lo scanzonato Max and Mona di Teddy Mattera (vedi riquadro) si aggiudica il premio Oumarou Ganda, con un film allegro, tecnicamente ben fatto, che mostra in modo grottesco le differenze tra la campagna e la città, e come la tradizione trovi il posto nella modeità. Mattera, con un’aria di giovinetto ribelle, urla al pubblico: «Respect Africa! Il miglior premio è essere qui».
Beat the Drum, sul tema dell’Aids, di David Hickson, da qualcuno dato per favorito, si è dovuto accontentare di un paio di premi speciali (erano in tutto 22 assegnati da istituzioni di ogni genere) tra cui quello dell’Associazione cattolica mondiale per la comunicazione (Signis).

Il Maghreb in forze

Ma sui grandi schermi di questa settimana fantastica di Ouagadougou si sono rincorse senza sosta, come di consueto, immagini di realizzatori dell’Africa dell’Ovest (Burkina Faso in testa) e del Centro, senza dimenticare il grande contributo del cinema maghrebino (film tunisini, algerini e marocchini sono in cartellone).
Di questi ultimi, ben rappresentati nelle competizioni ufficiali, con 6 lungometraggi e 8 cortometraggi, è Hassan Benjelloum, marocchino, con La camera nera, che si piazza meglio, aggiudicandosi il secondo posto assoluto: Stallone d’argento di Yennenga. Anche in questo caso, il tema è quello del dovere della memoria e della riconciliazione.
Il contesto sono le repressioni del regime marocchino degli anni ’70, sulle quali, oggi, c’è molto dibattito politico nello stesso Marocco. «Abbiamo svolto un’inchiesta, intervistando ex detenuti, ex torturatori, famiglie di detenuti e responsabili del regime dell’epoca. Poi abbiamo fatto un adattamento libero per il film – spiega il regista -. La reazione del pubblico in Marocco è stata positiva. La nuova generazione è rimasta sorpresa. Ignoravano tutto ciò. Non fa ancora parte della storia ufficiale del paese».
E continua: «Queste cose sono successe anche in Algeria, Europa, Africa. E succedono oggi a detenuti in prigioni segrete del mondo». È un film scottante quello di Benjelloum, ma attuale, «universale», sottolinea il regista.

La guerra, e dopo?

Il conflitto e postconflitto sono altri due temi principali del cinema africano di oggi. Un ottimo esempio è il film dell’angolano Zezé Gamboa, con Un eroe, unica opera lusofona nella competizione ufficiale, che si aggiudica il premio della migliore immagine (vedi riquadro).
Nella Luanda del dopo guerra, Vitorio è un militare smobilitato; dopo 15 anni sotto le armi, senza una gamba persa su una mina, si ritrova a dormire in strada e nell’infruttuosa ricerca della famiglia dispersa e di un lavoro. Si muove in una Luanda di bambini di strada, di gente disperata alla ricerca dei parenti.
«Il mio è un cinema sociale – dice Gamboa -, non necessariamente di denuncia, ma che vuole presentare situazioni reali». Egli vuole suggerire ai politici del suo paese che bisogna fare di più: «La guerra è finita da due anni e il potere deve arrivare a dare alla gente l’accesso all’acqua e altri servizi di base».
E deve fare di tutto per reintegrare i reduci portatori di handicap. «Vitorio è doppiamente eroe: è stato eroe di guerra; ora è eroica la lotta quotidiana per sopravvivere e reinserirsi nella società. La sua storia rappresenta quella di tantissimi angolani di oggi». Gamboa non solo fa riflettere sul malessere che ha portato la guerra nel suo paese, e le guerre in generale, ma cerca di fornire delle piste di soluzioni.
La regista burkinabé, Fanta Regina Nacro, in La notte della verità mette in scena la propria idea sulla risoluzione dei conflitti (vedi riquadro). In un paese qualsiasi, due etnie dai nomi di fantasia si combattono. Da una parte il presidente, dall’altra il colonnello capo delle forze ribelli. La guerra è stata dura, le atrocità molte. La gente è stanca. I due capi organizzano, allora, un incontro per suggellare la pace. Incontro che avviene in un’unica notte, nella quale il passato recente riaffiora, con storie personali e vendette: la pace sembra compromessa a più riprese. Anche qui è forte il tema della riconciliazione nazionale.
Una storia che è un suggerimento perfetto alla vicina Costa d’Avorio, ma calza a pennello anche per il Burundi, l’Uganda e ogni conflitto che devasta il continente. La giuria è sensibile al tema della pace e La notte della verità vince il premio per la miglior sceneggiatura (oltre a un paio di premi speciali).

Africa-Europa

Il tema del rapporto tra Africa ed Europa, o l’incontro-scontro tra culture, è una costante nella cinematografia africana: anche quest’anno è ben rappresentato al Fespaco.
La nigeriana Branwen Okpako lo presenta in Valle degli innocenti, mettendo in scena africani immigrati in Europa o afro-europei.
Zéka Laplaine, della Repubblica democratica del Congo, con il suo Il giardino di papà preferisce raccontare gli stereotipi delle paure che gli europei hanno dell’Africa e degli africani, attraverso un film opprimente, ma talvolta comico, interamente girato di notte: una coppia di sposi francesi va in viaggio di nozze in Congo, dove lui è cresciuto, ma con il quale ha ormai perso il contatto. Lui si comporta goffamente, mettendo in luce un atteggiamento quasi razzista. Lei, a contatto per la prima volta con la realtà africana, alla fine di innumerevoli disavventure arriverà a capirla meglio.
Jean Marie Teno, documentarista affermato, ma anche regista di fiction, vuole approfondire questo tema in chiave storica con il suo Il malinteso coloniale (vedi intervista). Documentario di 87 minuti, girato tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun, è quasi un’inchiesta volta a dimostrare la storica influenza negativa delle missioni cristiane (in questo caso i protestanti tedeschi in Namibia) nello sviluppo dell’Africa di oggi. Una serie interminabile di interviste a professori e ricercatori, ma anche a uomini di chiesa, come il vescovo anglicano di Swakopmund, il vecchissimo archivista della diocesi, memoria vivente di quasi un secolo di missione.
Interviste in tedesco, inglese, francese, il film è impegnativo e vuole condurre lo spettatore all’assunzione della tesi del regista. Mancano di fatto argomenti contraddittori e resta debole la voce della chiesa africana. «È un lavoro di memoria sul continente – spiega il regista – e la gente vuole questo. Penso che il cinema sia un buon mezzo per raggiungere il grande pubblico, anche su tematiche difficili».

Il più amato

Ma qual è il film che più è piaciuto al popolo del Fespaco? Il Premio del pubblico se l’è aggiudicato Tasuma (il fuoco) del burkinabé Daniel Kollo Sanou, che si aggiudica anche il terzo premio assoluto, lo Stallone di bronzo di Yennenga, oltre a due premi speciali (Onu e Cedeao).
Tasuma è la storia di Sogo Sanon, 65enne, ex combattente nell’esercito francese in Indocina e Algeria. Tornato in patria, lotta per ottenere la pensione militare dall’amministrazione francese; ma si scontra con una burocrazia pesante e una lunghissima attesa. Il tema è molto sentito tra gli anziani combattenti dell’Africa Occidentale, che dopo aver servito la Francia in epoca coloniale sui fronti del mondo (spesso contro patrioti che cercavano l’indipendenza, ma anche per liberare paesi occupati durante la prima e seconda guerra mondiale), si vedono discriminati rispetto ai loro colleghi francesi.
Tasuma, che aveva già ricevuto l’apprezzamento del pubblico burkinabé, ha così conosciuto una consacrazione internazionale. Farcito di humor tipico dei registi del Burkina, presenta uno spaccato di vita di questo paese.
«Gli ex combattenti sono dei pionieri delle indipendenze. Sono i primi che sono usciti dal sistema coloniale e hanno visto altre realtà. Sul campo non erano discriminati. C’è stata una certa presa di coscienza da parte loro. Hanno contribuito allo sviluppo economico del paese. Sono molto considerati nei loro villaggi» spiega il regista, lui stesso figlio di un ex combattente. Il film sembra chiedere giustizia per questi vecchietti, che a volte si incontrano nei villaggi più sperduti, fieri delle loro medaglie sempre attaccate alla casacca.
«Non è stato mio obiettivo fare del cinema di rivendicazione o di contestazione. Ho voluto, innanzitutto, rendere omaggio a questi eroi dell’Africa che, anche se sono stati al servizio di un’amministrazione coloniale, hanno pure servito cause nobili, come la liberazione della Francia dal nazismo».
Kollo Sanou ci ha messo 15 anni a fare questo film; un mese per girarlo. Si è scontrato con il maggior problema del cinema africano: i finanziamenti: «Non è facile trovare i fondi per fare un film. Il Burkina è un po’ un’eccezione: abbiamo il Fespaco, le autorità sono disponibili ad appoggiare i nostri progetti. Abbiamo attrezzature professionali, ma i soldi mancano sempre. Negli anni ’70 fino al ‘90, esisteva un fondo di promozione all’attività cinematografica, finanziato con una tassa presa su ogni biglietto venduto. Ora non esiste più.
Cerchiamo i soldi al Nord: Unione europea, Goveo francese, Agenzia della francofonia, e altre istituzioni. Ma è necessario avere un produttore basato al Nord. Dieci anni fa il produttore gestiva il finanziamento accordato. Talvolta questi fondi subiscono malversazioni: ho conosciuto due casi in cui i soldi sono stati utilizzati in altro modo. Il fatto è che non c’è troppa fiducia nei registi africani. Purtroppo a ragione, talvolta».
Adesso le cose stanno un po’ cambiando: «Ora c’è più fiducia. I finanziatori inviano i soldi direttamente nei nostri paesi. Si sono resi conto che è bene incoraggiare i cineasti in Africa, non solo quelli immigrati».

Ma chi li vede?

Un’altra grossa difficoltà che incontrano i film africani è la distribuzione. «Sì, questo è un vero problema – spiega Zezé Gamboa -. Arriviamo alla fine del film e non abbiamo i soldi per la promozione. Essa è cara; ma un film esiste grazie anche a essa. Altrimenti restiamo in un ghetto: veniamo nei festival, ma ci si ferma qui. A mio avviso, il film deve avere una vita molto più larga: deve circolare in Africa e poi nel resto del mondo. Ma questo è oggi molto difficile».
Anche Teddy Mattera è di questa opinione, sebbene la situazione del Sudafrica sia differente: «Abbiamo lo stesso problema nei paesi anglofoni, non ci sono i distributori presenti in Europa. Nel nostro paese solo la South African Broadcasting Corporation (Sabc) fa distribuzione. Dobbiamo trovare agenti di vendita per entrare nel mercato britannico o nord americano. E questo è possibile».

I l tema del Fespaco di quest’anno è stato «Formazione e questione della professionalizzazione». Molti cineasti africani impiegano nei loro film parenti e amici. Questo non fa bene al cinema dice Gamboa: «Il cinema è una questione tecnica; bisogna saperlo fare, non si può improvvisare. Servono persone competenti. Si può essere formati a scuola o sul campo. In Angola, dato che non abbiamo abbastanza cinema, è difficile imparare sul campo. Servono le scuole. La formazione è fondamentale. In Africa i professionisti ci sono, attori e tecnici, lavorano bene, occorre impiegarli. È molto difficile fare del cinema in Africa: se i nostri professionisti non hanno possibilità, di cosa potrebbero vivere? In Burkina è stata fondata una scuola, ma in Africa lusofona non l’abbiamo ancora. È con iniziative del genere che possiamo dare voglia ai giovani di fare cinema».
Allude a Imagine, centro polivalente fondato a Ouagadougou dal cineasta burkinabé Gaston Kaboré, che offre la possibilità di formazione e perfezionamento nei mestieri legati al cinema, televisione e multimediale.
Lo storico cinema Oubri nel centro di Ouagadougou non si può dire che abbia un’acustica ultra modea. Talvolta si fa fatica a seguire i dialoghi. Qualche zanzara può infastidire durante la proiezione sotto il cielo saheliano.
Una scala ripidissima ci porta nella cabina di proiezione. Qui, due proiettori un po’ antiquati, accuditi da due simpatici tecnici, fanno girare grosse bobine di pellicola. «È Drum, è stato premiato poche ore fa» dice uno di loro.
È l’ultima proiezione del Fespaco 2005, quella dei film che hanno vinto. In questa cabina, con queste persone e queste macchine, ci sentiamo un po’ dentro la storia del cinema.

BOX 1

L’uomo che faceva piangere

Cresciuto in uno sperduto villaggio sudafricano Max Bua è mandato dalla famiglia a Johannesburg, per studiare e diventare un «dottore bianco». Arriva nella megalopoli con una capra, Mona, e i soldi faticosamente raccolti per iscriversi all’università. Ingenuo e impreparato alle regole di quella società, è fagocitato dalla città multiforme.
Max, però, ha una dote magica particolare: sa far piangere la gente a comando. Lo zio, un poco di buono, sempre alle prese con i gangsters, fiuta l’affare e lo fa diventare un «piangitore professionista»; diventa suo manager e ne vende i servizi ai più svariati funerali della città. Dopo una serie di successi, Max fallisce il funerale più importante: quello del fratello del gangster. Una fuga rocambolesca porterà al lieto fine: Max non solo si salva, ma riesce a recuperare i soldi per l’università, che si erano volatilizzati dopo il suo primo incontro con lo zio.
Con una buona dose di autornironia, il regista presenta uno spaccato di Sudafrica di oggi e delle sue contraddizioni: «Ho scelto di mostrare tre ambienti molto diversi: campagna, città e township, per far capire allo spettatore la psicologia di Max, che attraversa questa società, ma alla fine si integra nella nuova realtà». Ci racconta Mattera.
Il film mescola modeità e tradizione, spiritualità e materialismo. «Penso siano i migliori strumenti per creare contraddizione. C’è pure il fatto che vivo in una città con molto materialismo, ma che resta profondamente spirituale e caratterizzata da molteplici sfaccettature. Per esempio, i gangsters a Johannesburg sono vegetariani».
Ma perché questa idea dei funerali? «Penso che ci sia ancora un po’ di speranza per l’umanità. Con la morte di qualcuno abbiamo la possibilità di riscoprire la nostra propria mortalità».
Teddy Mattera sembra lui stesso uscito da un suo film. Giovanile e trasgressivo, ma non più giovane, è quasi timido di fronte al microfono. Dopo gli studi di cinema in Usa ed Europa, ha esordito con il film Hoop Dreams, che ha ricevuto una nomination agli Oscar del ’93. Lavora molto su documentari e cortometraggi. Sul cinema sudafricano, a confronto con le altre produzioni del continente, dice: «Spero che il nostro ruolo non sia quello di diventare imperialisti culturali, perché il pericolo c’è, ma piuttosto catalizzatori importanti, per rigenerare questo settore. Abbiamo la possibilità di offrire formazione e strutture ben organizzate. Abbiamo più mezzi degli altri paesi dell’Africa e siamo arrivati al livello commerciale con i nostri film».

Max and Mona, di Teddy Mattera – Sudafrica 2004 – 98 minuti.

BOX 2

Cos’è FESPACO

Il Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) nasce nel 1969 nella capitale del Burkina Faso, per iniziativa di un gruppo di cinefili. È poi istituzionalizzato il 7 gennaio 1972 come struttura pubblica nell’ambito del ministero burkinabé della Cultura.
A partire dalla 6a edizione diventa biennale: un appuntamento fisso dell’ultima settimana di febbraio degli anni dispari. È il più importante evento del suo genere sul continente africano.
Gli obiettivi principali del Festival sono favorire la diffusione delle opere del cinema africano, permettere contatti e scambi tra i professionisti del settore e contribuire al progresso e alla salvaguardia del cinema in quanto mezzo di espressione, educazione e coscientizzazione.
Oltre al festival biennale le altre attività principali sono la cinemateca africana (archivio di film, base dati e cinema mobile) e varie pubblicazioni sul tema. Il Fespaco organizza anche il Mica (Mercato internazionale del Cinema e della televisione africani), una borsa di programmi audiovisivi africani e sull’Africa, in concomitanza con il festival.
Le altre attività sono proiezioni a scopo non lucrativo nelle zone rurali, in partenariato con ng (organizzazioni non governative), associazioni, scuole. Il Fespaco promuove il cinema africano nelle manifestazioni e sedi inteazionali.

BOX 3

DOPPIO EROISMO

Il regista angolano Zezé Gamboa presenta uno spaccato di quello che è il suo paese, in particolare la capitale Luanda, a due anni dalla fine di una guerra lunghissima e fratricida. Un eroe è un film «sociale», spiega, «perché si interessa di problemi sociali» e non «di denuncia»; vuole inviare un messaggio forte, soprattutto ai politici dell’Angola: «Il potere in carica deve riuscire a dare l’accesso all’acqua e altri servizi di base a tutta la popolazione. Inoltre la reinserzione dei combattenti è un dovere dei politici».
Vitorio ha passato 15 anni in guerra e ora si ritrova senza una gamba (persa su una mina), senza famiglia né lavoro. Vivacchia nella Luanda dei disperati, bambini di strada, mutilati, uomini e donne in cerca dei parenti dispersi. Lui è un uomo integro e cerca di reinserirsi nella società. Una notte gli rubano addirittura la protesi. Nel tentativo di ritrovarla, dopo una serie di incontri sfortunati, approda in una trasmissione della radio nazionale, a colloquio con il ministro, a rappresentare le altre migliaia di ex combattenti. È con questo mezzo che il regista manda il suo messaggio.
Secondo Gamboa, Vitorio è doppiamente eroe: è stato decorato in guerra, e poi «rappresenta i molti angolani che si battono tutti i giorni per sopravvivere. In Angola c’è gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Riuscire a vivere così è già talmente difficile, che trovo eroico qualcuno che torna dalla guerra, cerca lavoro, dorme nella strada e nonostante questo conserva una certa integrità: questo è eroismo».

Il tema del dopo guerra riguarda la ricostruzione, non solo delle case, ma delle vite umane. «Quello di Vitorio – continua il regista – non è solo un caso angolano, ma ha una dimensione universale, può succedere ovunque e a chiunque dopo la guerra: la gente è distrutta psicologicamente. È ciò che capita in Cecenia e che capiterà in Iraq, dopo quello che sta succedendo».
Gamboa è particolarmente attento alla problematica dei mutilati di guerra: «Bisogna fare scuole di mestieri, impiegarli nei lavori. Anche se sono portatori di handicap possono fare molto per la società. Ci sono molti lavori adatti. Ma il problema è che la maggioranza di questa gente è partita molto giovane per la guerra e quando ritornano sono già uomini, ma non sanno fare nulla. Bisogna quindi insegnare loro, dare loro degli strumenti affinché si possano sentire integrati nella società». E il primo responsabile di tutto ciò è il governo, non gli aiuti inteazionali.
E a Vitorio capita proprio questo. Dopo la sua trasmissione radiofonica in cui chiede giustizia e la sua gamba di plastica, il ministro si muove e gli trova un lavoro: diventa addirittura autista. «Questo è un film, una fiction – dice Gamboa -. In realtà, se avessi fatto un documentario, il protagonista continuerebbe a dormire in strada e non avrebbe la possibilità di lavorare. Con il cinema possiamo anche sognare».

O Heroi, di Zezé Gamboa – Angola 2004 – 97 minuti.

BOX 3

La pace viene da dentro

Un film forte, sulla risoluzione dei conflitti, quello della regista burkinabé Fanta Regina Nacro. In un paese africano senza nome, due etnie si sono combattute in una guerra atroce, finché la stanchezza sembra prevalere. I due capi, il presidente della repubblica e il colonnello ribelle, decidono di finirla con la guerra fratricida e d’incontrarsi, con le loro truppe, per discutere della pace. Ma non è facile: nell’arco della notte la pace viene messa più volte in pericolo da odi e vendette personali, che hanno origine nello stesso conflitto.
«La notte della verità è l’istante in cui ci si guarda allo specchio e si vede la profondità di se stessi. Nella quotidianità questo si perde». Eccolo, secondo la regista, il senso del film e il motivo per l’impostazione. «Tutto si svolge in un luogo chiuso, la caserma, con una storia lenta, volutamente, perché è così che si preparano le cose più atroci».
E di scene truculente se ne vedono, come l’assassinio, alla fine del film, del colonnello, che diventa uno dei tanti montoni rosolati su un gigantesco spiedo. Uccisione tramata e voluta dalla moglie del presidente, che ha perso il figlio a causa della guerra. Ma la saggezza del capo di stato e della consorte del colonnello prevale. Una raffica di mitra liberatoria abbatte la prima donna e afferma la pace.
Primo lungometraggio fiction di Fanta Regina Nacro, il film è un’opera impegnata e presenta un personale modello di risoluzione dei conflitti: «Non ho voluto situare il film in un paese reale, affinché fosse una storia universale, specchio di altre situazioni. Vorrei che ogni individuo faccia uno sforzo personale e si preoccupi della pace. Se siamo arrivati a certe atrocità, in Africa come in Europa, è ora di riflettere su come non caderci più».
Nel film, i militari, compreso il colonnello, sono veri soldati burkinabé, non attori professionisti. Questo mostra una volontà politica oltre che un esempio quasi unico nel suo genere. «Il colonnello Teo è nella realtà il comandante Moussa Cissé, che ha servito come volontario delle Nazioni Unite in Burundi. In quel paese ha visto cose orribili e quando gli raccontai la storia mi disse: “Ho bisogno di fare questo film”. Era un po’ preoccupato per la sua performance e anche per la scena finale della morte. Ma il desiderio di recitare e portare qualcosa di suo gli ha fatto vincere la paura».
L e donne hanno un ruolo determinante nella storia. La moglie del presidente rischia seriamente di compromettere la pace, mentre quella del colonnello lo appoggia nella sua scelta. «La donna ha grande responsabilità – spiega la regista -. Deve essere cosciente del potere che ha nelle sue mani e della possibilità di orientare e far cambiare le cose. La moglie del colonnello suggerisce cosa bisogna fare affinché le atrocità cessino. È un ruolo forte, che simbolizza quello delle donne del mondo. Danno la vita, ma sono le prime vittime del conflitto, nel quale perdono i figli. Ma la donna è forte: sa quello che vuole ottenere e come ottenerlo».
In quanto a geopolitica, Fanta Regina ha deciso di non considerare le complesse influenze inteazionali che spesso caratterizzano i conflitti: «Ogni volta che c’è una guerra è sempre la geopolitica che prende il sopravvento. Io vorrei portare il popolo ad appropriarsi del conflitto, per prendere esso stesso la decisione di mettervi fine, senza dover sempre aspettare che la politica prenda la decisione».
Per questo tutti noi siamo come le pecore di un gregge, manipolati dall’alto; e il film finisce quando il matto del villaggio Tamoto, «che rappresenta la nostra coscienza», libera le pecore, che scappano in tutte le direzioni. È un altro invito dell’autrice alla società civile a essere più presente e incisiva in materia di risoluzione di conflitti e promozione della pace.

A proposito del Fespaco, Fanta Regina Nacro afferma che, per il pubblico è un’opportunità di vedere immagini che vengono d’altrove, per i registi è l’occasione di incontrare altri professionisti del settore, ma, soprattutto, «offre la possibilità di far passare idee forti, che abbiamo da comunicare. Oggi, malgrado le difficoltà di produzione e di distribuzione, noi africani riusciamo a far nostro questo mestiere. Sono più ottimista che in passato, perché vedo che anche con pochi mezzi, abbiamo colto la sfida di fare cinema e ci riusciamo».
Sulla risoluzione dei conflitti? «Non ho delle risposte. Abbiamo voluto dare qualche pista di speranza, ma non abbiamo la verità dentro di noi. Io e il mio sceneggiatore siamo entrambi cristiani: da qui l’idea di un sacrificio forte (quello del colonnello, ndr) per trovare la strada dell’ottimismo e di una nuova speranza per gli esseri umani».

BOX 4

Drammatico metissage

Un giovane cornoperante francese, Patrik, torna in un villaggio sperduto del Burkina Faso. È accompagnato da sua figlia Martine, bimba meticcia di 7 anni. La scusa del ritorno è la riparazione di un pozzo artesiano, installato da Patrik proprio 7 anni prima. La gente del villaggio lo accoglie freddamente. Ma c’è qualcosa in più: mentre è al lavoro, una giovane sordomuta, Kaya, rapisce la bimba e fugge nella savana.
Il film diventa la storia di questa fuga disperata e dell’inseguimento da parte di Patrik, aiutato da un gruppo di uomini del villaggio. Il rapporto tra Kaya, che rappresenta la tradizione e i costumi africani, e Martine, con la sua educazione e abitudini europee, che lo spettatore scoprirà essere la figlia della donna. Patrik aveva avuto una relazione con Kaya, decidendo poi unilateralmente di strappare la figlia appena nata alla madre per portarla in Francia. Dal trauma la donna aveva perso la parola. Un bellissimo dialogo madre-figlia (anche se Kaya è muta), che si crea poco a poco, così come Martine si spoglia del suo essere europea per africanizzarsi.
Nel frattempo Patrik è costretto a vivere nella boscaglia con il gruppo di africani, con l’obiettivo comune di trovare le fuggitive.
L’epilogo, in una notte di luna piena, è drammatico. Martine, affetta da un male incurabile dalla nascita, muore tra le braccia di Kaya incredula.
Per riparare alla sua azione del passato, Patrik è convinto dal vecchio saggio Tonkolo a compiere un rito che assicurerà a Kaya nuovamente un posto al villaggio. In caso contrario sarà cacciata. Patrik riesce, e il film termina con la sua partenza, in un’atmosfera rilassata, come se un vecchio problema avesse trovato soluzione.

«Non ho utilizzato la morte per risolvere la storia: ho giocato sul fatto che la piccola era malata fin dall’inizio, ma sua madre non lo sapeva. Volevo mostrare come le conseguenze degli atti degli adulti si possono ripercuotere su degli innocenti – specifica la regista Apolline Traoré -. Il padre e la madre hanno fatto i loro sbagli, e poi chi paga è la bambina. Anche negli altri miei film gli attori principali muoiono, io ho una certa sensibilità verso la morte stessa, legata alla spiritualità. Dopo una morte resta qualcosa di presente, non lo si può vedere né toccare, ma influenza il nostro mondo materiale nel quale ci battiamo ogni giorno. Abbiamo tutti paura della morte e cosa viene dopo. È un sentimento che può essere una cosa molto importante che noi esseri umani di oggi abbiamo tendenza a dimenticare».
Nel film è continuo il tema del rapporto tra europei e africani. Abbiamo chiesto alla regista se pensa a un incontro o a uno scontro tra culture. «Le due cose: incontro di due culture che finalmente si capiscono, madre e figlia, hanno conflitti, ma poi si ritrovano. Rispetto a padre e madre, sono due culture che cercano di capirsi, ma non ci sono riuscite, si sono separate e c’è stato un dramma. I due casi sono possibili».
Anche nel gruppo degli inseguitori, gli africani parlano tra loro criticando i bianchi. «È una caricatura di qualcosa di reale, rispetto a come pensano certi africani degli europei. Volevo mostrare questi pensieri. Anche se alcuni pensano così e certi europei, come lo stesso Patrik, hanno preconcetti sugli africani, ci può essere una unione d’intenti: di fronte a qualsiasi problema si possano trovare, i personaggi riescono a lavorare insieme».
Allora la bambina può essere vista come anello di congiungimento tra le due culture? «Martine si africanizza con la madre, perché non ha scelta, è obbligata, è un adattamento. La cosa importante è che la piccola non aveva mai avuto l’influenza di una donna: è cresciuta con il padre. Se una donna le dà attenzione, lei la accoglie, perché ha bisogno di presenza femminile».
Perché Sotto il chiaro di luna? «Dalle mie parti esiste un mito: è nelle notti di luna piena che escono e si manifestano i geni, gli spiriti. Così solo in una notte di luna piena sono rivelati i segreti di questa storia».

Sous la clarté de la lune, di Apolline Traoré – Burkina Faso 2004, 90 minuti.

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO Presentazione

L’Africa c’è, è viva, anche culturalmente. E lo dimostra la straordinaria produzione cinematografica, fiction e documentari, lungo e cortometraggi, video per la tv e serie televisive.
La settima arte si confronta sul continente ai problemi di finanziamenti, scarsa presenza di centri di formazione e, soprattutto, difficile o inesistente distribuzione
(i film africani hanno difficoltà a essere presentati nelle sale africane). Ma gli addetti ai lavori vedono queste piuttosto come sfide per il futuro.
Così, ogni due anni, si incontrano al Festival panafricano del cinema
e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) per mostrare il meglio della produzione, per scambiare, per fare progetti.
Una settimana di delirio cinematografico, che ha visto quest’anno un’elevata qualità
nelle diverse competizioni.
I temi sono quelli cari a questa cinematografia, fatta di registi e attori impegnati. Un cinema spesso sociale, talvolta di denuncia. Tematiche come i conflitti e la loro risoluzione, i problemi del dopo guerra e della riconciliazione nazionale. Ma anche il dovere della memoria, la riflessione sul passato dell’Africa e sulla colonizzazione.

Spesso presente è il rapporto tra Africa ed Europa: il dialogo cercato, l’incontro e lo scontro tra le culture, inteso come il capirsi o non capirsi affatto. Il tema del potere, la famiglia (soprattutto il rapporto genitori-figli), l’infanzia e l’Aids.
Dal Maghreb al Sudafrica, passando per l’Africa dell’Ovest (che con
il Senegal e il Burkina Faso è un po’ la culla della cinematografia africana), il Congo, l’Angola.
E il Fespaco del 2005 sancisce che è giunto il grande momento del cinema anglofono, soprattutto sudafricano, che mostra una buona maturità.
È del Sudafrica il grande vincitore del Festival, Zola Maseko, con il suo Drum, sull’apartheid degli anni ’50 nel suo paese.
Per molti esperti il 2005 è anche il cinquantenario della nascita del cinema dell’Africa nera. Così organizzatori del Fespaco hanno offerto al pubblico una preziosa retrospettiva con la proiezione di opere difficilmente rintracciabili.
Un’Africa che parla di sé, si racconta. Un’Africa culturale, spesso trascurata in Europa, dove la si associa solo a sanguinosi conflitti e a genocidi. Un continente culturale che si mette in scena e potrebbe, grazie al grande schermo, smantellare almeno un po’ quegli stereotipi così forti con i quali la caratterizziamo.

Marco Bello