GUATEMALA – Viaggio in America centrale (4)

RICOSTRUIRE LA AMEMORIA PER RICOSTRUIRE LA PACE

La maggioranza della popolazione del Guatemala è formata dai discendenti degli antichi maya, la cui storia è segnata da tre genocidi. L’ultimo (1954-96) riporta cifre agghiaccianti: 250 mila tra assassinati e desaparecidos, 100 mila orfani,
1,5 milioni di rifugiati e sfollati.
La strada della pace e riconciliazione nazionale è tutta in salita, perché i responsabili del genocidio rimangono impuniti e le leve dell’economia e della politica sono sempre in mano a una minoranza di bianchi e meticci. Eppure non mancano segni concreti di speranza.

Ricordando la loro storia dalla colonizzazione a oggi, gli indigeni maya del Guatemala parlano di tre genocidi. L’ultimo è terminato, dopo 36 anni di guerra civile, con gli accordi di pace nel 1996. Ma a distanza di quasi 10 anni, la società civile guatemalteca sta ancora tentando di costruire una nuova cultura di pace e una riconciliazione inclusiva, cioè, estesa a tutti i guatemaltechi, compresi i responsabili dei crimini compiuti durante la guerra.
TRAGEDIA IN TRE ATTI
Il primo genocidio ebbe inizio nel 1524, quando le truppe di Pedro de Alvarado, luogotenente di Hean Cortez, invasero le terre dei maya, dove le popolazioni indigene abitavano da più di 12 mila anni: territorio poi chiamato dagli invasori «Capitaneria generale del regno del Guatemala».
Occupazione e colonizzazione del Mesoamerica si tradussero in politica di saccheggio, schiavizzazione e sterminio a danno delle popolazioni autoctone, a vantaggio degli interessi espansionistici, economici e religiosi dei sovrani e della società spagnola dell’epoca.
In effetti, nel giro di pochi decenni del xvi secolo, le popolazioni maya furono decimate, sia dalle malattie portate dai conquistatori, contro le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie, sia dalle fatiche e stenti a cui furono sottoposti nelle miniere d’oro e d’argento, dove lavoravano come schiavi. Nonostante i tre secoli di colonizzazione diretta, il regime coloniale non riuscì a troncare il legame che univa i popoli indigeni con la propria cultura.
Il secondo genocidio iniziò a metà del secolo xviii, con l’invenzione dei coloranti artificiali in Europa: tale scoperta ebbe forti ripercussioni in Guatemala, allora paese esportatore di tinture vegetali, provocando una grave crisi economica.
Per risolvere tale crisi, l’élite filo-europea allora al potere introdusse la coltura intensiva del caffè. Per incrementare la produzione, la cosiddetta «Riforma liberale», nel 1871, espropriò le terre comunitarie degli indigeni maya, acquistate poi dai grandi latifondisti meticci per la creazione di piantagioni di caffè.
La «Riforma liberale» imprigionò gli indigeni nella loro stessa terra, costringendoli a diventare braccianti stagionali. Cominciò un secondo periodo di genocidio fisico e culturale per la popolazione maya, nella cui spiritualità la terra è considerata «dea madre».
Il terzo periodo tragico ebbe inizio nel 1954 con la fine della cosiddetta «rivoluzione di ottobre», chiamata poeticamente dai guatemaltechi: «I dieci anni di primavera nel paese dell’eterna dittatura». In effetti, finita questa rivoluzione, iniziò la lunga successione di dittature militari, durata più di 40 anni.
SOTTO IL TALLONE MILITARE
Per capire il significato della «rivoluzione di ottobre» bisogna andare al 1944. Il governo progressista di Juan José Arévalo, democraticamente eletto, diede il via a riforme economiche e sociali di ampia portata, tra cui l’estensione del diritto di voto alle donne (1945). Fu pure progettato un vasto programma di riforma agraria, ideato dal presidente Jacobo Arbenz a cavallo degli anni ’50.
Tale riforma, però, minacciava gli interessi della transnazionale nordamericana United Fruit Company (Ufco), che all’epoca possedeva il 2% delle terre del paese, molte delle quali lasciate incolte, e sfruttava gli indigeni, usati come braccianti con salari da fame. La riforma agraria proponeva la ridistribuzione di 100 mila acri di terra di proprietà dell’Ufco.
Per l’esproprio la Compagnia sarebbe stata indennizzata in base al valore dichiarato nel pagamento delle imposte allo stato guatemalteco. Il governo sapeva, infatti, che la United Fruit Company aveva da sempre falsificato il valore reale delle proprietà terriere per trarre il massimo beneficio dall’evasione fiscale.
Di fronte a questa riforma, John Foster Dulles, segretario del Dipartimento di stato Usa, oltre che azionista e avvocato della Compagnia, fece pressioni sul governo statunitense per ottenere la condanna del governo guatemalteco di Arbenz. La reazione dell’amministrazione di Dwight Eisenhower fu immediata: la riforma agraria venne dichiarata «una minaccia per gli interessi americani» e Allen Dulles, direttore della Cia ed ex presidente dell’Ufco, fu incaricato di organizzare un’invasione, partendo dall’Honduras, per «ristabilire l’ordine in Guatemala».
Era il 1954. Centinaia d’indigeni, operai e leaders contadini furono catturati e fucilati, le terre restituite alla United Fruit Company e il governo di Arbenz rovesciato; al suo posto fu insediato il colonnello Carlos Castillo Armas, che arrivò in Guatemala nell’aereo privato dell’ambasciatore Usa.
Seguirono sei anni di instabilità politica, sfociata in una serie di governi militari, contro cui insorsero vari movimenti rivoluzionari armati. Dal 1960 l’esercito iniziò a terrorizzare il Guatemala con repressioni, violenze, torture e massacri contro le comunità indigene. Il genocidio fisico e culturale raggiunge il culmine negli anni ’80. Le forze armate adottano la strategia della «terra bruciata». Per eliminare l’appoggio alla guerriglia, 400 comunità indigene vengono disarticolate e ristrutturate, secondo un progetto di ingegneria sociale, in «poli di sviluppo», cioè, «villaggi modello», in cui i contadini furono trasferiti e costretti a produrre per l’esportazione e non per l’autosostentamento.
Sotto la vigilanza stretta dell’esercito, essi venivano indottrinati. Una vasta rete d’informatori bloccava qualsiasi manifestazione di dissenso. Molti contadini e indigeni furono costretti a entrare nelle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), una sorta di gruppi paramilitari che, sotto il controllo dell’esercito, dovevano combattere la guerriglia.
Vari tentativi di ritorno alla democrazia furono frustrati dall’ingerenza dei militari, che proseguirono nella violazione dei diritti umani, in massacri e assassini politici fino al 1996, quando vennero firmati gli accordi di pace tra il governo, guidato da Alvaro Arzú del Partito progressista nazionale, e l’Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca (Ug), formata fin dal 1982 dai tre principali gruppi guerriglieri.
RICERCA DELLA MEMORIA
Finito il conflitto, rimangono le ferite da rimarginare, come racconta una leader indigena, Maria Ebedarda Tista, cornordinatrice del Comitato nazionale delle vedove del Guatemala (Conavigua). «La nostra organizzazione è sorta negli anni ’80, durante la repressione perpetrata dall’esercito e “squadroni della morte”. È composta prevalentemente da vedove che, fin dall’inizio, si sono poste l’obiettivo di appoggiare la smilitarizzazione del territorio e la ricerca della pace. Oggi Conavigua lavora in 12 dipartimenti del Guatemala, prevalentemente nell’ambito della ricostruzione della memoria e delle esumazioni.
Le donne sopravvissute al genocidio continuano a cercare i loro familiari desaparecidos, fino a denunciare davanti ai tribunali le ingiustizie subite e chiedere le esumazioni dei resti dei familiari, sepolti in più di mille cimiteri clandestini in tutto il territorio guatemalteco. È l’aspetto più importante: queste donne sono riuscite ad arrivare alle autorità giudiziarie, fatto insolito per una indigena in questo paese, e avviare i processi contro i loro carnefici, responsabili di 250 mila morti tra assassinati e desaparecidos».
Purtroppo si assiste a un fenomeno preoccupante, precisa la leader indigena: «Molte di queste donne ricevono intimidazioni e minacce e sono perfino oggetto di attentati, per far sì che desistano dal loro proposito di chiedere giustizia».
Al momento la quasi totalità dei responsabili del genocidio restano impuniti, protetti dalla connivenza dell’élite politica e dal loro passato di potenti gerarchi dell’esercito. Uno dei più feroci dittatori contemporanei, per esempio, l’ex generale Rios Montt, ha avuto l’ardire di candidarsi alle presidenziali del 2003, con una campagna elettorale di intimidazioni e violenze, gettando di nuovo il paese nel terrore.
Il recente passato del Guatemala continua a pesare enormemente sul presente, come spiega la signora Tista: «L’impatto culturale dello sterminio delle comunità indigene, per noi donne, ha significato la perdita dei nostri diritti fondamentali, della nostra cultura e, al tempo stesso, la proibizione delle nostre credenze e tradizioni culturali. Per esempio, nella nostra cultura gli anziani hanno un ruolo centrale, perché concentrano in sé tutta la saggezza tramandata oralmente di generazione in generazione: sono una “biblioteca vivente”. Ebbene, questi anziani non hanno avuto lo spazio d’insegnare alla nostra gente questo sapere millenario, perché per più di tre decenni hanno dovuto restare in silenzio, fuggendo dalla guerra.
Inoltre, cosa ancor più grave, molti di essi sono stati rapiti e assassinati dall’esercito, in cui militavano molti indigeni che, quindi, sapevano dell’importanza degli anziani nelle nostre società indigene. La nostra cultura ha subito una specie di amputazione. Tuttavia abbiamo resistito, nella convinzione di avere il diritto di sopravvivere, conservando la cultura e cosmovisione maya. Nonostante tutto, siamo ancora il 70% della popolazione del paese».
NUNCA MAS
«Un paese senza memoria e autocoscienza della propria storia – dicono i guatemaltechi -, non riuscirà a costruire una pace duratura». Per rimarginare le ferite aperte nel tessuto sociale occorre conoscere la verità di quanto è accaduto; altrimenti la pace sarà sempre fragile.
La ricerca della verità è lo scopo principale del «Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica» (Remhi) che, nell’immediato dopoguerra, ha pubblicato il rapporto Guatemala nunca más (Guatemala mai più), pietra miliare del processo di chiarificazione storica.
Questo rapporto, promosso dall’Ufficio per i diritti umani dell’arcidiocesi di Città del Guatemala (Odhag), fu fortemente voluto dal vescovo della capitale, mons. Juan Gerardi, che tre giorni dopo la pubblicazione venne assassinato. In Guatemala nunca más, frutto di meticolose indagini, mons. Gerardi denunciava dettagliatamente gli omicidi e altri crimini contro i diritti umani perpetrati dai militari durante la guerra. Vi sono registrati 663 massacri. Finora, in 12 anni di lavoro, sono state realizzate 381 esumazioni, il 57% dei massacri registrati; ma si stima che ce ne siano altrettanti non ancora scoperti. In 36 anni di conflitto ci sarebbero state oltre mille esecuzioni di massa.
Il lavoro di riesumazione, in cui è impegnato anche l’Odhag (vedi riquadro), è fondamentale per la ricostruzione della verità: è la chiave di volta per una vera pacificazione del Guatemala attuale. Ma non basta. Oltre che ricostruire la memoria storica della società guatemalteca, l’Odhag è impegnato nella ricerca di nuove forme di convivenza, nel rafforzare l’organizzazione comunitaria, nel costruire una nuova cultura di pace, affinché mai più si ripeta la violenza sofferta nel passato.
OCCORRONO RISARCIMENTI
Tutto questo lavoro indica che la situazione sta cambiando in meglio; ma è indispensabile che a tali sforzi seguino azioni concrete per elevare la qualità della vita di comunità e persone che hanno vissuto sulla propria pelle il flagello della violenza. Il processo di pace e riconciliazione deve portare a gesti di risarcimento.
A tale proposito è stato creato il Programma nazionale di risarcimento (Pnr), a capo del quale c’è Rosalina Tuyuc, ex deputata e leader indigena guatemalteca. «Come strategia di lavoro usiamo la riparazione tanto materiale quanto psicologica – spiega la signora Tuyuc -. Il nostro obiettivo è quello di creare un registro nazionale delle vittime e delle esumazioni. Inoltre, vogliamo assicurare un risarcimento alle vittime della guerra e riparare i danni psicologici e fisici causati da torture, esecuzioni extra giudiziarie, stupri e tutti i delitti di lesa umanità commessi dall’esercito, agenti della polizia segreta e gruppi paramilitari.
I membri indigeni che partecipano al Pnr esigono che il progetto abbia anche una dimensione culturale, che costruisca, cioè, una mappa dei centri cerimoniali distrutti e delle comunità indigene smembrate. Tali dati sono importanti per riuscire a contestualizzare la vastità e gravità delle conseguenze che la guerra ha lasciato nei popoli indigeni. Finora abbiamo in mano dati molto generici. Si sa, ad esempio, che ci sono attualmente 663 cimiteri clandestini, ma non si sa quanti siano i cimiteri per ognuna delle 23 comunità linguistiche; ci sono stati un milione e mezzo di profughi, ma ancora non sappiamo da quali comunità linguistiche provengono».
Rosalina Tuyuc ci tiene a sottolineare che «l’impatto culturale del conflitto ha danneggiato il tessuto sociale comunitario dei popoli indigeni, ha provocato la distruzione dei terreni comunitari e l’interruzione dell’esercizio sia delle guide spirituali maya che delle autorità indigene. Abbiamo il bisogno di conoscere il grado di smembramento e distruzione provocato nella nostra società indigena, per calcolare il tempo necessario per ricostruire e, soprattutto, sapere da dove iniziare».
Una delle mete a cui punta il Pnr è incamminare il Guatemala sulla strada della costruzione della pace, mediante una riconciliazione duratura. «Questa, però – conclude Rosalina Tuyuc -, sarà possibile solamente quando coloro che hanno partecipato al disegno ed esecuzione delle violenze contro uomini, donne e bambini, riconosceranno le loro responsabilità e ne pagheranno le conseguenze».
PIÙ SPAZIO ALLE DONNE
Norma Isabel Santic Suque, presidente dell’Associazione politica di donne maya (Moloj), sottolinea un altro aspetto importante del processo di pace e riconciliazione nazionale: la partecipazione delle donne indigene nella vita politica del paese. In Guatemala, infatti, le donne indigene sono la categoria più emarginata della società, una discriminazione più forte di quella razziale.
Moloj è una associazione sorta nel 1999, in occasione della prima tornata elettorale dopo la pace del 1996, con lo scopo di creare spazio e formazione complessiva alle donne indigene. «Noi donne siamo praticamente escluse dalla partecipazione politica guatemalteca, per mancanza di strumenti giuridici e politici – spiega Norma Isabel -. Moloj vuole colmare questo deficit democratico a livello nazionale e internazionale. Vogliamo offrire alle donne una formazione politica, in cui siano integrati gli elementi della cultura, cosmovisione e spiritualità maya. Cerchiamo di creare spazi in cui le donne leader indigene, nelle 23 comunità linguistiche presenti in Guatemala, possano crescere interiormente senza perdere la loro identità e senza rinunciare alle loro credenze e pratiche culturali proprie della tradizione maya.
Nel processo di globalizzazione in atto, infatti, esistono molti meccanismi che allontanano i popoli indigeni della loro cultura. Tutto ciò implica gravi conseguenze: rischiamo di non trasmettere ai giovani i valori maya o lasciamo loro in eredità un patrimonio culturale viziato».
Per questo l’Associazione ha tessuto una rete di donne maya, una classe dirigente, pronta ad assumere responsabilità civili. Tra le varie iniziative formative figura il corso di laurea biennale in «Gestione politica maya», avallato dalla facoltà di Scienze politiche presso l’Università statale San Carlos de Guatemala. Frequentando tale corso, molte donne maya hanno imparato a conoscere i propri diritti e il valore della politica come strumento di pace; al tempo stesso hanno potuto approfondire la conoscenza della cosmovisione maya.
DEMOCRAZIA INCLUSIVA
«Molti punti del trattato di pace del 1996 restano ancora incompiuti – continua Norma Isabel -. Per esempio, è stato impossibile concretizzare l’accordo sul tema dell’identità, nonostante le chiare proposte che abbiamo avanzato in proposito. E questo perché ci troviamo di fronte uno stato che non ha la volontà politica di migliorare la situazione dei popoli indigeni; è uno stato basato sull’esclusione: non permette che le proposte dei popoli indigeni si integrino nella coice giuridica istituzionale attuale.
Noi vorremmo vivere in una democrazia partecipativa, che includa tutti; una democrazia che si costruisce giorno per giorno mediante il dialogo. Abbiamo avuto alcune esperienze di dialogo con il governo, anche in passato; ma nessuno ha messo i diritti dei popoli indigeni tra le priorità nazionali. Sono state fatte manifestazioni di massa, a cui hanno partecipato le comunità indigene, venute dalla campagna dopo giorni di viaggio a piedi, per consegnare alle istituzioni l’agenda politica contenente le priorità dei popoli indigeni; ma non è servito a nulla. Gli accordi di pace continuano a essere violati. Noi indigeni abbiamo il diritto di ricevere risposte concrete, perché è ora di essere trattati come cittadini del Guatemala, non come stranieri nella nostra terra».

Josè Carlos Bonino

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