DOSSIER CINEMA AFRICANO Il malineteso coloniale
Incontro con Jean Marie Teno
Jean Marie Teno è un noto documentarista che ha pure realizzato diversi film fiction. Il malinteso coloniale, girato nel 2004 tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun vuole indagare sull’influenza della missione cristiana, avamposto di colonizzazione, sullo sviluppo dell’Africa.
Il malinteso è proprio questo legame ambiguo che ha portato il continente alla deriva.
Camerunese, ma vive da tempo in Europa, Teno vuole mostrare che il rapporto tra Africa ed Europa ha bisogno di essere rinnovato.
E per farlo occorre tornare indietro nella storia e fare quello che lui chiama «dovere di memoria».
Perché ha fatto un film su missione e colonialismo?
Il mondo è totalmente globalizzato e il rapporto Africa-Europa condiziona enormemente la situazione odiea del continente. Fare un film su questo tema è chiedersi qual è il posto dell’Africa nel mondo. Posto non invidiabile, quasi un vicolo cieco. Bisogna interrogarsi sulle ragioni che l’hanno portata a questa situazione. Penso che l’incontro tra Europa e Africa, avvenuto anche attraverso la religione e i missionari, sia in parte responsabile dell’impasse in cui ci troviamo oggi. Volevo mostrarlo nel film.
Lei ha parlato di un «dovere di memoria» per il continente.
Sono successe in Africa cose gravi, atroci. C’è stata la tratta negriera, la colonizzazione, e tutte le volte che sono finite, si è detto: bravi è finito, non lo facciamo più, dimentichiamo tutto. Senza mai pensare alle cause. Come possiamo andare avanti senza guardare, esaminare ciò che è successo? È come preparare dei crimini futuri: giriamo pagina senza dire nulla. Il dovere di memoria è necessario, affinché gli africani possano trovare il rispetto in loro stessi, e cominciare ad avere un vero rapporto, più sano, con gli altri.
È una questione di riconciliazione o di restituzione di qualcosa che l’Europa ha preso agli africani?
No, per nulla. Perché il dovere di memoria è importante per qualcuno e non per gli altri? In Europa se ne parla sempre, per esempio per l’olocausto. Intanto è l’Africa che continua a soffrire, chiusa nella sua miseria. In Europa il razzismo tocca sempre più gli africani. Il dovere di memoria è importante perché la gente si renda conto di quello che l’Africa ha attraversato da lungo tempo. Aiuta a capire perché la gente ha certe attitudini e comportamenti e a metterli in questione. Quando si sa quello che è successo, si può vedere il ridicolo delle proprie azioni, cambiare attitudine, raggiungere un dialogo paritario, in modo che la gente possa guardarsi in faccia senza che ci siano complessi di superiorità o inferiorità.
Secondo lei gli europei hanno paura dell’Africa?
Molti lo dicono: hanno una cattiva coscienza rispetto a tante cose che immaginano ma non possono capire. Così la paura dell’Africa viene da tale memoria soffocata. L’Africa è stata saccheggiata e violentata, ma una parte della storia non è per nulla stata assunta. Se la gente non si riconosce in questa storia e non dice: siamo spiacenti, le stesse cose continueranno, magari in modo più nascosto con le istituzioni inteazionali. Finché non lo avremo riconosciuto, continueremo ad avere rapporti molto falsi con l’Africa.
Lei vive da molto tempo in Europa.
E allora?
Come si trova?
Bene. Vivo anche nello sguardo degli altri l’immagine dell’Africa. Non si è discriminati 24 ore su 24; ma in Francia la discriminazione esiste: è dappertutto. Non nei testi ufficiali, ma nelle istituzioni. E gli africani la subiscono. A livello politico pochissimi neri arrivano in alto. C’è un «soffitto di vetro» che fa sì che un nero sia sempre l’ultimo a essere promosso, anche se ha competenza. C’è sempre un razzismo strisciante.
Nel film si parla di «colonizzazione delle menti» oltre che delle terre. Le chiese africane che si formano dopo le chiese missionarie, possono avere un ruolo in tale decolonizzazione spirituale?
Non ho pensato a questo. Nella chiesa della Namibia per esempio, qualcuno parla di rivendicazioni e lotte, ma allo stesso tempo restano molto attaccati alla chiesa come istituzione. Non so se può avere questo ruolo, perché credo che si debbano rimettere in questione un certo numero di concetti, e non sono sicuro che l’istituzione lo faccia. Ma la chiesa nella sua lotta per la dignità dell’uomo ha fatto molto. Le chiese della Namibia e del Sudafrica hanno fatto un lavoro enorme per la lotta contro l’apartheid. Non so se si possono decolonizzare le menti, perché la chiesa resta un luogo di formattazione del pensiero. E il modello è quello occidentale. Ma almeno la parola di Dio non è più uno strumento di oppressione.
Nel film lei dice che i missionari furono identificati come i migliori «civilizzatori», nel momento in cui si voleva civilizzare per occupare le terre degli africani. Vede dei lati positivi della missione?
Non sono uno specialista della missione. Cerco di mettere in fila gli elementi di una riflessione. Quando i missionari sono visti come i vettori della colonizzazione, in quanto i migliori civilizzatori, possono esserci aspetti positivi, ma il risultato finale resta negativo e non abbiamo bisogno di cercare. In qualche modo hanno contribuito ad affondare l’Africa dov’è oggi. Ad esempio hanno imparato le nostre lingue. Ma grazie a questo hanno aiutato la penetrazione coloniale che è stata alla fine una catastrofe per noi.
Vede differenze tra la missione protestante e quella cattolica? E la penetrazione dell’Islam?
Non mi preoccupo dell’impatto dell’Islam, non faccio uno studio comparato dell’impatto delle differenti religioni sull’Africa. I missionari cristiani (cattolici e protestanti) hanno avuto un’influenza reale, duratura e profonda nella vita in Africa. E vediamo gli effetti oggi, che di fatto sono definitivi. Tutta la civiltà europea diceva che la cristianizzazione e la civilizzazione europea andavano insieme. Guardate quello che c’è qui: è grazie all’Europa che siamo dove siamo.
Come immaginate un’Africa senza missione cristiana?
Non serve a nulla. Sono cose che esistono. La domanda è: cosa fare per uscie? Ma non ho risposte. Sono solo un cineasta. Ci son altri che possono trovare soluzioni, come il professore Kumou e altri che intervengono nel film. Io posso solo prendere le parole della gente e darle al grande pubblico per una riflessione sulla storia.
Perché la Namibia?
È stato uno degli elementi essenziali nel dispositivo. Parliamo dell’Europa, come se la storia iniziasse a Auschwitz. C’è una continuità nella storia, ma c’è una tendenza a tagliare quello che è avvenuto prima. Volevo ritornare al fatto che i primi campi di concentramento sono stati in Africa (contro gli herero, ndr) e anche al ruolo che i missionari hanno giocato nel paese. Ho lavorato sulla missione di Renania. Ho potuto mostrare che c’è stata una rivolta, il ruolo dei missionari in questa guerra, durante e dopo e nell’installazione dell’amministrazione tedesca. È rappresentativo di quello che i francesi e gli inglesi hanno fatto in altri paesi. Ma la colonizzazione tedesca è stata la più corta. Possiamo dire che con gli altri è stato peggio. Inoltre la Germania ha fatto un lavoro su se stessa, ci sono documenti. Cosa che gli altri paesi non hanno fatto, e continuano a vivere come se nulla sia successo. •
Marco Bello