«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo servisse/coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15)
«Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi
nelle doglie del parto» (Rom 8,22)
Nella coscienza dei popoli aumenta la preoccupazione per il futuro della terra. Lo sviluppo disordinato e lo sfruttamento delle risorse idriche, alimentari ed energetiche hanno imboccato la via di non ritorno verso l’implosione dell’ecosistema. I governi sono i soli a non preoccuparsene, dal momento che essi sopravvivono una manciata di istanti e non interessa loro la sorte delle generazioni future, ma il risultato immediato. Domani altri goveeranno; ad altri i problemi di domani.
Goveare è prevedere. Anzi, governare è anticipare le previsioni. Prendere coscienza della terra o, come si dice oggi, dell’ambiente in cui viviamo è un imperativo morale e religioso, oltre che civile. Per il credente il rispetto e la cura della terra sono un atto di obbedienza al Creatore del cielo e della terra e un inno di lode al Dio redentore dell’umanità e dell’ambiente che la contiene. Chiunque insulta, defrauda, violenta, sfrutta la terra e le sue risorse compie un atto blasfemo contro se stesso e contro Dio.
L’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili; il degrado delle urbanizzazioni selvagge hanno prodotto la cementificazione della terra, con la conseguenza che sono in aumento la desertificazione, alluvioni, mutamento delle stagioni, scioglimento dei ghiacciai, cataclismi di cui siamo attoniti e impotenti testimoni.
Eppure la bibbia si apre appunto con la questione ambientale, fulcro di tutta la storia di salvezza. Il fondamento di tutto ciò era già scritto fin dal principio, ma pochi ne hanno coscienza, anche tra i credenti. In nessun programma di politici sedicenti cristiani e/o cattolici ho mai visto un espresso capitolo dedicato all’ambiente o alla terra e al conseguente sviluppo sostenibile.
Guardandomi attorno, vedo che l’umanità è ancora ferma ai primi 11 capitoli della Genesi: non ha fatto un grande progresso da un punto di vista antropologico. Questa constatazione diventa drammatica se guardiamo al rapporto tra gli uomini, tra uomo e natura, tra uomo e creato. Tutti gli scienziati liberi (non a libro paga dei governi) dicono che il mondo sta morendo per opera dell’uomo e le proiezioni parlano di uno stravolgimento epocale che sovrasta le teste dei nostri figli, perché il rapporto dell’uomo con la terra è un rapporto di violenta aggressione, quasi una volontà positiva di distruggere il creato.
Tutto era previsto dal x sec. a.C. in poi. Tutto era scritto già nel sec. iv a.C., nei primi 11 capitoli del libro della Genesi. Essi sono il risultato finale di una lunga riflessione sull’esperienza di fede del popolo d’Israele, frutto di diverse tradizioni orali e scritte. Sono la proiezione all’indietro dell’esperienza storica vissuta lungo 5 secoli (x-v a.C.): la problematica che attraversa l’anima umana è proiettata su uno sfondo cosmico per dire che si tratta di una realtà universale.
Genesi 1-11 è una «narrazione storica», nel senso che tematiche universali come dolore e morte, violenza gratuita e organizzata, lavoro e fatica, disgregazione dell’ambiente e cataclismi, sofferenza degli innocenti e successo degli ingiusti, attrazione dei sessi e dolore del parto, mistero della vita e mortalità, società e sovversione dell’ordine morale… sono patrimonio dell’umanità che cammina nel tempo della storia. Sempre.
Genesi 1-11, però, supera i confini di un tempo specifico o di una generazione e per questo vengono collocati «in principio», perché fanno parte del patrimonio storico che ogni generazione lascia a quella successiva. Ieri come oggi e come domani. A distanza di almeno 3 mila anni, infatti, anche oggi siamo alle prese con gli stessi interrogativi.
Ai quali interrogativi, l’uomo biblico dà una risposta di fede, che può essere sintetizzata così: l’uomo/Adam che non riconosce la «signoria» di Dio, cioè, non accetta il proprio limite di creatura e si ribella nel tentativo di sostituirsi a Dio stesso, va incontro a una serie di fallimenti senza ritorno.
Adam disponeva del giardino di Eden; era «signore» di tutto il creato; dove svolgeva un compito sacerdotale di rappresentanza. Egli era la «statua/immagine» del Creatore, la coscienza vigile dell’intero creato attraverso l’esercizio di una «signoria vicaria» che avrebbe dovuto fare sperimentare al creato la provvidente pateità di Dio-Signore.
L’uomo poteva «dare il nome» agli animali, cioè esercitare su di essi un compito non di dominio, ma una primazia di signorilità: come il sacerdote nel tempio di Gerusalemme rappresentava liturgicamente Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio attraverso il sacrificio perpetuo e il sacrificio di lode (Sal 53,8; 115,8; 1Mac 4,56; Eb 13,15), così Adam nell’Eden, tempio cosmico, celebrava la liturgia di lode in rappresentanza e in comunione con il creato: umani, animali e cose. Il «principio» o fondamento della creazione era l’armonia del creato, come contesto dell’armonia del regno vegetale, animale e umano e segno dell’armonia pacificata dell’animo umano. Ad Adam non basta.
Egli vuole essere Dio, non solo la sua immagine; non accetta di essere quello che è, ma vuole diventare chi non è, introducendo nel suo cuore, nella relazione con la donna e nel mondo intero il germe del disordine e divisione. Per responsabilità dell’uomo il virus della disgregazione è inoculato nel creato, nel mondo animale, vegetale e inanimato.
Quando la persona perde di vista il confine della propria consistenza e identità interiore e vuole essere altro da ciò che realmente è, pone in atto un processo dissolutivo di sé e travolge tutto ciò che incontra. Egli separa così l’esperienza dalla coscienza, il proprio vissuto storico (del momento) dal proprio progetto complessivo (il dovere essere del proprio io profondo), frantuma ogni principio di coerenza nella verità, la quale non è più un obiettivo da cercare, ma una parzialità imposta come verità assoluta.
La persona che perde di vista il punto di partenza, le sue radici (l’Eden che ne determina l’individualità limitata) e il suo fine (l’immagine che ne esprime la capacità indefinita di relazione creativa), smarrisce se stessa, si attorciglia come un serpente in meccanismi opachi di distruzione, che deprimono la coscienza e ne fanno un soggetto gracile di feroci distruzioni contro se stesso e l’ambiente circostante. Senza più Dio come Signore e principio della creazione, le conseguenze rotolano come su un piano inclinato.
La donna non è più compagna di vita e viaggio alla pari, ma strumento nelle mani del potere maschile, che trasforma anche la relazione d’amore in possesso violento e di dominio: «Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli dominerà su di te» (Gen 3,16). La relazione sessuale, che doveva essere il sigillo dell’armonia perfetta, il sacramento visibile del volto di Dio in quanto «immagine e somiglianza», diventa invece campo di violenza e sopraffazione.
Senza il riconoscimento di Dio come Padre, Abele non è più riconosciuto come fratello, ma diventa ostacolo al successo di Caino, che per questo lo vuole uccidere (Gen 4): nasce l’omicidio/fratricidio. I fratelli diventano «extracomunitari» l’uno all’altro, ieri e oggi.
All’Adam che rinnega Dio creatore, la natura stessa si ribella e non ne riconosce più la signoria: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con travaglio ne trarrai nutrimento… spine e cardi farà spuntare per te» (Gen 3,17-18).
All’uomo che si rivolta contro Dio, l’intero creato si rivolta con violenza sovrumana: il diluvio sommerge la terra intera e solo otto persone si salvano (Gen 6). L’uomo che disattende la Torà/Legge di Dio creatore è incapace di riconoscere qualsiasi legge morale come equilibrio di convivenza: nascono poligamia e vendetta smisurata nella proporzione di uno a sette (Gen 4,19.24).
Dio non aveva posto Adam nel giardino di Eden perché ne spadroneggiasse secondo il suo capriccio, ma con un progetto di armonia e sviluppo ben preciso. I due verbi usati in Gen 2,15 sono fondamentali nella teologia biblica ed esprimono la dimensione interiore che si rapporta sempre con la natura di Dio. In ebraico l’espressione suona così: le’abedàch uleshamaràch: per servirlo e per custodirlo; mentre il greco della lxx dice: ergàzesthai autòn kai fylàssein, per lavorarlo e custodirlo.
Servire deriva da ’abàd (290 volte nell’AT) e contiene l’idea di fare e in arabo di onorare/obbedire. Servire vuol dire ascoltare e rispondere ai bisogni di colui che si serve. Dalla stessa radice ’.b.d. deriva ’ebed, servo, che nella bibbia ha anche valore onorifico: è servo il diplomatico che rappresenta il re. Il Servo di Yhwh di cui parla Isaia (52,13-53,12) è il misterioso personaggio eletto perché offra la sua vita in espiazione e col quale s’identificherà Gesù nella sua passione e morte.
Custodire da shamar (420x nell’AT) contiene l’idea di avere a cuore, prestare attenzione e nella scrittura è spesso riservato alla Torà/Legge: osservare/custodire la Torà è vivere; disattendere i precetti del Signore è avviarsi alla morte.
In questo senso i due verbi servire e custodire sono sinonimi, perché pongono il rapporto dell’uomo con il creato nella dimensione del servizio e questo servizio ha la stessa dimensione della Parola di Dio che deve essere ascoltata e custodita. Ascoltare/custodire/osservare (le parole del)la Torà è quasi un ritornello che popola l’intera scrittura ebraico-cristiana: Dt 17,19; 28,58; 30,10; 31,12; 32,46; 1Cr 22,12; Sal 98,7; 118,34.44.55; Mt 19,17; Lc 1,6; 18,20, Gv 14,15.21; 15,10 ecc.
Qui sta il fondamento teologico della creazione: la natura non deve solo essere rispettata per utilità, ma deve essere riconosciuta come soggetto di salvezza e redenzione. Le conseguenze, infatti, della disobbedienza dell’uomo si sono riversate sul creato, che così è associato e coinvolto nella storia distruttiva dell’uomo.
Lo esprime drammaticamente san Paolo nella lettera ai Romani (8,19-22), dove paragona il creato a una partoriente in preda alle doglie: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto».
L’uomo capace di trasformare un giardino di armonia in un deserto di sofferenze è capace di tutto; infatti lo vediamo all’opera instancabilmente: guerra, violenza, corruzione, potere come dominio, egoismo come sopruso, arrivismo, liberismo senza legge e morale, ricerca della propria realizzazione «qui e subito» a scapito degli altri sono le cause «originali» della depravazione dell’ambiente, che da giardino di vita si trasforma in inferno di morte.
L’inquinamento della coscienza e l’oscuramento dell’immagine di Dio nell’uomo-donna sono madre e padre dell’inquinamento della natura che ci sovrasta e ci seppellirà, se non saremo capaci di guardare il «principio» di dignità e libertà che è dentro ciascuno di noi e che si chiama responsabilità. Sì, coscienza della responsabilità non solo di se stessi, ma anche del mondo che ci circonda, degli animali, piante e cose inanimate che fanno parte del mondo che ci è stato consegnato per servirlo e custodirlo e consegnarlo alle generazioni future con lo stesso atteggiamento con cui consegniamo la Parola.
Davanti al tribunale dei nostri figli futuri e al tribunale di Dio, dobbiamo rispondere non solo della gestione della nostra «immagine e somiglianza» di lui, ma anche dell’etica delle nostre relazioni e dell’ambiente dove siamo vissuti che, in quell’ora suprema, si ergerà contro di noi per accusarci di essere colpevoli di assassinio cosmico o per testimoniare a favore di noi per essere stati fedeli servitori e custodi del giardino con la signorilità di chi restituisce qualcosa che ha ricevuto in affidamento.
Goveare è prevedere. Anzi, governare è anticipare le previsioni. Prendere coscienza della terra o, come si dice oggi, dell’ambiente in cui viviamo è un imperativo morale e religioso, oltre che civile. Per il credente il rispetto e la cura della terra sono un atto di obbedienza al Creatore del cielo e della terra e un inno di lode al Dio redentore dell’umanità e dell’ambiente che la contiene. Chiunque insulta, defrauda, violenta, sfrutta la terra e le sue risorse compie un atto blasfemo contro se stesso e contro Dio.
L’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili; il degrado delle urbanizzazioni selvagge hanno prodotto la cementificazione della terra, con la conseguenza che sono in aumento la desertificazione, alluvioni, mutamento delle stagioni, scioglimento dei ghiacciai, cataclismi di cui siamo attoniti e impotenti testimoni.
Eppure la bibbia si apre appunto con la questione ambientale, fulcro di tutta la storia di salvezza. Il fondamento di tutto ciò era già scritto fin dal principio, ma pochi ne hanno coscienza, anche tra i credenti. In nessun programma di politici sedicenti cristiani e/o cattolici ho mai visto un espresso capitolo dedicato all’ambiente o alla terra e al conseguente sviluppo sostenibile.
Guardandomi attorno, vedo che l’umanità è ancora ferma ai primi 11 capitoli della Genesi: non ha fatto un grande progresso da un punto di vista antropologico. Questa constatazione diventa drammatica se guardiamo al rapporto tra gli uomini, tra uomo e natura, tra uomo e creato. Tutti gli scienziati liberi (non a libro paga dei governi) dicono che il mondo sta morendo per opera dell’uomo e le proiezioni parlano di uno stravolgimento epocale che sovrasta le teste dei nostri figli, perché il rapporto dell’uomo con la terra è un rapporto di violenta aggressione, quasi una volontà positiva di distruggere il creato.
Tutto era previsto dal x sec. a.C. in poi. Tutto era scritto già nel sec. iv a.C., nei primi 11 capitoli del libro della Genesi. Essi sono il risultato finale di una lunga riflessione sull’esperienza di fede del popolo d’Israele, frutto di diverse tradizioni orali e scritte. Sono la proiezione all’indietro dell’esperienza storica vissuta lungo 5 secoli (x-v a.C.): la problematica che attraversa l’anima umana è proiettata su uno sfondo cosmico per dire che si tratta di una realtà universale.
Genesi 1-11 è una «narrazione storica», nel senso che tematiche universali come dolore e morte, violenza gratuita e organizzata, lavoro e fatica, disgregazione dell’ambiente e cataclismi, sofferenza degli innocenti e successo degli ingiusti, attrazione dei sessi e dolore del parto, mistero della vita e mortalità, società e sovversione dell’ordine morale… sono patrimonio dell’umanità che cammina nel tempo della storia. Sempre.
Genesi 1-11, però, supera i confini di un tempo specifico o di una generazione e per questo vengono collocati «in principio», perché fanno parte del patrimonio storico che ogni generazione lascia a quella successiva. Ieri come oggi e come domani. A distanza di almeno 3 mila anni, infatti, anche oggi siamo alle prese con gli stessi interrogativi.
Ai quali interrogativi, l’uomo biblico dà una risposta di fede, che può essere sintetizzata così: l’uomo/Adam che non riconosce la «signoria» di Dio, cioè, non accetta il proprio limite di creatura e si ribella nel tentativo di sostituirsi a Dio stesso, va incontro a una serie di fallimenti senza ritorno.
Adam disponeva del giardino di Eden; era «signore» di tutto il creato; dove svolgeva un compito sacerdotale di rappresentanza. Egli era la «statua/immagine» del Creatore, la coscienza vigile dell’intero creato attraverso l’esercizio di una «signoria vicaria» che avrebbe dovuto fare sperimentare al creato la provvidente pateità di Dio-Signore.
L’uomo poteva «dare il nome» agli animali, cioè esercitare su di essi un compito non di dominio, ma una primazia di signorilità: come il sacerdote nel tempio di Gerusalemme rappresentava liturgicamente Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio attraverso il sacrificio perpetuo e il sacrificio di lode (Sal 53,8; 115,8; 1Mac 4,56; Eb 13,15), così Adam nell’Eden, tempio cosmico, celebrava la liturgia di lode in rappresentanza e in comunione con il creato: umani, animali e cose. Il «principio» o fondamento della creazione era l’armonia del creato, come contesto dell’armonia del regno vegetale, animale e umano e segno dell’armonia pacificata dell’animo umano. Ad Adam non basta.
Egli vuole essere Dio, non solo la sua immagine; non accetta di essere quello che è, ma vuole diventare chi non è, introducendo nel suo cuore, nella relazione con la donna e nel mondo intero il germe del disordine e divisione. Per responsabilità dell’uomo il virus della disgregazione è inoculato nel creato, nel mondo animale, vegetale e inanimato.
Quando la persona perde di vista il confine della propria consistenza e identità interiore e vuole essere altro da ciò che realmente è, pone in atto un processo dissolutivo di sé e travolge tutto ciò che incontra. Egli separa così l’esperienza dalla coscienza, il proprio vissuto storico (del momento) dal proprio progetto complessivo (il dovere essere del proprio io profondo), frantuma ogni principio di coerenza nella verità, la quale non è più un obiettivo da cercare, ma una parzialità imposta come verità assoluta.
La persona che perde di vista il punto di partenza, le sue radici (l’Eden che ne determina l’individualità limitata) e il suo fine (l’immagine che ne esprime la capacità indefinita di relazione creativa), smarrisce se stessa, si attorciglia come un serpente in meccanismi opachi di distruzione, che deprimono la coscienza e ne fanno un soggetto gracile di feroci distruzioni contro se stesso e l’ambiente circostante. Senza più Dio come Signore e principio della creazione, le conseguenze rotolano come su un piano inclinato.
La donna non è più compagna di vita e viaggio alla pari, ma strumento nelle mani del potere maschile, che trasforma anche la relazione d’amore in possesso violento e di dominio: «Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli dominerà su di te» (Gen 3,16). La relazione sessuale, che doveva essere il sigillo dell’armonia perfetta, il sacramento visibile del volto di Dio in quanto «immagine e somiglianza», diventa invece campo di violenza e sopraffazione.
Senza il riconoscimento di Dio come Padre, Abele non è più riconosciuto come fratello, ma diventa ostacolo al successo di Caino, che per questo lo vuole uccidere (Gen 4): nasce l’omicidio/fratricidio. I fratelli diventano «extracomunitari» l’uno all’altro, ieri e oggi.
All’Adam che rinnega Dio creatore, la natura stessa si ribella e non ne riconosce più la signoria: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con travaglio ne trarrai nutrimento… spine e cardi farà spuntare per te» (Gen 3,17-18).
All’uomo che si rivolta contro Dio, l’intero creato si rivolta con violenza sovrumana: il diluvio sommerge la terra intera e solo otto persone si salvano (Gen 6). L’uomo che disattende la Torà/Legge di Dio creatore è incapace di riconoscere qualsiasi legge morale come equilibrio di convivenza: nascono poligamia e vendetta smisurata nella proporzione di uno a sette (Gen 4,19.24).
Dio non aveva posto Adam nel giardino di Eden perché ne spadroneggiasse secondo il suo capriccio, ma con un progetto di armonia e sviluppo ben preciso. I due verbi usati in Gen 2,15 sono fondamentali nella teologia biblica ed esprimono la dimensione interiore che si rapporta sempre con la natura di Dio. In ebraico l’espressione suona così: le’abedàch uleshamaràch: per servirlo e per custodirlo; mentre il greco della lxx dice: ergàzesthai autòn kai fylàssein, per lavorarlo e custodirlo.
Servire deriva da ’abàd (290 volte nell’AT) e contiene l’idea di fare e in arabo di onorare/obbedire. Servire vuol dire ascoltare e rispondere ai bisogni di colui che si serve. Dalla stessa radice ’.b.d. deriva ’ebed, servo, che nella bibbia ha anche valore onorifico: è servo il diplomatico che rappresenta il re. Il Servo di Yhwh di cui parla Isaia (52,13-53,12) è il misterioso personaggio eletto perché offra la sua vita in espiazione e col quale s’identificherà Gesù nella sua passione e morte.
Custodire da shamar (420x nell’AT) contiene l’idea di avere a cuore, prestare attenzione e nella scrittura è spesso riservato alla Torà/Legge: osservare/custodire la Torà è vivere; disattendere i precetti del Signore è avviarsi alla morte.
In questo senso i due verbi servire e custodire sono sinonimi, perché pongono il rapporto dell’uomo con il creato nella dimensione del servizio e questo servizio ha la stessa dimensione della Parola di Dio che deve essere ascoltata e custodita. Ascoltare/custodire/osservare (le parole del)la Torà è quasi un ritornello che popola l’intera scrittura ebraico-cristiana: Dt 17,19; 28,58; 30,10; 31,12; 32,46; 1Cr 22,12; Sal 98,7; 118,34.44.55; Mt 19,17; Lc 1,6; 18,20, Gv 14,15.21; 15,10 ecc.
Qui sta il fondamento teologico della creazione: la natura non deve solo essere rispettata per utilità, ma deve essere riconosciuta come soggetto di salvezza e redenzione. Le conseguenze, infatti, della disobbedienza dell’uomo si sono riversate sul creato, che così è associato e coinvolto nella storia distruttiva dell’uomo.
Lo esprime drammaticamente san Paolo nella lettera ai Romani (8,19-22), dove paragona il creato a una partoriente in preda alle doglie: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto».
L’uomo capace di trasformare un giardino di armonia in un deserto di sofferenze è capace di tutto; infatti lo vediamo all’opera instancabilmente: guerra, violenza, corruzione, potere come dominio, egoismo come sopruso, arrivismo, liberismo senza legge e morale, ricerca della propria realizzazione «qui e subito» a scapito degli altri sono le cause «originali» della depravazione dell’ambiente, che da giardino di vita si trasforma in inferno di morte.
L’inquinamento della coscienza e l’oscuramento dell’immagine di Dio nell’uomo-donna sono madre e padre dell’inquinamento della natura che ci sovrasta e ci seppellirà, se non saremo capaci di guardare il «principio» di dignità e libertà che è dentro ciascuno di noi e che si chiama responsabilità. Sì, coscienza della responsabilità non solo di se stessi, ma anche del mondo che ci circonda, degli animali, piante e cose inanimate che fanno parte del mondo che ci è stato consegnato per servirlo e custodirlo e consegnarlo alle generazioni future con lo stesso atteggiamento con cui consegniamo la Parola.
Davanti al tribunale dei nostri figli futuri e al tribunale di Dio, dobbiamo rispondere non solo della gestione della nostra «immagine e somiglianza» di lui, ma anche dell’etica delle nostre relazioni e dell’ambiente dove siamo vissuti che, in quell’ora suprema, si ergerà contro di noi per accusarci di essere colpevoli di assassinio cosmico o per testimoniare a favore di noi per essere stati fedeli servitori e custodi del giardino con la signorilità di chi restituisce qualcosa che ha ricevuto in affidamento.
Paolo Farinella