DOSSIER ZAMBIAPaese dei balocchi

A pochi passi dal centro di Lusaka, sorgono quasi una di fronte all’altra due imponenti costruzioni, circondate da un mare di automobili. Sono Shoprite e Arcades due centri commerciali più esclusivi della capitale. Accolgono nelle loro modee strutture negozi di ogni genere, farmacie, supermercati e persino, nel caso di Arcades, l’unica pista da bowling di tutta la città. Un autentico «paese dei balocchi».
Shoprite, catena sudafricana di supermercati che ha invaso lo Zambia, è una brillante espressione di quella che viene definita «economia formale», ovvero l’economia delle imprese, banche, negozi, liberi professionisti, lontana anni luce dall’economia «informale», fatta di mercati sulla strada e di prezzi improvvisati, cui si affidano la maggior parte degli zambiani.
Jeep, berline, auto sportive affollano i parcheggi. Sono le auto della «Lusaka bene»: politici, uomini dell’alta finanza, funzionari di ambasciate e Ong, medici affermati e banchieri. A Shoprite possono trovare di tutto, dal pacchetto di caramelle alla villa con piscina nel verde della savana, dal set da golf alle vitamine per il cane. Arrivano con i loro fuoristrada, parcheggiano e si affrettano all’interno del centro commerciale.
Fuori dal parcheggio, alcuni fra i venditori di strada li seguono con lo sguardo finché varcano le porte dello Shoprite. È la loro presenza, non i cartelli luminosi, a indicare la vicinanza del centro commerciale. Più ci si avvicina alla struttura più il numero di tali venditori diventa consistente. Arrivano a piedi o a bordo dei tipici furgoncini blu e si appostano in fila lungo la strada di accesso al parcheggio.
Stanno al loro posto, mai si azzarderebbero a entrare in quel paradiso dello shopping. Costretti a vivere con 40 euro al mese e schiacciati da un’inflazione al 20%, si concedono almeno il «lusso quotidiano» di osservare: guardano chi entra e chi esce, al momento opportuno si avvicinano a turisti e uomini d’affari. Propongono giornali, frutta, occhiali da sole, un passaggio in taxi, una coca cola, vestiti e accessori. Se va bene intascano pochi spiccioli e la sicurezza che «anche oggi si mangerà qualcosa»; se va male si preparano a rincorrere il prossimo cliente.

Se non fosse per i prezzi in kwacha, entrando a Shoprite ci si dimenticherebbe di essere in Zambia. Tutto ricorda i grandi centri commerciali europei. I turisti lo frequentano volentieri, perché vi trovano tutti i prodotti a loro familiari.
Tra i numerosi negozi presenti troviamo una delle farmacie più foite e costose di tutto lo Zambia. Qui possiamo trovare qualsiasi tipo di medicinale, non solo per gli uomini ma anche per gli animali: su uno scaffale di legno troviamo vitamine, confezioni di shampoo, balsamo e lozioni per cani e gatti. Accanto scopriamo tutto il necessario per gli atleti: integratori, sali minerali, persino pastiglie di creatina e aminoacidi. Non mancano cosmetici e prodotti di bellezza.
Una confezione di crema solare costa 95 mila kwacha, circa 16 euro, tanto quanto guadagna mediamente un operaio in 6 giorni. Tutto questo in una regione dove è presente un solo ospedale distrettuale statale situato nella vicina città di Kafue che da solo deve rispondere alle esigenze di 240 mila persone.
Percorrendo il corridoio principale del centro commerciale, sorvegliato da guardie armate, scorgiamo un negozio di elettrodomestici, un bar, una giornielleria, alcuni negozi di vestiti, un centro per l’abbonamento alla tv satellitare e una banca. Alcuni dei «miti» che fanno ormai parte della fantasia dei bambini dei paesi ricchi sono sbarcati anche qui: l’uomo ragno e tutti i suoi gadget fanno la loro bella figura nel reparto giocattoli. I bambini più «fortunati» possono persino aspirare a una Ferrari telecomandata. Un «lusso» da 470 mila kwacha, circa 78 euro.
Alla cassa una signora bionda sistema le borse nel carrello ed esce dal supermarket. Sale sulla sua auto e si dirige velocemente verso l’uscita. Passa accanto ai venditori che gli porgono i loro prodotti e si immette nella strada principale, inconsapevole di aver varcato ancora una volta il confine tra due mondi.

Per trovare un po’ d’Africa non resta che andare nel negozio di Cd (a onor del vero, vende più cassette che compact disc): tanta musica tradizionale e tanti artisti locali. Fra tanti nomi per noi semisconosciuti spuntano i Beatles e, a sorpresa, Andrea Bocelli.
Poco distante, il centro scommesse richiama curiosi e affezionati: sul muro, un manifesto invita a partecipare al concorso che sceglierà il volto della campagna pubblicitaria di una nota marca di cellulari. Al negozio di articoli sportivi si possono trovare le magliette dei più famosi club sportivi inglesi, accanto a palloni da rugby e mazze da cricket. Proprio di fronte, l’agenzia immobiliare promette ville da sogno appena fuori città. Piscina, ampi giardini, in un caso persino la dependance per la servitù.
Michele Luppi – Roberta Voltan

Michele Luppi – Roberta Voltan




DOSSIER ZAMBIAPaese di contrasti

Un ricco passato grazie alle miniere di rame, un povero presente a seguito di scelte politiche sbagliate, un futuro reso incerto dall’incidenza dell’Hiv: questo è lo Zambia, la cui capitale, Lusaka, è tutto e il contrario di tutto. Ville circondate da alte mura vivono accanto alle casupole dal tetto di lamiera. A separarle, le strade sterrate e piene di solchi dei compound, le bidonvilles africane, che i pulmini affrontano con sussulti e rigurgiti. Di là le belle case, con portico e giardino e norme igieniche adeguate. Di qua, una realtà fatta di privazioni: niente acqua potabile, niente luce elettrica, niente scuole, niente presidi sanitari. I bambini giocano con i piedi nelle fogne.
Non siamo nella periferia, siamo nel centro della città. La povertà dei quartieri di Matero, Lilanda, Kalingalinga… convive con la ricchezza di via dell’Indipendenza. Un’indipendenza doppia, perché questa parte si è affrancata prima dalla colonizzazione poi dalla miseria.
Ai lati delle strade la maggior parte della gente va a piedi, portando in testa un fagotto con l’essenziale. Povera umanità che percorre chilometri per andare al mercato; chilometri la mattina presto per andare a messa.
Uomini, donne e bambini sfilano silenziosi davanti alle vetrine delle concessionarie, che tengono in bella mostra gli ultimi modelli della Mercedes. Ma nessuno potrà mai permettersi un’automobile con l’economia informale: pochi frutti della terra venduti dietro a banchetti improvvisati o seduti sui marciapiedi. Il governo chiude un occhio sulle norme igieniche non rispettate, sulle licenze inesistenti. Le tasse nell’erario dello stato entrano grazie ai due enormi centri commerciali situati poco più in là. Vendono proprio di tutto. Uno shampoo costa sugli 8 euro; una famiglia del compound vive con meno di un euro al giorno.

Lo Zambia è un paese dove esiste la corruzione, ma esiste anche la denuncia. È un paese dove il gran numero di nascite non riesce a compensare la mortalità infantile; dove i bisogni minimi non sono assicurati. L’educazione pubblica si affianca a quella delle scuole parrocchiali; gli 8 euro all’anno a testa stanziati dal Ministero della salute sono un’inezia. Per fortuna ci sono i missionari e le organizzazioni inteazionali che cercano di garantire un minimo di assistenza sanitaria a tutti. I volontari suppliscono alla carenza di personale medico.
Prevenire l’Hiv è la parola d’ordine dei manifesti lungo le strade, ma non tutta la gente è in grado di leggere. Lo sanno bene i pubblicitari di professione; così, accanto, i cartelli che promuovono coca-cola e telefonini, utilizzano le immagini: donne fascinose dagli abiti eleganti. Anche questo stride.
Nei locali di ritrovo i ballerini coinvolgono il pubblico con i loro movimenti sensuali. Gli zambiani la musica ce l’hanno dentro. E la portano anche nelle chiese dove, con chitarre e maracas animano le messe. Al ritmo degli spiritual, esprimono la loro interiorità. Ecco che il profano ha lasciato il posto al sacro.

È calda l’estate zambiana, la terra inaridisce, la vegetazione appassisce. Fino a che sopravvengono le piogge torrenziali. Acqua, benedetta o maledetta. Quell’acqua, elemento primordiale che da sempre porta la vita, qui porta la morte, porta il colera.
Non c’è molto turismo in questo paese, ma non si può dire che non ci sia scelta. Chi va in ostello e chi all’Hotel Continental, solo 400 stanze e un ingresso fiabesco. E per chi ancora non si accontenta, basta scendere a Livingston: 600 chilometri ben vengano per dormire all’Hotel Royal, 600 euro a notte, naturalmente sempre a un passo dal compound. Nell’hotel i bianchi, nel compound i neri.
Lo Zambia è un paese complesso. Secondo un missionario servono almeno tre anni per raccapezzarsi: il primo si impara a respirare; il secondo a capire; il terzo si può cominciare a fare qualcosa.

Romina Gobbo




Un’esperienza di riconciliazione da esportare

MIRACOLO IN CORSO

Dialogo e perdono hanno guidato il Sudafrica sulla via della pace e della riconciliazione nazionale, diventando un modello per altri popoli in situazioni di conflitto. Con gli stessi valori umani e cristiani vengono affrontati i problemi che ancora assillano il paese.

Lo scorso aprile, il Sudafrica ha celebrato 10 anni di libertà. Il cambio politico, dalla minoranza bianca alla maggioranza nera, è avvenuto in modo pacifico e, fin dall’inizio, si è respirato uno spirito di riconciliazione, salutata come un miracolo e un segno di speranza. Nessuno di noi pensava che pace e democrazia si sarebbero potute realizzare tanto velocemente ed efficacemente come in Sudafrica.
Pur con tutti i suoi limiti, l’esperienza sudafricana è sicuramente uno dei segni del nostro tempo e quindi altamente significativa per la riflessione teologica cristiana. Essa annuncia la possibilità di pace e riconciliazione in contesti di conflitti apparentemente irrimediabili.
Tuttavia, è importante ricordare che questa riconciliazione è tutt’oggi incompleta e presenta seri problemi che dovranno essere assolutamente affrontati in un prossimo futuro. Tutto sta nell’atteggiamento da scegliere: vedere tale riconciliazione incompleta come un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Nella situazione attuale, l’avere un bicchiere pieno a metà, invece di un bicchiere vuoto o rotto, è già un dono per il quale dobbiamo essere grati.

Il ruolo di guida

Sono molti nel mondo a credere che il miracolo sudafricano sia stato frutto, quasi esclusivamente, del lavoro di una sola persona, un leader e statista eccezionale: Nelson Mandela. Non c’è persona al mondo che non sia stata profondamente impressionata dalla sua totale mancanza di risentimento e dal suo spirito di perdono, nonostante i 27 anni di dura prigionia.
La sua figura impressiona per la libertà personale, che gli permette di esprimere le proprie idee e fare ciò che crede sia giusto, senza essere condizionato da ciò che può pensare o dire la gente, compresi i sostenitori più accaniti. Siamo stati testimoni dei suoi straordinari gesti di riconciliazione, come quando andò a prendere un tè da Betsie Verwoerd, l’anziana vedova dell’ideatore dell’apartheid.
Mandela non è l’unico grande leader espresso dal Sudafrica. Walter Sisulu, per esempio, deceduto l’anno scorso, fu una persona eccezionalmente umile e nobile, che ispirava sentimenti patei e mai fu tentato dalla fame di potere, prestigio o denaro. È sempre rimasto nell’ombra, anche se Mandela lo ricorda come suo consigliere e ispiratore. Entrambi sono stati in prigione a Robben Island.
Inoltre, non possiamo dimenticare Albert Luthuli, primo sudafricano a vincere il premio Nobel per la pace, e Oliver Tambo, fine e infaticabile guida dell’African National Congress (Anc), che visse in esilio durante gli anni cupi della prigionia di Mandela e Sisulu e che, purtroppo, non visse abbastanza a lungo per assistere alle prime elezioni democratiche del paese. Stesso destino toccò a Stephen Biko, torturato e ucciso nel 1979 dalla polizia dell’apartheid, ma ancora ricordato come eroe e sorgente d’ispirazione.
Anche due dirigenti del Partito comunista sudafricano meritano di essere menzionati per il significativo contributo al miracolo della riconciliazione: Chris Hani, figura estremamente importante e carismatica, assassinato dai bianchi di estrema destra nel 1993, e Joe Slovo, militante dell’Anc. Nonostante fosse un bianco, Slovo seppe guadagnarsi la stima di tutti e giocò un ruolo fondamentale nel negoziato e nel primo governo, prima della morte avvenuta alla fine degli anni ’90.
Anche grandi personalità religiose contribuirono in maniera significativa al processo di pace e riconciliazione del Sudafrica: il vescovo anglicano Desmond Tutu, il dottor Beyers Naude, direttore del Christian Institute e l’arcivescovo cattolico di Durban, Denis Hurley. E poi migliaia di «eroi sconosciuti», tra cui molte donne, imprigionati, torturati e uccisi affinché il popolo sudafricano potesse godere la libertà.
Ciò che l’esperienza sudafricana ci insegna è che la giustizia, la pace e la riconciliazione possono essere raggiunte solo grazie a una leadership efficace, cioè, non solo forte e capace di imporre decisioni, ma soprattutto umile, onesta, disinteressata e fondata su una profonda libertà personale.
Usando un concetto cristiano, potremmo definire questo stile come «santità», applicata alla guida di un popolo. Il fatto che essa sia stata vissuta da persone che poco o nulla avevano a che fare con la chiesa, è una sfida alla nostra teologia.

Politica di non-razzismo

L’Anc, a cui aderiva la maggior parte dei grandi leaders politici, ha sempre sostenuto una politica non razzista. Il vero nemico, sostenevano, non era la popolazione bianca, il National Party o il presidente segregazionista P. W. Botha, ma l’ingiustizia insita nel sistema dell’apartheid. Era il sistema da distruggere, non la gente.
Il conflitto, così come era inteso, non era tra minoranza bianca e maggioranza nera, ma tra politica razzista e politica non razzista. Di fatto, i bianchi che erano realmente convinti della necessità di una politica anti-razzista lottarono a fianco dei neri, mentre alcuni neri che, per qualsiasi ragione, decisero di adattarsi al sistema di segregazione razziale, cornoperarono con la politica razzista dei bianchi. Questo avvenne soprattutto nelle cosiddette homelands o bantustans.
Il conflitto sudafricano non fu tribale, né etnico e tanto meno religioso. Difatti, escludendo tutta la gente di colore, senza distinzione di cultura, religione o origine etnica, il regime dei bianchi riuscì a suscitare l’unanime opposizione di tutti i gruppi etnici e religiosi neri. Dato che solamente coloro che erano giudicati di pura stirpe bianca erano ammessi al voto, il conflitto divenne tra razzismo e democrazia più che tra bianchi e neri semplicemente.
Naturalmente non tutti leggevano la situazione in questo modo. Ci furono interminabili discussioni se essere non-razzisti o anti-razzisti, se ammettere o meno i bianchi nella lotta, se bisognava parlare di lotta di razza o di classe. Ma non c’è dubbio che la politica di trattare il sistema di apartheid in sé come il vero nemico contribuì in maniera sostanziale alla tranquilla transizione politica e, pur con tutti i suoi limiti, alla riconciliazione che ne è seguita.
Tutto ciò ha pure reso possibile ai cristiani e persone di altri credi religiosi di appoggiare la lotta con una teologia di giustizia e pace; fu anche possibile, tra l’altro, stigmatizzare il peccato di razzismo senza odiare i peccatori.

Ruolo della società civile

Un altro elemento tipico del cambiamento in Sudafrica fu lo sviluppo di una forte società civile. Siccome solo ai partiti politici di opposizione più moderati era permesso di operare, i veri oppositori dell’apartheid, bianchi e neri, agirono dentro e attraverso gli organi della società civile. Molti sudafricani erano infatti membri di movimenti «fuori legge» come l’African National Congress (Anc), il Pan African Congress (Pac) o il South African Communist Party (Sacp), ma di fatto lavorarono in movimenti civili come sindacati, movimenti giovanili, studenteschi e femminili, come pure in organizzazioni di volontariato o non governative, che si occupavano di realtà sociali come povertà, educazione, analfabetismo o handicap. Chiese e comunità religiose, specialmente i movimenti e organismi religiosi impegnati nel campo di giustizia e pace erano pure viste come parte integrante della società civile.
All’interno di questi organismi, gente di differente colore e credo impararono a lavorare uniti contro il comune nemico: l’apartheid. Nel 1983, quasi tutte queste organizzazioni e movimenti, compresi alcuni movimenti ecclesiali, si unirono per formare il fortissimo Fronte democratico unito (Udf).
L’incrollabile fiducia nella società civile è uno dei tratti distintivi che ha caratterizzato l’esperienza sudafricana, rispetto ad altri stati africani o mondiali dove gli unici protagonisti in conflitto sono stati solo i politici di professione. Ne è un esempio la Repubblica democratica del Congo, dove la società civile non ha alcuna voce. I conflitti sono lotte di potere tra uomini politici e i loro eserciti.
È impossibile esagerare il ruolo della società civile nel miracolo sudafricano, specialmente dopo che giunse a formare un fronte comune contro l’apartheid, facendo sì che sfociasse in una vera lotta di popolo, in cui anche le comunità religiose poterono fare la loro parte.
È stata la fede delle comunità a rendere in gran parte possibile la riconciliazione in Sudafrica. Le comunità di fede, specialmente le chiese cristiane (anche se non tutte), appoggiando la lotta all’apartheid e rifiutandone l’ideologia come «eretica», hanno aiutato a smantellare la segregazione razziale e portare i politici e rivoluzionari intorno al tavolo dei negoziati.

Il cammino dei negoziati

Da anni il governo del National Party aveva cercato di contenere la rivoluzione. Al tempo stesso, l’Anc era impegnato in azioni di guerriglia urbana, nota come lotta armata; la gente comune, specie attraverso l’Udf, stava rendendo il paese ingovernabile; le chiese delegittimavano la politica dell’apartheid, mentre le sanzioni inteazionali facevano vacillare l’economia.
Il regime aveva tentato ogni forma possibile di repressione per mantenere lo status quo: arresti di massa, torture, uccisioni, intimidazioni, propaganda, giustificazioni teologiche, spionaggio, infiltrazioni, tattiche di divide et impera, massacri orrendi… fino a trovarsi a un bivio: raggiungere un qualche tipo di accordo, oppure proseguire nella distruzione reciproca, affogando il paese in un bagno di sangue.
Dal canto suo, l’Anc aveva sempre spinto per una soluzione negoziata. Le varie forme di lotta, compresa quella armata, tendevano a questo: condurre il regime al tavolo dei negoziati. I leaders dell’Anc sapevano perfettamente che una vittoria militare o un colpo di stato erano impossibili.
In entrambe le parti quasi tutti arrivarono a capire che un negoziato doveva offrire la possibilità di una vittoria per tutti, senza vinti né vincitori. Il National Party e i suoi alleati dovevano capire che non ci sarebbe stata alcuna riconciliazione senza «giustizia»; l’Anc e i suoi alleati dovevano rendersi conto che non ci sarebbe stata alcuna pace senza «compromesso».

Pace senza giustizia

Nel corso degli anni un numero crescente di bianchi venivano implorando pace e riconciliazione; però non erano disposti a sacrificare i loro privilegi e concedere uguali diritti alla maggioranza nera, in una nazione indivisa. Volevano la pace senza la giustizia. Fu necessario negoziare duramente per cambiare questa visione.
Al contrario, la maggioranza nera oppressa era sospettosa verso ogni compromesso che, in un modo o nell’altro, li avrebbe lasciati in una situazione di svantaggio o discriminazione. Era urgente trovare una risposta alle paure dei bianchi. Alla fine i negoziatori trovarono modi ingegnosi per aggirare l’ostacolo, facendo concessioni provvisorie chiamate sunset clauses (clausole del tramonto). Una di queste, per esempio, fu il prolungare la durata delle amministrazioni municipali.
Fu quindi possibile accordarsi su una costituzione provvisoria, che consentisse di giungere a elezioni democratiche, per poi scrivere una costituzione definitiva, in cui tutti avrebbero avuto il diritto di esprimersi. Oggi abbiamo una delle costituzioni più progressiste del mondo e un’efficace corte costituzionale. Risultato di tale processo è la crescita di una cultura dei diritti umani e una società fondata sulla legalità.
Il processo di riconciliazione in Sudafrica si fonda nettamente sulla fede da tutti condivisa nel valore del dialogo. Per questo, oggi, sudafricani bianchi e neri viaggiano nel mondo per portare il loro aiuto nelle situazioni di conflitto, «predicando» i valori delle soluzioni negoziate.
Una caratteristica dell’esperienza sudafricana merita di essere ricordata: i negoziati non sono stati mai mediati o facilitati da forze estee, neppure quando essi minacciavano di interrompersi o quando, in un paio di casi, erano arrivati a un punto di rottura. Il fatto che gli stessi negoziatori furono capaci di raccogliere i pezzi in continuazione e riportare il processo in carreggiata, deve essere attribuito alla eccezionale saggezza e magnanimità dei nostri leaders.

Commissione verità e riconciliazione

La risoluzione negoziata doveva includere qualche forma di amnistia per le decine di migliaia di persone colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime di apartheid. Senza di essa, non era possibile alcun accordo. L’ultima clausola della Costituzione provvisoria obbligava il futuro governo a stabilire i meccanismi per regolare tale amnistia.
Nel 1995, l’anno dopo le prime elezioni democratiche, fu istituita la Commissione verità e riconciliazione (Trc), composta da 17 membri e presieduta dal vescovo Desmond Tutu, con il mandato di investigare le gravi violazioni dei diritti umani, facilitare la concessione di amnistia a coloro che avrebbero confessato tutto ciò che avevano commesso, provando che lo avevano fatto per motivi politici. Inoltre, la commissione doveva suggerire le modalità per restituire alle vittime la propria dignità e suggerire qualche forma di risarcimento.
Negli anni seguenti, furono raccolte più di 20 mila dichiarazioni da parte delle vittime, di cui 2 mila in udienze pubbliche, trasmesse integralmente dalla radio e in parte dalla televisione. Ci furono 8 mila domande di amnistia, anch’esse rese attraverso udienze pubbliche.
Per più di due anni i sudafricani dovettero ascoltare rivelazioni quasi giornaliere sui traumi del loro passato. Il faccia a faccia tra carnefici (alcuni pentiti, altri no) e vittime (alcune disposte a perdonare, altre no), fu un’esperienza ricca di emozione.
Essendo un tribunale para-legale, non poteva pretendere il pentimento dei responsabili, né il perdono delle vittime, tanto meno arrivare a fornire le prove sulla sincerità di entrambi. Questo tipo di riconciliazione appartiene infatti all’ambito religioso (come il sacramento della confessione) o alla sfera delle relazioni interpersonali.
Ci furono alcune dimostrazioni molto drammatiche di rimorso e grandi gesti di perdono sia durante le udienze della Trc che negli anni successivi. Bisogna però sottolineare che, per i più, non fu per niente facile constatare l’impunità di alcuni dei peggiori responsabili di crimini contro l’umanità. Alcuni capi dell’apartheid non si presentarono neppure davanti alla Trc. Era il duro prezzo da pagare per raggiungere la pace. Molto probabilmente si sarebbe potuto fare di più per le vittime; ma non c’è alcun dubbio che la Trc è stata un potentissimo strumento di riconciliazione in Sudafrica e senza tale esperienza non si potrebbe parlare di pacificazione del paese.

La sfida continua

Per svariate e serie ragioni, il processo di riconciliazione in Sudafrica rimane incompleto. Il razzismo, per esempio, rimane diffuso. È una forma mentale che, si sapeva, non poteva scomparire da un giorno all’altro. Si dice che è stato solo messo sotto il tappeto. Affiora di tanto in tanto e, leggendo tra le righe, se ne può riconoscere la presenza.
I bianchi, oggi, sono pronti a negare di essere «razzisti», lo sentono come grave insulto. Ma poi, capita spesso di sentire declamare frasi del genere: «Io non voglio essere razzista, però…».
Abbondano le incomprensioni fra bianchi e neri. Alcune sono di matrice culturale, altre nascono dall’incapacità di riconoscere quanto la comunità nera ha dovuto soffrire durante il regime. Nel loro insieme, i bianchi mancano di riconoscenza per il miracolo di riconciliazione avvenuto in Sudafrica.
Bisogna dire che non tutte le differenze e divisioni sono di carattere razziale e che tutti stiamo imparando, in modo sorprendente, a vivere insieme come nazione. I dirigenti attuali fanno tutto il possibile per celebrare e promuovere la riconciliazione. Il 16 di dicembre, festa nazionale che una volta celebrava una vittoria militare, ora è il nostro «giorno della riconciliazione». Lo sforzo per la riconciliazione continua, perché, come ricorda spesso il presidente Thabo Mbeki, siamo ancora una nazione divisa.
L’altro grande male è la povertà. Molto è stato fatto: costruzione di milioni di case, estensione del servizio idrico ed elettrico, miglioramento di strade e scuole, economia in espansione… eppure molte persone sono ancora disoccupate e vivono in miseria. La giustizia economica sarà la grande sfida del futuro.
Problema speciale è la criminalità, cresciuta enormemente con la fine dell’apartheid. Non sappiamo perché. Vi sono senza dubbio molti fattori concomitanti che spiegano l’aumento di rapine a mano armata, furti di auto, assalti ad abitazioni e banche, spaccio di stupefacenti, frode, corruzione, violenze sessuali e sui minori. Sarebbe troppo lungo analizzae le cause. Diciamo, tuttavia, che il Sudafrica non è il tipo di paese che permette a questi fatti di passare inavvertiti e senza la volontà di cambiarli, ma cerchiamo di aiutarci a vicenda per non diventare apatici e compiacenti.
In cima alla lista di tutti i problemi troneggia quello dell’Hiv/Aids. Il Sudafrica è uno dei paesi più colpiti al mondo da tale pandemia.
Nel prossimo futuro, la nostra democrazia, economia e lo stesso processo di riconciliazione saranno messi in crisi dalla morte di milioni di giovani, molti dei quali istruiti ed economicamente produttivi, da milioni di orfani e da una popolazione sempre più traumatizzata da questa nuova tragedia.
Il dramma dell’Hiv/Aids aggrava la situazione psicologica della popolazione sudafricana, già profondamente traumatizzata dal terrorismo del passato e dalla criminalità del presente. Altri soffrono il complesso di colpa o d’inferiorità. Individualismo e avidità si insinuano dappertutto. Molti guardano al futuro con cinismo e disincanto. Abbiamo poca pace interiore e poca libertà personale. Anche questo è un grosso problema.
D’altro canto siamo un paese dinamico, pieno di energia e attivismo. Discutiamo, dibattiamo, litighiamo e ci accusiamo a vicenda. Ma di fronte ai problemi del razzismo, povertà, delinquenza, corruzione, violenze e Aids, organizziamo proteste, mobilitazioni, dimostrazioni e campagne. Nel linguaggio politico del Sudafrica rispondiamo con il toyi-toyi (danza dei militanti contro l’apartheid, ndr).
Questo è un segno di speranza per il futuro, perché, tra l’altro, queste forme di protesta riuniscono persone di differenti razze e fedi e culture. Dal punto di vista della speranza cristiana, poi, nonostante abbiamo fatto tanta strada, dobbiamo andare ancora molto più lontano.
Lo Spirito di Dio è sempre stato attivo in mezzo a noi; ma dobbiamo riscontrare che pace e riconciliazione sono ancora limitate, poiché molti di noi, presi individualmente, non sono in pace con se stessi, non sono ancora in pace con la terra né con Dio. Senza un maggiore grado di pace interiore, gli esseri umani, in Sudafrica come altrove, troveranno sempre difficile vivere tra loro in pace e armonia.

Albert Nolan




OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO Largo alle donne (3)

Target 2015

L’offerta di pari opportunità è l’Obiettivo numero tre, che riconosce le sofferenze causate dalla mancata possibilità di studio e lavoro e il ruolo delle donne nella costruzione della società.

Almeno due terzi degli analfabeti nel mondo sono donne. Colmare questo divario, offrendo a entrambi i sessi le medesime possibilità di crescita, studio e lavoro, rappresenta un obiettivo cruciale, il numero 3 nell’agenda del Millennio. Il suo raggiungimento è la chiave per aprire altre porte, dalla salute infantile allo sviluppo economico e sociale di un paese.
Il ruolo delle donne nella società è considerato fondamentale per il progresso e lo sviluppo: in Asia, Africa e America Latina, dove alle donne è stata data la possibilità di accedere all’istruzione e di lavorare in piccole imprese, le famiglie sono più forti, così pure l’economia del paese. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio sono strettamente collegati l’uno all’altro, in una visione complessiva delle necessità del mondo. Il miglioramento delle condizioni di povertà e fame (obiettivo 1) passa nelle mani del miglioramento dell’alfabetizzazione in senso globale (obiettivo 2) e delle opportunità offerte alle donne e alla loro autonomia (obiettivo 3). Ma l’accesso alla scuola e al mondo del lavoro è a sua volta possibile nella misura in cui si migliorano le condizioni generali di vita, riducendo il tasso di povertà (obiettivo 1).

UN MONDO A PARTE

L’Obiettivo numero 3 si concentra dunque sul mondo femminile e sull’importanza di offrire a tutte le donne l’opportunità di scegliere e costruirsi una vita autonoma. Sono purtroppo numerosi nel mondo gli esempi in cui l’essere nati donna ha segnato la vita fin dal primo istante: istruzione negata, matrimoni precoci e combinati, dipendenza prima dagli uomini della famiglia di origine poi dal marito imposto, impossibilità di scegliersi un lavoro e avere una retribuzione e quindi un’autonomia rispetto all’uomo di tuo, prostituzione.
Aprire alle donne le porte all’istruzione e alla possibilità di un lavoro permetterebbe loro di uscire da una spirale di sofferenza e violenza fisica e psicologica, che può anche concludersi con la morte. In Messico, negli ultimi dieci anni, circa 1.000 ragazze sono scomparse e quasi 400 uccise in circostanze violente; in Guatemala, negli ultimi quattro anni, sembra siano oltre 1.000 le donne violentate e uccise e 25.000 i casi di violenza domestica di cui si è venuti a conoscenza.
La mancanza di prospettive e progetti futuri può portare le donne al gesto estremo: in Cina, le donne che vivono nelle zone rurali, in condizioni di maggiore povertà e isolamento, tentano il suicidio da 3 a 5 volte in più rispetto alle donne di città. In Iraq, Afghanistan, Kurdistan, sono numerose le donne ricoverate per cosiddetti «incidenti domestici»; ma a volte il sospetto, purtroppo senza conferme, di chi cura le loro ustioni quando sopravvivono, è che la realtà sia diversa: è possibile che si siano date fuoco per sfuggire a un destino che, appena adolescenti, le ha viste vendute da padri o fratelli a un marito che non volevano.

TUTTE A SCUOLA

Il 2005 rappresenta una tappa intermedia per il raggiungimento della meta finale per l’istruzione: entro quest’anno dovrebbe essere uguale il numero di ragazzi e ragazze seduti ai banchi delle scuole primarie e secondarie.
Ottenuto questo, entro il 2015 l’uguaglianza deve essere raggiunta per tutti i gradi di istruzione. Rispetto ad altri obiettivi, quello sulle pari opportunità, per lo meno nel campo scolastico, è sulla buona strada e il risultato tutt’altro che illusorio. L’obiettivo per il 2005 sembra sia raggiungibile o quasi nella maggior parte delle zone geografiche: l’Asia dell’Est e il Pacifico sono quasi alla meta e in alcune zone dell’America Latina le alunne superano il numero dei colleghi maschi.
In questo quadro positivo farebbero al momento eccezione, per quanto è possibile valutare, l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale e occidentale. Anche in queste regioni, però, il risultato potrebbe essere raggiunto entro il 2010. Le differenze di scolarità tra maschi e femmine appaiono comunque maggiori nei paesi più poveri e con in generale percentuali di completamento del ciclo primario di studi più bassi.

NEL MONDO DEL LAVORO

Analogamente ai numeri riportati per l’analfabetismo, nel mondo del lavoro le donne con un impiego sono pari a due terzi dei colleghi maschi. Se si considera il lavoro regolarmente retribuito, dal 1990 vi sono stati solo piccoli cambiamenti per il mondo femminile e le possibilità per le donne sono ancora lontane rispetto a quelle dei loro colleghi. Le uniche regioni a dare speranza sembrano essere, al momento, l’America Latina e i Caraibi, dove le donne rappresentano il 43% dei lavoratori retribuiti, e l’Asia dell’est, in cui la proporzione raggiunge il 40%.
Restringendo lo sguardo al settore delle cariche politiche, le percentuali crollano ulteriormente: l’altra metà del cielo occupa circa il 15% dei seggi nei parlamenti nazionali, con ampie oscillazioni da paese a paese, da punte del 30-40% e a crolli fino al 10%, in particolare nell’Africa del nord, nell’Asia del sud e dell’ovest e nell’Oceania.
Si intravedono però alcuni segnali positivi. Per esempio, lo scorso anno in Oman, primo paese del Golfo (seguito a breve da Qatar e Barhain) a dare, nel 1994, il diritto di voto e di eleggibilità alle donne, tre nuovi ministri (Istruzione superiore, Turismo e Sviluppo sociale) erano donne. Inoltre, a maggio in Kuwait il parlamento ha approvato un emendamento alla costituzione: le donne potranno votare e candidarsi alle elezioni.
Peraltro, la questione delle pari opportunità non è da considerare appannaggio esclusivo dei paesi in via di sviluppo. Secondo il rapporto pubblicato a metà maggio 2005 dal Forum economico mondiale (World Economic Forum), che ha valutato l’indice delle differenze uomo-donna (gender gap index) in termini di accesso scolastico, al lavoro, alle cariche politiche e all’assistenza sanitaria in 58 nazioni, l’Italia è addirittura al 45° posto, non solo dopo diversi paesi dell’Unione europea, ma anche africani (come Sudafrica o Zimbabwe), sudamericani (come Colombia o Argentina), asiatici (come Bangladesh o Thailandia).
Certo, le conseguenze delle diverse possibilità offerte in base al sesso sono condizionate dal contesto sociale e culturale in cui si verificano, ma i risultati presentati dal Forum economico mondiale invitano comunque a riflettere e a guardare anche in casa propria.

PROSPETTIVE DI VITA

Ma il discorso sull’offerta di pari opportunità si allarga dalla scuola e dal lavoro ai diversi aspetti della vita quotidiana. Alle donne è in genere affidata la conduzione della famiglia: una maggiore conoscenza e istruzione migliorerebbe le loro condizioni di vita e quelle di tutta la famiglia; avrebbe per esempio effetti positivi sulla salute dei neonati e dei bambini.
Saper leggere, scrivere, sostenere una conversazione, conoscere i propri diritti, sapersi relazionare con gli altri sono capacità che si acquisiscono grazie anche alla frequenza scolastica di primo e secondo livello. Sono capacità e strumenti che possono permettere alle donne di uscire da situazioni difficili e pericolose per la loro stessa sopravvivenza, di fare le proprie scelte in autonomia, di costruirsi una vita senza dipendere dagli altri.
Nel mondo, dal 16% al 50% delle donne con una relazione stabile subisce violenza da parte del compagno; e sempre le donne rappresentano ormai circa la metà delle persone infettate dal virus dell’Aids, proprio a causa della loro maggiore vulnerabilità, del mancato accesso all’assistenza sanitaria, del loro essere oggetto di abusi e sfruttamento sessuale, contro cui spesso non hanno la possibilità e gli strumenti per opporsi.
I mesi a venire dovranno aprire le porte al vecchio «sesso debole», che più di una volta ha smentito la definizione e dimostrato come le situazioni, e le mentalità, possano cambiare. Come hanno fatto due donne afghane all’inizio dello scorso anno. Il loro villaggio di contadini nel nord del paese era circondato da ordigni inesplosi, frutto dei bombardamenti americani nella zona. Inizialmente gli abitanti del villaggio si limitavano a stare attenti a non calpestare questi piccoli oggetti gialli. Ma quando due bambini ci hanno giocato, rimanendo dilaniati dall’esplosione, le due donne hanno deciso di ripulire il terreno e in pochi giorni hanno raccolto una settantina di bombe, facendole esplodere di notte, in una buca fuori dal villaggio.
Inizialmente gli uomini hanno considerato oltraggioso il loro comportamento: donne che prendevano iniziative di testa loro! Ora sono diventate due eroine locali.

BOX 1

METE DA RAGIUNGERE

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

BOX 2

OBIETTIVO N°3

Promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine e dare maggiore autonomia e poteri alle donne.

Eliminare le diverse possibilità offerte a maschi e femmine per il raggiungimento di un livello di istruzione primaria e secondaria, preferibilmente già entro quest’anno, e ottenere questo obiettivo per tutti i gradi di istruzione non oltre il 2015.
Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano l’importanza del ruolo svolto dalle donne sul benessere generale della famiglia e della società: nonostante questo, che porterebbe vantaggi alla comunità intera, non viene ancora data la possibilità di realizzazione al potenziale positivo del sesso femminile, per discriminazioni conseguenti a norme sociali, incentivi e istituzioni legali.

Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.org
http://www.millenniumcampaign.it
http://ddp-ext.worldbank.org/ext/MDG/home.do
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.dfid.gov.uk/mdg/gender.asp
http://www.weforum.org
http://www.peacereporter.net

Grown C., Taking action to improve women’s health
through gender equality and women’s empowerment, Lancet 2005; 365: 541-43

Valeria Confalonieri




006-Così sta scritto – Così parla l’Amên Il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio

Parte seconda: il significato dell’Amen

La parola ’Amên spesso viene tradotta con «Così sia!», quasi un augurio, un buon auspicio. In aramaico e in ebraico deriva dalla radice ’amàn, che esprime l’idea di stabilità, solidità, fermezza. Il suo significato fondamentale è «essere fermo/stabile» e l’immagine è quella di una colonna che è ferma e sicura, al contrario della canna che è fragile e pieghevole a ogni soffio di vento (Lc 7,24).
In aramaico come in ebraico esiste una forma particolare di verbo che si chiama «causativa» (qualcuno causa/produce, fa fare qualche cosa). La forma causativa del verbo ’amàn è «rendere fermo/sicuro, fare stabile», da cui nasce il senso finale di «prestare fede, cioè credere». In questo senso, la fede è un’iniziativa di Dio, perché è lui la sorgente «causativa» che la fa essere e «rende stabile/fermo/sicuro» colui che crede. Di conseguenza chi è stabile/fermo /sicuro «gli presta fede», cioè «crede in lui» e si abbandona totalmente sulla colonna/roccia della sua Parola (Mt 7,24).
’Amên è una parola tardiva, passata dall’aramaico all’ebraico e successivamente anche nel greco della lxx (la bibbia greca usata dai giudei di Alessandria d’Egitto che non parlavano più l’ebraico). Non si trova mai nel Pentateuco, che raccoglie le tradizioni fondamentali della storia d’Israele, tranne il Deuteronomio, che è un libro recente (vii-v sec. a.C.) e fu protagonista sia della grande riforma liturgico-politico-religiosa del 621 a.C., promossa dal re Giosia, che della ricostruzione di Gerusalemme, autorizzata dal re babilonese Ciro, dopo l’esilio di Babilonia del 587 a.C.
Al tempo di Gesù, l’uso di ’Amên nelle sinagoghe di Palestina e della diaspora è comune. Ancora oggi ebrei e musulmani concludono benedizioni e preghiere con questa parola. Ogni volta che pronunciamo ’Amên, preghiamo con una parola che hanno pregato Gesù, sua madre e gli apostoli e gettiamo un ponte di preghiera tra tutti i figli di Abramo: cristiani, ebrei e musulmani.

Nella bibbia ebraica, la parola ’Amên ricorre complessivamente 34x (d’ora in poi: x = volte) di cui 26x come risposta di adesione/accettazione o come sigillo conclusivo di preghiera. Di queste 26x, se ne trovano 12x in Deuteronomio cap. 27, che tratta del culto e sempre nell’espressione: «Tutto il popolo dirà/dice: ’Amên!», come risposta alle maledizioni contro chi non osserva la Torah/Legge. Con questo significato di ratifica e di consenso ’Amên immedesima, fonde e unifica.
Nella bibbia greca (la lxx) si trova 12x; le altre 22x ’Amên è tradotto con l’espressione gènoito, che significa «voglia il cielo che così avvenga!».
Nel NT ’Amên ricorre 128x: 50x nei vangeli sinottici (Mt, Mc e Lc) sempre nell’espressione «’Amên/in verità io vi dico…»; 50x nel vangelo di Giovanni, sempre nella doppia espressione: «’Amên – ’Amên/in verità – in verità io vi dico…»; 28x come formula conclusiva di preghiera o di benedizione negli altri scritti, specialmente san Paolo, lettere di Giovanni, Ebrei, Pietro, Giuda e Apocalisse. Non ricorre mai negli Atti.

Il Talmud babilonese, nel trattato Shabàt 119b, insegna che i maestri d’Israele con le lettere di ’Amên facevano un acrostico: da ognuna delle tre consonanti di ’Amên (l’ebraico si legge da destra a sinistra: /’-M-N) facevano derivare una nuova parola, formando così la frase nuova: ’Elhoim Melek Ne’eman che significa «Dio (è) Re Fedele» (il segno «’» di ’Elhoim in ebraico è la stessa consonante iniziale di ’Amên). Ecco di seguito lo schema completo:

Dire ’Amên, quindi, non significa recitare una formula rituale, ma pronunciare una completa professione di fede in «Dio, mio Re Fedele», riconoscendo cioè la regalità di Dio e sottomettendoci alla sua maestà di Creatore e Padre. ’Amên è nel contempo atto di fede e atto di obbedienza filiale.
Gli stessi maestri rabbini insegnano che dire ’Amên una sola volta può essere sufficiente, sia al giudeo peccatore che al giusto non giudeo, per sfuggire alla dannazione eterna, perché chi dice ’Amên ha adempiuto la Legge.
Quando non si ha tempo per pregare, a causa di un imprevisto, si ha sempre tempo per dire ’Amên, che è il credo in un soffio, poiché in questa piccola parola c’è tutto il cuore dell’alleanza tra il Re, il Santo, e il suo popolo Israele che egli rende stabile e fermo sulla fede del Patto e dei patriarchi: «Dio [tu sei] mia roccia, mia fortezza e mio liberatore» (Sal 18/17,3; Es 32,4.15.18.30.31; 2Sam 22,2; Sal 42/41,10; cf Mt 7,25; Lc 6,48).
Dire ’Amên dunque significa proclamare che Tu, o Signore, sei il mio Re Fedele e su questa roccia io resto stabile e fermo in eterno. Possiamo professare questa fede ovunque e in ogni tempo: in viaggio, in autobus, in casa, in ufficio, prima di un impegno o un incontro, tra i fornelli o in mezzo alle pulizie, nel silenzio o in mezzo alla folla. Mentre aspettiamo che tornino i figli o le persone amate, il nostro ’Amên li accompagna sotto la custodia della fedeltà di Dio: Tu, o Signore sei loro Re Fedele, custodiscili nel tuo Nome. La maestà della Regalità di Dio sta al di sopra di tutto ciò che siamo, facciamo, amiamo e temiamo, e nello stesso tempo diventa fondamento/colonna della nostra stabilità di vita.
’Amên è uno scudo di benedizione di due sillabe con cui proteggiamo noi e coloro che incontriamo, amiamo o per i quali soffriamo: in due sillabe tutta l’eternità!

A pprofondiamo ancora. I numeri sono stati diffusi tra i secoli vii-xii d.C. dagli arabi, che sostituirono il sistema precedente, basato sulle lettere dell’alfabeto che erano usate come «numeri»: a ogni lettera corrisponde un valore numerico. Ciò avveniva nella cultura egiziana, fenicia, ugaritica, babilonese, ebraica, greca e latina. Questo rapporto tra lettera e numero è studiato da una speciale scienza che si chiama ghematrìa (cioè scienza dei numeri).
Se scomponiamo le consonanti aramaiche/ebraiche di ’Amên in numeri, scopriamo che il suo valore numerico è 91 (vedi riquadro).
Quando Dio si rivela a Mosè sul Sinai si presenta con il Nome di YHWH (Es 3,14-15). Ma questo Nome è tre volte santo e non può essere pronunciato, per cui gli ebrei, quando leggono la scrittura, incontrando il santo Nome Yhwh, con gli occhi leggono Yhwh, ma con le labbra pronunciano ’Adonài, che significa «Signore» in senso generico. Il valore numerico di Yhwh è 26, mentre quello di ’Adonài è 65 (vedi riquadro). Se sommiamo i valori numerici dei due nomi più importanti di Dio nella scrittura ebraica, cioè Yhwh + ’Adonai / 65 + 26, la somma fa 91, cioè lo stesso valore numerico di ’Amên, che è quindi la sintesi dei nomi di Dio.
I n conclusione, dire ’Amên significa entrare nel mistero stesso di Dio, nel suo nome impronunciabile che custodisce il segreto della sua vita (Yhwh) e in quello proclamato (’Adonai), che sulle labbra del credente fiorisce come un piccolo, immenso ’Amên.
Da tutto ciò si capisce perché i rabbini al tempo di Gesù proibivano di rispondere ’Amên a una benedizione affrettata o non pronunciata distintamente, perché si tocca l’onorabilità e credibilità stessa di Dio. Dice il Talmud babilonese, nel trattato Berakôt (benedizioni) 47a: «Insegnarono i nostri maestri: non si risponda né un ’Amên affrettato, né un ’Amên strappato, reso orfano (cioè senza avere capito la benedizione), né si faccia prorompere la benedizione dalla bocca (cioè in modo affrettato quasi a dare l’impressione che si abbia fretta di sbarazzarsi dell’obbligo di onorare il Santo: cf 1Cor 14,16)… Chi prolunga (= chi canta) ’Amên, gli saranno prolungati i giorni e gli anni…».
Non possiamo più stupirci, a questo punto, se nel NT ’Amên è il Nome nuovo del Cristo, figlio fedele ed esegeta del Padre (Gv 1,18): «All’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Tutto ciò dice l’’Amên, il Testimone fedele e veritiero, il Principio della creazione di Dio» (Ap 3,14).
La piccola parola ’Amên c’insegna che nella scrittura, come nella vita, nulla è casuale o banale o superfluo, ma tutto ha un senso, evidente o velato, che occorre svelare, perdendovi tempo, studio e meditazione. Anche le cose che apparentemente sembrano ovvie, se scrutate con gli occhi del cuore (Pv 23,26; Lc 24,31-32), rivelano profondità inaspettate e inesauribili: «Non passerà neppure un iota (’=y, la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico) o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,18).
Inesauribile è la parola di Dio, che supera tutte le generazioni; ma in ogni tempo può (e deve) essere mangiata (Ez 3,1-3) e ruminata per gustarne anche le sfumature, apparentemente insignificanti, perché nulla si perda: nemmeno le briciole (Mc 7,28; Mt 15,27).
Nel segno di un piccolo ’Amên, anche noi possiamo attendere con il desiderio e la certezza che nella vita eterna saremo introdotti da un ’Amên: «Colui che testimonia queste cose dice: Sì, vengo presto. ’Amên! Sì, vieni Signore Gesù!» (Ap 22,20).
Alle nostre lettrici e ai nostri lettori in qualsiasi parte del mondo, possiamo assicurare che ogni giorno il nostro ’Amên! si depone come una carezza e una benedizione su di loro e le loro famiglie, sulle loro giornie e sui loro dolori, specialmente sui malati nel corpo e nella speranza. ’Amên! ’Amên!. •

Paolo Farinella




Radici culturali dell’Europa: per una democrazia dei popoli

CRISTIANI ADULTI PER LA NUOVA EUROPA

La rottura del sottile equilibrio tra Est e Ovest europeo ha provocato un terremoto politico planetario e posto la premessa per un nuovo ordine mondiale. Il prossimo equilibrio sarà pluripolare. Oltre agli Usa, già si delineano nuove potenze emergenti (Cina, India, Brasile), con cui dovrà confrontarsi il «Vecchio continente».
Di qui l’importanza, per i cittadini europei e cristiani, che la nuova Europa nasca bene sin dalla sua costituzione.

Parlando di Europa, istintivamente pensiamo alla «moneta unica» e problemi economici: contenimento della spesa pubblica e inflazione, stabilità di mercati finanziari, parametri di Maastricht, quasi che la costruzione europea si riduca ai conti economici.
Certamente l’euro è una meta importante. Bisognava raggiungerla, anche in vista dei nuovi equilibri che si stanno delineando a livello planetario. Tuttavia, neppure tali equilibri saranno di natura meramente economica. Per cui, mentre costruiamo l’Unione, occorre non perdere mai di vista il ruolo morale, oltre che economico, che l’Europa è destinata ad avere nel mondo.
L’allargamento a 25 stati membri ha aperto una fase nuova, non solo all’interno del cammino comunitario, ma anche nella sua proiezione estea: i valori culturali e spirituali basilari comuni trascendono i confini del vecchio continente e ci impegnano tutti a renderli universali.

Le tre europe

La storia dimostra che l’Europa non è nata come un mercato, ma con radici cristiane, i cui valori umani e umanistici non sono mai venuti meno. Nella sua storia possiamo distinguere tre fasi.
La prima Europa è quella medioevale, nata sulle rovine dell’impero romano e formatasi sotto il regno di Carlo Magno (771-814), caratterizzata dall’unione tra trono e altare. Fin dall’inizio essa fu soprattutto una unità culturale, fondata sui valori spirituali cristiani. Tanto che chi non condivideva la cultura della «cristianità» (ebrei, arabi, musulmani, «barbari» del nord), era visto come straniero spiritualmente e politicamente, pur abitando il medesimo spazio geografico.
La fusione tra valori cristiani e vita storico-politica era capace di produrre effetti straordinari: cattedrali, università, ospedali, ospizi per i poveri… Tale unità tra spiritualità cristiana e cultura ha lasciato impronte indelebili nel pensiero, costume giuridico e civile, letteratura e arte, formando una coscienza più forte e resistente di ogni altro vincolo geografico, mercantile o politico.
Come ogni storia, anche quella europea è piena di luci e di ombre: l’identificazione di croce e spada produceva ferite tuttora non sanate: crociate, guerre di religione, colonialismi, roghi, torture e massacri perpetrati spesso in nome della fede. Eccessi negativi di cui il papa ha chiesto perdono, ma che sono stati motivo della scristianizzazione nei secoli seguenti.
Infatti, la seconda Europa, quella modea, è caratterizzata dalla rottura dell’unità politica, culturale e religiosa del continente, ed è segnata da profonde trasformazioni, seguite all’esplosione dell’umanesimo e alle grandi scoperte geografiche del 15° secolo. Con l’avvento della riforma, si formarono nel vecchio continente due blocchi: da un lato, l’Europa centro-settentrionale protestante, staccatasi da Roma; dall’altro i cattolici rimasti fedeli al papa.
Ora, mentre la fine dell’unità fra trono e altare segna la fine della «cristianità» e lascia il posto agli stati nazionali assoluti, una nuova coscienza dei diritti dell’uomo e nuove correnti di pensiero frazionano anche culturalmente il vecchio continente. Con la rivoluzione francese (1789), al centro della vita sociale e politica ormai non ci sarà più il «cristiano», ma il «cittadino».
Avanza e si diffonde così quel processo di «secolarizzazione» che, attraverso l’illuminismo, razionalismo, liberalismo, scientismo, positivismo e le grandi ideologie dei secoli 17° e 18°, sarebbe sfociato nel «secolarismo» dei nostri giorni.
Così, un processo di per sé positivo come la «secolarizzazione», intesa come distinzione tra chiesa e stato, è approdato al «secolarismo» che esclude Dio dall’orizzonte umano.
Tuttavia, nonostante la fine della «cristianità», il confronto-scontro tra la cultura cristiana e le nuove correnti del pensiero «liberale» e «laico» non riuscì ad affossare in Europa la tradizione umanistica, fondata sul primato dei valori. Essa manterrà a lungo la supremazia anche nei confronti della nascente cultura scientifica.
La terza Europa è quella postmodea, dopo la smentita storica delle grandi ideologie del 18° e 20° secolo. Se queste non sono riuscite a scalzare la plurisecolare tradizione umanistica nel vecchio continente, ne hanno però laicizzato la cultura e il costume, rendendolo per molti aspetti «postcristiano».
Il secolarismo (degenerazione del processo di secolarizzazione) ha gettato la cultura contemporanea in preda a forme di nichilismo, relativismo etico e neoliberismo selvaggio. Tanto che negli ultimi decenni del 20° secolo, anche come reazione a tali processi degenerativi, è tornato di attualità il dibattito sui fondamenti spirituali e culturali dell’Europa.
Un tema da approfondire, senza rimpianti per la «cristianità» perduta, guardando avanti, verso la «casa comune» da costruire in continuità con i valori della civiltà europea, nel rispetto della laicità della politica e del pluralismo culturale degli stati membri.

«La casa comune»

Lo sviluppo delle scienze e della tecnica, le correnti di pensiero laico e il progresso economico hanno cambiato il modo di pensare e di vivere degli europei; ma l’identità che rende «uno» il continente europeo rimane all’interno della sua storia e cultura, nel patrimonio spirituale e morale comune ai popoli che lo compongono.
Ovviamente la concezione dell’uomo e della società e la comprensione dei diritti dell’uomo, oggi, non sono più quelle della primitiva «cristianità». Lungo i secoli, la civiltà europea è stata alimentata anche da tradizioni culturali diverse (ebraica, islamica, illuministica). Ciò non è stato un male, ma un arricchimento: «La storia dell’Europa – secondo la bella immagine di Giovanni Paolo ii – è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e culture che la formano è la sua ricchezza». Ma la corrente che prevale è l’onda cristiana.
Non deve stupire, perciò, il risveglio e bisogno di spiritualità che si riscontra in tutta l’Europa. Altrettanto significativo è il fatto che i paesi dell’Est si sentano uniti all’Europa occidentale in virtù dei vincoli spirituali e culturali che essi hanno conservato con il cristianesimo, nonostante il tentativo di spezzarli compiuto dal comunismo.
Lo riconosceva Mikhail Gorbaciov, alla vigilia della caduta del muro di Berlino: l’Europa, scriveva, è una «casa comune», dove geografia e storia hanno strettamente intrecciato i destini dei popoli e nazioni che la compongono. Poi esclamava: anche «noi (i sovietici) siamo europei: la vecchia Rus’ era unita all’Europa dal cristianesimo».
In realtà a Mosca, la «terza Roma», va il merito di aver salvato l’eredità bizantina, consentendo così alla «cristianità» di continuare a respirare con i suoi due polmoni: quello occidentale e quello orientale.
Perciò, oggi, per costruire l’Europa come una «casa comune», culturalmente pluralistica, plurietnica e multireligiosa, non si può fare a meno di porre a fondamento dell’unione politica del continente anche quei valori spirituali e culturali, ovviamente ripensati e approfonditi, che sono parte inseparabile della sua storia.

I 4 pilastri del Trattato

L’importanza di tali valori, è stata riconosciuta, benché indirettamente, dal Trattato costituzionale europeo, approvato il 18 giugno 2004 a Bruxelles e firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Così recita l’articolo 2: «L’Unione si fonda sui valori della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e parità tra donne e uomini».
In sostanza, sono 4 i pilastri su cui si basa la nuova Europa: dignità umana, libertà solidale, uguaglianza, diritti umani. Oggi sono tutti valori considerati «laici» e non si pensa più alla loro radice religiosa. Se insistiamo sul rapporto originario che essi conservano con la visione cristiana dell’uomo e della società, non è per mettere un cappello «clericale» o «confessionale» alla Costituzione europea, la quale è laica e laica deve restare; ma per stimolare soprattutto i cristiani a un impegno coraggioso per dare alla costruzione dell’Europa un’anima etica il più coerente possibile con i valori enunciati dalla Costituzione, nel rispetto del pluralismo e regole democratiche.

1° pilastro: la dignità della persona umana è inviolabile.
L’uomo, cioè, vale per quello che è, più che per quello che ha o che fa. Perciò il Trattato europeo pone al centro del sistema politico la persona umana e ne tutela i diritti: dal diritto alla vita a quello dell’integrità fisica e psichica.
Società e stato possono disporre (in una legislazione democratica) dell’attività dei singoli, per il raggiungimento dei fini comunitari, ma non della persona e della sua vita. «L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere intee e un mercato unico nel quale la concorrenza è libera e non falsata».
Chi può negare che questo primo principio «laico» abbia «radici cristiane»? Infatti, considerare l’uomo come «autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale» (Gaudium et spes 65) è il caposaldo della dottrina sociale cristiana. La ragione di tale primato è essenzialmente religiosa e risiede nel fatto «che l’uomo è stato creato “a immagine di Dio”, capace di conoscere e amare il proprio Creatore, costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio» (GS 12 ).

2° pilastro: libertà solidale.
La ii parte della Costituzione tratta della libertà. Essa non è intesa come individualismo, ma legata ai rapporti tra persone. Su tale concezione solidale si fondano il rispetto della dignità della persona, parità tra uomo e donna, «diritto di ogni individuo alla libertà di pensiero, coscienza, religione» (ii,10), espressione e informazione (ii,11), riunione e associazione (ii,12), di sposarsi e costituire una famiglia (ii,9), primo nucleo della società umana.
Anche il secondo nucleo, la società civile, si radica nel principio di libertà solidale, poiché né la persona, né la famiglia possono esistere al di fuori della società. Sullo stesso principio l’Unione «combatte l’esclusione sociale e discriminazione e promuove la giustizia e protezione sociali, parità tra donne e uomini, solidarietà tra le generazioni e tutela dei diritti del minore. Promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri» (i,3,3).
Tale solidarietà è garantita anche in situazioni di emergenza: «L’Unione e gli stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà, qualora uno stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo» (i,43).
Anche questa tutela «laica» della libertà e solidarietà si radica nella visione antropologica di ispirazione cristiana. «Dall’indole sociale dell’uomo – spiega il Concilio – è evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità… L’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» (GS 25).
Per questo la coscienza cristiana considera la solidarietà non come «un sentimento di vaga compassione o superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (Sollicitudo rei socialis 38).

3° pilastro: l’uguaglianza.
Su di essa si basa lo stato di diritto. «L’Unione rispetta, in tutte le attività, il principio dell’uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi» (i,45).
In altre parole: i cittadini dovranno partecipare alle scelte e alla vita dell’Unione, secondo regole che assicurino la corresponsabilità di tutti, nel rispetto delle prerogative peculiari di ciascuno. Non è ammessa alcuna discriminazione «fondata su sesso, razza, colore, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali» (ii,21).
Da qui la preoccupazione di evitare gli eccessi della burocrazia e di un centralismo soffocante e di valorizzare l’apporto dei gruppi sociali, classi, autonomie locali (i,5). Quasi non bastasse, si specifica ulteriormente: «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere meglio raggiunti a livello di Unione» (i,11).
Anche qui, non è difficile scorgere il rapporto tra questa concezione «laica» dello stato di diritto e i concetti di uguaglianza e di partecipazione responsabile (o sussidiarietà) sviluppati dal pensiero sociale cristiano. Già Pio xi scriveva nel 1931: «Come è illecito sottrarre agli individui ciò che essi possono compiere con le proprie forze e di loro iniziativa per trasferirlo alla comunità, così è ingiusto affidare a una maggiore e più alta società quello che le minori e inferiori comunità possono fare. È questo, insieme, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già di distruggerle o assorbirle» (Quadragesimo anno 86).
Più vicino a noi, il Vaticano ii ribadisce la necessità di vegliare «affinché i cittadini non siano indotti ad assumere di fronte alla società un atteggiamento di passività o irresponsabilità» (GS 69); occorre invece concepire e attuare soprattutto le politiche sociali, attraverso l’intervento creativo delle diverse istanze della società civile, riconoscendone il ruolo insostituibile accanto a quello del mercato e delle istituzioni.

4° pilastro: diritti umani.
Il Trattato riprende integralmente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione approvata a Nizza nel dicembre del 2000 (i,9). Oltre a garantire a singoli e gruppi tutti i diritti civili e le condizioni materiali necessarie all’esistenza, viene tutelata la libera fruizione dei beni di natura superiore: arte, cultura, dimensione spirituale e religiosa della vita.
Anche questa impostazione, ancora una volta «laica», è in chiara continuità con la concezione cristiana della società. Questa, come specifica il Concilio, prevede che «siano rese accessibili all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come vitto, vestito, abitazione, diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, educazione, lavoro, buon nome, rispetto, diritto alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso» (GS 26).

Impegno per i cristiani

La continuità dei valori «laici» con l’ispirazione religiosa originaria risalta maggiormente la responsabilità dei cristiani nella costruzione dell’Europa. Lavorando insieme a tutti i cittadini del continente, sono chiamati a far sì che i valori «laici» comuni su cui poggia l’Unione non solo siano rispettati, ma vengano applicati, evitandone interpretazioni riduttive o errate, ricuperandone il significato originario.
Tale continuità con i valori cristiani, infatti, non significa che la Costituzione europea sia pienamente conforme a essi. Ne è un esempio l’ambigua posizione assunta nei confronti della famiglia: non affermare esplicitamente che essa si fonda sul matrimonio tra un uomo e una donna, lascia in pratica la porta aperta alle unioni di fatto, anche tra omosessuali.
Parimenti, come molti hanno rilevato, nonostante l’evidente impegno nel promuovere la pace e tutelare l’autorità dell’Onu, nella Costituzione manca un rifiuto esplicito della guerra come strumento per risolvere le controversie tra gli stati.
È auspicabile che su questi e altri punti importanti, quali l’applicazione delle nuove tecnologie alla vita umana, istruzione, giustizia sociale, relazioni inteazionali, il testo del Trattato possa in futuro essere ulteriormente perfezionato.
Al tempo stesso i cristiani devono evitare di cadere nella trappola della cosiddetta «religione civile».

Religione civile

Da qualche tempo, nella cultura occidentale, secolarizzata e laicizzata, si assiste a una rinnovata attenzione verso la religione in genere e verso quella cristiana in particolare. Dopo l’ostracismo decretato dall’illuminismo, che riduceva il fenomeno religioso a mero fatto privato, senza alcuna rilevanza sociale, e dopo la guerra contro la religione da parte delle dittature di diversa ispirazione ideologica, oggi ci si rende conto, invece, che la religione ha una sua rilevanza sociale.
La religione è ritenuta necessaria sia sul piano culturale (per plasmare e custodire l’identità nazionale all’interno della società pluralistica e plurietnica), sia sul piano politico (come fattore di stabilità civile di pacificazione contro la violenza), sia sul piano etico (per dare senso al lavoro umano, responsabilizzare i cittadini verso il bene comune).
In quest’ottica si spiega perché l’articolo 52 della Costituzione europea riconosca in modo esplicito il valore sociale della religione e l’utilità, anzi la necessità, che si instaurino rapporti stabili di collaborazione tra istituzioni democratiche e comunità religiose: «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui godono negli stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose. L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali. Riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni».
Senza negare l’importanza del clima di rispetto e dialogo che si sta instaurando nei rapporti tra istituzioni politiche e comunità religiose, è chiaro che la «religione civile» può trasformarsi in una trappola per la chiesa e la sua missione.
Da una parte lo stato riconosce l’importanza della religione e ricerca l’appoggio della chiesa per gli utilizzi sociali che essa offre (oratori, ospedali, scuole…). Dall’altro, la chiesa vede con favore tale riconoscimento pubblico e tende a scorgervi un aiuto alla sua missione evangelizzatrice, se non già un effetto della evangelizzazione.
Sotto le apparenze più sofisticate della «religione civile» sta tornando una forma modea di «cristianità», in cui lo stato strumentalizza la religione come mero collante di convivenza sociale e civilizzazione, senza alcun riferimento al suo valore trascendente e soprannaturale.
Da parte della chiesa, può tornare la vecchia tentazione della «cristianità», cioè di «battezzare» il potere, col pericolo di subordinare la profezia alla diplomazia, di tacere di fronte a disuguaglianze e ingiustizie stridenti, di fingere di non vedere le illegalità e prevaricazioni della classe politica al potere. Non meno grave, poi, è la tentazione di ridurre l’annunzio evangelico alla sua dimensione sociale. La promozione umana è certamente parte integrante della evangelizzazione; questa però non potrà mai prescindere, senza rinnegarsi, dall’annunzio integrale della salvezza e del regno di Dio.
Bisogna dunque stare attenti a non tornare indietro verso forme pur rinnovate di «cristianità»; ma, mentre ci si apre al dialogo e al confronto con la storia e i problemi del tempo, occorre ritrovare il coraggio della testimonianza profetica della risurrezione e del regno e il coraggio dell’annunzio della parola di Dio, sine glossa.

Cristiani maturi cercansi

Questa sintesi tra servizio all’uomo e testimonianza viva della fede è la sfida che la costruzione dell’Europa oggi pone sia alle chiese che ai singoli cristiani, chiamati a operare «laicamente» con tutti gli altri cittadini del continente.
In particolare i cristiani impegnati a costruire l’Europa, in posti di responsabilità o anche come semplici cittadini, dovranno sforzarsi di ricuperare il significato integrale dei valori e principi fondamentali fissati dal Trattato costituzionale. Infatti, quando si passa dall’enunciazione teorica alla loro applicazione pratica, le interpretazioni divergono e spesso contrastano, come avviene specialmente in alcuni ambiti delicati, come quello della vita e della salute o del matrimonio e della famiglia. Toccherà ai cristiani servirsi della loro competenza professionale e degli strumenti democratici disponibili per dare ai valori fondamentali della Costituzione europea il necessario «supplemento d’anima», cioè per interpretarli e applicarli in senso plenario pur nel rispetto della loro laicità.
Accanto a questo sforzo, non meno efficace e urgente è il dovere della testimonianza di una vita cristiana autentica. Di fronte al multiculturalismo e «laicismo» odierno, occorrono veri cristiani che abbiano fatto personalmente la scoperta del vangelo, che aderiscano a Cristo, non in virtù della nativa tradizione sociologica o culturale, ma per avere incontrato personalmente il Risorto nella fede.

In conclusione, che giudizio dare del dibattito, non ancora sopito, sulla opportunità o meno di un richiamo esplicito alle «radici cristiane» nella Costituzione europea?
In primo luogo, è ovvio che nell’Europa di oggi, secolarizzata, pluralistica, multietnica e multireligiosa, non si può pensare di parlare di «radici cristiane» in senso confessionale, come avveniva al tempo della «cristianità» della prima Europa. Oggi, nel contesto europeo, accanto ai circa 560 milioni di cristiani (269 cattolici, 170 ortodossi, 80 protestanti, 30 anglicani), vivono 32 milioni di musulmani, 3,4 di ebrei, 1,6 di induisti, 1,5 di buddisti, 500 mila sikh. È ovvio che non si può definire l’Europa come un continente esclusivamente cristiano dal punto di vista confessionale. Dal canto suo, il Concilio Vaticano ii ha definitivamente chiarito che il cristianesimo non si identifica con nessuna civiltà, neppure con quella europea.
Dunque era prevedibile che la menzione delle «radici cristiane» non sarebbe entrata nell’articolato della Costituzione, anche perché essa avrebbe potuto causare delicati conflitti interpretativi, nel caso, per esempio, dell’ammissione in Europa di stati di cultura e religione diversa (come la Turchia).
Il Preambolo invece sembrava a molti il luogo adatto per ricordare l’influsso storico esercitato dal cristianesimo sulla nascita e sulla crescita dell’Europa e sulla sua civiltà, senza con ciò negare l’apporto di altre culture, come quella ebraica, greco-romana, islamica e illuministica.
Ma il Preambolo parla solo genericamente di «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa». Tuttavia, nonostante il mancato richiamo esplicito, in realtà le «radici cristiane», come abbiamo visto, sono sostanzialmente ben presenti nella Costituzione europea. E ciò vale molto di più di un mero riconoscimento formale.
Pertanto, ora la cosa che più importa è impegnarsi a interpretare in coerenza con la loro origine cristiana i valori e i principi enunciati dall’articolo 2 della Costituzione europea, rispettandone la laicità. Infatti, la fecondità del servizio cristiano non dipende dal suo riconoscimento formale o meno. Lo afferma anche il Concilio: la chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile; anzi essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (GS 76).
In altre parole, la forza del cristianesimo sta nel suo stesso messaggio, nella potenza disarmata della parola di Dio e nella testimonianza coerente dei cristiani. Se alla costruzione della nuova Europa dovesse mancare il contributo effettivo di cristiani adulti e forti, a nulla servirebbe la menzione formale delle «radici cristiane» nel Preambolo del Trattato costituzionale.

Bartolomeo Sorge




Ultima tappa all’interno della comunità Nasa (3)

PENSIERO GIOVANE

Lettera «mai scritta» di una giovane indigena ai coetanei del nord del mondo.

Carissimi giovani del nord del mondo,
molte volte, attraverso la lettura o l’incontro con quelli di voi che in questi anni ci hanno visitato, siamo entrati in contatto con il vostro mondo e la vostra maniera di vivere. Vorremmo adesso essere noi a raccontare qualche cosa della nostra comunità, perché pensiamo che dalla conoscenza reciproca possa nascere un dialogo utile a creare legami nuovi, basati sul rispetto, la tolleranza e la pace. Cercheremo di darvi un panorama di quello che siamo e viviamo, dei piccoli e grandi successi che ci fanno continuare a crescere, nonché delle difficoltà che dobbiamo superare.
Sono seduta con altri giovani sul cemento un po’ freddo del campo di basket del mini-palazzetto di Tacueyó, piccolo paese del Cauca colombiano. Con altri 300-400 giovani abbiamo appena celebrato la messa e ora ci prepariamo ad ascoltare Pablo Tatai, bogotano di origine magiara, un amico storico del processo indigeno. Amico dai giorni duri in cui i nostri padri si facevano ammazzare pur di riconquistare la terra che ritenevano esser loro da sempre, e che invece era diventata proprietà di pochi e ricchi latifondisti. Il congresso annuale che si sta svolgendo è uno dei tanti momenti di aggregazione e formazione organizzato dal movimento giovanile «Álvaro Ulcué», la più attiva organizzazione indigena giovanile del Cauca.
Con attenzione – le agende o i quadei appena estratti dalla jigra (la borsa tradizionale tessuta a mano dalle donne della comunità) – l’assemblea inizia a riascoltare un racconto che i più vecchi tra noi già conoscono a memoria. Prendiamo appunti, in silenzio, anche soltanto per rispetto verso quest’uomo dai radi capelli bianchi che ha lottato nel passato e che ora, invece di godersi la pensione, continua ad appoggiare la causa indigena. Sappiamo che adesso tocca a noi continuare l’opera dei padri, prendere in mano il testimone che l’oratore, con la sua presenza, simbolicamente sta passando.
La Colombia è un paese giovane (il 45,5% dei suoi abitanti ha meno di 18 anni) e il Cauca non fa eccezione. Occorre dunque migliorare la speranza di vita della gente, garantire un lavoro degno ai più giovani ed offrire a tutti la possibilità di costruire un futuro familiare e comunitario soddisfacente se si vuole che la comunità affronti con speranza il suo futuro. Purtroppo, l’impatto della modeità, il conflitto armato, nonché l’invadenza del narcotraffico, sono tutti fattori che ostacolano pesantemente il nostro cammino.

Giovani di una volta

Stiamo vivendo un momento di cambio molto rapido che dobbiamo imparare a gestire se vogliamo aprirci al mondo senza veder completamente stravolti i nostri valori tradizionali, quei valori che per secoli sono stati un fondamentale fattore di unità per la nostra gente. Il giovane di ieri era un individuo che si formava alla vita in funzione delle esigenze della famiglia e della comunità. La scuola era soprattutto il campo, il pezzo di terra, frutto della ripartizione tra i figli fatta dai genitori e che bisognava lavorare duramente per poter sopravvivere.
Il giovane nasa viveva immerso nel suo mondo mitico, regolato da forze ancestrali che bisognava rispettare per non rompere l’armonia del cosmo. L’autorità del padre, del governatore del resguardo (la riserva indigena) e del medico tradizionale erano insindacabili. Erano loro ad imporre le regole per la futura vita matrimoniale, per la partecipazione alla vita e alle attività della comunità e per la relazione con il mondo spirituale. Poco spazio era dato all’iniziativa individuale e concetti come «coscienza, responsabilità personale» erano pressoché sconosciuti.
Diciamolo francamente: uno dei problemi della nostra società era quello di non tenere assolutamente in conto il giovane, le sue esigenze, i suoi sogni. Se poi il soggetto nasceva donna la sua gioventù era tutta orientata verso un orizzonte ben preciso: la casa. Il risultato di questo processo formativo era un giovane dallo spirito un po’ gregario, pronto ad adeguarsi alle decisioni prese per lui dalle autorità, sia quella patea come quella della comunità.
L’impatto con la modeità ha messo in crisi questa figura di giovane e vari modelli estranei alla nostra cultura hanno, di fatto, rivoluzionato usi e costumi. Non tutto è venuto per nuocere, bisogna riconoscerlo, ma è difficile trovare un equilibrio fra vecchi e nuovi valori, come anche saper scegliere, sia nella tradizione come nella modeità, le cose da buttare e quelle da conservare gelosamente.
Noi nasa siamo dei magnifici camaleonti della storia. Sono state le difficoltà ad insegnare alla nostra gente come modellarsi secondo le diverse esigenze; siamo dei campioni nel far nostri gli aspetti di una cultura diversa che ci servono, e ad adattarli alle nostre necessità. Per questo quando parliamo di cultura nasa facciamo riferimento a ciò che è proprio e a ciò che è «appropriato»; il problema sta semmai nel sapersi appropriare delle cose giuste, quelle che possono aiutarci a crescere come comunità e non causarci dei danni. Il rischio, come sempre accade, è quello di buttare via anche il bambino con l’acqua sporca.

Chi siamo oggi

Il giovane della mia generazione si sta progressivamente staccando dalla cultura patea e, di conseguenza, dalla sua autorità; così come si sta allontanando dall’autorità politica e religiosa della comunità. Sia il medico tradizionale, con le sue pratiche e i suoi riti, come la chiesa stessa hanno sofferto una perdita di significato e non rivestono una grande attrattiva per il giovane di oggi, sempre più secolarizzato. L’idioma nasa non è più parlato come un tempo e, anzi, alcuni tra noi si vergognano persino di essere cresciuti in una famiglia dove ci si comunica nella lingua propria.
Rispetto anche solo a vent’anni fa è aumentata vertiginosamente la popolazione scolastica. Il numero dei giovani che si iscrivono alla scuola superiore o addirittura all’università è cresciuto a tal punto da rappresentare una delle cause più importanti del cambio che si sta dando all’interno della comunità. La maggiore preparazione accademica, accompagnata da uno sviluppo più maturo della coscienza personale, ha fatto sì che si sia creato nei giovani un diverso atteggiamento nei confronti dell’autorità. I miei coetanei non vogliono più obbedire ciecamente, ma desiderano guardare la realtà criticamente, anche se questo conduce inevitabilmente allo scontro generazionale.
Cambiano, anzi, si moltiplicano, anche i bisogni. Il maggior grado di istruzione raggiunto fa sì che alcuni di noi non vogliano più lavorare i campi e sperino di conseguire un posto di lavoro come insegnante o come impiegato; cosa non sempre possibile, vista la poca offerta di spazi di lavoro alternativi all’agricoltura rispetto alla domanda. Si crea quindi un tasso di disoccupazione molto elevato. Anche il consumismo è entrato prepotentemente nella vita del giovane. La maglietta di marca, le scarpe alla moda, la moto, diventano esigenze di cui prima non si avvertiva la necessità.
Se il giovane tradizionale conduceva una vita per lo più solitaria, dedicando gran parte del tempo al lavoro, il giovane d’oggi vive un’apparente contraddizione. Da una parte tende a riunirsi in gruppi di coetanei, nei quali incontra appoggio e forza, dall’altra si trasforma in un individualista, incapace di condividere vita e beni con i compagni o la comunità. Tende a perdere interesse per il lavoro comunitario e nelle relazioni con l’altro sesso sperimenta una libertà che prima non esisteva.
Queste pressioni estee espongono i giovani attuali a un cambio totale e quindi, com’è caratteristica delle stagioni di grande mutamento epocale, ad un’instabilità e un’irrequietezza che sfociano molte volte nell’irresponsabilità e nella perdita di orientamento e significato. Si presentano quindi alcuni grandi rischi: la tentazione di trovare sicurezza e stabilità in un’organizzazione armata, quella di lasciarsi sedurre dal «denaro facile» offerto dal narcotraffico, con il progressivo formarsi di una «narco-mentalità». In alcuni soggetti più deboli non è rara la tentazione di togliersi la vita nel momento in cui ci si trova davanti a problemi anche piccoli, ma per cui non si ha una base di valori sufficiente per poterli affrontare e risolvere.

Pensare «giovane»

Alcuni giovani si sono resi conto di questa situazione di cambio e hanno deciso di correre ai ripari. Alla fine degli anni ‘80, ci si rendeva conto che il mondo stava cambiando e che, se non si riusciva a far sì che i giovani prendessero la vita nelle loro mani, sarebbero stati travolti dagli eventi. Non ci si poteva solo fidare della comunità e del suo processo; di fatto i giovani lavoravano per la comunità, ma questa non lavorava per i giovani. Si decise pertanto di creare un movimento giovanile che potesse servire come strumento d’unificazione della gioventù indigena e veicolo capace di guidare i giovani alla formazione di una coscienza critica, morale e politica.
L’obiettivo era aiutarci tra di noi a crescere, pensare e attuare come indigeni, nel rispetto della propria cultura, ma attenti e preparati ai cambi epocali che sentivamo essere inevitabili e dai quali non volevamo farci cogliere impreparati. Abbiamo iniziato a creare una scuola di animatori che ha come fine quello di formare giovani capaci di orientare altri giovani della nostra comunità.
Cerchiamo, inoltre, di realizzare spazi di incontro e condivisione come le assemblee giovanili per scambiare opinioni ed esperienze, fare un’analisi della situazione e progettare le attività future. Anche il progetto della rete studentesca è una realtà interessante che ci permette di sensibilizzare i giovani della scuola alle problematiche del mondo contemporaneo.
Abbiamo iniziato anche qualche progetto produttivo per imparare tutti insieme le regole dell’amministrazione e della gestione, cercando di sperimentare scelte economiche alternative.
Non siamo molti. Possiamo dire che allo stato attuale delle cose la nostra esperienza non coinvolge più del 5% del numero complessivo dei giovani della nostra regione, ma speriamo di incrementare questa cifra in un prossimo futuro. Non tutti, anche all’interno della nostra comunità, vedono di buon occhio questo processo in cui, senza voler disconoscere il criterio del progetto comunitario e della cultura tradizionale, cerchiamo di dar valore al pensiero proprio di noi giovani, ciò che con un po’ di ambizione e di orgoglio chiamiamo pensamiento jóven, il pensiero giovane. Anzi, riteniamo che un apporto dei giovani, più attenti alle nuove esigenze e sfide della comunità possa essere ossigeno nuovo per affrontare le sfide non facili del presente e del domani, aprendo spazio al dialogo e alla comunicazione dei valori con altre forze umane e sociali della regione, del paese e anche inteazionali.
Quello che vogliamo è svegliare le coscienze e lavorare nell’ambito di tutti quei contesti che possano aiutarci a migliorare la convivenza e permettere di costruire un nuovo profilo della persona, un nuovo giovane, che sarà, domani, l’artefice di nuove famiglie e, di conseguenza, di una nuova comunità.
Il giovane che sogniamo è quello che si forma, conosce, studia per poter offrire un servizio qualificato alla propria gente. Un giovane fermo nei suoi principi, stabile affettivamente e che fa le cose per scelta e non per obbligo, capace di disceere per conto suo ciò che è bene e ciò che è male. Un giovane che, cosciente delle sue radici, guarda verso il futuro in modo critico, ma aperto. Aperto anche al dialogo con voi, amici del nord del mondo, che pazientemente avete letto questa lettera. Se vorrete conoscere qualcosa di più della nostra vita sarete sempre i benvenuti in questa porzione della madre terra che è la patria dei nasa.

Hasta pronto.


Ugo Pozzoli




LETTERE – Salvare la persona – Antonio Rosmini 1797-1855

Centocinquant’anni fa, il 1° luglio 1855, si spegneva dopo una lunga malattia il prete roveretano Antonio Rosmini. «Prete roveretano», l’unico titolo di cui egli amava fregiarsi, nonostante discendesse da una delle più nobili e facoltose famiglie trentine.
Uomo dalla cultura enciclopedica, filosofo eccezionale, fine teologo e pensatore politico, amico di alcune delle più belle menti del suo tempo (basti ricordare Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni), Rosmini ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana degli anni che precedettero l’unificazione.
Una figura non sempre capita, quella di Rosmini: fortemente amata da coloro che ebbero la fortuna di lasciarsi affascinare dalla sua mente eccelsa e dal suo grande cuore; ma anche astiosamente rifiutata da chi lo giudicò troppo frettolosamente un giovane e presuntuoso intellettuale.
Gli obiettivi che Rosmini si prefisse, già dall’inizio della sua breve ma straordinaria attività, non erano assolutamente modesti. Ancora giovane studente aveva convinto alcuni amici a unirsi a lui nella redazione di un’enciclopedia cattolica che avrebbe dovuto rappresentare, secondo l’intenzione dei suoi curatori, la risposta cristiana al progetto illuminista di Diderot e D’Alembert. Il progetto fallì, ma l’inquietudine di poter dare all’universo cattolico un’opera di ampio respiro, che potesse rispondere alle sfide sempre più pressanti che venivano da un mondo in costante evoluzione, rimase ben radicata nel pensatore trentino.
La situazione in cui versava l’Italia pre-risorgimentale, accesa dai fuochi della rivoluzione francese, era un laboratorio pressoché unico di fermenti e idee, in cui Rosmini si immerse con decisione. E ben presto comprese come il malessere diffuso che si avvertiva nella penisola e in Europa andava affrontato con strumenti diversi e più radicali di quelli che poteva offrire la politica.
Secondo Rosmini, la gente aveva perso la capacità di pensare «correttamente» e ben poco avrebbe giovato un cambio politico che non fosse accompagnato da una crescita intellettuale, morale e spirituale delle singole persone. Nasce da questa consapevolezza il carisma specifico rosminiano, quella «carità intellettuale», che orienterà i suoi studi fino al giorno della sua morte, e cioè, lo sforzo di instradare i suoi contemporanei alla scuola dell’essere, fondamento della realtà e via che conduce alla contemplazione del mistero di Dio, unica verità.
Questo progetto, che toccherà tutti gli ambiti del pensiero filosofico e teologico, si concretizzerà in un numero straordinario di opere pubblicate, numero reso ancora più incredibile se si pensa che Rosmini morì a soli 58 anni.

Due furono i motori che lo spinsero a quest’opera di rinnovamento del pensiero cristiano. Il primo può essere riassunto nel principio rosminiano di «passività», cioè, nella consapevolezza che per poter aiutare con efficacia l’uomo a correggere la propria mentalità, è necessario creare in se stessi l’attitudine dell’uomo di fede che sempre sottomette alla volontà di Dio i propri interessi e desideri. Il secondo stimolo venne al Rosmini dall’esplicito incoraggiamento dell’allora papa Pio vii a proseguire gli studi che si era prefisso in campo filosofico.
Nonostante le critiche che cercarono di colpire il pensiero, persona e attività di Rosmini, nate in molti casi in ambienti ecclesiali, il pensatore trentino sempre intese la sua opera in comunione stretta con la chiesa, per la quale ebbe durante tutta la vita amore e devozione. Anche quando, con la pubblicazione del famoso trattato Delle cinque piaghe della santa chiesa (1848) Rosmini mise a nudo alcuni problemi che affliggevano la realtà ecclesiale del tempo, l’intento di fondo fu quello di aiutare gli uomini a servire meglio la chiesa, aiutandola a sbloccarsi da quei difetti che la tenevano come «crocifissa», impossibilitata a liberare le sue enormi potenzialità di fare il bene.

Il fine di tutto lo studio rosminiano è eminentemente antropologico. Il centro del suo pensiero è l’uomo, e tutta la sua filosofia deve essere intesa come una vera e propria pedagogia dello spirito umano. Sempre pose bene in chiaro l’inutilità di una filosofia non diretta al miglioramento della condizione umana. In particolare, Rosmini pose l’accento sul concetto di persona, «il pinnacolo della natura umana», il cui valore, dignità e potenzialità indicano il cammino di ricerca della verità che ci può davvero rendere liberi.
L’antropologia rosminiana potrebbe trovare la sua collocazione nella valigia del missionario, dando all’apostolo di oggi una comprensione profonda e un grande apprezzamento della persona, dei suoi valori e dei suoi diritti inalienabili. «Salvata la persona è salvato l’uomo».
Un secolo prima di Maritain, il filosofo trentino ci presenta una figura di persona integrale, un piccolo microcosmo non riducibile a una parte, che ha in sé il germe della totalità, dovuta al dono della razionalità di cui ogni persona è foita e che la rende diritto sussistente, essenza stessa del diritto. Non lo stato, quindi, neppure il capitale o la finanza possono pretendere di essere essenza del diritto, ma la stessa persona umana.
Un messaggio forte per un’epoca in cui troppe persone non sono più considerate come soggetti di diritto, in cui la loro dignità è offesa dal momento della nascita a quello della morte. È anche per questo suo sempre attuale contributo «personalistico» che nella sua enciclica Fides et ratio, papa Giovanni Paolo ii associò il nome di Rosmini a quello di altri significativi autori cristiani, l’attenzione all’itinerario spirituale dei quali «non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti» (n. 74).
Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




LETTERE – Padre Attilio Ravasi

Cari missionari,
mi ha molto sorpreso la morte di padre Attilio Ravasi (20 aprile 2005). Avevo instaurato con lui un rapporto di amicizia, scrivendoci abbastanza frequentemente. In un suo scritto datato il 25 marzo, mi diceva che stava bene.
Ricordo ancora quel giugno 1998, quando passò a trovarmi e mi regalò una madonna intagliata in ebano, alla quale sono affezionato. Mi disse che doveva sottoporsi a cure, ma poi mi scriveva che stava bene. Contavo di rivederlo. Mi aveva sottoposto la situazione di Tune, nella diocesi di Marsabit, alla quale ho cercato in qualche modo di partecipare.
Vi invierò un’offerta per tale scopo e per la celebrazione di una messa in suo suffragio.
La sua protezione dal cielo servirà a mantenere la mia amicizia verso i missionari della Consolata.
Cleto Cucchi (SO)

Grazie per la sua amicizia e per unirsi al nostro dolore per la scomparsa del nostro confratello, che ha speso la sua vita nelle missioni del Kenya. Anche noi siamo certi che dal cielo continuerà a benedirci, insieme a tutte le persone che lo hanno conosciuto e stimato.

Cleto Cucchi




LETTERE – Cassandra… sarai tu!

Cari missionari,
un conto è dire che da parte di certi ambientalisti c’è una forte ostilità verso la religione e la morale cattolica, un conto è negare che i fiumi sono sempre più inquinati, i laghi più poveri di acqua, i ghiacciai più contratti, le foreste più depredate e degradate, le popolazioni indigene sempre più minacciate dal rischio di estinzione totale.
Per questo al libro Le bugie degli ambientalisti, edito da Piemme, preferisco di granlunga le critiche che Paolo Moiola su Missioni Consolata di marzo, ha rivolto ai suoi autori.
Non intendo dire che gli scritti di Gaspari, Cascioli e altri giornalisti cattolici allineati sulle loro posizioni non siano utili: sono tanti infatti i sedicenti filosofi della natura le cui teorie sono in palese contraddizione con l’insegnamento di Cristo e il magistero della chiesa ed è quindi giusto invitare il credente a guardarsi bene dalle loro banalizzazioni, trabocchetti, inganni, infamie.
Tuttavia conformarsi a Cristo e operare in sintonia con il magistero della chiesa significa anche respingere quelle nuove ideologie e correnti di pensiero in cui, non pochi cattolici invece si riconoscono: neoliberismo, neoconservatorismo, ottimismo giulivo, antiecologismo, anticatastrofismo, antiallarmismo, antianimalismo… sono visioni del mondo senz’altro più vicine all’illuminismo ateo che alla dottrina sociale della chiesa; più vicine al materialismo antropocentrista che all’idea della solidarietà tra uomo e natura, più vicine allo scientismo e al suo delirio di onnipotenza che alla vera antropologia cristiana, quella basata sul «coltivare e custodire» di Genesi 2,15, sull’«ora et labora» di san Benedetto, sul Cantico delle creature di san Francesco.
Secondo me, Cascioli, Gaspari & C. commettono un gravissimo errore quando appiccicano l’etichetta di «cassandre» a coloro che lamentano la distruzione delle foreste (specie quelle della fascia tropicale), la perdita della biodiversità, l’assurda caccia ad animali che si trovano a un passo dall’estinzione, perché alcune grandi reti criminali non ne vogliono sapere di mollare il business del corno di rinoceronte, delle carcasse e parti anatomiche di tigre, dell’avorio di elefante e ippopotamo, della carne di scimmia. Complessivamente il commercio illegale di animali selvatici, vivi o morti, ha un volume paragonabile a quello del mercato di droga, armi, materiale poografico…
Sbagliano anche quando cercano di coprire di ridicolo coloro che si oppongono all’uso sconsiderato degli insetticidi e pesticidi (la lotta biologica, correttamente intesa, è molto più efficace contro i parassiti oltre che meno nociva all’ambiente), coloro che contestano i progetti per la realizzazione di altre grandi dighe o centrali nucleari, coloro che suggeriscono la strada del riciclaggio, delle energie alternative (solare, eolico, geotermico, biogas), dell’uso più limitato e responsabile di certi mezzi di trasporto.
Ricordino, Gaspari e Cascioli, che, rifiutando di dare ascolto a Cassandra, i troiani firmarono la propria condanna a morte, ricordino che le argomentazioni che il magistero della chiesa ha usato e continua a usare contro aborto, sterilizzazione e politiche demografiche coercitive non hanno nulla a che vedere con la sdrammatizzazione dei problemi ambientali.
Bistrattando senza ritegno i dati sulla deforestazione, bracconaggio, pesca di frodo, stragi provocate dai disastri ecologici soprattutto nei paesi del Sud del mondo, mettendo in secondo piano gli sfaceli causati dalla guerra e industrie belliche, presentando i leader dell’eco-pacifismo come degli imbroglioni e i loro seguaci come degli ingenui, enfatizzando i difetti di Ong come il Wwf e Greenpeace tacendone i pregi, Gaspari e Cascioli diventano alleati di quella antilife mentality che dicono di considerare come la piaga più peiciosa del mondo moderno e sostenitori di quelle nuove forme di colonialismo dalle quali tante volte hanno invitato i loro lettori a non lasciarsi fagocitare.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Francesco Rondina