COME STA FATOU? Il segreto di Lucho, il medico


«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma…».

Lucho arrivò con mezz’ora di ritardo. La bottiglia di rhum Pampero ed il mais tostato erano pronti sulla tavola. La sera stava scendendo umida sulla sabbia di Villa, qualche ragazzo giocava ancora a pallone nel campetto di fronte alla casa che era silenziosa e carica dei vent’anni di ricordi in comune e di tensioni appena nascoste.
Sapere e far finta di non sapere, non essere e far finta di essere, non era facile per noi due e la bottiglia di rhum avrebbe dovuto aiutarci e così fece.
Era arrivato in ritardo, perché i suoi pazienti, che da tempo non vedeva, lo avevano fermato varie volte nel cammino. Raccontava questo con emozione, mentre si toglieva la giacca umida della sera di Villa, si lisciava i capelli oramai lievemente brizzolati e con il pollice e l’indice si sistemava i baffi ispidi sotto il naso prominente; mentre i suoi occhi, mobili e sempre arrossati, con soddisfazione osservavano la casa vuota di gente e la bottiglia ancora chiusa appoggiata sulla tavola.
Da una tasca della giacca estrasse un pacchetto di sigarette Premiere, una scatola di fiammiferi Inti, si sedette e cominciò a vomitare la sua vita.
Per me era sempre Lucho, il migliore, il più lucido tra tutti noi medici di Villa. Per me era sempre Lucho, il rivoluzionario, il gran bevitore, l’instancabile parlatore, il giocatore alle corse di cavalli, sempre alla ricerca di quattro soldi per mandare avanti i suoi figli.

«DOTTORE, DOTTORE…»

Gli occhi lucidi, il fumo delle sigarette ed il rhum e quel vomito di affetti, ricordi e rimpianti che, come diceva lui, erano quello che contava della sua vita.
«Sai di tutto il nostro lavoro sulla tubercolosi? È stato pubblicato da altri senza neanche menzionare i nostri nomi. E sai del mio lavoro sul colera? L’hanno pubblicato a Cuba senza dirmi niente».
«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito; ne ho trovati tanti venendo a casa tua. Quanti ne ho visitati nei miei anni di lavoro a Villa; quaranta, cinquanta al giorno per 15 anni di seguito e quello che potevano darmi non bastava mai per mantenere i miei figli. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma è stato il periodo più bello della mia vita».
Toraci scheletrici, addomi globosi, gole infiammate, croste di impetigo su pelli nere, su pelli bianche; oxiuri, ascaridi, giardie, vermi di tutti i tipi; pressioni alte e pressioni basse; mormorii, fischi, gorgoglii, suoni anforidi percepiti allo stetoscopio, battiti cardiaci. Le dita che percuotono i toraci e le schiene ricavandone suoni cupi e chiari; strati di gonne per arrivare ad addomi sofferenti; magliette sporche, piedi pieni di sabbia, mani rugose e secche, morbide e umidicce, affusolate, tozze; denti radi, neri o forti e bianchissimi; capelli duri e ispidi, crespi e lisci; tagli di vetri e di lame, morsi di cane, ago ricurvo e fili di tanti spessori, pinze e forbici, vaschette, secchi di garze sporche, la piccola sterilizzatrice a secco, gli abbassalingua e l’otoscopio, bilancia per neonati e per adulti; vasettini di plastica con coperchio per raccogliere lo sputo e cercare quei maledetti bastoncini rossi colorandoli con il metodo Zield Nelseen, il microscopio, la centrifuga.
«Dottore, mio figlio la notte digrigna i denti»; «Sono i parassiti»; «No, non è una vergogna la tubercolosi; sono dei bacilli che si colorano di rosso. Dovrà prendere pastiglie e farsi delle iniezioni e specialmente mangiare e mangiare»; «Cosa ha aspettato, signora, a portarmi suo figlio: è una broncopolmonite»; «Non avevo soldi e non posso comprare le medicine, sono calde o fredde?»; «Sì, sì l’eucalipto va bene, quello canforato dalle foglie argentee, ma deve prendere anche le capsule di amoxicillina, confezioni grandi di fiale di streptomicina, di pastiglie di isoniazide, di capsule di rifampicina e di etambutolo, ampicillina in sciroppo, bactrim, bustine di mebendazolo, pastiglie di piperazina e grossi vasi di vitamine colorate che avevano sempre successo»; «Sta partorendo la figlia del panettiere?»; «Chiamate la matrona. Io verrò se ci sono problemi»; «Fate passare quel bambino che ha la febbre alta»; «Come? C’è una famiglia a rischio? Forse ci sono bambini denutriti? Più tardi andrò a vedere».
«L’atrio dell’ambulatorio è pieno di sabbia e la sera è scesa. Chiudo. Esco sulla sabbia e passo a vedere la figlia del panettiere: ha partorito normalmente, mi offrono un piatto di riso con un pezzo di pollo ed un bicchiere di acqua di mele, raccomando di allattare al seno».
«Poi la famiglia a rischio, brutta la casa, senza finestre, pavimento di sabbia bagnata, reti sfondate con luridi materassi, vestiti e stracci ammucchiati su fili tesi fra le stuoie, pentola nera su di un fornello a cherosene, yuca bollita, televisore acceso, bambini senza scarpe, uno buttato su di una stuoia».

MALEDETTA POVERTÀ

Lucho era un fiume in piena ed io lo ascoltavo senza interromperlo. «Maledetta la povertà, maledetta la povertà che toglie anche la dignità, maledetta la povertà che genera violenza, maledetta la povertà che genera altra povertà e che genera bambini che saranno poveri senza speranza. Maledetto questo lavoro che non riesce a curare la malattia di ciascuno di loro, la povertà. Maledetta l’ignoranza che genera povertà e che da questa si alimenta, maledette queste stuoie che la nascondono e maledetti gli occhi di quelli che non vogliono vederla e di quelli che, avendola vista, se ne dimenticano».
«Scaldo lo stetoscopio fra le mie mani mentre parlo dolcemente al bambino, chiamandolo per nome, ha il mio stesso nome: “Lucho, piccolo Lucho, fammi sentire i tuoi polmoni, apri la boccuccia, uuh che begli occhi hai. Dai, vediamo il tuo pancino: è bello gonfio. Vede, signora, le narici come si muovono? Fa fatica a respirare e la sua pelle è secca, non ha un filo di grasso. Sente queste fossette sulla sua piccola testa? Ha sete. Vede questi capelli così fini e rossicci? È segno che non si sta alimentando bene. Dobbiamo curarlo, perché ha smesso di allattarlo? È denutrito, forse ha i vermi e una brutta bronchite. Lo so che non può portarlo in ospedale, signora, ma perché non me l’ha portato prima in ambulatorio, perché non l’ha pesato. Ah, non l’ha registrato quando è nato? Vai piccolo Lucho, porti il mio nome, da grande farai il medico, o l’ingegnere, vero?”».
«L’ho mandato da te a curarsi, ricordi; e Francisca, la psicologa, ha curato anche sua madre, infilandola sotto la doccia, pettinandole i capelli, mettendole il rossetto, e sai che l’altro giorno ho visto il piccolo Lucho? L’ho trovato a un parcheggio che lavava automobili, ha lavato anche la mia e non ha voluto neanche una mancia; ora avrà 15 anni il piccolo Lucho».
«Ma lo sai che se faccio il medico, la colpa è tutta di mio padre? Avevo una dozzina di anni ed ero riuscito a entrare nella migliore delle scuole di Lima. Mio padre ne era orgoglioso e tutto sembrava già deciso dal destino. Quel giorno invece di andare a scuola, insieme a un gruppetto di compagni di classe decidemmo di andare a giocare a pallone nel parco vicino. Era un piacere passeggiare per Lima in quei giorni di sole tiepido e così facemmo. Non mi accorsi però che mio padre ci aveva incrociato mentre si recava ad insegnare alla scuola di “Canto Grande” dove, diceva, la vita si apprendeva a suon di botte».
«Come spesso accade nella vita, quel fatto banale si è trasformato nel trampolino verso un mondo che non conoscevo e che ora mi riempie totalmente. Mio padre, pur essendo di cultura rigidamente borghese e pur avendo desiderato il mio inserimento nella scuola che frequentavo, al mio ritorno a casa mi disse semplicemente: “Lucho, da domani cambi scuola. Vieni a Canto Grande perché devi imparare a vivere e a rispettare gli impegni che ti prendi”».
«Io capii subito che mi aveva visto col pallone in mano e senza neanche una lacrima accettai di lasciare la scuola dei ricchi per andare in quella di periferia».
«Il mio compagno di banco era figlio di un venditore ambulante, che portava in giro per i mercatini della città la sua mercanzia fatta di suole di scarpe, lacci, lucidi e spazzole. Era il genio della classe e mi batteva specialmente in matematica e scienze. Se io ero grassoccio e non tanto alto, lui era invece mingherlino. Non gli piaceva giocare a pallone ed era estremamente attento ai problemi di ognuno dei suoi compagni. Un giorno cominciò a tossire e dopo un po’ di tempo a sputare sangue. Mio padre si allarmò, lo portammo in ospedale, lo curammo; morì di tubercolosi a quattordici anni. Gli giurai che avrei fatto il medico, perché non era giusto morire così».
«Sono forse un matto o il più stupido dei medici, perché invece di fare i soldi negli Stati Uniti sono rimasto in questo piccolo ambulatorio a curare chi a ogni piccolo balzo all’insù del dollaro mangia un po’ meno?».

LUCHO ED IO

La bottiglia di rhum era a metà, il posacenere stracolmo, e oramai le lacrime ci rigavano le guance ricordando i tempi passati: la nostra giovinezza, i nostri viaggi all’inferno e i nostri ritorni, non ci trovavamo mai d’accordo e ci avevano definiti i due carissimi nemici fedeli e ora non potevamo più esserlo.
Lo accompagnai alla porta, la sua auto scassata era là ad attenderlo. Ci abbracciammo, oramai uomini dai capelli radi e brizzolati e dall’anima più ruvida, ci lasciammo senza dircelo, ma coscienti che ognuno di noi sapeva dell’altro.
Lucho aveva lasciato il suo ambulatorio, i suoi pazienti, le sue medicine e il suo stetoscopio, quel giorno che la polizia l’aveva cercato e che lui non era riuscito a spiegare perché non si era mai laureato.
E io? Avevo lasciato il mio ambulatorio, i miei pazienti, le mie medicine e il mio stetoscopio, quel giorno che avevo perso il coraggio di curare con le mie sole mani e che non ero riuscito a spiegarmi il perché.
Ci vuole coraggio per fare il medico laggiù; ci vuole forza e sensibilità; ci vuole fede e speranza. Ora i miei occhi non vedono più la povertà, le mie mani non sentono più i piccoli addomi tesi, le mie orecchie non riconoscono più i suoni delle cavee della tubercolosi, e quell’ultimo incontro con Lucho, il migliore di noi medici, è stato forse il momento in cui si è chiuso, per noi due, un capitolo della nostra vita. •


Enrico Larghero

DOLORE E SOFFERENZA NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI PAOLO II
Edizioni Camilliane 2005, pag. 160, € 14,00

Enrico Larghero è dirigente medico presso la Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore dell’Azienda sanitaria ospedaliera «San Giovanni Battista» di Torino. Nel 2001 ha conseguito la laurea in teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino, e nel 2003 la licenza in Teologia morale con indirizzo sociale e bioetica presso la stessa facoltà.
Nella prima parte l’autore mette a confronto orizzonti diversi della realtà del dolore: l’orizzonte della medicina, l’orizzonte della filosofia antica e modea e l’orizzonte cristiano (nelle scritture, nella riflessione teologica, dai padri della chiesa a oggi).
La seconda parte tratta del mistero del dolore nella vita e nel magistero di Giovanni Paolo ii, sottolineando la dimensione sociale della sofferenza.
«Karol Wojtyla ha posto al centro del suo papato principalmente l’uomo e la sua dignità. Da qui la solenne promessa che “laddove l’uomo nasce, soffre e muore, la chiesa sarà sempre presente a significare che, nel momento in cui egli fa l’esperienza della sofferenza Qualcuno lo chiama per accogliere e dare un senso alla sua fragile esistenza”… Il vangelo di Cristo, riproposto dai documenti papali, ha la capacità di trasformare il mondo, spesso troppo arido e secolarizzato, in un luogo di amore e di speranza».

Guido Sattin




Resistenza civile contro Alcala e Ppp

Nonostante i mutamenti politici raggiunti per via violenta, nei paesi dell’America Centrale la situazione rimane intollerante. Unica via d’uscita per generare un cambiamento sociale e politico è senza dubbio la resistenza popolare, legata alla disobbedienza civile non violenta.
In El Salvador, dopo 30 anni di violenza e centinaia di migliaia di morti sono stati firmati gli accordi di pace nel 1992. A 13 anni da quella data, il paese si trova di fronte all’imposizione di una serie di megaprogetti, dannosi per la maggioranza delle popolazioni. A opporsi o limitare i danni di questi megaprogetti ci sono varie organizzazioni come il Cripdes (Comunità rurali per lo sviluppo di El Salvador) e Compa (Convergenza di movimenti dei popoli delle Americhe).
Marta Lorena Araujo Martines è una delle responsabili della Compa, cornordinamento di 75 organizzazioni della società civile di tutta l’America Centrale. Inoltre essa è cornordinatrice del Cripdes, che raggruppa 42 organizzazioni sociali e contadine di El Salvador.
«Il cornordinamento della Compa – spiega Marta Araujo – ci permette di essere in contatto con tutte le organizzazioni affiliate in America Latina e molte altre associazioni che condividono i nostri stessi obiettivi: organizzazione, mobilitazione, lotta e ricerca di alternative ai grandi problemi che vivono i nostri paesi. Inoltre rappresento il Cripdes, che è un’organizzazione salvadoregna, nata nel 1984 per far fronte all’emergenza dei profughi causata dal conflitto armato. In quel frangente ci impegnammo soprattutto per far sì che la popolazione civile fosse considerata come popolazione non combattente e non come obiettivo militare da parte dell’esercito e della polizia militare. Abbiamo lavorato con le comunità contadine perché venissero rispettati i diritti umani, economici, sociali e culturali. Fu un periodo molto duro e difficile per il paese.
Attualmente continuiamo a cercare alternative alla situazione attuale; per questo facciamo parte della Compa, cioè dei vari movimenti sociali dell’America Latina, che vogliono crescere dal basso e diventare forti per affrontare le politiche nefaste dei trattati liberisti che irrompono nella vita dei nostri popoli».

Le politiche che investono i paesi centroamericani si chiamano: Piano Puebla Panama (Ppp) e Area di libero commercio delle americhe (Alcala). I due organismi sono strettamente legati. Affinché l’Alcala, il trattato di libero commercio, possa funzionare con efficienza, il Ppp deve provvedere le infrastrutture necessarie: fare strade, ristrutturare porti, costruire zone franche o maquilas lungo tutta l’America Centrale.
Nella realizzazione di tali strutture, però, occorre il «capitale umano». Per questo il Ppp è impegnato a «spostare» migliaia di persone dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, senza nessun rispetto per le popolazioni indigene e contadine, costrette ad abbandonare la propria terra e le tradizioni millenarie, per diventare operai di maquilas, mano d’opera «addomesticata dalla povertà».
E tutto avviene con il consenso dei governi neoliberali che, più che rispondere alle aspettative della propria gente, obbediscono alle politiche degli Stati Uniti, il cui governo sta forzando in tutti i modi il trattato del libero commercio.
«Le infrastrutture e megaprogetti del Ppp rendono sempre più vulnerabile la situazione della popolazione delle aree rurali – continua ancora Marta Araujo -. Non è assolutamente vero che tali infrastrutture porteranno sviluppo, come viene detto dalle pubblicità che ci fanno vedere e ascoltare.
Nel caso di El Salvador, oltre alla ristrutturazione di porto Cutucu e a nuove strade, il Ppp costruirà due dighe. Entrambe sono progettate con una precisa strategia che prevede l’espulsione dalle aree rurali di oltre 55 mila famiglie indigene e contadine, spingendole a emigrare verso le aree urbane perché diventino operai nelle zone franche o maquilas.
In questo modo verrà distrutta ogni organizzazione e unità comunitaria; saranno consegnati titoli di proprietà individuali, smembrando così l’economia collettiva; saranno introdotti i semi geneticamente modificati (Ogm), con effetti devastanti sull’agricoltura locale e sicurezza alimentare: essi fanno sparire il seme “autoctono”, pazientemente “addomesticato” dai nostri antenati per millenni.
I progetti del Ppp non riguardano solo El Salvador, ma anche Guatemala e Messico. Nella regione nicaraguense di El Petén e nel sud del Messico, si vogliono costruire 30 dighe, che spingeranno 10 milioni di indigeni a diventare operai nelle maquilas, oltre a porre fine in questo modo alla resistenza indigena del Chiapas.
Il processo di attuazione non tiene in nessuna considerazione la cultura ancestrale dei popoli indigeni che vivono in quelle zone del Messico da più di 5 mila anni. Il Ppp è una minaccia per tutti e non può che generare più povertà, più instabilità sociale e più disperazione nei popoli centroamericani».

Di fronte alla pressione Usa per implementare l’Alca, cresce la resistenza non solo da parte dei movimenti della società civile latinoamericana, ma anche da parte di vari governi, come Costa Rica, Brasile, Argentina e Venezuela.
«L’Alca avrebbe potuto funzionare se ci fosse stato un processo democratico di consultazione tra tutti i settori sociali dell’America Latina – afferma Marta Araujo -, ma così non è stato. Al contrario, si è trattato di un processo favorito dai politicanti di una ristretta élite al potere in alcuni paesi. È chiaro che quanti hanno intenzione di imporre l’Alca vogliono garantire soltanto il proprio benessere, a scapito della stragrande maggioranza della popolazione, condannata all’estrema povertà.
Ma a fae le spese sono soprattutto i popoli dell’America Centrale, che sono i più vulnerabili. Per questo ci opponiamo energicamente ai trattati liberisti come quello dell’Alca e del Ppp, perché siamo convinti che questi progetti ostacoleranno lo sviluppo umano di tutte le popolazioni dell’America Centrale».

Josè Carlos Bonino




Il miraggio dell’emigrazione

La guerra civile in El Salvador ha provocato milioni di profughi.
I governi neoliberisti che da una quindicina di anni guidano il paese non hanno portato alcun beneficio alle popolazioni rurali, che si sono riversate nella capitale, vivendo nella povertà ed emarginazione.
Dalla città l’emigrazione continua verso gli Stati Uniti: un quarto della popolazione salvadoregna vive negli Usa.
Il fenomeno dell’emigrazione continua, tra indicibili umiliazioni, anche se varie associazioni cercano di frenare tale esodo, con progetti di sviluppo solidale.

Con l’arrivo della globalizzazione, San Salvador, la capitale, riunisce in sé tutta la ricchezza e la miseria del paese. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tipici mali dei modei agglomerati urbani: mancanza d’acqua, povertà, ghettizzazione, violenza e inquinamento. L’esodo dei contadini, in fuga dalla miseria rurale e dalla guerra, ha invaso la città e di conseguenza l’ha fatta crescere a dismisura.
Dalla capitale, poi, quasi tutti gli uomini, tranne vecchi e bambini, sono emigrati verso gli Stati Uniti, dove vivono 2 milioni di salvadoregni. Le donne più giovani, invece, sono rimaste a San Salvador per spendere la loro giovinezza nelle maquilas dove vengono pagate molto poco, «giusto quanto serve perché non muoia il lavoratore, perché non muoia lo sfruttato» si dice nel paese.
Il resto, donne e uomini contadini – una buona parte della popolazione economicamente attiva – lavorano nel settore informale, o sono andati a ingrossare l’esercito dei venditori ambulanti oppure girano per le strade del centro della città.
Durante il giorno li si vede trafficare tra le bidonvilles e i nuovi centri commerciali, copia identica di quelli degli Stati Uniti; tuttavia i margini di consumo e il modello di «progresso» di questo ingombrante vicino (il Nord America), trasferiti in un paese povero, rappresentano solamente un «miraggio» in termini di stabilità macroeconomica.
Infatti questi nuovi centri commerciali sono stati costruiti e, soprattutto, progettati per assorbire i 2.200 milioni di dollari che i 2 milioni di emigrati salvadoregni presenti in Usa mandano ogni anno alle proprie famiglie rimaste in patria. Tale flusso di denaro supera di 20 volte le esportazioni di caffè, che a loro volta rappresentano il 70% del totale delle esportazioni di El Salvador.

DIRITTI CALPESTATI

In queste circostanze è iniziato il nostro viaggio per San Salvador, con l’intenzione di capire più a fondo tale situazione, cercando, soprattutto, di ascoltare i leaders della società civile del paese. Abbiamo visitato la Commissione per i diritti umani di El Salvador (Cdhes). Tale Commissione, non governativa, fu fondata nel 1978 e da allora è impegnata nella difesa dei diritti umani del popolo salvadoregno, denunciando i soprusi a livello nazionale e internazionale.
Evidentemente, il lavoro di 26 anni nell’impegno per la giustizia è stato giudicato «scomodo», al punto da avere causato la perdita di 7 attivisti, assassinati o fatti sparire dalle forze militari. Tra loro Marianela García, che è stata la principale fondatrice di questa organizzazione, insieme al presidente Herber Anaya e altri cinque colleghi che hanno creduto in questo impegno di giustizia.
L’attuale direttore della Cdhes, Miguel Montenegro, oltre a parlarci del lavoro odierno della Commissione, ci ha raccontato un po’ della storia travagliata del paese: «El Salvador misura 21.000 kmq, con un’alta densità demografica: attualmente conta più di 6 milioni di abitanti residenti, oltre 2 milioni di emigrati negli Stati Uniti e altre migliaia in vari paesi del mondo.
La storia contemporanea del paese è segnata da diverse tappe. In un primo periodo sono stati violentati prevalentemente i diritti umani nella campagna. Verso gli anni ’20 El Salvador era praticamente un paese esportatore solamente di caffè, finché nel 1929, in conseguenza della crisi economica mondiale, il caffè restò senza mercato: la raccolta non si effettuò e migliaia di braccianti e contadini poveri soffrirono la fame.
A causa di questa situazione, lo scontento popolare crebbe fino a scoppiare in rivolta, nel 1932, guidata da Farabundo Martí. La ribellione fu soffocata nel sangue, con massacri perpetrati dalle truppe del generale Maximiliano Heández. La repressione fece 12 mila morti. Iniziò così una serie di regimi militari che durò per mezzo secolo».
«Tra gli anni ’60 e ’70 – continua Miguel Montenegro – i diritti umani vengono calpestati prevalentemente in città. In questi anni, infatti, la gente inizia a emigrare verso le aree urbane, per l’avvento dell’industrializzazione nell’ambito del Mercato comune centroamericano. Gli alti indici di crescita raggiunti, non furono sufficienti per abbattere la disoccupazione e lo scontento per le ingiustizie si trasferì in città.
Seguì un altro periodo di violenta repressione, portata avanti da differenti “corpi di sicurezza” e dalle forze armate. È in questo momento che iniziano l’organizzazione e la denuncia da parte nostra. Nel 1977, infatti, la contestazione civile era scesa per le strade e la repressione era stata dura e indiscriminata, causando oltre 7 mila morti.
L’impotenza e la mancanza di alternativa politica fecero esplodere il conflitto armato. Scoppiata nel 1980, la guerra civile durò per 12 anni, con un conto salatissimo: 80 mila persone assassinate, più di 7 mila desaparecidos e circa un milione di profughi. Dopo questo periodo estremamente difficile per El Salvador, nel 1992 furono firmati gli accordi di pace tra il movimento guerrigliero Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmln) e il governo ed esercito, soggetti che in quel momento si equivalevano totalmente».
«Attualmente stiamo vivendo in tempo di post-guerra – conclude Miguel Montenegro -. Continuiamo a difendere i diritti economici, sociali e culturali, che sono quelli più calpestati. Certo, rispetto al periodo del conflitto armato e immediatamente dopo la firma degli accordi di pace, i diritti umani vengono violati in minore misura, ma continuano a essere ancora a rischio. La “Polizia nazionale civile”, per esempio, sorta dagli accordi di pace, defrauda le aspettative e speranze dei salvadoregni, commettendo abusi, torture, minacce di morte ai civili. Un comportamento che ubbidisce a una politica di stato: serve strategicamente a garantire la sicurezza di quei settori della società economicamente benestanti, che hanno in mano il potere e che lo utilizzano contro i poveri».

PER QUALCHE DOLLARO IN PIU’

Uno dei fenomeni sociali più importanti e drammatici di El Salvador è quello dell’emigrazione. Il problema investe la storia contemporanea di tutta l’America Latina in generale, ma riguarda in modo particolare i paesi del Centro America.
Il grande flusso migratorio dall’America Centrale verso gli Stati Uniti si spiega, da un lato, per la vicinanza geografica e, dall’altro, per il fatto che tutti i paesi centroamericani, tranne il Costa Rica e in parte il Panama, appartengono ormai al «quarto mondo», secondo la definizione del sociologo francese Serge Latouche. Tra i paesi dell’America Centrale, El Salvador è l’unico ad avere un quarto della sua popolazione residente negli Stati Uniti, prevalentemente concentrata a Los Angeles e New York, dove abita più di un milione, metà dei salvadoregni che vivono negli Usa.
In questo flusso migratorio verso gli Stati Uniti, i più vulnerabili sono i salvadoregni che emigrano per via terra e in maniera illegale. Essi sono costretti a emigrare perché divenuti oggetto dell’ingiustizia sociale nel loro paese.
Nell’ultimo decennio, infatti, in El Salvador il divario tra ricchi e poveri è aumentato di ben 24 volte. Ciò significa che il 20% delle famiglie più povere di questo paese partecipa alla ricchezza nazionale per un misero 2,4% (famiglie intere che vivono con meno di un dollaro al giorno); mentre il 20% delle famiglie più ricche si appropria del 58,3% della ricchezza nazionale.
È questa ingiustizia a spingere i salvadoregni a imboccare la strada dell’emigrazione, un autentico calvario, in cui devono subire maltrattamenti, da parte delle autorità migratorie nei paesi di transito, e i continui inganni dei coyotes, come vengono chiamati gli individui che trasportano illegalmente le persone attraversando Guatemala e Messico e le frontiere degli Stati Uniti.
Soprusi e angherie non finiscono con il viaggio, ma continuano nel paese d’arrivo, senza parlare del fatto che soltanto l’1% dei salvadoregni che intraprende la strada dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, riesce ad arrivare alla meta.
Le donne emigranti sono la categoria più vulnerabile dopo i bambini. Queste donne, di solito sopra i 30 anni, si vedono obbligate a emigrare sia per il salario da fame che offre la maquila, sia per le difficili condizioni di lavoro a cui sono sottoposte: la vita lavorativa nelle maquilas finisce a 30 anni.
La sorte delle donne emigranti è drammatica: non avendo soldi per sopravvivere e per continuare il viaggio, si vedono loro malgrado coinvolte nella prostituzione. Altre decidono di consegnarsi alle autorità migratorie e sono costrette a rientrare a El Salvador come deportate.
A partire dal 2000, è iniziata anche l’emigrazione dei bambini, chiamati coyotitos: partono da soli da El Salvador per ricongiungersi ai genitori negli Stati Uniti. In alcuni casi, bambini e ragazzi tra i 10 e i 15 anni sono stati utilizzati alle frontiere per trasportare e smistare droga; oppure, in attesa di continuare il loro viaggio, questi minori vengono usati per vendere cocaina e marijuana a Guatemala City e a Città del Messico e finiscono per chiedere l’elemosina quando vengono «scartati» dai pusher. (Il viaggio della droga inizia in Colombia, passa per l’America Centrale e arriva negli Stati Uniti; da qui riparte per Spagna e Portogallo ed è smistata in tutta l’Europa).
Miguel Montenegro della Cdhes illustra ulteriormente la situazione degli emigranti: «Ai 2 milioni di salvadoregni emigrati negli Usa, molti altri se ne aggiungono ogni giorno; il fenomeno continuerà a lungo anche in futuro, perché la situazione economica di questo paese non sembra affatto migliorare. Inoltre, bisogna ricordare che, oggi, El Salvador sopravvive grazie alle rimesse degli emigrati; tali rimesse sono la voce più importante per quanto riguarda l’ingresso di dollari nel paese, valuta indispensabile per l’economia salvadoregna, soprattutto da quando è in vigore la dollarizzazione».
«Se è pessimo il trattamento riservato ai salvadoregni durante il viaggio verso gli Stati Uniti – conclude Miguel Montenegro – ciò che gli emigranti centroamericani incontrano nel nuovo paese non è certo migliore. Le politiche migratorie del governo degli Stati Uniti e l’applicazione di leggi sempre più restrittive sfociano spesso in atti di violenza che attentano alla vita dei migranti. Le autorità frontaliere sono arrivate a utilizzare armi con proiettili di gomma e bombe lacrimogene per disperdere i migranti che si avvicinano alla frontiera Usa. Inoltre, la legislazione in vigore tratta i migranti come delinquenti, quando in realtà sono solamente persone che cercano un lavoro più remunerativo, per soddisfare alle necessità elementari dei familiari rimasti nei rispettivi paesi».

DALLA CAMPAGNA ALLA CITTÀ

Di fronte a tale fenomeno, viene spontaneo domandarsi: dove inizia tale esodo, che negli ultimi 10 anni ha coinvolto il 20% della popolazione salvadoregna? Oggi, il 60% della popolazione del paese abita in città, mentre un decennio fa era il 40%.
Molte delle famiglie che emigrano nella capitale, San Salvador, e verso altri centri urbani, svolgono attività di commercio informale e finiscono praticamente per riprodurre la situazione di miseria che avevano in precedenza, senza ottenere nel medio e lungo termine un miglioramento delle loro condizioni di vita.
A San Salvador abbiamo incontrato Hugo Flores, direttore dell’Associazione per la cooperazione e lo sviluppo comunitario di El Salvador (Cordes). Da più di 15 anni questa associazione tenta di fermare l’esodo rurale e ha aiutato i profughi, alla fine della guerra, a ritornare nelle proprie comunità e a ricostruire la loro vita, utilizzando come strategia un nuovo modello di sviluppo associativo e sostenibile: creare, cioè, opportunità che non siano in contrasto con l’ambiente naturale circostante.
«Cordes è sorta nel 1988 – spiega Hugo Flores -, durante il processo di rimpatrio di migliaia di famiglie che all’inizio degli anni ’80, per fuggire al conflitto armato, si erano rifugiate in diversi paesi dell’America Centrale e nelle zone più intee di El Salvador. In tale contesto la nostra associazione ha accompagnato queste famiglie nella situazione di emergenza e reinserimento, aiutandole a risolvere le necessità più urgenti, come alloggio, scuola, sicurezza alimentare e sanitaria. Inoltre, Cordes si prefisse il compito di accompagnare queste famiglie nella lotta per il rispetto dei diritti umani che in quegli anni erano costantemente violati dalla dittatura militare.
Nel 1992, con la firma degli accordi di pace, abbiamo iniziato un processo di riorganizzazione strategica, che ci ha portato a specializzarci sul tema dello sviluppo rurale sostenibile. In questo modo, da una parte ci proponiamo di risolvere il problema della sicurezza alimentare e dall’altro di generare reddito e lavoro a circa 5 mila famiglie, promuovendo 5 programmi nella campagna salvadoregna.
Il primo riguarda progetti agricoli e di allevamento nell’ambito della sicurezza alimentare, indispensabile per contenere l’impoverimento della campagna salvadoregna; il secondo è un programma finanziario che promuove la creazione di cornoperative di risparmio e credito, come enti al servizio di queste famiglie. Attualmente in tutte le cornoperative funzionanti si hanno complessivamente 5 mila soci.
Il terzo progetto riguarda lo sviluppo imprenditoriale, che ha creato finora tre piccole imprese agro-industriali, per la trasformazione dei prodotti contadini e per la commercializzazione all’interno di El Salvador e per l’esportazione. Un quarto programma si occupa di gestione dei rischi: lavoriamo con le comunità e le famiglie, aiutandole e insegnando loro a reagire a situazioni di emergenza, come uragani e alluvioni, fenomeni frequenti nel paese.
Un quinto programma ha come oggetto il rafforzamento istituzionale: cioè accompagnare e sostenere l’organizzazione sociale perché sia capace non solo di realizzare con successo i loro progetti, ma abbiano pure capacità e forza per incidere nella politica, per negoziare con il governo e organismi inteazionali.
Attualmente stiamo lavorando in 300 comunità contadine e 17 mila famiglie; abbiamo creato 5 uffici dipartimentali in tutto il paese; continuiamo ad accompagnare lo sviluppo rurale sostenibile con la convinzione che è questa la chiave per fermare il depauperamento che colpisce soprattutto la campagna in El Salvador».

ALLO STATO CONVIENE….

Cordes e altre associazioni e organizzazioni non governative sono impegnate a contenere la povertà e l’emigrazione sia nella campagna che nelle città; ma i loro sforzi sono inutili, perché la spinta a tale esodo viene dalla stessa politica economica di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni. Una politica che ha danneggiato non solo le regioni rurali, ma anche le aree urbane, provocando concentrazione demografica e ghettizzazione nelle baraccopoli, come nella periferia di San Salvador.
In uno dei quartieri periferici della capitale abbiamo incontrato César Villalona, economista e consulente di un progetto di educazione popolare: ci ha spiegato le strategie fallimentari di sviluppo attuate dai governi neoliberali del paese.
«Negli ultimi due decenni abbiamo assistito a iniziative di decentramento del potere e a numerosi progetti di sviluppo locale promossi prevalentemente dalle Ong. Progetti in cui sono state combinate la partecipazione e l’organizzazione popolare, la riattivazione economica e la generazione di nuove fonti di lavoro.
Tutti questi sforzi, però, si scontrano con una realtà ben chiara: El Salvador sta sostituendo la sua produzione agricola con importazioni. Negli ultimi 14 anni sono crollate sia la produzione contadina, soprattutto di verdure e grano (elemento base per l’alimentazione) sia l’allevamento. Attualmente, buona parte del cibo è importato dall’estero.
In questo contesto, quindi, è molto difficile pensare a uno sviluppo locale concreto. Gli sforzi fatti fino a ora non sono stati risolutivi; la situazione è aggravata dal sistema finanziario, che non dà appoggio all’agricoltura. Le Ong, da parte loro, fanno quel che possono, poiché dispongono di risorse molto limitate.

Siamo in un circolo vizioso: da una parte la mancanza di sviluppo causa il fenomeno migratorio; dall’altra la fuga delle persone più valide all’interno delle comunità mette in crisi lo sviluppo locale.



DIPENDENZA POLITICA


La modeizzazione imposta dalla globalizzazione ha segnato la fine della sovranità economica del paese e l’inizio dell’ingerenza politica statunitense. Inoltre, l’introduzione di strumenti economici, come il Trattato di libero commercio (Tlc) recentemente siglato tra i due stati, ha aumentato la dipendenza di El Salvador dagli Usa, fino a diventare totale.
Tale situazione è degenerata solo negli ultimi 15 anni. Prima, infatti, El Salvador aveva poco capitale straniero e la sua economia si sostentava con l’esportazione di caffè e cotone. C’era più autonomia anche a livello politico. Ma in questi ultimi 15 anni, la classe imprenditoriale salvadoregna ha concluso che, nel mondo globalizzato, può sopravvivere solamente se è totalmente vincolata al capitale nordamericano. Il Tlc rinforza questa dipendenza.
Il 65% delle esportazioni di El Salvador va negli Usa; dagli Usa importa il 55% di beni e servizi; tutta l’industria delle maquilas, dove lavorano 90 mila persone, è vincolata al capitale nordamericano; da questo paese arrivano 2.200 milioni di dollari in rimesse; il debito estero è principalmente con gli Stati Uniti e con organismi multilaterali dipendenti dal governo degli Stati Uniti.
Si tratta, quindi, di una dipendenza economica totale, che ha un riflesso immediato a livello politico. El Salvador, per esempio, è stato l’ultimo dei paesi latinoamericani a decidere di ritirare le truppe dall’Iraq. Il governo non ha nessuna possibilità di prendere decisioni che riguardino le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti.
Goveanti e classe dirigente di questo paese sono così legati al carro americano, da rendere El Salvador la nazione più dipendente dell’America Centrale e praticamente dell’America Latina. Gli Usa hanno ingerenza totale nella politica intea ed estera del paese.

Un esempio eclatante lo si è avuto nelle ultime elezioni politiche: il governo statunitense è intervenuto direttamente nella campagna elettorale, inviando alti funzionari che dicessero al popolo per chi votare. Il tutto accompagnato dalle dichiarazioni ufficiali dell’ambasciatore degli USA in El Salvador. Il risultato è che il governo è in debito con gli Stati Uniti: per ricambiare è diventato talmente compiacente verso il potente vicino, da dimenticare da chi è stato eletto

BOX 1

STOP ALL’ESODO

Nonostante le rimesse in dollari che gli emigrati inviano al paese di origine, l’emigrazione costituisce un forte impoverimento per la nazione. In El Salvador la gravità è doppia, poiché provoca lo spopolamento della campagna, primo anello della catena del depauperamento demografico e delle forze produttive del paese.
Come frenare tale esodo? Hugo Flores, direttore dell’Associazione per la cooperazione e lo sviluppo comunitario di El Salvador (Cordes) racconta un’esperienza significativa e innovativa realizzata nel municipio di Tecoluca, con cui la sua organizzazione è riuscita a frenare tale emorragia migratoria dalla campagna alla città.
«Un anno fa, abbiamo fatto uno studio per scoprire le cause e l’intensità dei flussi di emigrazione dalle zone rurali di El Salvador. La conclusione è stata che, nel nord del paese, nel municipio di Tecoluca, i flussi di emigrazione verso le città e poi verso l’estero, comparati con altri municipi, sono relativamente più bassi. In questo municipio avevamo lavorato in stretta collaborazione con l’amministrazione comunale e altre istituzioni, promuovendo una serie di iniziative economiche e produttive di ampio respiro, come il miglioramento delle infrastrutture, introduzione dell’acqua potabile e dell’energia elettrica.
Queste iniziative, che includevano la partecipazione popolare, hanno cominciato subito a dare frutti: la popolazione di questo municipio non desidera più emigrare. È evidente che la gente emigra solo se vi è costretta dalla povertà; ma rimane nella propria terra se viene offerta la possibilità di lavoro e di guadagno per sopravvivere dignitosamente.
Abbiamo quindi formulato una proposta incentrata sull’incremento dello sviluppo nel settore rurale dell’agricoltura e allevamento. Prima, però, abbiamo dovuto garantire le risorse necessarie, garanzie minime che negli ultimi 10 anni erano venute meno, a causa del modello neoliberale imposto dal governo. In tale processo, infatti, sono state soppresse e smantellate le strutture statali che sostenevano il settore agricolo e di allevamento: la banca agraria è stata privatizzata; il Ministero d’agricoltura e allevamento depotenziato; l’istituto per la creazione e mantenimento dei canali di commercializzazione è stato ridotto all’impotenza. Banche, ministeri e istituzioni varie sono rimaste senza risorse e nell’incapacità di promuovere sviluppo nel settore rurale; in questo modo la povertà si è generalizzata, fino a travolgere il 97% della gente che ancora abita in campagna.
Nell’implementare i sistemi di produzione cerchiamo di coinvolgere la gente e sviluppare il concetto di sostenibilità. Questa viene declinata attraverso progetti che rispettino l’ambiente, con iniziative che generino impiego, garantiscano la sicurezza alimentare e assicurino un guadagno alle famiglie coinvolte nei progetti. Questo modello partecipativo contribuisce a fermare la povertà nella campagna e quindi l’emigrazione e tutti i mali ad essa collegati; inoltre preserva e conserva le risorse naturali, che in questo paese sono state depredate negli ultimi anni proprio a causa della diffusione della povertà.
Ma tale modello di sviluppo sostenibile deve essere implementato a livello statale, perché i cambiamenti siano concreti e a lungo termine. Nel nostro paese, purtroppo, lo stato si disimpegna completamente e lascia che la situazione degeneri, mentre si è impegnato a firmare un trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, che produrrà benefici solo per questi ultimi e aggraverà la situazione della campagna di El Salvador».
J. C. Bonino .

Josè Carlos Bonino




Una sola madre terra I disastri dell’homo turisticus

Il turismo è la prima attività economica a livello mondiale. Sembrerebbe una buona cosa, ma la realtà è diversa e quasi sempre misconosciuta, specie nei paesi del Sud. Escludendo le forme più infami, il turismo, come oggi è concepito, produce disastri rilevanti. Sull’ambiente e popolazioni locali. Leggere per credere…
(Prima parte)

Paradisi tropicali, natura selvaggia, spiagge incontaminate, avventura, popoli gentili e ospitali, con il ritmo nel sangue, il sorriso sul volto, voglia di vivere e dignità della propria condizione. Come resistere ad una vacanza che promette questo ed altro?
Per molte persone il costo economico di un viaggio in qualche paese esotico è sempre più alla portata del proprio portafoglio. Ma ci sono altri «costi», dei quali nessuna agenzia, nessuna pubblicità o rivista specializzata ci avvisa al momento della partenza.

HOMO TURISTICUS

Nomadi, marinai, mercanti, pellegrini… L’uomo ha viaggiato da sempre, motivato innanzitutto dalla necessità. Solo in tempi recenti si comincia a viaggiare «per piacere», grazie alla disponibilità di mezzi, per curiosità culturale, ma anche per una sorta di «dovere» che ci obbliga, periodicamente, a lasciare il lavoro e la casa per «andare in vacanza». Il turismo diventa un fenomeno di massa e, come dice Duccio Canestrini, nasce l’«homo turisticus», che con relativa disponibilità di denaro parte verso luoghi lontani da casa per tornare presto alla routine quotidiana. Proprio perché la visita fa parte delle sue vacanze e non della sua vita professionale, il turista «è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani», sostiene Tzvetan Todorov. La conoscenza dei costumi umani, infatti, richiede tempo, e l’incontro con «l’altro» rischia di mettere in gioco la nostra vita quotidiana, di mettere in discussione le nostre motivazioni e la nostra stessa identità. Senza contare che, anche se l’atto stesso di viaggiare provoca un senso di benessere fisico e mentale, nello spostamento è insita una sensazione di spaesamento e distacco.
Di tutto ciò l’industria turistica è ben consapevole e non esita a ricreare un modello di vita del tutto simile a quello appena lasciato. Stesso cibo, stesso ambiente, stessi ritmi di vita, stessa lingua e stessi compagni. Con la conseguenza di svuotare il viaggio dalla componente esperienziale che ha sempre avuto: conoscere meglio gli altri e se stessi. Il risultato è che viaggiamo sempre di più, ma di nuovo vediamo ben poco. «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» recita un proverbio africano. E sembrano lontane anche le parole di Marcel Proust: «Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
In effetti il termine turismo deriva dal francese «tour», cioè giro, percorso, viaggio, ma può essere fatto risalire a una parola ebraica, tora, che significa studio, conoscenza, ricerca.

UN’ESPANSIONE
PER POCHI PRIVILEGIATI

Lo sviluppo del turismo ha rappresentato uno dei grandi fenomeni economici e culturali degli ultimi venti anni, un vero indice della globalizzazione. Attualmente il turismo è considerato la principale attività economica a livello mondiale. Alle soglie del 2000 ha prodotto 455 miliardi di dollari di fatturato, e impiegato il 7% dei lavoratori mondiali. Gli arrivi inteazionali, ossia il numero di arrivi di persone residenti in un altro paese, sono passati dai 69 milioni del 1960 ai 700 milioni del 2000, con stime che si avvicinano ad 1,6 miliardi per il 2020.
Oggi il turismo può essere considerato come una vera e propria serie di industrie collegate: compagnie aeree, catene alberghiere, ristorazione, tour operator, agenzie di viaggio, guide, trasporti, assicurazioni, artigianato, gestione dei beni culturali e ambientali, ecc. Come altri settori produttivi del mercato globale, anche il turismo sta diventando sempre più concentrato. Nel 1998, le prime 10 compagnie aeree mondiali incameravano ben due terzi dei profitti prodotti da tutte le aziende associate all’Air Transport Association. Nel 1999, le prime cinque catene alberghiere gestivano circa il 14% delle camere d’albergo del mondo, e nel 2000 quattro tour operator europei monopolizzavano quasi 50 milioni di turisti.
Se nel 2003 il turismo internazionale ha attraversato un anno particolarmente difficile, segnato dall’inizio della guerra in Iraq, dalla Sars e da un’economia nel complesso debole, nel 2004 l’andamento è stato invece molto positivo, con una conclusione però tragica dovuta allo tsunami asiatico. Complessivamente si è raggiunto un record assoluto: 760 milioni di arrivi, con una crescita particolarmente forte in Asia, nel Pacifico e in Medio Oriente.
Nonostante questi numeri, il fenomeno turistico riguarda una piccola fetta privilegiata della popolazione mondiale. Quasi l’80% dei turisti inteazionali proviene infatti dall’Europa e dalle Americhe, mentre solo il 15% giunge dall’Asia orientale e dal Pacifico e il 5% da Africa, Medio Oriente e Asia meridionale. In totale, gli arrivi di turisti inteazionali rappresentano solo il 3,5% della popolazione mondiale.

IL PACCHETTO E’ TUTTO INCLUSO

A prima vista, per i paesi in via di sviluppo il turismo sembra presentare ovvi benefici: ingresso di valuta pregiata, incremento del gettito fiscale, creazione di posti di lavoro, opportunità di una formazione professionale, costruzione di infrastrutture utili anche in altri settori (strade, acquedotti, aeroporti), ecc.
La situazione non è in realtà così rosea. Le imprese turistiche che conseguono profitti positivi sono generalmente quelle capaci di affrontare bassi costi in tutte le fasi della vacanza, dal viaggio aereo, all’alloggio, ristorazione, trasporti, servizi in loco, che costituiscono il cosiddetto pacchetto «tutto incluso».
Ecco anche perché, come si accennava in precedenza, il mercato turistico è nel complesso caratterizzato da forti concentrazioni. La conseguenza è che la percentuale di spesa del turista a vantaggio di operatori nel paese di destinazione è molto bassa (per esempio, circa il 20% in Gambia, contro il 60% in Spagna), e riguarda soprattutto beni «superflui» e di basso costo, come artigianato locale e taxi. Non è un caso che in Africa, Asia del Sud e Medio Oriente la maggior parte degli alberghi sia di proprietà estera, e che solo una minima parte degli arrivi nei paesi in via di sviluppo avvenga tramite compagnie dei paesi stessi: nel caso del Kenya, ritenuto particolarmente positivo, soltanto l’11% degli arrivi avviene con la Kenyan Airways.
Inoltre, per incrementare uno sviluppo turistico che verrà poi gestito principalmente da multinazionali estere, spesso i governi utilizzano denaro pubblico per finanziare la costruzione di infrastrutture, provocando tagli a sanità, scuola, agricoltura.

PIÙ POSTI DI LAVORO?

Anche la creazione di posti di lavoro non sempre raggiunge le speranze attese. Mentre i ruoli di direzione sono tutti ricoperti da stranieri, la manodopera locale rimane generalmente priva di formazione, è relegata ai ruoli più bassi ed è spesso sottopagata e sfruttata. Baristi, camerieri, portieri, portabagagli di un hotel a 4 o 5 stelle possono avere un salario mensile inferiore al costo di una camera per una notte. Ma il settore turistico esercita un grande fascino sui giovani del luogo, che abbandonano le campagne, si spostano nelle zone turistiche, riempiono quartieri poveri e degradati che circondano alberghi lussuosi e attendono di essere chiamati per un lavoro stagionale e vulnerabile.
C’è chi sostiene che per un popolo povero un salario basso e precario sia meglio di niente. Dipende però dalle alternative possibili. Spesso il governo, per incrementare il turismo, priva la popolazione locale della terra o la distrugge per costruire villaggi turistici e complessi alberghieri, centri commerciali o campi da golf. Contadini, allevatori e pescatori vengono quindi letteralmente sfrattati e trasformati in disoccupati. Ecco perché, secondo molti studiosi, il turismo distrugge posti di lavoro. A questo si aggiunge anche la tendenza delle strutture alberghiere a privilegiare beni esteri anziché locali. Spesso il cibo è infatti importato, anche a causa di una distorta informazione e sensibilità del turista, che ritiene scadenti gli alimenti locali.
Quando poi il turismo rappresenta l’unica risorsa di un paese, per di più dipendente da clienti di paesi del Nord, basta poco per mandare a picco il fatturato dell’industria turistica per una o più stagioni. Periodi di recessione nei paesi di provenienza dei turisti, periodi di instabilità politica e crisi inteazionali, problemi sanitari locali, guerriglia, campagne di stampa che deviano i flussi turistici verso altre destinazioni. Il paradosso è che le mete più ambite dagli operatori turistici sono quelle politicamente più stabili, stabilità che nei paesi in via di sviluppo è spesso ottenuta a spese della democrazia, tramite dittature e regimi militari. Il che ci pone di fronte ad una domanda: è giusto fare turismo in paesi nei quali i diritti umani non sono rispettati?

PISCINE O FORESTE DI MANGROVIE?

Il turismo è generalmente concepito come alternativa soft allo sviluppo industriale. Interessato alla conservazione e valorizzazione di ambienti, culture, monumenti, siti archeologici, giardini e parchi naturali, di fatto in diversi casi ha spinto alcuni governi ad attuare politiche di protezione di habitat e di specie a rischio di estinzione, utilizzando anche finanziamenti inteazionali. In molti altri casi, invece, il desiderio di profitti sempre maggiori ha portato a consumare, logorare e distruggere proprio quelle risorse da cui lo stesso turismo dipende. Anche se basato spesso sulle risorse ambientali e le bellezze naturali, quando diventa di massa il turismo inquina e danneggia proprio l’ambiente che lo sostiene.
Strutture e infrastrutture per alberghi, alloggi e servizi, che deturpano il paesaggio, occupano suolo e distruggono habitat naturali; distruzione delle mangrovie, tipica vegetazione della costa tropicale, e dei banchi di corallo; deforestazione, con la conseguente scomparsa o il drastico ridimensionamento di fauna e flora locale; desertificazione; essiccamento dei fiumi per il prelievo di acqua; inquinamento delle acque dovuto ad acque reflue non o mal depurate, ma anche a perdite di petrolio e sottoprodotti della benzina scaricati dalle barche. È il risultato di un turismo di massa incontrollato, il cui impatto è ancora più distruttivo nelle terre vergini, il cui ecosistema viene sconvolto irreparabilmente.
In generale i turisti possono essere considerati come abitanti che si vanno ad aggiungere alla popolazione residente. Questo implica che lo stesso territorio deve supportare un maggiore livello di consumi (acqua, energia, cibo, ecc.) e smaltire più emissioni e rifiuti. A tutto ciò si sommano però le abitudini che molti turisti pretendono di conservare anche a migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese: riscaldamento, condizionatori, piscine sfruttano risorse naturali e inquinano. Le stesse attività dei turisti sul suolo e sulla vegetazione, sull’ecosistema marino e costiero, su foreste, parchi e dune comportano gravi danni: gli sport nautici, ad esempio, provocano danni irreversibili nei laghi; alle Isole Mauritius le barriere di corallo, indispensabili per l’equilibrio ecologico marino, sono già state erose per l’80%.
Quella del turismo rischia quindi di diventare, a suo modo, un’industria che sfrutta il territorio quanto quella mineraria o quella manifatturiera. E il rischio non sta solo nella scomparsa di risorse naturali, ma anche nella difficoltà di riconvertire intere aree ad altri usi (es. agricoli) nel caso di una recessione del settore turistico.
C’è infine un ulteriore elemento che generalmente non consideriamo ma che rappresenta il responsabile della maggior parte degli impatti ambientali associati al turismo a lunga distanza: il trasporto, che è la fonte di emissione di gas serra in maggior aumento nel mondo. Ogni volta che ci spostiamo, in automobile, in pullman o in aereo, consumiamo litri di benzina e liberiamo in atmosfera diversi metri cubi di anidride carbonica, la principale causa del cambiamento del clima e dei conseguenti fenomeni estremi come alluvioni, siccità, desertificazione, aumento del livello dei mari. Se siamo noi del nord del mondo a girare «in lungo e in largo» per piacere, saranno proprio le popolazioni del sud ad essere le più colpite dai cambiamenti climatici. In particolare, più del 90% dell’anidride carbonica emessa in un tipico viaggio turistico è dovuta al solo trasporto aereo.

UN NUOVO COLONIALISMO:
VILLAGGI TURISTICI E SESSO

Occidentali serviti e adagiati nel lusso, popolazione locale che spesso subisce un peggioramento delle proprie condizioni di vita per la presenza dei turisti. Un esempio fra tanti: l’enorme consumo di acqua negli alberghi, per docce, piscine, giardini e campi da golf provoca sia una fortissima riduzione delle scorte a disposizione sia il razionamento dell’acqua potabile per la popolazione locale. In molti casi non è più possibile coltivare e la popolazione rurale è costretta ad abbandonare la campagna. Il rischio, e in molti casi la realtà, di una relazione superficiale, distaccata e frettolosa tra il turista e la gente del luogo, è che si riproponga un modello di rapporti tipico del colonialismo. Il mancato incontro tra culture trova il suo apice e simbolo nei villaggi turistici, i resort. Di origine militare, il villaggio turistico riproduce il comfort, la sicurezza, gli stili e ritmi di vita occidentali in ambienti diversi e ostili: una sorta di prigione, uguale in tutto il mondo, dalla quale il turista non può uscire se non accompagnato, e nella quale la gente locale non può entrare, se non per lavorarci. Persino papa Giovanni Paolo ii, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo (9 giugno 2001), espresse forti critiche in merito.
Spesso la sola presenza di turisti rappresenta un’inevitabile fonte di frustrazione: i giovani locali soprattutto, di fronte ad un’evidente diversità nel tenore di vita e nei comportamenti, sono tentati da atteggiamenti di imitazione e avvertono maggiormente non solo la propria condizione, ma anche le limitazioni e le esclusioni imposte dalla presenza dei turisti, come ad esempio il non poter accedere a spiagge divenute di proprietà privata degli alberghi. La conseguenza è il trasferimento di valori, di modelli di consumo e comportamenti occidentali, che possono modificare la struttura sociale della popolazione, trasformandola da rurale a urbana, alterando i ruoli all’interno della comunità, dei rapporti familiari e tra i due sessi, provocando la crisi e spesso l’abbandono dei valori tradizionali e spingendo i più emarginati verso i limiti della legalità.
Tutto ciò è aggravato da comportamenti irrispettosi, impensabili in patria, che spesso i turisti in vacanza hanno nei confronti delle popolazioni locali e dettati dal meccanismo del «tanto qui chi mi conosce?».
I casi più gravi sfociano nel turismo sessuale. Secondo i dati, il turismo internazionale è considerato il massimo responsabile degli oltre due milioni di bambini costretti a prostituirsi: di questi 500.000 vivono in Brasile e il resto soprattutto nell’Asia meridionale e orientale (Thailandia, Filippine), dove migliaia di famiglie, spinte dalla miseria e spesso tratte in inganno, cedono i propri figli a un giro d’affari che si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari, e i cui «clienti» provengono dai paesi più ricchi della Terra, come Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia, Regno Unito.

CHE ATTORI
QUEI… «SELVAGGI»

Molto spesso l’incontro tra il turista e la gente del luogo si riduce a fenomeni di folklore. Ne sono un esempio i trekking tribali nella foresta o nel deserto, che possono durare da un pomeriggio a più giorni, organizzati da agenzie turistiche che pubblicizzano il «buon selvaggio» e la «natura incontaminata». Generalmente le visite sono così frettolose che è impossibile qualsiasi forma di scambio con i locali. Secondo Cohen, i gruppi tribali hanno ormai imparato a recitare la loro parte, e sanno quando rimanere immobili di fronte ai flash. Poiché gran parte dei guadagni di un pacchetto di trekking va alla guida e all’agenzia, nascono attività «complementari» come la vendita di manufatti artigianali, l’elemosina, o il farsi pagare per essere fotografati. Quando i villaggi tribali non si adeguano all’invasione del turismo, e coraggiosamente resistono rifiutando di vendere la loro cultura, capita che le agenzie ricorrano a veri e propri attori: raramente il turista si accorge della differenza o «fa finta di non accorgersene».
Quando popolazioni che hanno un forte radicamento dei valori tradizionali nella comunità locale riescono a sviluppare un rapporto equilibrato con il turismo, questo può invece rappresentare un’occasione di valorizzazione delle culture locali. Basti pensare ai kuna di Panama, una piccola popolazione indigena che è riuscita a mantenere il controllo della produzione e della commercializzazione di un prodotto artistico-artigianale come le molas, stoffe colorate sovrapposte lavorate dalle donne della comunità, delle quali sono riusciti a conservare anche i significati spirituali più profondi.

ANDANDO…
«A QUEL PAESE»


Da più di venti anni le agenzie di viaggio «classiche» sono state affiancate da altre che propongono un modo di viaggiare diverso. Non più hotel a 4 o 5 stelle, villaggi e club riservati, ma un viaggio in mezzo alla gente del luogo, sfruttando le loro stesse strutture o quasi. Viaggi che all’avventura (che spesso significa semplicemente fare ciò che i locali fanno quotidianamente per vivere) uniscono un rapporto nuovo tra viaggiatore e popolazione locale. Insomma, viaggi che si pongono il problema di «come andarci a quel paese»! Cosa significa fare turismo «alternativo»? Come fare un turismo che porti vero sviluppo nei paesi del Sud del mondo?
(Fine prima parte – continua)

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La psicologia del turista

Una recente ricerca realizzata in Inghilterra ha individuato 4 tipi di turisti: i turisti di massa organizzati (coloro che comprano solo viaggi «tutto organizzato»); il turista di massa individuale (è più libero e autonomo dal gruppo, ma stabilisce rigorosamente prima della partenza l’intero svolgimento del viaggio); l’esploratore (cerca accuratamente itinerari poco frequentati o insoliti da fare da solo o in piccoli gruppi, per questo spende molto di più dei precedenti); infine il cosiddetto vagabondo (evita qualsiasi organizzazione turistica e cerca contatti diretti con la realtà locale, decide alla giornata dove recarsi durante il viaggio).
Ma la molla che porta a decidere la destinazione e il tipo di viaggio rimane sempre quello che i sociologi chiamano la «giustificazione» sociale, cioè l’accettazione nel proprio contesto sociale dell’azione che sta per compiere. Un operaio, che fino a qualche anno fa, se fosse andato a fare le vacanze alle Seychelles sarebbe stato guardato con sospetto o diffidenza, oggi non può fare a meno, «socialmente» parlando, di recarsi appunto nell’Oceano Indiano per trascorrere la luna di miele. (…)
Il turismo internazionale è sempre di più la valvola di sfogo per milioni di persone che si sentono «strette» nelle società di cui fanno parte, dove tutto è organizzato e tenuto sotto controllo, dove l’emozione è programmata e arginata. Per contro, l’immagine che le popolazioni dei paesi scelti dai turisti si fanno, è che tutti gli occidentali sono ricchi sfondati, non lavorano molto, amano dissipare i soldi, si vestono in modo indescrivibile e non conoscono alcun tipo di codice morale di comportamento.
Da: «Viaggiare ad occhi aperti», Icei

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Quando si scatta una foto…

Una delle principali attività che caratterizzano il turista è quella del fotografare. Le proiezioni di diapositive al ritorno dai viaggi sono ormai diventate un rito a cui i viaggiatori e gli amici dei viaggiatori si sottopongono inevitabilmente.
Quante volte abbiamo parlato, dialogato, con quelli che contraddittoriamente vengono chiamati «soggetti» delle fotografie, mentre invece ne sono gli oggetti. Forse, e mi metto tra coloro che hanno scattato molte foto nei loro viaggi, ci accorgeremmo che in molti casi quelle persone non le abbiamo neppure salutate, non ne conosciamo il nome, figuriamoci la storia.
Ci si presenta in un villaggio, in un’abitazione, a una cerimonia nascosti dietro le nostre macchine fotografiche e si scatta. E ciò che vediamo lo pensiamo già in funzione dell’immagine che vorremmo trae. Per questo scegliamo l’obbiettivo adatto e l’angolatura migliore. Là dietro, in fondo alla figura nel mirino, l’individuo inquadrato diventa un’immagine dell’individuo. Perde la sua personalità per acquistare quella che il fotografo intende assegnargli: mistico, esotico, pittoresco, selvaggio.
Questo approccio fotografico finisce per spersonalizzare inevitabilmente il rapporto tra fotografo e fotografato, innescando spesso dinamiche di tipo commerciale (i nativi che chiedono soldi per essere fotografati) che suscitano talvolta sentimenti di indignazione nei turisti.
Fotografare qualcuno o qualcosa significa reputarlo interessante, magari bello, non «normale». Ecco il problema di fondo: scegliendo un individuo come soggetto della nostra fotografia lo allontaniamo inevitabilmente da noi e lo trasformiamo in simbolo. Ne esaltiamo le differenze, stendendo un velo sulle similitudini. Più è diverso, più ci sembra interessante…
La lentezza, abolita dalla maggior parte dei programmi di viaggio, potrebbe divenire un valore se vissuta come mezzo per approfondire l’incontro, per diluire almeno un po’ la distanza esistente tra turista e nativo. Ad essere vissuta come valore del turista è invece la corsa a vedere quanto più possibile, a fare un elenco di luoghi più che a gustarli e a conoscerli. Basta passarci poche ore per dire di «esserci stati».
In ogni caso la fotografia diventa una compensazione alla brevità del viaggio: fisso un’immagine e poi me la rivivo a casa. Dall’altro si trasforma in un inevitabile strumento creatore di barriere.
Visto che le sensazioni prodotte dalla visione di una diapositiva non possono essere paragonate a quelle vissute nella realtà visitata, la mia modesta proposta a chi davvero vuole diventare «turista responsabile» (e anche a chi propone viaggi di questo tipo) è di provare a lasciare a casa la macchina fotografica e a rallentare il proprio viaggio. Non credo che questo basti a risolvere il dilemma etico del turista, ma forse qualcosa può cambiare. La realtà va osservata per ore, giorni, settimane, non a 1/125 di secondo e allora le persone possono vivere come tali e non come soggetti da inquadrare.
Da: Marco Aime, in «Solidarietà in viaggio»

BOX 3

Sarebbe bene sapere che…

Vacanze last minute, corse su internet alla ricerca delle tariffe aeree d’occasione. Ma cliccando su www.chooseclimate.org, con due click sulla mappa si può scoprire il vero costo di qualunque volo. «Se state cercando lidi caldi, sappiate che volare è uno dei modi più rapidi ed economici per cuocere il pianeta». Le emissioni di anidride carbonica, ossidi di azoto e vapor d’acqua degli aerei contribuiscono infatti in modo sostanziale all’aumento dell’effetto serra e quindi ai cambiamenti climatici. Per andare e tornare da Londra a New York ogni passeggero consuma circa 700 kg di carburante, 10 volte circa il proprio peso.
Fonte: Manuale delle Impronte Ecologiche, Edizioni Ambiente, 2002

«Noi Karen abbiamo protetto la nostra terra ricca di foreste per rispetto dei nostri antenati e dei nostri figli. Forse, se avessimo abbattuto le foreste, rovinato la terra e costruito una grande città come Bangkok, ora non correremo il rischio di essere sfrattati».
Fonte: Pwo Karen, Thailandia, citato in «L’arte del viaggio» di Michela Bianchi

I «consumatori» del turismo spesso portano con sé le proprie abitudini di vita e le proprie aspettative, che si tratti di docce calde o sciacquoni o di campi da golf ben innaffiati. Sull’Himalaya, permettere ai turisti di fare la doccia spesso significa utilizzare la legna e quindi accelerare la deforestazione. Alle Hawaii e alle Barbados è stato scoperto che ogni turista usa dalle 6 alle 10 volte la quantità d’acqua e di elettricità utilizzata dagli abitanti locali. A Goa gli abitanti dei villaggi costretti a recarsi a piedi ai pozzi sono dovuti restare a guardare mentre venivano costruite attraverso la loro terra le tubature che avrebbero portato l’acqua a un nuovo hotel di lusso. Negli ultimi dieci anni, il golf, a causa della sua fame di terreni, acqua e diserbanti, si è rivelato una delle attività più distruttive, tanto che in alcune zone del Sudest asiatico sono scoppiate delle vere e proprie «guerre del golf» (…) Per tenere in funzione un campo da golf occorre la stessa quantità d’acqua necessaria ai bisogni di un intero villaggio di alcune migliaia di persone. Si calcola che il consumo medio pro-capite d’acqua di un indigeno in Africa è di 10-15 litri al giorno; il turista ne consuma 300.
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti ambientali»

In un articolo uscito qualche anno fa sul South China Moing di Hong Kong, così veniva descritta la situazione di uno dei «paradisi» delle vacanze più gettonato, l’isola di Bali in Indonesia: «Gli abitanti si lamentano per la discriminazione che l’industria turistica esercita nei loro confronti, non possono sedersi sulla spiaggia di un grande albergo (buona parte del litorale), che subito arriva qualcuno che minaccia di chiamare la polizia. Alla gente del posto, poi, si proibisce di pescare, di organizzare giochi o cerimonie religiose perché, dicono i proprietari degli alberghi, potrebbero disturbare i turisti». A proposito di alberghi: «Sono numerosissimi – scrive il Moing – e la rete fognaria è assolutamente inadeguata, con effetti disastrosi sull’ecosistema della barriera corallina. Campi da golf e piscine consumano enormi quantità di acqua (500 litri al giorno per ogni stanza di albergo), mettendo in crisi il sistema di coltivazione del riso».
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti sociali»

Bibliografia essenziale:

• Solidarietà in viaggio. Alla scoperta della «Carta d’identità» per Viaggi Sostenibili, Roberto Varone, Cisv, Aitr, Cmsr, Icei e Mlal
• State of the World ’02. Stato del pianeta e sostenibilità, a cura di Gianfranco Bologna, Ed. Ambiente, 2002
• Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Duccio Canestrini, Feltrinelli, 2003
• Trekking tribale, di Marco Cordero, in Volontari per lo Sviluppo, agosto/settembre 2001
• Tourism Highlights, Edition 2004, Wto, World Tourism Barometer, Wto, Vol.3, No.1, January 2005

Siti internet:
www.world-tourism.org
www.tourismconce.org.uk
www.homoturisticus.com (a cura di Duccio Canestrini)

Silvia Battaglia




AMARE I POPOLI La bandiera olimpica

Parigi 1914. Nella cerimonia commemorativa alla Sorbona…
per la prima volta apparve in pubblico la bandiera olimpica,
di cui erano stati fatti moltissimi esemplari e che ebbe un grandissimo successo.
Tutta bianca, con cinque cerchi intersecati: azzurro, giallo, nero,
verde, rosso, la bandiera simboleggiava le cinque parti
del mondo unite dall’olimpismo e riproduceva i colori
di tutte le nazioni.
Pierre de Coubertin

Com’è nata l’idea delle modee olimpiadi, della bandiera olimpica e del Cio (Comitato olimpico internazionale)? Quali messaggi e quali valori voleva trasmettere l’olimpismo? Al di là dell’imponente scenografia e il cospicuo impiego di mezzi finanziari «le olimpiadi» di oggi sono rimaste fedeli agli ideali del loro fondatore?
È stato il pragmatico barone Pierre de Coubertin a inventare, dopo aver a lungo studiato e sognato, le olimpiadi modee, raccontate con toni leggeri nel libro autobiografico del 1931, tradotto finalmente in italiano nel 2003, col titolo Memorie olimpiche.
Nato a Parigi il 1° gennaio 1863 da famiglia aristocratica, religiosa e legittimista, Pierre de Coubertin consegue nel 1880 il baccalaureato presso il Collegio dei gesuiti frequentato da esterno. Con un’ottima cultura umanistica, si iscrive alla nuovissima École libre de Sciences Politiques, entusiasmandosi ai grandi maestri del pensiero (Montaigne, Rousseau, Tocqueville, Compte, Le Play, Locke, Spencer).
Si reca intanto in Inghilterra, dove è affascinato dai metodi pedagogici dei colleges inglesi; poi, nel 1889, per incarico della Pubblica istruzione francese, va in America per studiare l’organizzazione scolastica e universitaria.
Impegnato nel movimento «scuole nuove» ed «educazione attiva» ispirati al sistema anglosassone, il giovane de Coubertin matura l’idea di organizzare i «Giochi olimpici modei», affinché la gioventù si impegni nello sport, formandosi sugli ideali umanistici dell’antica Grecia: uguaglianza, frateità, pace.
Lo studioso francese presenta i frutti delle sue ricerche in libri di pedagogia, psicologia sportiva, formazione, mentre stabilisce una fitta rete di contatti con persone importanti e influenti a livello nazionale e internazionale, per trasformare in realtà il suo sogno: la nascita delle modee olimpiadi.
De Coubertin muore nel 1937, lasciando con le «olimpiadi modee» un albero maturo dalle radici profonde.

Figlio del suo tempo, Pierre de Coubertin è troppo spesso etichettato come «positivista», «spiritualista», «misogino», tanto da essere ricordato, durante le olimpiadi, da giornalisti superficiali con battute come «chissà cosa direbbe de Coubertin se vedesse le donne competere?». Eppure, leggendo le sue Memorie olimpiche, si scopre un uomo libero e onesto, dai grandi ideali, che ha saputo produrre una vera e propria rivoluzione con «prassi», cioè, come direbbe Paulo Freire, «con azione e riflessione rivolte verso le strutture da trasformare».
Pierre de Coubertin illustra bene nelle sue memorie il grande sforzo iniziale per «mettere insieme» i diversi sport, scrivendo: «Gli sportivi del xix secolo erano profondamente convinti che ciascuno sport era nocivo per l’altro, essendo le rispettive tecniche molto diverse tra loro. Lo schermidore si deteriora facendo la boxe. Il rematore deve diffidare degli esercizi alla sbarra… So per certo che i rappresentanti dei diversi sport non si erano mai messi insieme per un’opera comune, fino a quando io li riunii per la formazione del Comitato per la diffusione degli sport scolastici. Un anno più tardi, l’organizzazione delle gare del congresso del 1889 mise insieme, questa volta ufficialmente, i rappresentanti presso il ministero della Pubblica istruzione».
Malgrado questi risultati, nel 1894 Cupertus ritirava l’adesione dei ginnasti belgi alle prime olimpiadi, affermando: «La mia federazione ha sempre creduto e crede ancora che la ginnastica e gli sport siano cose opposte e ha sempre combattuto questi ultimi come cose incompatibili con i suoi principi».
Intanto il 25 novembre 1892, nel grande anfiteatro della vecchia Sorbona, in occasione della celebrazione del 5° anniversario dell’Union de Sports Athlétiques, con coraggio Pierre de Coubertin annunciò il ripristino dei giochi olimpici.
Quali furono le reazioni? Racconta il padre delle modee olimpiadi: «Applausi, approvazione, auguri di grande successo, ma nessuno aveva capito niente. Cominciava allora l’incomprensione totale, assoluta. E doveva durare a lungo». E prosegue con ironia: «La gente “colta” usava fare dello spirito nell’informarsi se le donne sarebbero state ammesse tra gli spettatori delle nuove olimpiadi o se, come in certi periodi dell’antichità, sarebbe stata imposta la nudità per meglio proibire al sesso debole l’accesso agli stadi».
Finalmente, nel 1896, dopo intensi lavori di preparazione e non pochi patemi, i primi giochi olimpici furono celebrati con gioia in Grecia, dove le diverse categorie dello sport furono presentate «su un piano di eguaglianza». Le olimpiadi modee erano così decollate. Nel 1900 furono celebrate a Parigi, nel 1904 in America (Saint Louis), nel 1908 a Londra, dove «era la prima volta che le dottrine ginniche svedesi e tedesche si affrontavano sul campo; la prima volta che le regate sul Tamigi dovevano essere accessibili a tutte le nazioni. Per la prima volta la sfilata dei 1.500 atleti in marcia dietro alle loro diciannove bandiere…».
Le olimpiadi del 1912 di Stoccolma furono ritenute esemplari da de Coubertin, perché si vide «tollerare la glorificazione di tutti gli sport in piena Stoccolma e l’erezione degli attrezzi, fino allora banditi, proprio in mezzo allo stadio… (mentre) grazie allo sforzo svedese il divorzio tra giochi olimpici ed esposizioni sarebbe stato concesso».
Infatti, il padre delle modee olimpiadi è molto critico circa l’inserimento delle precedenti olimpiadi in grandi fiere o esposizioni, perché «il loro valore filosofico evapora e la loro portata pedagogica diviene inoperante», tanto che, a Saint Louis nel 1904, «in fatto di originalità, il programma ne offriva una sola, ma incresciosa. Si trattava delle due giornate. Denominate bizzarramente anthropological day, riservate alle gare dei neri, degli indiani, dei filippini, degli ainos e, come se non bastasse, a essi furono aggiunti turchi e siriani. E questo solo 20 anni fa!… Osereste dire che il mondo non ha camminato da allora e che l’ideale sportivo non ha fatto progressi!».

La bandiera olimpica, che ancora oggi ci annuncia festosamente le olimpiadi, fu ideata da Pierre de Coubertin e presentata a Parigi nel 1914, in occasione del 21° anniversario delle olimpiadi. La filosofia e gli ideali del suo inventore si intrecciano in quei cinque cerchi uguali, ma di diverso colore, che presentano su un piano egualitario tutta l’umanità.
Conoscendo bene, però, l’enorme diversità tra culture, il padre delle modee olimpiadi ammonisce con chiaroveggenza: «Credo che non ci si debba fidare del cosmopolitismo, che nato da un semplice viaggio, può aprire il passo a pericolose incomprensioni e illusioni».
Se la bandiera olimpica ci offre con un colpo d’occhio l’ideale olimpico, è però il Cio (Comitato olimpico internazionale) il motore che muove e controlla il grande evento. Anch’esso fu inventato da Pierre de Coubertin con caratteristiche ben precise: «Il giorno in cui avesse cessato di essere un self-recruiting body, il Cio avrebbe perduto la sua arma essenziale: l’indipendenza totale.
Il Comitato comprendeva (nel 1911) 43 membri di 31 nazioni diverse. Tutti o quasi erano degli sportivi nel vero senso della parola, rispondenti alla formula che avevo individuato fin da principio: uomini abbastanza competenti da poter approfondire delle questioni tecniche specifiche, ma non schiavi di qualsiasi specialismo esclusivo; uomini di esperienza internazionale, che permettesse loro di non essere dominati da pregiudizi nazionali nel risolvere qualunque questione; uomini, infine, capaci a tener testa ai gruppi tecnici e di sottrarsi a ogni tipo di dipendenza rispetto a quelli».
Inoltre, tutti i membri del Cio dovevano autofinanziarsi, mentre lo stesso de Coubertin pensava alle modiche spese generali del Comitato.

La prima guerra mondiale (1915-18) paralizzò anche le olimpiadi, inno alla pace tra i popoli. Solo nel 1920 si vide sventolare la bandiera olimpica ad Aversa. Pierre de Coubertin, che aveva sempre cercato per il grande evento sportivo una formula di preghiera laica nel rispetto delle diverse culture, commenta: «Ad Aversa niente messa, nessun intervento sacerdotale sull’altare. Il De profundis, inno del ricordo, in memoria dei caduti degli ultimi quattro anni (la lista degli olimpici era terribilmente lunga) e il Te Deum, inno del successo e della speranza; inni laici si potrebbe dire, che si prestavano a belle interpretazioni musicali»; e prosegue: «Nel 1924 a Parigi, il mattino a Notre Dame c’era stata una cerimonia come quella di Aversa, la cui austera “neutralità” aveva assunto un’impressionante maestosità in quella coice unica».
Tra gli amici e preziosi colleghi, de Coubertin ricorda con simpatia due sacerdoti, padre Didon del Collegio di Arcueil, ispiratore del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più in alto, più forte), e il reverendo de Courcy Laffan, preside del collegio di Chelthenam e rappresentante del collegio dei presidi inglesi, conosciuto nel 1897 al Congresso di Le Havre e divenuto subito stimato membro del Cio.
Sempre acuto nelle sue analisi, il pedagogista sportivo ha lasciato pensieri e riflessioni, degni di seria meditazione. «Musica e sport sono sempre stati per me i migliori “isolatori”, i più fecondi strumenti di riflessione e visione, come pure possenti incitatori alla perseveranza e, per così dire, “massaggi della volontà”… Se fortifica, allo stesso modo lo sport calma, purché rimanga un coadiuvante, non divenga un fine ossessivo, esso sa produrre l’ordine e schiarire il pensiero… L’allenamento normale può essere puramente fisico e condurre alla sola resistenza, ma può anche contribuire al progresso morale, con lo sviluppo della volontà».
Infine, con molta chiarezza, già nel 1894, Pierre de Coubertin prevedeva l’uso nel bene e nel male che si può fare dello sport, scrivendo: «L’atletismo può suscitare le passioni più nobili come le più vili; può sviluppare il disinteresse e il sentimento dell’onore come l’amore del guadagno, può essere cavalleresco o corrotto, virile o bestiale; infine può essere usato per consolidare la pace così come per preparare la guerra. Ora la nobiltà dei sentimenti, il culto del disinteresse e dell’onore, lo spirito cavalleresco, l’energia virile e la pace sono i bisogni primari delle democrazie modee, siano esse repubblicane o monarchiche».

Silvana Bottignole
Lo sport dei valori
Bradipolibri 2005, pag. 224, € 15,00

Lo sport propone ancora dei valori?
A questa e altre domande hanno risposto 600 dirigenti, atleti di 111 società sportive collegate alla diocesi di Torino, divenendo attori di una ricerca sociologica che racconta origini e sviluppo delle stesse società insieme ad avventure e disavventure di bambini, ragazzi e adulti che si cimentano nei diversi campi dello sport organizzato. La conclusione è che, nonostante tutto, nello sport amatoriale si crede ancora in certi valori che vengono trasmessi nella vita di tutti i giorni.

Silvana Bottignole




BIRMANIA Liberi dalla paura

La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, parla alle nostre coscienze.
Note per una vera conversione.

Era il 1998. Una sera, di passaggio in una libreria di Baltimora, mi capitò in mano un libro fotografico di donne importanti. Sfogliandolo, mi soffermai su un ritratto di donna che emanava una bellezza singolare: guardava verso l’obiettivo della macchina fotografica con tranquillità, pace, fermezza, senza durezza o arroganza. Lessi il nome della donna; un nome complicato, composto di tre o quattro parole, che avevo già udito e che era stato citato sulla stampa recentemente. Non avrei mai immaginato che il pensiero e gli scritti della persona di cui stavo guardando il ritratto fossero destinati a influenzarmi, fino a cambiare alcuni aspetti della mia vita.

PAESE DIMENTICATO

Due anni fa mi fu chiesto di scrivere un articolo su Aung San Suu Kyi. All’inizio avevo accettato felicemente, ma in un secondo tempo mi ero scoraggiato. Che cosa potevo raccontare di questa persona?
Ma un giorno di marzo di quest’anno ho iniziato a pensare più seriamente a quest’idea e ho trovato due motivi che mi hanno scrollato dalla mia apatia. Il primo è che ogni volta che provo a discutere la situazione della Birmania la gente sembra cadere dalle nuvole: non ne sa assolutamente nulla, non per disinteresse, ma piuttosto per la scarsa informazione sull’argomento.
Altre nazioni che lottano per ottenere giustizia, come il Tibet, possono contare su persone celebri che perorano la loro causa in Occidente e nel mondo. Quella della Birmania, invece, è una lotta dimenticata: la repressione di 45 milioni di abitanti va avanti indisturbata.
Il secondo motivo è che mi accorgo sempre di più come la filosofia non violenta di Aung San Suu Kyi e della Lega nazionale per la democrazia (Nld) indichino un cammino di rinnovamento e di cambiamento interiore d’importanza fondamentale per il mondo, specialmente in questo periodo in cui le forze della violenza e della paura sembrano prendere il sopravvento.
In Birmania come in Tibet sono in corso due dei rari tentativi al mondo di cambiare lo status quo attraverso la non violenza. Dimenticare la lotta per la democrazia in Birmania e, soprattutto i valori sui quali tale lotta è basata sarebbe disastroso non solo per il popolo birmano, ma anche per il mondo intero.
Inoltre, la visione di cambiamento non violento propugnato dalle forze democratiche in Birmania è in perfetta consonanza con il concetto della conversione cristiana.


GOVERNATI DALLA PAURA

La Birmania è uno stato del sud-est asiatico di rara bellezza, ricco di risorse naturali. Il suo territorio è popolato da diversi gruppi etnici di cui quello dei birmani è il prevalente. Dal 1962, il paese è dominato da una giunta militare, che costituisce uno dei regimi più brutali e violenti che esistano al mondo. Tale giunta, conosciuta in precedenza con il sinistro acronimo Slorc (State law and order restoration council), è ora chiamata Spdc (State peace and development council), dopo che una ditta di relazioni pubbliche americana aveva suggerito il cambiamento del nome a fini «cosmetici».
L’Spdc mantiene la popolazione sotto un pugno di ferro, imponendo lavori forzati, lavoro minorile e reprimendo violentemente ogni tentativo d’instaurare nel paese un qualunque dibattito politico.
Il popolo birmano vive totalmente isolato dal resto del mondo. La legge proibisce, infatti, il possesso e l’uso di fax e modem e l’unica forma di stampa permessa è quella sponsorizzata dal governo. Di conseguenza, intere generazioni di birmani sono cresciute pensando di non potersi permettere nulla più del regime in cui vivono, dato che non hanno la possibilità di sapere come si vive in altre nazioni.
Ciò non toglie che molti birmani si oppongano a questa situazione e chiedano dibattito politico, riforme e democrazia. Alla fine degli anni ’80, il Movimento per la democrazia divenne molto attivo nel richiedere riforme al sistema, grazie soprattutto al coinvolgimento degli studenti universitari nel dibattito politico. Tale fermento causò un’ondata di repressione violenta da parte del governo. Fortunatamente, la Nld trovò un leader naturale nella persona di Aung San Suu Kyi.
All’età di due anni, San Suu Kyi perse in un attentato il padre Aung San, leader del movimento per l’indipendenza della Birmania negli anni ’40. Vissuta a lungo lontana dal suo paese, prevalentemente nel Regno Unito dove aveva sposato un cittadino britannico, era rientrata in Birmania nel 1988 per prestare le cure alla madre gravemente ammalata e che morì di lì a poco.
L’arrivo della donna in Birmania coincise fatidicamente con l’apice delle lotte politiche nel paese e, ben presto, la sua guida carismatica galvanizzò la Nld e i suoi simpatizzanti. Proprio in quel periodo e alquanto inaspettatamente, l’allora presidente dello Slorc, Ne Win, decise di concedere elezioni democratiche, contando, erroneamente, in una sicura vittoria del partito di regime. Le elezioni risultarono invece un trionfo a stragrande maggioranza della Nld, che si aggiudicò l’80% dei voti.
Come risposta, lo Slorc dichiarò l’invalidità delle elezioni e iniziò una violenta ritorsione contro gli esponenti della Nld, tra cui Aung San Suu Kyi, posta agli arresti domiciliari. Migliaia di altri membri del partito d’opposizione vennero aggrediti, arrestati, torturati e gli uffici del partito vennero chiusi.
Questo primo periodo di arresti domiciliari durò per più di cinque anni, a cui seguì un periodo di relativa libertà personale in cui, comunque, a San Suu Kyi venne negato il diritto di uscire dalla capitale Rangoon. Un tentativo di lasciare la città per recarsi a Mandalay, nel 2000, le procurò un altro lungo periodo di arresti domiciliari.
Da notare che la leader birmana si ritenne sempre fortunata per il trattamento a lei riservato, se comparato alla sorte di altri membri della Nld, sottoposti a condizioni inumane di carcerazione.
Nel 2003, fu di nuovo rilasciata, ma alcuni mesi dopo il regime sferrò un altro violento attacco contro la Nld, uccidendo circa 600 dei suoi membri e simpatizzanti. San Suu Kyi venne nuovamente arrestata e condannata agli arresti domiciliari, che perdurano fino ad oggi.

«RIVOLUZIONE SPIRITUALE»

Alcuni elementi della lotta per la democrazia in Birmania rendono San Suu Kyi un caso unico al mondo. Il più importante consiste nel basare l’opposizione al regime sulla non violenza, ispirata al buddismo militante. Tale atteggiamento è in aperto contrasto con la repressione violenta da parte del regime, che rispetta il buddismo solo a parole.
Alla base della filosofia di San Suu Kyi c’è la convinzione buddista che non vi è alcun male insito nella persona umana, ma quelle che chiamiamo cattive azioni sono dovute a quattro influenze negative: odio, illusione, avidità e paura.
La paura è la causa primaria che guida tutte le altre influenze negative. Per paura di cosa accadrà domani accumuliamo beni economici e questo provoca avidità. Per paura dell’ignoto, dell’aprirsi agli altri, diventiamo aggressivi e questo provoca rabbia. E così via.
Aung San Suu Kyi sottolinea come sia la paura ciò che governa la Birmania e che il paese non si disporrà a un vero cambiamento fino a quando questa paura non verrà rimossa. Propone quindi una «rivoluzione spirituale», nella quale il popolo deve prima di tutto liberarsi dalla paura, in tutti gli aspetti della vita, in una ricerca personale della libertà. Le persone che si sono liberate interiormente possono, a questo punto, liberarsi dalla repressione, dato che nessuno ha più il potere di paralizzarle con la paura.
A conferma di tale verità, la stessa leader birmana cita spesso un episodio vissuto da lei e un gruppo di membri del suo partito: mentre passavano di fronte a un drappello di soldati, questi intimarono loro di fermarsi, senz’altra ragione se non quella di molestarli. Gli esponenti della Nld rifiutarono di fermarsi e i soldati non ebbero il coraggio di sparare su persone inermi.
Atti di coraggio come questo riflettono la profonda serenità spirituale e l’identificazione delle idee politiche con le convinzioni religiose, elementi cari a Gandhi e ad altri combattenti non violenti. Questa filosofia incoraggia la creazione di un «popolo nuovo», che rifiuta la scelta di soluzioni violente dei conflitti.
Il più delle volte, le rivoluzioni armate sfociano in governi che, essendo formati da persone cresciute in condizioni repressive e di paura, perpetrano a loro volta gli errori dei regimi a cui si sostituiscono.
La Nld è cosciente del fatto che quando in Birmania sarà finalmente instaurato un regime democratico, sarà necessario sviluppare un processo attivo di riconciliazione nazionale, per evitare che parte della popolazione, lungamente vessata dal regime al potere, abbia la tentazione, se non addirittura la determinazione, di vendicarsi dei tanti abusi subiti.

BISOGNO DI SPERANZA

Esiste un’altra nazione dove si sta svolgendo una lotta simile: il Tibet. Ma mentre la situazione tibetana è abbastanza conosciuta, grazie anche agli sforzi di politici e personalità del mondo dello spettacolo, la Birmania non ha una stella di Hollywood che perori la sua causa. Il silenzio più assoluto copre, a livello mondiale, i soprusi, violazioni di diritti umani, uso del lavoro forzato e minorile, profitti incassati dal governo con il traffico di droga, campagne di pulizia etnica… che affliggono la Birmania e sulla lotta non violenta che si oppone a tutte queste aberrazioni.
Il giorno che perderemo il Tibet e la Birmania, perderemo i due esempi più significativi al mondo di non-violenza. Dobbiamo dare speranza alla Birmania.
In questo particolare momento storico, noi occidentali possiamo imparare molto da questa lotta. Alcuni avvenimenti recenti hanno fatto sì che si incrementasse nei paesi industrializzati l’uso del sistema del «governare con la paura». L’11 settembre e altri attentati terroristici, hanno innescato nella gente il timore di vivere in un mondo apparentemente pericoloso. I governi hanno pilotato la paura a loro vantaggio, iniziando guerre con falsi pretesti, diminuendo la tutela dei diritti umani.
Similmente, la paura di perdere il nostro stile di vita benestante ha incoraggiato l’applicazione di leggi economiche basate puramente sulla predominanza del profitto invece che sulla ripartizione delle ricchezze in modo giusto ed equo per tutti.
La teoria della «libertà dalla paura» ha molto da insegnarci; la sua applicazione va ben al di là di nuove opportunità democratiche per la Birmania e il Tibet. Abbiamo tutti bisogno di questa liberazione, se vogliamo perseguire il sogno di un mondo migliore. Di conseguenza, appoggiare la rivoluzione spirituale in Birmania implica qualcosa di più del dare un supporto politico a un paese tiranneggiato da un regime brutale. Appoggiare la causa birmana significa instaurare un cambiamento di regime nelle nostre vite.
Tale appello diventa ancora più importante per i cristiani, che condividono queste realtà di conversione integrale, di rivoluzione interiore, di vera libertà. Quante volte leggiamo nel vangelo le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «Non abbiate paura!».

CONTINUARE LA PRESSIONE

Mentre alcune nazioni, in maggioranza asiatiche, intrattengono relazioni economiche con il governo di Rangoon, alcuni governi di paesi occidentali hanno rivolto la loro attenzione ai problemi della Birmania, imponendo, in accordo con richieste della Nld, dure sanzioni economiche.
Unione Europea e Stati Uniti sono stati coerenti nel richiedere al regime, troncando nel frattempo relazioni economiche e diplomatiche, di concedere libere elezioni e rimettere il potere nelle mani di un governo democratico. Ma c’è ancora molto da fare.
Alcune associazioni svolgono un ruolo importantissimo nel mantenere la pressione sul regime. Negli Stati Uniti, per esempio, la Free Burma Coalition, ora chiamata US Campaign for Burma, è riuscita a convincere 86 ditte americane e multinazionali a chiudere i rapporti d’affari con la Birmania, a smettere di vendere prodotti made in Burma e a convincere l’esercito americano a non acquistare vestiario prodotto in quella nazione.
Anche queste azioni, come quelle adottate nella lotta birmana, sono state non violente: sono consistite soprattutto nello scrivere una grande quantità di lettere per scoraggiare relazioni d’affari con la Birmania. E non si pensi che un’organizzazione come l’US Campaign for Burma sia una grossa entità: in questi giorni l’associazione ha pubblicato l’annuncio: ricerca di candidati da cui scegliere la… terza persona pagata a tempo pieno. La determinazione porta molto lontano.
Anche dall’Italia è possibile appoggiare la lotta in Birmania, sostenendo, per esempio, eventuali iniziative che Amnesty Inteational e organizzazioni non governative operanti nel campo di giustizia e pace stanno attivando a favore del popolo birmano e dei prigionieri politici di quel paese.
Un altro modo è boicottare i viaggi in Birmania e i prodotti made in Burma, sia personalmente, sia convincendo gli altri a fare altrettanto, sia spiegando ad agenzie turistiche e negozianti ciò che avviene in quel paese, esortandoli a non rendersi complici delle ingiustizie che vi si compiono.
Naturalmente, prima di fare ciò, è necessario informarsi. La via della conversione, della liberazione dalla paura, comincia dall’informazione.

Alfredo Garzino Demo




DOSSIER ZAMBIAGuardando al futuro

Con i missionari fidei donum ambrosiani

Arrivati nel 1961 nello Zambia (allora Rhodesia del nord), per prestare assistenza religiosa agli italiani impegnati nella costruzione della diga di Kariba, i missionari fidei donum della diocesi si sono presto occupati della popolazione circostante. Oggi sono presenti in sei parrocchie: due nella diocesi di Lusaka e quattro in quella di Monze.

«Essere cristiani è una cosa buona, importante, perché è Dio che ti dà la forza per risolvere i problemi» dice Mary. «Ogni mattina alle 6 vado a messa; se parto senza essere andata prima a messa è come se mi mancasse qualcosa» dice Sherry.

FEDE VIVA ED ENTUSIASTA


Mary e Sherry: due persone molto diverse. La prima è una povera donna che vende pomodori al mercato; la seconda, una ricca banchiera. Sono accomunate dalla fede intensa.
Questo è abbastanza consueto nello Zambia, «dove la fede è una cosa viva, capace di fare sacrifici, una fede che si entusiasma – spiega Olinto Ballarini, prete fidei donum della diocesi di Milano, nel paese da 14 anni e da cinque procuratore dell’arcidiocesi di Lusaka -. Qui, quando si celebra l’eucaristia, si celebra la vita».
«Questa gente vive la fede come qualcosa che riempie loro la vita – incalza don Antonio Novazzi, responsabile della parrocchia di Kafue, a pochi chilometri da Lusaka -. Gli zambiani pregano assieme con grande profondità ed entusiasmo. Quando assistono a una celebrazione eucaristica lo fanno con forte coinvolgimento interiore, ma anche in maniera attiva: ballano e cantano a gran voce».
La gente crede sinceramente, ma a volte le omelie non bastano. D’altra parte, una chiesa giovane come quella zambiana ha bisogno di diffondere il più possibile il proprio messaggio. Ha bisogno di visibilità, anche per manifestare la propria vitalità alle altre religioni che stanno prendendo piede. Servono immagini, segni, simboli. E che cosa c’è di più significativo di una chiesa?

PUNTO DI RIFERIMENTO

Per questo, nell’arcidiocesi di Lusaka, in Pope Square, proprio nel centro della città, sta sorgendo una cattedrale dedicata al Bambin Gesù. Ce ne parla don Olinto. «La cattedrale celebrerà la gloria di Dio, sarà il luogo del dialogo tra Dio e l’uomo, il centro della comunione di tutti i cristiani con il vescovo. Sarà un punto di riferimento per la comunità, che giornisce con gli sposi che si apprestano a celebrare il matrimonio e piange con i familiari che stanno vivendo un lutto. Per me la chiesa è un luogo di consolazione per gente che ha bisogno di essere rincuorata, motivata. Sarà la casa di tutti; il povero e il bisognoso troveranno in questo luogo supporto e consolazione. Qui ci si potrà donare agli altri, dare la vita per i fratelli. L’edificio sarà bello, fatto per aprire il cuore».
Con 22 metri di altezza, una superficie coperta di 2.400 metri quadrati, un’arcata di 15 metri e 2.000 posti a sedere, sarà anche maestosa. «Certo – riprende don Olinto -. Si dovrà vedere da lontano, come un faro che indica la direzione. Per questo, sulla sommità della facciata, è stata issata una croce in ferro alta sette metri e mezzo. La chiesa sarà anche molto luminosa, con la luce che entrerà dall’alto e si espanderà in tutto l’edificio. La forma ricorda due mani in posizione orante».
I lavori procedono abbastanza speditamente. Al momento della nostra visita (novembre 2004) sono al 60% dell’intera opera: fondamenta e sovrastruttura sono complete; travature in acciaio e tetto quasi sistemati; sono iniziati i lavori in muratura e sta per essere installato l’impianto elettrico; poi toccherà alle rifiniture. Buona parte del materiale in metallo, comprese le lamiere per la copertura, provengono dal Sudafrica. I portali e lavori in legno, invece, vengono dalla falegnameria della Saint Ambrose training center, una scuola di formazione professionale di Kafue gestita da volontari italiani.
L’altare fu realizzato in occasione della venuta di Giovanni Paolo ii nel 1989. Al santo padre l’arcivescovo di Lusaka J. Medardo Mazombwe chiese di benedire la prima pietra della cattedrale, la cui costruzione è iniziata poi ufficialmente nel 2000, su disegno dell’architetto Ron Kirby.
Simbolo nel simbolo è il crocifisso in legno di rose, che sarà situato dietro l’altare. Vi sta lavorando un giovane scultore locale, Charles Chambata. Il corpo del Cristo, nero, è deposto su una croce alta quasi due metri. Sul capo del Salvatore la corona di spine è in metallo.
La conclusione dei lavori della cattedrale è attesa per l’estate 2005. Il tempio sacro costerà un milione e mezzo di dollari. Contributi sono arrivati da organizzazioni inteazionali inglesi, italiane, tedesche, olandesi e dalla Conferenza episcopale italiana. Anche le chiese sorelle, le organizzazioni cattoliche, le parrocchie della diocesi, la gente zambiana hanno collaborato molto.

SPERANZA NEI GIOVANI

Nell’area circostante la cattedrale, saranno realizzati la curia, un teatro, un centro giovanile per 400 ragazzi, alcuni alloggi per studenti e gli uffici pastorali. Ci saranno anche una casa per i preti e una per i volontari. In questo complesso si svilupperanno attività sociali e culturali.
La diocesi di Lusaka, 62 mila kmq e 2,6 milioni di abitanti, conta oltre 850 mila cattolici, 4 vescovi (titolare e ausiliare e due emeriti), 800 tra preti e religiosi, 2 mila laici e 3,5 mila volontari locali, distribuiti in 55 parrocchie.
A queste, presto se ne aggiungerà un’altra. «Si chiamerà Saint Moritz, in ricordo di Maurizio, un giovane geometra di Como – racconta don Olinto -. In occasione di un suo viaggio in Zambia, un padre missionario gli aveva chiesto di disegnargli una chiesa e lui aveva abbozzato un primo progetto. Qualche tempo dopo la tragedia: si è inaspettatamente tolto la vita. Ho incontrato la mamma, qualche tempo fa, mi ha espresso il desiderio di quella chiesa. La stiamo realizzando».
La collaborazione tra la mamma di Maurizio e don Olinto rispecchia, sul piano privato, quella assolutamente vitale per lo sviluppo del paese subsahariano tra istituzioni locali e inteazionali. «Tutte le iniziative di solidarietà sono buone – continua il sacerdote -, non solo la cancellazione del debito, ma anche gli scambi commerciali».
Don Olinto, come vede il futuro? «La vera speranza di questo paese sono i giovani. Anche per quanto riguarda la salute della popolazione. A partire dai giovani che sopravviveranno all’Aids, verrà fuori una nuova generazione, più forte. Questa è la vitalità dello Zambia. Un fervore di cui la nuova cattedrale vuole essere segno evidente».

ARTEFICI DEL PROPRIO FUTURO

Dal centro di Lusaka ci spostiamo a Lilanda compound, un polmone della capitale che vive e respira indipendentemente dalla città. Quanti bambini corrono, sorridono, quanta vita per le strade sterrate, le piccole abitazioni, i baracchini dove si vende di tutto! Nel bel mezzo di questo mondo una scuola, un’aula colorata e accogliente, allegra, banchi e sedie nuovi, quadei, penne, stoffe, pennelli e pittura.
All’interno di Lilanda abbiamo conosciuto suor Rita Serao: è tra questi bambini che lei, suora comboniana, ha iniziato il suo progetto di scuola professionale per ragazze orfane tra i 15 e i 18 anni. «Creare la possibilità di un lavoro è ciò che può dargli la spinta per continuare a lottare e ad andare avanti anche in mezzo a molte difficoltà» comincia suor Rita a spiegarci lo scopo del suo lavoro nel compound.
«Sono le ragazze che educheranno i figli: introdurle nella società significa educare un’intera famiglia – continua la suora -. Dobbiamo dare loro un’educazione di base e insegnare un mestiere con il quale, uscite dalla scuola, potranno vivere; cercheremo di rendere le ragazze capaci di gestire una piccola attività, in modo da diventare indipendenti economicamente».
Il progetto è partito nel mese di novembre 2004; le ragazze sono circa 50 e l’obiettivo è formarle a livello umano, spirituale e accademico, cercando di far emergere i talenti artistici e le proprie predisposizioni, inoltre si propongono di creare borse di studio per ragazze orfane che non hanno ancora l’età per frequentare la scuola secondaria.
«La situazione di queste ragazze è spesso drammatica, troppo spesso sono vittime di abusi sessuali – spiega suor Rita -. Noi cerchiamo di dare loro anche un’assistenza psicologica e conduciamo una formazione di prevenzione contro l’Hiv, inoltre provvediamo a fornire loro un pasto giornaliero. Alla fine del corso, che durerà due anni, le ragazze riceveranno un’assistenza di micro credito per poter iniziare concretamente un’attività commerciale».
Tale progetto nasce proprio all’interno del compound, a stretto contatto con la vita quotidiana delle ragazze, del loro mondo; non vengono sradicate dalla comunità, ma hanno la possibilità di crescere e di essere educate proprio all’interno, là dove porteranno i frutti del loro studio e successivamente del loro lavoro.
A qualche chilometro dalla capitale, a Kafue, ce n’è un altro molto simile, gestito anch’esso da italiani: il Saint Ambrose training center (scuola professionale). La prima cosa che colpisce arrivando al centro è il laboratorio di falegnameria, i lavori dei ragazzi sono eccezionali, mobili di altissima qualità, creati con legname pregiato di cui lo Zambia è ricco: teck, ebano, rosewood.
Pietro Radaelli, volontario del Celim (Centro laici italiani per le Missioni, Milano), ci racconta il progetto di scuola creato a Kafue, in cui ragazzi e ragazze sono avviati al lavoro attraverso corsi di cucito, informatica, falegnameria, elettricità e meccanica.
«Quello che cerchiamo di fare – racconta Pietro – è insegnare loro un mestiere per avere uno sbocco nel mondo del lavoro; tutti gli insegnanti sono zambiani, molti dei quali usciti proprio da questa scuola. Il nostro obiettivo è quello di consegnare loro la gestione dell’istituto, entro il 2007, perché diventino essi stessi gli artefici del proprio futuro».

SCUOLA COMUNITARIA

A Kafue e Mazabuka i preti fidei donum di Milano gestiscono due Community School. Con questo nome si intendono scuole gratuite per bambini e ragazzi che non hanno la possibilità di pagarsi l’istruzione e che spesso provengono da situazioni difficili, nella metà dei casi sono orfani di entrambi i genitori. Benché non siano sovvenzionate dallo stato, le Community School sono riconosciute a livello nazionale: alla fine della terza media gli alunni affrontano l’esame statale, ricevono il diploma e possono accedere alle classi superiori.
Il problema dell’istruzione sta diventando sempre più grave in Zambia. Durante la presidenza di Kaunda, cioè fino alla metà degli anni ‘90 l’istruzione era gratuita e garantita a tutti; ora, invece, le scuole statali sono diventate a pagamento; inoltre gli studenti devono pagarsi la divisa e il materiale scolastico. Molti in questi ultimi anni hanno abbandonato gli studi e sempre meno famiglie riescono a mandare i loro bambini a scuola.
Nella scuola di Mazabuka abbiamo incontrato Brian, un ragazzo che, accompagnandosi con la chitarra, ci fa ascoltare la canzone che ha scritto per la sua patria nel 40° anniversario dell’indipendenza. Nelle sue parole traspare il senso di tanti suoi sacrifici e sofferenze.
Brian ha 18 anni; è orfano e, come racconta padre Maurizio Canclini, è determinato e testardo nel pretendere per sé un futuro migliore. Lo sta cercando e ottenendo proprio a Mazabuka dove riceve un’istruzione e affina le sue grandi doti di artista. Infatti, oltre a comporre canzoni, Brian ha dipinto i murales che abbelliscono le aule della sua scuola.
La scuola comunitaria di Mazabuka, piccola città a circa 200 km a sud di Lusaka, è un progetto per ragazzi orfani, con abitazioni ed edifici scolastici, gestito dal Coe (Centro orientamento educativo), un’associazione milanese di laici volontari cristiani impegnati nella formazione integrale degli adolescenti.
«È proprio in questo periodo – spiega padre Maurizio – che i ragazzi devono essere educati, non solo nelle materie scolastiche, ma soprattutto sui problemi della vita; per questo abbiamo deciso di fare campagne per la prevenzione del virus Hiv e sensibilizzare i giovani su questa piaga che ha lasciato senza entrambi i genitori la metà di loro».
La scuola va dall’asilo alle nostre medie; poi i ragazzi hanno la possibilità di proseguire con corsi di pittura, scultura o informatica, a cui possono accedere anche gli estei con il pagamento di 50 mila kwacha a livello (circa 10 euro). «Questo ci permette di raccogliere un po’ di fondi per la scuola – spiega padre Maurizio – e pagare i 22 insegnanti, tutti zambiani. La vendita delle opere prodotte nei corsi di arte ci consentono di pagare gli artisti».
La scuola comunitaria di Kafue, dove vive da tanti anni padre Antonio Novazzi, è un’altra storia. Nata negli anni ‘70 come città industriale modello, ma soffocata dai problemi causati dal crollo economico e dalle nuove leggi di mercato, Kafue rimane solo un sogno del passato; tante persone non hanno più speranza in un futuro migliore.
Molti giovani gravitano intorno alla parrocchia di padre Antonio e tanti hanno la possibilità di studiare grazie proprio alla Community School. «Le liste di attesa per entrare in questa scuola sono lunghissime: quasi 400 ragazzi studiano da noi – racconta padre Antonio -. Ma ci vogliono fondi per mandare avanti un progetto come questo. Scuole come queste nascono soprattutto dall’esigenza di dare un’istruzione ai ragazzi orfani, quindi l’insegnamento è gratuito; chiediamo solo una collaborazione nella realizzazione e nel mantenimento degli edifici scolastici sia da parte dei genitori, quando ci sono, che dei ragazzi. Inoltre, è nata l’idea di fornire un servizio a pagamento di mulino, per macinare il grano e il mais: oltre ad aiutare la scuola rende la comunità partecipe e responsabile delle attività».
La Community School di Kafue è nata nel 1999, quando padre Antonio chiese ai ragazzi che avevano terminato la scuola superiore di aiutarlo nell’insegnamento, coniugando così il loro lavoro con la solidarietà nei riguardi della comunità e dei propri figli. «Abbiamo cominciato a riunire gli alunni sotto una pianta – racconta padre Antonio -, poi sotto le verande e, dopo due anni, abbiamo deciso di raccogliere fondi per costruire una vera scuola: così è partito il progetto».
Benché la vita sia difficile per tutti in Zambia, per bambini e adolescenti essa non è affatto spensierata. Anzi, proprio alla loro età vivono i drammi più grandi, come la morte dei genitori, la malattia, la fame. È qui che entrano in gioco persone come padre Maurizio e padre Antonio, persone che spendono la loro vita per aiutare questi giovani a emergere dalla situazione in cui si trovano, a crearsi un futuro che, grazie anche a loro, potrà essere migliore.

BOX 1

NON PIÙ ORFANI

Ha 48 anni e un sorriso che lascia il segno: è Theresa Chilesh. Quando ha saputo che la comunità di Kafue cercava persone disposte ad adottare bambini rimasti orfani a causa dell’Aids, si è subito offerta e, a ottobre 2004, è diventata la prima «abitante» del Children’s home village a Kafue: un villaggio destinato a ospitare coppie o vedove che scelgono di accogliere bambini rimasti senza famiglia e senza tetto. Altre coppie si preparano a occupare le altre case del villaggio in costruzione. Quando il progetto del villaggio sarà completato, ospiterà 50 bambini, distribuiti in 10 famiglie.
Nella sua casa, semplice, ma dignitosa, Theresa è la nuova mamma di Clifford, 11 anni, figlio di un suo fratello, e Maxwel, 9 anni, vissuto per un mese da solo nella foresta, rifiutato dai suoi nonni. A novembre è arrivato Gift, il più piccolo. È malato e la nuova mamma ne è molto preoccupata.
Theresa ci racconta pure la sua storia personale: sposata nel 1972, rimasta vedova nel 1992, si trasferì con i due figli a casa dei genitori. Quando il «pane» cominciò a scarseggiare, tentò la fortuna a Kafue. Qui è riuscita a sopravvivere raccogliendo il pesce che i pescatori spesso abbandonano lungo il fiume, per noncuranza o perché ubriachi. Non sempre la fortuna era benigna: a volte doveva pagare il pesce, soddisfacendo le voglie dei pescatori. Una brutta storia che Theresa ha lasciato alle spalle.
Ora la comunità parrocchiale si è stretta attorno alla sua nuova famiglia. Per sostenere i tre bambini, le viene garantito un piccolo assegno mensile.

A Mazabuka, 55 km a sud di Kafue, la comunità parrocchiale locale, affidata al fidei donum milanese don Maurizio Canclini, sta sperimentando da due anni un altro progetto a favore degli orfani, soprattutto adolescenti. Sono 5 casette, chiamate «Arche»; formano un piccolo villaggio su una proprietà della parrocchia; ogni Arca ospita una decina di ragazzi orfani. Nelle Arche i ragazzi imparano a convivere, gestire le piccole faccende domestiche, rispettare ciascuno i tempi degli altri. A volersi bene. Su di loro veglia lo «zio»: un ragazzo di qualche anno più grande degli altri, cui viene affidata dalla parrocchia la responsabilità di ogni casa.
La vita nelle Arche cerca a fatica di assumere colori e contorni della quotidianità. Durante il giorno i ragazzi vanno a scuola o al lavoro; alla sera si ritrovano tutti insieme. A volte la serata scorre serena, altre volte nascono attriti e piccoli litigi. Nell’Arca n. 3 è spesso la chitarra dell’energico Brian, che ha un grande talento di pittore e coltiva ambizioni di successo, ad accompagnare le serate degli altri ragazzi.
I giovani delle Arche sono ormai 52. Fra di loro, 13 ragazze, che condividono una delle cinque case. Fra gli «zii» che vegliano sui ragazzi ce n’è uno del tutto speciale: si chiama Celeste. Quando è arrivato dall’Italia, un anno fa, doveva fermarsi solo un mese. Invece «zio» Celeste è ancora lì, a fare da angelo custode ai «suoi» ragazzi. Mangia, dorme, vive con loro, in una delle cinque Arche. Condivide con loro le ristrettezze e la fatica del vivere insieme. Organizza la coltivazione dell’orto, la cura del pollaio e la gestione del barbershop, tre attività che la parrocchia ha affidato alle Arche con l’obiettivo di responsabilizzare i ragazzi.
Mentre parla della vita nelle Arche, arriva un ragazzo che gli racconta concitato di una piccola rissa in cui è stato coinvolto. Celeste lo ascolta, poi lo rimprovera. La scommessa di recuperare i ragazzi a una vita normale è un sentirnero in salita, ma lungo la strada già i primi fiori stanno sbocciando.

Roberta Voltan

Romina Gobbo e Elena Martelli




DOSSIER ZAMBIASolidarietà – Carezze a domicilio

Il programma di lotta all’Aids, promosso dalla diocesi di Lusaka, coinvolge migliaia di volontari.

Legato il foulard rosso sulla testa, sistemata la grossa borsa grigia sulla spalla, Mami Monica saluta la nipotina e si incammina lungo la strada polverosa. Questa mattina percorrerà a piedi 10 km, sotto la canicola africana, per portare aiuto alle persone che assiste nel suo quartiere. Questo non è per lei un giorno eccezionale, ma la normalità. Ormai da anni ripete gli stessi gesti due o tre volte alla settimana.
Mami Monica è una delle 75 caregivers (assistenti volontari) che a Kafue partecipano al Community Home Based Care Program (programma di assistenza domiciliare comunitario). Vi collabora dal 1993, quando, dopo la morte del marito si è trasferita a Kafue, dove oggi vive con la famiglia. Abita nel Chawama compound, un quartiere povero ma dignitoso, con piccole case di mattoni, circondate dagli alberi di mango, non ammassate ma disposte ordinatamente.
I l Community Home Based Care Program dell’arcidiocesi di Lusaka nasce ufficialmente nel 1994 per dare una struttura di cornordinamento a tutti i progetti nati spontaneamente sul territorio per combattere il dilagante problema dell’Hiv. Già alla fine degli anni ’80, infatti, all’interno di alcune comunità erano nati i primi gruppi di volontari che nel 1992 iniziarono le prime attività assistenziali. Due anni dopo, i responsabili sentirono l’esigenza di unificare gli sforzi, dando vita ad un unico grande progetto.
Oggi il programma è una realtà consolidata che conta sessanta sedi e coinvolge circa 3.500 volontari, offrendo assistenza domiciliare a 12 mila persone.
Il Community Home Based Care Program prevede 5 aree d’intervento: assistenziale, medica, formativa, amministrativa e assistenza agli orfani. Ogni area ha un suo supervisore.
«Il nostro obiettivo – afferma Kennedy Mpandamwike, responsabile del programma – è quello di fornire alla persona un’assistenza olistica (holistic care), ovvero un intervento che non mira soltanto alla cura fisica e materiale della persona, ma anche a quella spirituale e psicologica».
Un aspetto importante del programma è quello della prevenzione. È stato infatti attivato un progetto sul cambiamento delle abitudini, che prevede una formazione sulla sessualità responsabile. Le varie sedi sono legate alle realtà parrocchiali dell’arcidiocesi e sono gestite da un manager agent e da un cornordinatore.
L’organizzazione opera sul territorio attraverso dei volontari, i «caregivers». Ogni volontario assiste tre o quattro pazienti che visita regolarmente due o tre volte alla settimana. I volontari devono necessariamente operare nella zona in cui abitano. «È bello pensare che una persona si prenda cura di chi gli vive accanto – afferma Kennedy Mpandamwike -; questo ci permette di contare su persone che conoscono approfonditamente le situazioni in cui sono chiamati ad operare».
Il programma prevede la distribuzione gratuita di cibo e di medicine: le medicine per i malati di Tbc sono finanziate dall’Organizzazione mondiale della sanità. I volontari sono seguiti nella loro attività dai vari responsabili che organizzano momenti periodici di verifica. Alcuni di questi incontri prevedono attività di formazione con psicologi e religiosi.
Il personale del programma non è interamente volontario ma vi sono anche medici e infermieri stipendiati. A loro, però, è chiesto, prima di essere assunti, di svolgere tre mesi di volontariato in modo da iniziare a conoscere le dinamiche dell’organizzazione. L’intero progetto è finanziato da donazioni provenienti da varie Ong, come Cafod, Cristian Aid, Comice Relief (Inghilterra), Misereor (Germania), Catholic Relief Service (Usa) e Irish Aid (Irlanda).

A rriviamo alla casa di Mami Monica percorrendo la strada principale che collega Lusaka a Kafue. Poche centinaia di metri dopo il centro della città svoltiamo a sinistra imboccando una strada sterrata.
Mami Monica ci attende davanti alla porta di casa e ci invita ad entrare. Insieme a lei c’è Moses, un altro volontario. Ci accomodiamo nel piccolo salotto. Alle pareti sono appese le foto della sua numerosa famiglia (3 figli, 6 figlie e 24 nipoti), accanto al poster di Ronaldo.
«Non è facile trovare il tempo di assistere queste persone e per noi donne è ancora più dura, ma è una cosa che sentiamo dentro» ci confida Monica. Lei infatti, come la maggior parte delle donne di Kafue, è costretta a lavorare per poter sfamare la famiglia. Gestisce un piccolo banchetto al mercato del compound, dove vende legumi e pomodori.
Moses ci racconta del particolare legame che con il tempo si riesce ad instaurare con il paziente e i suoi familiari. «Quando vai da loro, gli dai la luce» ripete.
Seguiamo i due caregivers lungo la strada che porta verso Cassengere, il compound vicino a Chawama, dove si trova la casa della prima assistita: si chiama Rosebanda. L’abitazione è formata da un’unica piccola stanza, coperta da un tetto di lamiera, che rende l’aria soffocante. Ad attenderci sulla porta troviamo il marito e una vicina di casa. Entriamo nella stanza e troviamo la paziente seduta sul letto. È malata di Tbc e da alcuni giorni non riesce a mangiare. La Tbc ha attecchito facilmente nel suo corpo debilitato dall’Aids.
Monica si siede accanto a lei e le tiene la mano. Ad un tratto la donna comincia a piangere: la sua unica figlia, che vive a Lusaka, si rifiuta di venirla a trovare. L’Aids è ancora troppo spesso visto come uno stigma, una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi. Monica cerca di consolarla sussurrandogli alcune parole all’orecchio. Non comprendiamo il senso di queste parole, ma il suo sguardo e le carezze sono quelle di una madre che accudisce il proprio bambino.
Dopo alcuni minuti Monica afferra la borsa ed estrae un pacco di farina arricchita con vitamine e zuccheri e lo consegna al marito della donna. Prima di uscire sostiamo un attimo in silenzio e Moses pronuncia una preghiera per la donna. «Signore ti preghiamo aiuta questa donna, sappiamo che a te nulla è impossibile» sospira a bassa voce.
Oltre a portare cibo e medicinali, insieme al sostegno psicologico, i caregivers aiutano i familiari dei malati nelle faccende domestiche. «Il nostro ruolo – spiega Moses usciti dalla casa – è sempre quello di mettere in contatto queste persone lasciate sole con i parenti. Vedere la famiglia che si riavvicina al malato è una cosa meravigliosa».

R iprendiamo il cammino lungo la strada in salita e arriviamo alla casa del secondo paziente. È assistita da una delle figlie, anch’essa malata di Aids.
Mami Monica e Moses si siedono vicino alla donna e conversano con lei. Quindi la caregiver estrae dalla borsa farina, medicine e un unguento e consegna tutto alla figlia. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, usciamo per continuare il cammino e visitare l’ultima casa.
Vi arriviamo in pochi minuti, ma la donna che dovevamo incontrare sta riposando. Monica decide di proseguire verso casa; ci toerà più tardi. Imbocchiamo un sentirnero in discesa che dalla collina ci riporta verso il nostro pulmino. Salutiamo e ringraziamo Mami Monica e Moses. Prima di lasciarci chiediamo a Moses qual è il significato della parola Chawama. «Cosa buona» risponde sorridendo. Non poteva essere altrimenti.

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JOHN HOSPICE

Al John Hospice si va per morire, ma si va anche per imparare a vivere. Per 4 mesi, uomini, donne e bambini vengono accolti nell’ospedale per affrontare serenamente la malattia in ogni stadio della sua evoluzione. I pazienti vengono curati e assistiti nello spirito che anima il progetto Kara Counselling.
Nato inizialmente come consultorio, questo progetto, di cui John Hospice fa parte, si è espanso fino alla creazione di ospedali che danno la possibilità ai malati più gravi di ottenere le cure necessarie a una degna sopravvivenza, o a una morte dignitosa, quelle cure che l’home based care non può arrivare a fornire.
Grazie al sostegno di vari donatori, come le fondazioni Elthon John, Bill Clinton, Christian Aid e Comice Relief, possono essere effettuate analisi, come i Cd-4, e somministrate medicine costose, garantendo un miglioramento delle condizioni del paziente.
«Sta molto meglio grazie alle cure, prima di venire qui era irriconoscibile» dice Josef, mentre accarezza i capelli della sua bimba di soli 4 anni, che porta ancora intorno alla bocca i segni devastanti della malattia. Tanti bambini come lei hanno riavuto la possibilità di vivere una vita normale, almeno per un poco. «Ma tra qualche giorno dobbiamo andare via e non ho più soldi per curarla» continua il padre.
L’Aids colpisce senza guardare in faccia nessuno: lo sanno bene i malati, i medici e i volontari al John Hospice; ogni giorno lottano per ridare un volto sereno alla vita e alla morte.



Michele Luppi




DOSSIER ZAMBIAAids: generazione devastata

Nel 1999 il 20% della popolazione era infetta; solo l’1% può accedere alla cura antiretrovirale; 1 milione i bambini orfani a causa della malattia. La generazione tra i 25-40 anni è decimata.

Malata di tubercolosi, magrissima, Rose, 42 anni, non mangia perché non riesce a deglutire, spesso vomita. La figlia abita vicino, ma non va mai a trovarla. Si vergogna. Della tubercolosi? No! La tbc è probabilmente solo una complicazione dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto all’Hiv. In altre parole, dell’Aids, la nuova «peste» che sta devastando l’Africa meridionale, portandosi via piano piano tutte le risorse migliori.
Gli stati dell’Africa australe contano le più alte percentuali di infezioni da Hiv/Aids al mondo. Lo Zambia è uno dei paesi più colpiti. Il 42% delle donne in età fertile sono sieropositive, con alto rischio in caso di gravidanza. Il 90% dei bimbi sieropositivi contrae il virus dalla madre.
Fino al 1999 il 20% dell’intera popolazione dello Zambia era sieropositivo; oggi la percentuale è scesa al 16%: l’abbassamento è dovuto all’incremento dei morti, ma anche alla minore incidenza dell’infezione, grazie al molto lavoro di prevenzione fatto in questi anni, sia sul piano dell’informazione che su quello della prevenzione più strettamente medica.
Ma il rischio persiste, anche per tutti coloro che necessitano di sangue, perché i sistemi di trasfusione sono poco sicuri.

EMERGENZA SANITARIA

In Zambia la gente è abituata a convivere con la morte. L’età media della popolazione è 42 anni. Si muore per dissenteria, per un’eia, un’appendicite, di parto, per quelle che in Europa sono semplici indisposizioni e per complicazioni alle quali gli ospedali locali, per carenza di attrezzature o farmaci, non riescono a far fronte. La radiografia è rotta, il paziente muore. Il liquido della flebo entra in circolo troppo velocemente, il paziente muore.
Il 10% dei bambini non arriva a un anno; il 17% muore prima dei cinque, soprattutto per malaria (428 casi su mille) e tubercolosi (180 casi su mille). I bambini che riescono a sopravvivere spesso soffrono di patologie legate alla malnutrizione.
È l’emergenza sanitaria, alla quale lo Zambia deve fare fronte con 756 medici governativi (uno ogni 13.200 abitanti nelle città e uno ogni 40 mila nelle aree rurali; in Italia ce n’è uno ogni 100 abitanti) e 10.500 tra infermieri e paramedici (1 ogni 10 mila abitanti). Una delle tante conseguenze della povertà.
L’altissimo debito estero, oltre 7 miliardi di dollari, continua infatti a sottrarre fondi alle strutture sanitarie e sociali. Il bilancio del Ministero della salute per il 2003 è stato di circa 83 milioni di euro all’anno, 8 euro a persona.
Conseguenze sociali
Stigma e discriminazione non permettono a chi è sieropositivo di condurre una vita «normale». La generazione dei 25-40enni, quindi la fascia attiva e più colpita, è decimata, con conseguenze devastanti sui minori.
Negli ultimi anni il numero degli orfani in Zambia è aumentato a dismisura: oggi i minorenni che hanno perso uno o entrambi i genitori sono oltre un milione: il 10% del totale della popolazione. Di questi, circa 630 mila sono rimasti orfani a causa dell’Aids, che colpisce in particolar modo le persone fra i 25 e i 40 anni.
Più del 50% dei bambini senza genitori ha meno di 15 anni. Fra i bambini che frequentano la scuola, gli orfani sono il 48%.
Nel paese non esistono strutture destinate a ospitare i bambini che hanno perso i genitori: fino a pochi anni fa, erano i nonni o gli zii a farsi carico di loro, accogliendoli in famiglia. Oggi questo passaggio non è più «automatico»: il numero degli orfani continua a crescere e spesso le reti parentali non riescono a sostenere da sole tutti i bambini che si ritrovano senza genitori. Ci sono nonni che, ritrovandosi con cinque o più nipoti orfani, riescono ad accogliee in casa solo due o tre, lasciando «sulla strada» gli altri.
Le comunità parrocchiali si stanno interrogando sul «problema orfani» che si pone in questo momento con grave urgenza. Una delle risposte possibili è quella di affidare gli orfani a coppie o vedove che già hanno figli propri, ma che scelgono di «allargare» la loro famiglia. In cambio della loro disponibilità queste persone ricevono dalla parrocchia un contributo per poter sostenere i figli adottivi.

INIZIATIVE PROMOSSE

L’attenzione verso il problema dell’Aids è alta; numerose sono le iniziative sia da parte dello stato, per quanto riguarda le campagne di prevenzione, sia da parte della comunità sociale.
Tali programmi di prevenzione promuovono e incoraggiano l’apertura e il riconoscimento pubblico della malattia, ma c’è ancora molta strada da fare in tal senso. Non è raro che all’interno dello stesso nucleo familiare non si sia a conoscenza della malattia di uno dei membri. Soprattutto nelle zone rurali o nei compound, la malattia è tenuta ancora nascosta, sia per evitare di essere vittime di ghettizzazione, sia perché, dichiarando di essere infetti da tubercolosi (prima e quasi certa conseguenza dell’infezione) e non da Hiv, si è certi di accedere al programma nazionale almeno per la cura della Tbc.
Alle carenze dello stato tentano di supplire le organizzazioni di volontariato e i missionari. Si occupano degli orfani, organizzano scuole comunitarie per garantire l’istruzione di base, aprono ospedali, promuovono campagne di informazione contro l’Hiv, sostengono i care giver, i volontari locali che 2-3 volte a settimana percorrono chilometri a piedi per dare assistenza a domicilio ai malati cronici.
Per fortuna la Zambia ha i suoi angeli custodi (vedi riquadro). Ne abbiamo incontrati due: Astrid Paganini e suor Egidia Di Luca, francescana missionaria, infermiera, presente dal 1960.
Suor Egidia è la responsabile dell’unico ospedale ortopedico, situato nella capitale Lusaka. «Abbiamo cominciato nel ‘95 con 6 posti letto: ora sono 40 – spiega -. Dal 1995 a giugno 2004, sono state effettuate 5.500 operazioni. Ai malati diamo cibo e assistenza, a volte anche il trasporto per riportarli a casa. Per i bambini è tutto gratuito. Facciamo anche le protesi».
Astrid, medico, presente dal 2003 con il marito e i quattro figli, lavora volontariamente nell’ospedale distrettuale governativo di Kafue, a un’ora di strada da Lusaka. Le domandiamo come si difende il paese dall’Aids. «Si promuovono molte campagne di sensibilizzazione, anche le strade sono piene di cartelli informativi, ma non è facile, perché prima di tutto si tratta di un problema culturale. La gente sa che può evitare il contagio con il preservativo, ma lo usa troppo poco. Innanzitutto, perché impedisce la procreazione. Poi perché è difficile associare un atto con una malattia, che magari si manifesta molti anni dopo.
Le conseguenze non sono immediatamente evidenti. A volte chi decide per il test è già all’ultimo stadio e non possiamo fare più nulla. Ma anche verso il test c’è una certa disaffezione. Le donne temono le ire dei mariti che, in caso di sieropositività, le accuserebbero sicuramente di infedeltà coniugale. La morte, poi, in ogni caso, arriva in giovane età. La si accetta con serena rassegnazione. Per la gente sapere che è sopraggiunta a causa dell’Aids o di qualcos’altro è uguale. Anzi, a volte preferisce che l’Aids non venga diagnosticato, perché servirebbe solo a provocare depressione, viste le difficoltà di cura.
Nel paese solo 15 mila pazienti, l’1% di tutti i malati, sono curati con farmaci antiretrovirali, in grado di rallentare la progressione della malattia. Ogni ospedale aderisce a un programma per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio; questo tipo di cura nel 50% dei casi ha successo, ma è molto costosa. Un mese di cura per una persona costa 8 dollari, sempre troppo per una popolazione il cui 75% vive con meno di un euro al giorno.
I tre pilastri su cui si basano le campagne di prevenzione sono: ABC, ovvero A come astinenza; B come be faithful (fedeltà coniugale); in ultima istanza, C come condom. Bisognerebbe cominciare nelle scuole a insegnare la prevenzione; e bisognerebbe utilizzare maggiormente il counseling, servizio di consulenza per le coppie, visto che l’Hiv ha molte implicazioni, non solo legate alla salute, ma anche all’impatto sociale».
Il governo ha diviso lo Zambia in distretti sanitari, a ognuno dei quali destina mensilmente dei soldi. C’è un ufficio distrettuale dove sono situate la direzione generale e la logistica. In ogni distretto ci sono alcuni health centers, che funzionano come i medici di base. Rappresentano il primo gradino del sistema sanitario al quale ci si deve sottoporre obbligatoriamente. Solo se non si è riusciti a risolvere il problema lì, si ricorre all’ospedale.
Una «piaga» dello Zambia è la cosiddetta «fuga dei cervelli». Medici e infermieri sono attratti dagli stipendi più elevati offerti dai paesi circostanti e anche dall’Europa. Chi rimane, o è professionalmente meno bravo, o comunque è meno motivato.
L’ospedale dove opera Astrid è l’unico in un distretto di 240 mila abitanti. Vi lavorano 110 persone tra personale sanitario e non. La struttura è sorta nel settembre 2003 per volere di don Antonio Novazzi e della comunità. Accoglie, in quattro reparti distinti, uomini, donne, bambini e puerpere. Nonostante questo, il 50% delle donne ancora partorisce in casa con l’aiuto di altre donne. Ci sono: laboratorio, radiologia, sala operatoria, cappella per i funerali, perché sarebbe molto più oneroso per i familiari trasportare i morti altrove.
Facendo di necessità virtù, don Antonio ha avviato una falegnameria, dove vengono costruite bare e vendute a costo simbolico, così che tutti possano avere una sepoltura dignitosa. Lavorare in questa terra significa anche questo.

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WILLY AMISI

Il giorno della laurea erano in 84, ora in Zambia sono rimasti solo in 12. Gli altri colleghi hanno lasciato il paese, preferendo Europa e Stati Uniti.
Epidemiologo, 33 anni, madre congolese e padre zambiano, sorriso aperto, il dott. Amisi ha fatto gli studi superiori in Belgio, dove ha trascorso l’adolescenza al seguito del padre diplomatico. Ha una laurea in medicina, conseguita all’Università dello Zambia in 6 anni anziché nei 7 di corso, una specializzazione in epidemiologia, ottenuta in Giappone grazie a una borsa di studio.
«Dopo aver visto tanti paesi e conosciuto diverse realtà, ho deciso di tornare a esercitare la professione di medico in Zambia». Se gli si chiede il perché, il suo sorriso diventa più luminoso: «Devo essere onesto: questa è la mia patria e questo è il mio paese, mi sembra giusto stare qui. Ma soprattutto qui ho possibilità che altrove i miei colleghi non hanno».
Il suo stipendio è molto più basso di quello di un medico che eserciti in un ospedale europeo, ma qui egli ha la possibilità di fare ricerca. Inoltre è membro della Southen Africa Hiv Clinic and Society, associazione professionale che decide sui protocolli di trattamento dei malati di Aids, terapie e distribuzione delle medicine nella zona dell’Africa meridionale, membro di vari comitati e associazioni sanitarie nazionali.
«Lo so – dice sempre senza malizia -, forse un discorso del genere mi fa sembrare un imperatore. Una volta laureato ho fatto un anno di inteato presso l’ospedale universitario di Lusaka. Avevo scelto: avrei esercitato in una realtà statale o comunitaria. Volevo avere contatto con la gente che quotidianamente si rivolge a un ospedale. La situazione sanitaria dello Zambia è grave, moltissimi sono i malati di Aids e coloro che arrivano in ospedale quando è troppo tardi o che non arrivano affatto. Il mio lavoro vuole soprattutto basarsi sulla prevenzione. È mia ambizione portare la salute prima che la gente si ammali. In Africa non basta curare; bisoga fare in modo che sempre meno persone si ammalino».
Poi il volto di Willy Amisi si oscura un poco: «Ho scelto il mio paese perché credo fermamente che altrove non potrei stare bene come qui, perché credo che il mio destino mi voglia qui; ma vedo in Zambia tanti problemi che stentano a trovare una soluzione. Mancano farmaci, strutture, infermiere, ma si assiste a grandi sprechi. C’è chi ha grandi automobili e chi non può pagare le medicine, chi muore perché non c’è il farmaco che lo curi. Amo la politica privata e far sapere la mia opinione, ma non amo i partiti e la politica politicante, non è quella che farà il futuro dello Zambia».

Benedetta Musumeci

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Angeli custodi
Astrid Medema è nata in Olanda 38 anni fa. Sposata con il milanese Franco Paganini, madre di 4 figli, medico dal 1992, con un corso di formazione per lavorare negli ospedali rurali del Sud del mondo, è in Zambia dal settembre 2003, dopo una precedente esperienza nel 1995. Conta di fermarsi nel paese per 2-3 anni.
Un bell’impegno per una madre di quattro figli.
«Ancora prima di scegliere di fare medicina, sapevo di voler andare nel Sud del mondo. L’ho messo subito in chiaro quando ho incontrato mio marito. E lui mi ha capito. Ai figli qualche volta mancano l’Italia, i nonni, la televisione… ma si sono integrati bene. Vanno a scuola con i ragazzi del posto, hanno i loro amici».
Cosa significa essere medico in un paese del Sud del mondo?
«Mi piace molto il mio lavoro e sono convinta di essere molto più utile qui che in Europa. È dura, perché il carico di lavoro è enorme. Siamo solo due medici nell’ospedale e facciamo un po’ di tutto, dalla logistica alla contabilità. Poi c’è l’aspetto psicologico. Ci sono situazioni per le quali non ti senti all’altezza. Vedi persone che muoiono quando sai che in altri paesi si potrebbe salvarle. Allora ti senti addosso una grande responsabilità. A volte ti scoraggi, perché mancano i mezzi; tante volte mi è capitato di piangere perché non ce l’ho fatta. A forza di rapportarsi alla morte, si diventa più duri, più cinici. Altrimenti non si potrebbe continuare a lavorare. Ma se uno sceglie medicina, dovrebbe venire qui a svolgere il suo lavoro. Qui se non ci sei tu, non c’è nessun altro».

Suor Egidia Di Luca è in Zambia da 44 anni. È arrivata nel febbraio 1960 quando aveva appena 19 anni. È originaria di San Cipriano d’Aversa (CE) e dal 1958 appartiene alla congregazione delle suore francescane missionarie di Assisi. Partita da Venezia in nave con due consorelle, è giunta a Beira in Mozambico dopo 19 giorni di navigazione. Un viaggio lungo e disagevole e pochissime informazioni sulla destinazione.
L’impatto con l’Africa è stato duro?
«Non conoscevamo la lingua; eravamo in una casetta nella foresta, senza luce, con pochi farmaci e tantissima gente che veniva a farsi curare. Di giorno eravamo infermiere e di notte sarte, per vestire i bambini, quasi tutti nudi. Ci sono stati anche momenti brutti. In un periodo venivamo continuamente attaccate: rubavano, ci tagliavano i fili del telefono… Quella volta ho rischiato l’esaurimento e sono tornata in Italia per un po’. In Italia ho avuto un incidente gravissimo: quattro mesi di ospedale e un anno per riprendermi. Mi sconsigliavano di tornare in Africa, ma questa è la mia casa».
Grazie al diploma di infermiera, dal 1995 suor Egidia gestisce l’unico ospedale ortopedico dello Zambia, che si trova nella capitale. «Quando mi sono ripresa dall’incidente, sono ripartita. Arrivata qui, ha cominciato a farsi strada l’idea dell’ospedale. Abbiamo acquistato un edificio dell’ex presidente Kaunda e poi, un po’ alla volta, l’abbiamo fatto ristrutturare. Le prime operazioni i medici le facevano in ginocchio, per terra. Poi le cose sono migliorate. Abbiamo avuto molti contributi dall’estero».
Una vita lontana dal paese di origine e dai propri cari, mai pentita?
«Ora che sono anziana (64 anni, ndr) sento di più la fatica, ma non mi sono mai pentita della scelta. Quando ho deciso di partire avevo 19 anni e i miei genitori non erano d’accordo. Il distacco è stato difficile; ero molto legata a mamma e papà. Quando la nave si è staccata dal porto sembrava che mi si spezzasse il cuore. Mio padre mi guardava impietrito. Poi, nel tempo, è passata. Ho trascorso quasi tutta la vita in Zambia, con tanta soddisfazione, anche perché la gente mi ha sempre voluto bene. Questo ospedale è tutta la mia vita».
Ro.Go.

Romina Gobbo




DOSSIER ZAMBIAIl treno della globalizzazione

La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi tangibili. Ma dietro al 5% di crescita del Pil, si impongono altri numeri, con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.

«Benvenuti in Zambia, paradiso degli investitori. Lusaka Stock Exchange, un motore della crescita economica. Diventa azionista oggi!». La borsa di Lusaka vuole fare colpo su chi conta. Per questo ha comprato lo spazio pubblicitario sopra le casupole del controllo-passaporti all’aeroporto di Lusaka. Le valigie arrivano subito, i carrelli sono lì, pronti. Al tavolo dei finanzieri si aspetta pochissimo e la domanda «qualcosa da dichiarare?» è più che altro una formalità. Di militari, neanche l’ombra. Pochi e defilati i poliziotti.
Fuori, nel parcheggio e tra le aiuole, i taxi blu sono a disposizione per portarti in centro. Lungo il percorso dall’Airport road alle vie commerciali che sfociano nella centralissima Cairo road, c’è una sfilata di cartelloni pubblicitari. Fondi pensione, servizi finanziari e assicurazioni offrono alti rendimenti e un futuro tranquillo a chi rientra nell’esclusivo club di chi ha soldi.

PARADISO DEGLI INVESTITORI

E ci sono anche le pubblicità dei telefonini, della fresca birra Mosi e della Parmalat, mentre la Chilanga Cement esibisce un possente operaio culturista, pronto a cementificare tutto il paese. Questi cartelloni sono l’emblema di un’economia dinamica, in costruzione, di un’Africa che non vuole arrivare in ritardo, ma competere e sedersi al banchetto dell’economia globale.
Sono più di 10 anni che nel paese c’è un’economia di mercato. La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi sono tangibili. E anche remunerativi.
Girando il paese questa verità viene fuori, come la faccia luminosa della luna. Il prodotto interno lordo annuale è di oltre 4 miliardi di dollari. Secondo i calcoli dell’ultima legge finanziaria, nel 2004 il Pil ha quasi replicato la crescita dello scorso anno pari al 5%, un tasso che desterebbe l’invidia di molti governi del nord del mondo, e che non sembra destinato a scendere.
«Negli ultimi anni l’economia è migliorata. Stanno arrivando più investitori stranieri e prodotti di alta qualità, che competono con quelli locali» dice Sherry Thole, direttore generale della banca Intermarket, accogliendoci nella sala consigliare ovale al primo piano della Farmers House. Il palazzo è in pieno centro. La sala è piacevolmente climatizzata e attraverso il vetro fumé si intravvede scorrere il traffico polveroso.
È dal 1991 che in Zambia è stata introdotta un’economia di mercato, ci spiega. Prima c’era un sistema socialista. Poi le imprese statali sono state smantellate da un massiccio programma di privatizzazioni e i gruppi stranieri, sudafricani in primis, sono quelli che riescono a cogliere meglio le opportunità di investimento. Inoltre, i tassi di interesse sono scesi e ora consentono alle imprese di ottenere prestiti a costi ragionevoli.
Faustine Kabwe, fiscalista e consulente di livello internazionale, è ottimista circa le prospettive di crescita del suo paese e dell’Africa in generale. «Investire in Africa – dice – è estremamente profittevole». Ovviamente anche lui parla dell’economia emersa; di quella misurabile dalle statistiche. Di quella che si quota al Lusaka Stock Exchange (Luse).
I settori che oggi trainano l’economia sono il turismo (ne è un esempio il boom che sta attraversando la città di Livingstone, l’ex capitale che ora sembra rivivere una seconda primavera); l’agricoltura con il fiorente business dei fiori per l’esportazione; e anche le miniere di rame che beneficiano del recente recupero dei prezzi.
Stando alle classificazioni settoriali dell’ufficio di statistica, nel biennio 2003-2004, il settore costruzioni ha evidenziato una crescita di oltre il 30%, seguito dall’industria estrattiva e del cemento (+17%), dal comparto manufatturiero (+12,7%), mentre il settore turistico, alberghi, bar e ristoranti inclusi, è salito del 12%. Fanalino di coda, con un più 2,2%, sono i servizi sociali e alla persona.

L’ECONOMIA INFORMALE

Ma la luna ha anche una faccia oscura, che in questo caso è molto più grande di quella che brilla. Dietro a questo 5% di crescita del Pil, si impongono infatti altri numeri che danno presto l’idea della difficile realtà con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.
Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 60 e l’80% e il costo della vita raddoppia ogni 5 anni. I contrasti restano forti, perché l’economia di mercato è riuscita ad apportare i suoi benefici solo a pochi.
La Thole, sui quaranta, donna raffinata, studi universitari, una carriera che l’ha vista lavorare nella Banca centrale e nel colosso finanziario britannico Barclays, è tra questi pochi. Lo è anche Kabwe, con una vita tra Londra, Lusaka e New York. Entrambi fanno parte della classe dirigente del paese, di quelli che hanno un posto prenotato sul treno della globalizzazione.
Ma la gente comune sta fuori, aggrappata alle carrozze: per vivere si arrangia, giorno per giorno. Si chiama economia informale. Per incontrarla basta uscire da Farmers House e percorrere Cairo Road, la strada che nei disegni coloniali doveva unire Il Cairo a Città del Capo. A ogni angolo c’è qualche donna avvolta nel chitenge (il vestito tradizionale), che vende pomodori, manghi, o altre piccole cose.
Al City Market, il mercato coperto di Lusaka, sciami di giovani ragazzotti smerciano sacchetti di plastica, con su stampata l’effigie di Rambo. Mentre c’è anche chi passa la giornata in un colorato chiosco di legno, dove affitta il suo telefono cellulare. Vicino alla ferrovia o lungo le strade si incontrano le donne spaccasassi. Loro per vivere spaccano pietre per fare la ghiaia. Sono l’ultimo anello di quella catena che è la fiorente industria delle costruzioni.
Ma anche chi trova un posto di lavoro sicuro, non può stare tranquillo. Henry Mwango un tempo era impiegato all’Olivetti. Aggiustava macchine da scrivere ed era felice. Poi l’azienda ha chiuso i suoi uffici in Zambia e lui si è trovato solo a fronteggiare il grande salto tecnologico verso il personal computer. Non ce l’ha fatta. Da più di dieci anni è disoccupato.
La maggior parte delle famiglie vive con un reddito estremamente basso. I soldi che entrano sono spesi in gran parte per mangiare, poi viene il resto. E spesso i primi a fae le spese sono i bambini. «Non ho i soldi» è la risposta di Susan Mwandu per spiegarci perché non riesce a mandare a scuola tutti i suoi 9 figli. Lei deve occuparsi anche della madre malata, due nipoti e il marito disoccupato. I pochi euro al giorno della sua attività di venditrice di pomodori non bastano.

DAL SOGNO SOCIALISTA DI KAUNDA
ALLE PRIVATIZZAZIONI DI CHILUBA

La storia economica dello Zambia, come paese libero dal dominio coloniale britannico, comincia 40 anni fa. Le condizioni generali non potevano essere più favorevoli: lotta per l’indipendenza breve e poco cruenta, prezzi del rame altissimi, consistenti aiuti inteazionali.
In questa situazione il padre della nazione, Kenneth Kaunda, poté fare pesanti investimenti nell’educazione e nel sociale. Kafue con la sua industria chimica che garantiva occupazione per tutti era una città modello. Vivibile e ordinata. Le miniere statali nel Copperbelt, oltre a dare lavoro, costruivano ospedali, strade, e scuole per la popolazione.
Ma il «sogno socialista» di Kaunda non durò molto. Negli anni ‘70 i prezzi delle materie prime, tra cui il rame (vitale per lo Zambia), crollarono, mentre le tensioni geopolitiche inteazionali spingevano il petrolio alle stelle.
L’impatto fu devastante per tutti i paesi dell’Africa, impegnati in quegli anni nella titanica impresa di diversificare la propria economia, per coniugare l’indipendenza politica con quella economica. In Zambia, le politiche di spesa pubblica continuarono, alimentandosi con deficit sempre maggiori. Alla fine degli anni ‘80 il debito pubblico era salito a livelli insostenibili.
Nel 1991 con l’avvento del multi-partitismo, il nuovo presidente, il sindacalista Frederick Chiluba, diede avvio a un aggressivo e controverso piano di privatizzazioni. Il paese si è aperto così ai capitali e alle merci straniere. Sotto le pressioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, miniere, industria del cemento e altri pezzi dell’apparato parastatale furono ceduti ai privati. In qualche caso vi furono delle vere e proprie liquidazioni.
Quel che ne seguì fu un rapido aumento della disoccupazione e un allargamento del divario tra poveri e ricchi. Oggi gli impianti chimici di Kafue sono pressoché improduttivi, mentre nei compound di Ndola e Kitwe, nel Copperbelt, i servizi sociali e pubblici di una volta non sono che un miraggio.

PRIVATIZZAZIONI SOTTO LA LENTE

Nel 1992 nasceva la Zambian Privatisation Agency (Zpa), l’ente per le privatizzazioni. Da allora più di 250 società pubbliche sono state cedute. Ma l’attività della Zpa va avanti e rimane ancora un lungo elenco di aziende in vendita: telecom, azienda elettrica, poste, alcuni tratti di ferrovia, assicurazioni…
È la Zpa che dà il via libera a ogni transazione e che affida a esperti (avvocati o altri professionisti) i negoziati con i privati. Il governo decide invece quali società pubbliche vendere e in che tempi. Dopo i negoziati, il team di esperti fa una raccomandazione che la Zpa generalmente approva, tenendo conto del prezzo, competenze e altri fattori.
Finora il bilancio economico delle privatizzazioni è contrastato. Talvolta l’azienda da cedere era talmente malgestita che era difficile trovare un compratore, ma in altri casi la fretta ha portato a delle vere e proprie svendite. Il caso più eclatante di regalo fu quello del cemento: la Chilanga Cement. Ora l’industria cementifera è controllata dal colosso francese Lafarge, che comprò nel 2000 dalla CDC Capital Partners, che a sua volta aveva comprato a un prezzo stracciato. Ora Lafarge detiene un’importante fetta del settore cementifero dell’Africa australe. Altra svendita fu quella della compagnia dello zucchero. Adesso è in mano ai sudafricani.
Menzione a parte meritano le miniere di rame, pilastro dell’economia zambiana. Esse furono cedute in ritardo a causa delle loro implicazioni sociali, ma soprattutto per i delicati equilibri politici che celavano. Quando vennero vendute, però, era veramente il momento sbagliato. I prezzi del rame erano vicini ai minimi storici.
Anche i più convinti assertori dell’economia di mercato ora lo riconoscono e fanno luce sulle pressioni degli organismi inteazionali. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale erano creditori del governo e non avevano più intenzione di concedere ulteriori finanziamenti. Visto che il bilancio pubblico era in perdita, era necessario che il governo trovasse in fretta altre risorse per ripagare i propri debiti. La vendita dei giornielli di famiglia venne presentata come l’unica strada percorribile.

I PREZZI VOLANTI

I prezzi in Zambia sono un’entità fluttuante, sfuggente. Oggi con un’inflazione al 20% (in Italia è attorno al 2%) non può che essere così. Una decina di anni fa la situazione era anche peggiore.
La percezione del costo della vita dipende, però, da quanto si guadagna. Nel paese delle cascate e delle miniere, la gamma è molto ampia. Si va dalle diverse migliaia di euro al mese del funzionario dell’Unione europea ai 35 euro che un casual worker si deve far bastare per la moglie e i sei figli a carico. Un insegnante si prende 50 euro.
C’è poi una grande differenza tra chi guadagna in kwacha, la moneta nazionale, e chi in valuta estera. Chi ha dollari, euro o rand sudafricani non deve preoccuparsi più di tanto dell’inflazione.
Proprio l’incremento vertiginoso dei prezzi ha fatto diventare le monete di metallo una rarità: sono letteralmente sparite dalla circolazione. Di metallo sono rimasti solo i gettoni telefonici, ormai minacciati anch’essi di estinzione dal diffondersi dei cellulari. Gira soltanto carta, molta carta. Per comprarti un biglietto dell’autobus devi tirar fuori un malloppo di bigliettoni. Si va dal pezzo da venti ai tagli da cinquecento, mille, diecimila e cinquantamila kwacha. Un euro sono seimila kwacha, un dollaro circa quattromila.
Ma quanto costa la vita? Ancora una volta dipende. A Lusaka se hai la Visa, o l’American Express puoi andare nei centri commerciali Arcades o Shoprite. Altrimenti vai negli affollatissimi City Market e Soweto Market, per le strade o nei piccoli mercatini dei quartieri popolari. Qui si può contrattare.
La maggior parte delle persone in Zambia vive con quei 35-50 euro al mese, circa 200-250 mila kwacha. Con un reddito così, beni come un computer (20 mesi di lavoro), un set di mazze da golf (10 mesi), gioco della playstation (2 mesi), scarpe da calcio (1 mese), sono inaccessibili.
Quello che si può fare con un reddito così è affittarsi una casa in un compound. A Lusaka costa circa 50 mila kwacha al mese. Il resto viene speso per mangiare. Nshima (polenta) e fagioli sono l’alimento base. Con quello che avanza si possono mandare i figli a scuola. Ma non al prestigioso Baobab college, dove un trimestre costa oltre mille dollari. Ossia quattro milioni di kwacha. •

BOX 1
Spaccapietre

SPACCAPIETRE

Strade affollate, clacson che suonano, voci, e là, in mezzo alla gente, nella confusione, riesci a scorgere, quasi fossero celate da una tenda invisibile che le nasconde dallo sguardo dei curiosi, loro, quelle donne che con pazienza e dignità, ogni giorno, spezzano con un movimento sincronizzato le pietre che la loro terra regala o, a seconda dei punti di vista, loro sottraggono ad essa.
Sono centinaia le donne di Lusaka che si guadagnano il pane quotidiano con questo strano mestiere, spaccano pietre, in diversi formati, per venderle ai costruttori, 2.000 kwacha a sacchetto, (circa mezzo euro) così sfamano le loro famiglie, così passano le loro giornate, sotto un sole cocente, tra la polvere, colpendo ritmicamente con un martelletto le grandi pietre grigie, quel grigio che ricopre tutto e che contrasta con il colore della loro pelle, dei loro vestiti, dei loro sogni.

Elena Martelli

Danilo Masoni