Una sola madre terra I disastri dell’homo turisticus
Il turismo è la prima attività economica a livello mondiale. Sembrerebbe una buona cosa, ma la realtà è diversa e quasi sempre misconosciuta, specie nei paesi del Sud. Escludendo le forme più infami, il turismo, come oggi è concepito, produce disastri rilevanti. Sull’ambiente e popolazioni locali. Leggere per credere…
(Prima parte)
Per molte persone il costo economico di un viaggio in qualche paese esotico è sempre più alla portata del proprio portafoglio. Ma ci sono altri «costi», dei quali nessuna agenzia, nessuna pubblicità o rivista specializzata ci avvisa al momento della partenza.
HOMO TURISTICUS Nomadi, marinai, mercanti, pellegrini… L’uomo ha viaggiato da sempre, motivato innanzitutto dalla necessità. Solo in tempi recenti si comincia a viaggiare «per piacere», grazie alla disponibilità di mezzi, per curiosità culturale, ma anche per una sorta di «dovere» che ci obbliga, periodicamente, a lasciare il lavoro e la casa per «andare in vacanza». Il turismo diventa un fenomeno di massa e, come dice Duccio Canestrini, nasce l’«homo turisticus», che con relativa disponibilità di denaro parte verso luoghi lontani da casa per tornare presto alla routine quotidiana. Proprio perché la visita fa parte delle sue vacanze e non della sua vita professionale, il turista «è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani», sostiene Tzvetan Todorov. La conoscenza dei costumi umani, infatti, richiede tempo, e l’incontro con «l’altro» rischia di mettere in gioco la nostra vita quotidiana, di mettere in discussione le nostre motivazioni e la nostra stessa identità. Senza contare che, anche se l’atto stesso di viaggiare provoca un senso di benessere fisico e mentale, nello spostamento è insita una sensazione di spaesamento e distacco.
Di tutto ciò l’industria turistica è ben consapevole e non esita a ricreare un modello di vita del tutto simile a quello appena lasciato. Stesso cibo, stesso ambiente, stessi ritmi di vita, stessa lingua e stessi compagni. Con la conseguenza di svuotare il viaggio dalla componente esperienziale che ha sempre avuto: conoscere meglio gli altri e se stessi. Il risultato è che viaggiamo sempre di più, ma di nuovo vediamo ben poco. «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» recita un proverbio africano. E sembrano lontane anche le parole di Marcel Proust: «Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
In effetti il termine turismo deriva dal francese «tour», cioè giro, percorso, viaggio, ma può essere fatto risalire a una parola ebraica, tora, che significa studio, conoscenza, ricerca.
UN’ESPANSIONE
PER POCHI PRIVILEGIATI
Lo sviluppo del turismo ha rappresentato uno dei grandi fenomeni economici e culturali degli ultimi venti anni, un vero indice della globalizzazione. Attualmente il turismo è considerato la principale attività economica a livello mondiale. Alle soglie del 2000 ha prodotto 455 miliardi di dollari di fatturato, e impiegato il 7% dei lavoratori mondiali. Gli arrivi inteazionali, ossia il numero di arrivi di persone residenti in un altro paese, sono passati dai 69 milioni del 1960 ai 700 milioni del 2000, con stime che si avvicinano ad 1,6 miliardi per il 2020.
Oggi il turismo può essere considerato come una vera e propria serie di industrie collegate: compagnie aeree, catene alberghiere, ristorazione, tour operator, agenzie di viaggio, guide, trasporti, assicurazioni, artigianato, gestione dei beni culturali e ambientali, ecc. Come altri settori produttivi del mercato globale, anche il turismo sta diventando sempre più concentrato. Nel 1998, le prime 10 compagnie aeree mondiali incameravano ben due terzi dei profitti prodotti da tutte le aziende associate all’Air Transport Association. Nel 1999, le prime cinque catene alberghiere gestivano circa il 14% delle camere d’albergo del mondo, e nel 2000 quattro tour operator europei monopolizzavano quasi 50 milioni di turisti.
Se nel 2003 il turismo internazionale ha attraversato un anno particolarmente difficile, segnato dall’inizio della guerra in Iraq, dalla Sars e da un’economia nel complesso debole, nel 2004 l’andamento è stato invece molto positivo, con una conclusione però tragica dovuta allo tsunami asiatico. Complessivamente si è raggiunto un record assoluto: 760 milioni di arrivi, con una crescita particolarmente forte in Asia, nel Pacifico e in Medio Oriente.
Nonostante questi numeri, il fenomeno turistico riguarda una piccola fetta privilegiata della popolazione mondiale. Quasi l’80% dei turisti inteazionali proviene infatti dall’Europa e dalle Americhe, mentre solo il 15% giunge dall’Asia orientale e dal Pacifico e il 5% da Africa, Medio Oriente e Asia meridionale. In totale, gli arrivi di turisti inteazionali rappresentano solo il 3,5% della popolazione mondiale.
IL PACCHETTO E’ TUTTO INCLUSO
A prima vista, per i paesi in via di sviluppo il turismo sembra presentare ovvi benefici: ingresso di valuta pregiata, incremento del gettito fiscale, creazione di posti di lavoro, opportunità di una formazione professionale, costruzione di infrastrutture utili anche in altri settori (strade, acquedotti, aeroporti), ecc.
La situazione non è in realtà così rosea. Le imprese turistiche che conseguono profitti positivi sono generalmente quelle capaci di affrontare bassi costi in tutte le fasi della vacanza, dal viaggio aereo, all’alloggio, ristorazione, trasporti, servizi in loco, che costituiscono il cosiddetto pacchetto «tutto incluso».
Ecco anche perché, come si accennava in precedenza, il mercato turistico è nel complesso caratterizzato da forti concentrazioni. La conseguenza è che la percentuale di spesa del turista a vantaggio di operatori nel paese di destinazione è molto bassa (per esempio, circa il 20% in Gambia, contro il 60% in Spagna), e riguarda soprattutto beni «superflui» e di basso costo, come artigianato locale e taxi. Non è un caso che in Africa, Asia del Sud e Medio Oriente la maggior parte degli alberghi sia di proprietà estera, e che solo una minima parte degli arrivi nei paesi in via di sviluppo avvenga tramite compagnie dei paesi stessi: nel caso del Kenya, ritenuto particolarmente positivo, soltanto l’11% degli arrivi avviene con la Kenyan Airways.
Inoltre, per incrementare uno sviluppo turistico che verrà poi gestito principalmente da multinazionali estere, spesso i governi utilizzano denaro pubblico per finanziare la costruzione di infrastrutture, provocando tagli a sanità, scuola, agricoltura.
PIÙ POSTI DI LAVORO?
Anche la creazione di posti di lavoro non sempre raggiunge le speranze attese. Mentre i ruoli di direzione sono tutti ricoperti da stranieri, la manodopera locale rimane generalmente priva di formazione, è relegata ai ruoli più bassi ed è spesso sottopagata e sfruttata. Baristi, camerieri, portieri, portabagagli di un hotel a 4 o 5 stelle possono avere un salario mensile inferiore al costo di una camera per una notte. Ma il settore turistico esercita un grande fascino sui giovani del luogo, che abbandonano le campagne, si spostano nelle zone turistiche, riempiono quartieri poveri e degradati che circondano alberghi lussuosi e attendono di essere chiamati per un lavoro stagionale e vulnerabile.
C’è chi sostiene che per un popolo povero un salario basso e precario sia meglio di niente. Dipende però dalle alternative possibili. Spesso il governo, per incrementare il turismo, priva la popolazione locale della terra o la distrugge per costruire villaggi turistici e complessi alberghieri, centri commerciali o campi da golf. Contadini, allevatori e pescatori vengono quindi letteralmente sfrattati e trasformati in disoccupati. Ecco perché, secondo molti studiosi, il turismo distrugge posti di lavoro. A questo si aggiunge anche la tendenza delle strutture alberghiere a privilegiare beni esteri anziché locali. Spesso il cibo è infatti importato, anche a causa di una distorta informazione e sensibilità del turista, che ritiene scadenti gli alimenti locali.
Quando poi il turismo rappresenta l’unica risorsa di un paese, per di più dipendente da clienti di paesi del Nord, basta poco per mandare a picco il fatturato dell’industria turistica per una o più stagioni. Periodi di recessione nei paesi di provenienza dei turisti, periodi di instabilità politica e crisi inteazionali, problemi sanitari locali, guerriglia, campagne di stampa che deviano i flussi turistici verso altre destinazioni. Il paradosso è che le mete più ambite dagli operatori turistici sono quelle politicamente più stabili, stabilità che nei paesi in via di sviluppo è spesso ottenuta a spese della democrazia, tramite dittature e regimi militari. Il che ci pone di fronte ad una domanda: è giusto fare turismo in paesi nei quali i diritti umani non sono rispettati?
PISCINE O FORESTE DI MANGROVIE?
Il turismo è generalmente concepito come alternativa soft allo sviluppo industriale. Interessato alla conservazione e valorizzazione di ambienti, culture, monumenti, siti archeologici, giardini e parchi naturali, di fatto in diversi casi ha spinto alcuni governi ad attuare politiche di protezione di habitat e di specie a rischio di estinzione, utilizzando anche finanziamenti inteazionali. In molti altri casi, invece, il desiderio di profitti sempre maggiori ha portato a consumare, logorare e distruggere proprio quelle risorse da cui lo stesso turismo dipende. Anche se basato spesso sulle risorse ambientali e le bellezze naturali, quando diventa di massa il turismo inquina e danneggia proprio l’ambiente che lo sostiene.
Strutture e infrastrutture per alberghi, alloggi e servizi, che deturpano il paesaggio, occupano suolo e distruggono habitat naturali; distruzione delle mangrovie, tipica vegetazione della costa tropicale, e dei banchi di corallo; deforestazione, con la conseguente scomparsa o il drastico ridimensionamento di fauna e flora locale; desertificazione; essiccamento dei fiumi per il prelievo di acqua; inquinamento delle acque dovuto ad acque reflue non o mal depurate, ma anche a perdite di petrolio e sottoprodotti della benzina scaricati dalle barche. È il risultato di un turismo di massa incontrollato, il cui impatto è ancora più distruttivo nelle terre vergini, il cui ecosistema viene sconvolto irreparabilmente.
In generale i turisti possono essere considerati come abitanti che si vanno ad aggiungere alla popolazione residente. Questo implica che lo stesso territorio deve supportare un maggiore livello di consumi (acqua, energia, cibo, ecc.) e smaltire più emissioni e rifiuti. A tutto ciò si sommano però le abitudini che molti turisti pretendono di conservare anche a migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese: riscaldamento, condizionatori, piscine sfruttano risorse naturali e inquinano. Le stesse attività dei turisti sul suolo e sulla vegetazione, sull’ecosistema marino e costiero, su foreste, parchi e dune comportano gravi danni: gli sport nautici, ad esempio, provocano danni irreversibili nei laghi; alle Isole Mauritius le barriere di corallo, indispensabili per l’equilibrio ecologico marino, sono già state erose per l’80%.
Quella del turismo rischia quindi di diventare, a suo modo, un’industria che sfrutta il territorio quanto quella mineraria o quella manifatturiera. E il rischio non sta solo nella scomparsa di risorse naturali, ma anche nella difficoltà di riconvertire intere aree ad altri usi (es. agricoli) nel caso di una recessione del settore turistico.
C’è infine un ulteriore elemento che generalmente non consideriamo ma che rappresenta il responsabile della maggior parte degli impatti ambientali associati al turismo a lunga distanza: il trasporto, che è la fonte di emissione di gas serra in maggior aumento nel mondo. Ogni volta che ci spostiamo, in automobile, in pullman o in aereo, consumiamo litri di benzina e liberiamo in atmosfera diversi metri cubi di anidride carbonica, la principale causa del cambiamento del clima e dei conseguenti fenomeni estremi come alluvioni, siccità, desertificazione, aumento del livello dei mari. Se siamo noi del nord del mondo a girare «in lungo e in largo» per piacere, saranno proprio le popolazioni del sud ad essere le più colpite dai cambiamenti climatici. In particolare, più del 90% dell’anidride carbonica emessa in un tipico viaggio turistico è dovuta al solo trasporto aereo.
UN NUOVO COLONIALISMO:
VILLAGGI TURISTICI E SESSO
Occidentali serviti e adagiati nel lusso, popolazione locale che spesso subisce un peggioramento delle proprie condizioni di vita per la presenza dei turisti. Un esempio fra tanti: l’enorme consumo di acqua negli alberghi, per docce, piscine, giardini e campi da golf provoca sia una fortissima riduzione delle scorte a disposizione sia il razionamento dell’acqua potabile per la popolazione locale. In molti casi non è più possibile coltivare e la popolazione rurale è costretta ad abbandonare la campagna. Il rischio, e in molti casi la realtà, di una relazione superficiale, distaccata e frettolosa tra il turista e la gente del luogo, è che si riproponga un modello di rapporti tipico del colonialismo. Il mancato incontro tra culture trova il suo apice e simbolo nei villaggi turistici, i resort. Di origine militare, il villaggio turistico riproduce il comfort, la sicurezza, gli stili e ritmi di vita occidentali in ambienti diversi e ostili: una sorta di prigione, uguale in tutto il mondo, dalla quale il turista non può uscire se non accompagnato, e nella quale la gente locale non può entrare, se non per lavorarci. Persino papa Giovanni Paolo ii, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo (9 giugno 2001), espresse forti critiche in merito.
Spesso la sola presenza di turisti rappresenta un’inevitabile fonte di frustrazione: i giovani locali soprattutto, di fronte ad un’evidente diversità nel tenore di vita e nei comportamenti, sono tentati da atteggiamenti di imitazione e avvertono maggiormente non solo la propria condizione, ma anche le limitazioni e le esclusioni imposte dalla presenza dei turisti, come ad esempio il non poter accedere a spiagge divenute di proprietà privata degli alberghi. La conseguenza è il trasferimento di valori, di modelli di consumo e comportamenti occidentali, che possono modificare la struttura sociale della popolazione, trasformandola da rurale a urbana, alterando i ruoli all’interno della comunità, dei rapporti familiari e tra i due sessi, provocando la crisi e spesso l’abbandono dei valori tradizionali e spingendo i più emarginati verso i limiti della legalità.
Tutto ciò è aggravato da comportamenti irrispettosi, impensabili in patria, che spesso i turisti in vacanza hanno nei confronti delle popolazioni locali e dettati dal meccanismo del «tanto qui chi mi conosce?».
I casi più gravi sfociano nel turismo sessuale. Secondo i dati, il turismo internazionale è considerato il massimo responsabile degli oltre due milioni di bambini costretti a prostituirsi: di questi 500.000 vivono in Brasile e il resto soprattutto nell’Asia meridionale e orientale (Thailandia, Filippine), dove migliaia di famiglie, spinte dalla miseria e spesso tratte in inganno, cedono i propri figli a un giro d’affari che si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari, e i cui «clienti» provengono dai paesi più ricchi della Terra, come Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia, Regno Unito.
CHE ATTORI
QUEI… «SELVAGGI»
Molto spesso l’incontro tra il turista e la gente del luogo si riduce a fenomeni di folklore. Ne sono un esempio i trekking tribali nella foresta o nel deserto, che possono durare da un pomeriggio a più giorni, organizzati da agenzie turistiche che pubblicizzano il «buon selvaggio» e la «natura incontaminata». Generalmente le visite sono così frettolose che è impossibile qualsiasi forma di scambio con i locali. Secondo Cohen, i gruppi tribali hanno ormai imparato a recitare la loro parte, e sanno quando rimanere immobili di fronte ai flash. Poiché gran parte dei guadagni di un pacchetto di trekking va alla guida e all’agenzia, nascono attività «complementari» come la vendita di manufatti artigianali, l’elemosina, o il farsi pagare per essere fotografati. Quando i villaggi tribali non si adeguano all’invasione del turismo, e coraggiosamente resistono rifiutando di vendere la loro cultura, capita che le agenzie ricorrano a veri e propri attori: raramente il turista si accorge della differenza o «fa finta di non accorgersene».
Quando popolazioni che hanno un forte radicamento dei valori tradizionali nella comunità locale riescono a sviluppare un rapporto equilibrato con il turismo, questo può invece rappresentare un’occasione di valorizzazione delle culture locali. Basti pensare ai kuna di Panama, una piccola popolazione indigena che è riuscita a mantenere il controllo della produzione e della commercializzazione di un prodotto artistico-artigianale come le molas, stoffe colorate sovrapposte lavorate dalle donne della comunità, delle quali sono riusciti a conservare anche i significati spirituali più profondi.
«A QUEL PAESE»
Da più di venti anni le agenzie di viaggio «classiche» sono state affiancate da altre che propongono un modo di viaggiare diverso. Non più hotel a 4 o 5 stelle, villaggi e club riservati, ma un viaggio in mezzo alla gente del luogo, sfruttando le loro stesse strutture o quasi. Viaggi che all’avventura (che spesso significa semplicemente fare ciò che i locali fanno quotidianamente per vivere) uniscono un rapporto nuovo tra viaggiatore e popolazione locale. Insomma, viaggi che si pongono il problema di «come andarci a quel paese»! Cosa significa fare turismo «alternativo»? Come fare un turismo che porti vero sviluppo nei paesi del Sud del mondo?
(Fine prima parte – continua)
BOX 1
La psicologia del turista
Ma la molla che porta a decidere la destinazione e il tipo di viaggio rimane sempre quello che i sociologi chiamano la «giustificazione» sociale, cioè l’accettazione nel proprio contesto sociale dell’azione che sta per compiere. Un operaio, che fino a qualche anno fa, se fosse andato a fare le vacanze alle Seychelles sarebbe stato guardato con sospetto o diffidenza, oggi non può fare a meno, «socialmente» parlando, di recarsi appunto nell’Oceano Indiano per trascorrere la luna di miele. (…)
Il turismo internazionale è sempre di più la valvola di sfogo per milioni di persone che si sentono «strette» nelle società di cui fanno parte, dove tutto è organizzato e tenuto sotto controllo, dove l’emozione è programmata e arginata. Per contro, l’immagine che le popolazioni dei paesi scelti dai turisti si fanno, è che tutti gli occidentali sono ricchi sfondati, non lavorano molto, amano dissipare i soldi, si vestono in modo indescrivibile e non conoscono alcun tipo di codice morale di comportamento.
Da: «Viaggiare ad occhi aperti», Icei
Box 2
Quando si scatta una foto…
Quante volte abbiamo parlato, dialogato, con quelli che contraddittoriamente vengono chiamati «soggetti» delle fotografie, mentre invece ne sono gli oggetti. Forse, e mi metto tra coloro che hanno scattato molte foto nei loro viaggi, ci accorgeremmo che in molti casi quelle persone non le abbiamo neppure salutate, non ne conosciamo il nome, figuriamoci la storia.
Ci si presenta in un villaggio, in un’abitazione, a una cerimonia nascosti dietro le nostre macchine fotografiche e si scatta. E ciò che vediamo lo pensiamo già in funzione dell’immagine che vorremmo trae. Per questo scegliamo l’obbiettivo adatto e l’angolatura migliore. Là dietro, in fondo alla figura nel mirino, l’individuo inquadrato diventa un’immagine dell’individuo. Perde la sua personalità per acquistare quella che il fotografo intende assegnargli: mistico, esotico, pittoresco, selvaggio.
Questo approccio fotografico finisce per spersonalizzare inevitabilmente il rapporto tra fotografo e fotografato, innescando spesso dinamiche di tipo commerciale (i nativi che chiedono soldi per essere fotografati) che suscitano talvolta sentimenti di indignazione nei turisti.
Fotografare qualcuno o qualcosa significa reputarlo interessante, magari bello, non «normale». Ecco il problema di fondo: scegliendo un individuo come soggetto della nostra fotografia lo allontaniamo inevitabilmente da noi e lo trasformiamo in simbolo. Ne esaltiamo le differenze, stendendo un velo sulle similitudini. Più è diverso, più ci sembra interessante…
La lentezza, abolita dalla maggior parte dei programmi di viaggio, potrebbe divenire un valore se vissuta come mezzo per approfondire l’incontro, per diluire almeno un po’ la distanza esistente tra turista e nativo. Ad essere vissuta come valore del turista è invece la corsa a vedere quanto più possibile, a fare un elenco di luoghi più che a gustarli e a conoscerli. Basta passarci poche ore per dire di «esserci stati».
In ogni caso la fotografia diventa una compensazione alla brevità del viaggio: fisso un’immagine e poi me la rivivo a casa. Dall’altro si trasforma in un inevitabile strumento creatore di barriere.
Visto che le sensazioni prodotte dalla visione di una diapositiva non possono essere paragonate a quelle vissute nella realtà visitata, la mia modesta proposta a chi davvero vuole diventare «turista responsabile» (e anche a chi propone viaggi di questo tipo) è di provare a lasciare a casa la macchina fotografica e a rallentare il proprio viaggio. Non credo che questo basti a risolvere il dilemma etico del turista, ma forse qualcosa può cambiare. La realtà va osservata per ore, giorni, settimane, non a 1/125 di secondo e allora le persone possono vivere come tali e non come soggetti da inquadrare.
Da: Marco Aime, in «Solidarietà in viaggio»
BOX 3
Sarebbe bene sapere che…
Vacanze last minute, corse su internet alla ricerca delle tariffe aeree d’occasione. Ma cliccando su www.chooseclimate.org, con due click sulla mappa si può scoprire il vero costo di qualunque volo. «Se state cercando lidi caldi, sappiate che volare è uno dei modi più rapidi ed economici per cuocere il pianeta». Le emissioni di anidride carbonica, ossidi di azoto e vapor d’acqua degli aerei contribuiscono infatti in modo sostanziale all’aumento dell’effetto serra e quindi ai cambiamenti climatici. Per andare e tornare da Londra a New York ogni passeggero consuma circa 700 kg di carburante, 10 volte circa il proprio peso.
Fonte: Manuale delle Impronte Ecologiche, Edizioni Ambiente, 2002
«Noi Karen abbiamo protetto la nostra terra ricca di foreste per rispetto dei nostri antenati e dei nostri figli. Forse, se avessimo abbattuto le foreste, rovinato la terra e costruito una grande città come Bangkok, ora non correremo il rischio di essere sfrattati».
Fonte: Pwo Karen, Thailandia, citato in «L’arte del viaggio» di Michela Bianchi
I «consumatori» del turismo spesso portano con sé le proprie abitudini di vita e le proprie aspettative, che si tratti di docce calde o sciacquoni o di campi da golf ben innaffiati. Sull’Himalaya, permettere ai turisti di fare la doccia spesso significa utilizzare la legna e quindi accelerare la deforestazione. Alle Hawaii e alle Barbados è stato scoperto che ogni turista usa dalle 6 alle 10 volte la quantità d’acqua e di elettricità utilizzata dagli abitanti locali. A Goa gli abitanti dei villaggi costretti a recarsi a piedi ai pozzi sono dovuti restare a guardare mentre venivano costruite attraverso la loro terra le tubature che avrebbero portato l’acqua a un nuovo hotel di lusso. Negli ultimi dieci anni, il golf, a causa della sua fame di terreni, acqua e diserbanti, si è rivelato una delle attività più distruttive, tanto che in alcune zone del Sudest asiatico sono scoppiate delle vere e proprie «guerre del golf» (…) Per tenere in funzione un campo da golf occorre la stessa quantità d’acqua necessaria ai bisogni di un intero villaggio di alcune migliaia di persone. Si calcola che il consumo medio pro-capite d’acqua di un indigeno in Africa è di 10-15 litri al giorno; il turista ne consuma 300.
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti ambientali»
In un articolo uscito qualche anno fa sul South China Moing di Hong Kong, così veniva descritta la situazione di uno dei «paradisi» delle vacanze più gettonato, l’isola di Bali in Indonesia: «Gli abitanti si lamentano per la discriminazione che l’industria turistica esercita nei loro confronti, non possono sedersi sulla spiaggia di un grande albergo (buona parte del litorale), che subito arriva qualcuno che minaccia di chiamare la polizia. Alla gente del posto, poi, si proibisce di pescare, di organizzare giochi o cerimonie religiose perché, dicono i proprietari degli alberghi, potrebbero disturbare i turisti». A proposito di alberghi: «Sono numerosissimi – scrive il Moing – e la rete fognaria è assolutamente inadeguata, con effetti disastrosi sull’ecosistema della barriera corallina. Campi da golf e piscine consumano enormi quantità di acqua (500 litri al giorno per ogni stanza di albergo), mettendo in crisi il sistema di coltivazione del riso».
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti sociali»
Bibliografia essenziale:
• Solidarietà in viaggio. Alla scoperta della «Carta d’identità» per Viaggi Sostenibili, Roberto Varone, Cisv, Aitr, Cmsr, Icei e Mlal
• State of the World ’02. Stato del pianeta e sostenibilità, a cura di Gianfranco Bologna, Ed. Ambiente, 2002
• Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Duccio Canestrini, Feltrinelli, 2003
• Trekking tribale, di Marco Cordero, in Volontari per lo Sviluppo, agosto/settembre 2001
• Tourism Highlights, Edition 2004, Wto, World Tourism Barometer, Wto, Vol.3, No.1, January 2005
Siti internet:
www.world-tourism.org
www.tourismconce.org.uk
www.homoturisticus.com (a cura di Duccio Canestrini)
Silvia Battaglia