Ultima tappa all’interno della comunità Nasa (3)
PENSIERO GIOVANE
Lettera «mai scritta» di una giovane indigena ai coetanei del nord del mondo.
Carissimi giovani del nord del mondo,
molte volte, attraverso la lettura o l’incontro con quelli di voi che in questi anni ci hanno visitato, siamo entrati in contatto con il vostro mondo e la vostra maniera di vivere. Vorremmo adesso essere noi a raccontare qualche cosa della nostra comunità, perché pensiamo che dalla conoscenza reciproca possa nascere un dialogo utile a creare legami nuovi, basati sul rispetto, la tolleranza e la pace. Cercheremo di darvi un panorama di quello che siamo e viviamo, dei piccoli e grandi successi che ci fanno continuare a crescere, nonché delle difficoltà che dobbiamo superare.
Sono seduta con altri giovani sul cemento un po’ freddo del campo di basket del mini-palazzetto di Tacueyó, piccolo paese del Cauca colombiano. Con altri 300-400 giovani abbiamo appena celebrato la messa e ora ci prepariamo ad ascoltare Pablo Tatai, bogotano di origine magiara, un amico storico del processo indigeno. Amico dai giorni duri in cui i nostri padri si facevano ammazzare pur di riconquistare la terra che ritenevano esser loro da sempre, e che invece era diventata proprietà di pochi e ricchi latifondisti. Il congresso annuale che si sta svolgendo è uno dei tanti momenti di aggregazione e formazione organizzato dal movimento giovanile «Álvaro Ulcué», la più attiva organizzazione indigena giovanile del Cauca.
Con attenzione – le agende o i quadei appena estratti dalla jigra (la borsa tradizionale tessuta a mano dalle donne della comunità) – l’assemblea inizia a riascoltare un racconto che i più vecchi tra noi già conoscono a memoria. Prendiamo appunti, in silenzio, anche soltanto per rispetto verso quest’uomo dai radi capelli bianchi che ha lottato nel passato e che ora, invece di godersi la pensione, continua ad appoggiare la causa indigena. Sappiamo che adesso tocca a noi continuare l’opera dei padri, prendere in mano il testimone che l’oratore, con la sua presenza, simbolicamente sta passando.
La Colombia è un paese giovane (il 45,5% dei suoi abitanti ha meno di 18 anni) e il Cauca non fa eccezione. Occorre dunque migliorare la speranza di vita della gente, garantire un lavoro degno ai più giovani ed offrire a tutti la possibilità di costruire un futuro familiare e comunitario soddisfacente se si vuole che la comunità affronti con speranza il suo futuro. Purtroppo, l’impatto della modeità, il conflitto armato, nonché l’invadenza del narcotraffico, sono tutti fattori che ostacolano pesantemente il nostro cammino.
Giovani di una volta
Stiamo vivendo un momento di cambio molto rapido che dobbiamo imparare a gestire se vogliamo aprirci al mondo senza veder completamente stravolti i nostri valori tradizionali, quei valori che per secoli sono stati un fondamentale fattore di unità per la nostra gente. Il giovane di ieri era un individuo che si formava alla vita in funzione delle esigenze della famiglia e della comunità. La scuola era soprattutto il campo, il pezzo di terra, frutto della ripartizione tra i figli fatta dai genitori e che bisognava lavorare duramente per poter sopravvivere.
Il giovane nasa viveva immerso nel suo mondo mitico, regolato da forze ancestrali che bisognava rispettare per non rompere l’armonia del cosmo. L’autorità del padre, del governatore del resguardo (la riserva indigena) e del medico tradizionale erano insindacabili. Erano loro ad imporre le regole per la futura vita matrimoniale, per la partecipazione alla vita e alle attività della comunità e per la relazione con il mondo spirituale. Poco spazio era dato all’iniziativa individuale e concetti come «coscienza, responsabilità personale» erano pressoché sconosciuti.
Diciamolo francamente: uno dei problemi della nostra società era quello di non tenere assolutamente in conto il giovane, le sue esigenze, i suoi sogni. Se poi il soggetto nasceva donna la sua gioventù era tutta orientata verso un orizzonte ben preciso: la casa. Il risultato di questo processo formativo era un giovane dallo spirito un po’ gregario, pronto ad adeguarsi alle decisioni prese per lui dalle autorità, sia quella patea come quella della comunità.
L’impatto con la modeità ha messo in crisi questa figura di giovane e vari modelli estranei alla nostra cultura hanno, di fatto, rivoluzionato usi e costumi. Non tutto è venuto per nuocere, bisogna riconoscerlo, ma è difficile trovare un equilibrio fra vecchi e nuovi valori, come anche saper scegliere, sia nella tradizione come nella modeità, le cose da buttare e quelle da conservare gelosamente.
Noi nasa siamo dei magnifici camaleonti della storia. Sono state le difficoltà ad insegnare alla nostra gente come modellarsi secondo le diverse esigenze; siamo dei campioni nel far nostri gli aspetti di una cultura diversa che ci servono, e ad adattarli alle nostre necessità. Per questo quando parliamo di cultura nasa facciamo riferimento a ciò che è proprio e a ciò che è «appropriato»; il problema sta semmai nel sapersi appropriare delle cose giuste, quelle che possono aiutarci a crescere come comunità e non causarci dei danni. Il rischio, come sempre accade, è quello di buttare via anche il bambino con l’acqua sporca.
Chi siamo oggi
Il giovane della mia generazione si sta progressivamente staccando dalla cultura patea e, di conseguenza, dalla sua autorità; così come si sta allontanando dall’autorità politica e religiosa della comunità. Sia il medico tradizionale, con le sue pratiche e i suoi riti, come la chiesa stessa hanno sofferto una perdita di significato e non rivestono una grande attrattiva per il giovane di oggi, sempre più secolarizzato. L’idioma nasa non è più parlato come un tempo e, anzi, alcuni tra noi si vergognano persino di essere cresciuti in una famiglia dove ci si comunica nella lingua propria.
Rispetto anche solo a vent’anni fa è aumentata vertiginosamente la popolazione scolastica. Il numero dei giovani che si iscrivono alla scuola superiore o addirittura all’università è cresciuto a tal punto da rappresentare una delle cause più importanti del cambio che si sta dando all’interno della comunità. La maggiore preparazione accademica, accompagnata da uno sviluppo più maturo della coscienza personale, ha fatto sì che si sia creato nei giovani un diverso atteggiamento nei confronti dell’autorità. I miei coetanei non vogliono più obbedire ciecamente, ma desiderano guardare la realtà criticamente, anche se questo conduce inevitabilmente allo scontro generazionale.
Cambiano, anzi, si moltiplicano, anche i bisogni. Il maggior grado di istruzione raggiunto fa sì che alcuni di noi non vogliano più lavorare i campi e sperino di conseguire un posto di lavoro come insegnante o come impiegato; cosa non sempre possibile, vista la poca offerta di spazi di lavoro alternativi all’agricoltura rispetto alla domanda. Si crea quindi un tasso di disoccupazione molto elevato. Anche il consumismo è entrato prepotentemente nella vita del giovane. La maglietta di marca, le scarpe alla moda, la moto, diventano esigenze di cui prima non si avvertiva la necessità.
Se il giovane tradizionale conduceva una vita per lo più solitaria, dedicando gran parte del tempo al lavoro, il giovane d’oggi vive un’apparente contraddizione. Da una parte tende a riunirsi in gruppi di coetanei, nei quali incontra appoggio e forza, dall’altra si trasforma in un individualista, incapace di condividere vita e beni con i compagni o la comunità. Tende a perdere interesse per il lavoro comunitario e nelle relazioni con l’altro sesso sperimenta una libertà che prima non esisteva.
Queste pressioni estee espongono i giovani attuali a un cambio totale e quindi, com’è caratteristica delle stagioni di grande mutamento epocale, ad un’instabilità e un’irrequietezza che sfociano molte volte nell’irresponsabilità e nella perdita di orientamento e significato. Si presentano quindi alcuni grandi rischi: la tentazione di trovare sicurezza e stabilità in un’organizzazione armata, quella di lasciarsi sedurre dal «denaro facile» offerto dal narcotraffico, con il progressivo formarsi di una «narco-mentalità». In alcuni soggetti più deboli non è rara la tentazione di togliersi la vita nel momento in cui ci si trova davanti a problemi anche piccoli, ma per cui non si ha una base di valori sufficiente per poterli affrontare e risolvere.
Pensare «giovane»
Alcuni giovani si sono resi conto di questa situazione di cambio e hanno deciso di correre ai ripari. Alla fine degli anni ‘80, ci si rendeva conto che il mondo stava cambiando e che, se non si riusciva a far sì che i giovani prendessero la vita nelle loro mani, sarebbero stati travolti dagli eventi. Non ci si poteva solo fidare della comunità e del suo processo; di fatto i giovani lavoravano per la comunità, ma questa non lavorava per i giovani. Si decise pertanto di creare un movimento giovanile che potesse servire come strumento d’unificazione della gioventù indigena e veicolo capace di guidare i giovani alla formazione di una coscienza critica, morale e politica.
L’obiettivo era aiutarci tra di noi a crescere, pensare e attuare come indigeni, nel rispetto della propria cultura, ma attenti e preparati ai cambi epocali che sentivamo essere inevitabili e dai quali non volevamo farci cogliere impreparati. Abbiamo iniziato a creare una scuola di animatori che ha come fine quello di formare giovani capaci di orientare altri giovani della nostra comunità.
Cerchiamo, inoltre, di realizzare spazi di incontro e condivisione come le assemblee giovanili per scambiare opinioni ed esperienze, fare un’analisi della situazione e progettare le attività future. Anche il progetto della rete studentesca è una realtà interessante che ci permette di sensibilizzare i giovani della scuola alle problematiche del mondo contemporaneo.
Abbiamo iniziato anche qualche progetto produttivo per imparare tutti insieme le regole dell’amministrazione e della gestione, cercando di sperimentare scelte economiche alternative.
Non siamo molti. Possiamo dire che allo stato attuale delle cose la nostra esperienza non coinvolge più del 5% del numero complessivo dei giovani della nostra regione, ma speriamo di incrementare questa cifra in un prossimo futuro. Non tutti, anche all’interno della nostra comunità, vedono di buon occhio questo processo in cui, senza voler disconoscere il criterio del progetto comunitario e della cultura tradizionale, cerchiamo di dar valore al pensiero proprio di noi giovani, ciò che con un po’ di ambizione e di orgoglio chiamiamo pensamiento jóven, il pensiero giovane. Anzi, riteniamo che un apporto dei giovani, più attenti alle nuove esigenze e sfide della comunità possa essere ossigeno nuovo per affrontare le sfide non facili del presente e del domani, aprendo spazio al dialogo e alla comunicazione dei valori con altre forze umane e sociali della regione, del paese e anche inteazionali.
Quello che vogliamo è svegliare le coscienze e lavorare nell’ambito di tutti quei contesti che possano aiutarci a migliorare la convivenza e permettere di costruire un nuovo profilo della persona, un nuovo giovane, che sarà, domani, l’artefice di nuove famiglie e, di conseguenza, di una nuova comunità.
Il giovane che sogniamo è quello che si forma, conosce, studia per poter offrire un servizio qualificato alla propria gente. Un giovane fermo nei suoi principi, stabile affettivamente e che fa le cose per scelta e non per obbligo, capace di disceere per conto suo ciò che è bene e ciò che è male. Un giovane che, cosciente delle sue radici, guarda verso il futuro in modo critico, ma aperto. Aperto anche al dialogo con voi, amici del nord del mondo, che pazientemente avete letto questa lettera. Se vorrete conoscere qualcosa di più della nostra vita sarete sempre i benvenuti in questa porzione della madre terra che è la patria dei nasa.
Hasta pronto.
Ugo Pozzoli